Rising: Mandy, Indiana & Blondshell

La rubrica di A-Rock che si occupa dei nuovi volti della scena musicale è dedicata oggi ai Mandy, Indiana, un gruppo di origine britannica che suona uno strano connubio di elettronica e rock sperimentale. Accanto ai Mandy, Indiana spazio anche a Blondhsell, un’artista di base a Los Angeles che suona un rock reminiscente dei primi anni ’90.

Mandy, Indiana, “i’ve seen a way”

I've Seen a Way

Tutto è bizzarro nel mondo dei Mandy, Indiana: il gruppo ha origini inglesi, ma il suo nome richiama chiaramente i paesaggi degli Stati Uniti. La frontwoman, Valentine Caulfield, è francese e canta nella sua lingua madre. Tutto fa pensare ad un esperimento surreale e destinato al fallimento, ma in realtà “i’ve seen a way” è un album ostico, abrasivo, ma non sbagliato.

L’inizio peraltro farebbe pensare ad un CD elettronico, ma più di stampo anni ’80: i synth dolci di Love Theme (4K VHS) fanno tornare alla memoria le atmosfere della serie Stranger Things. Anche la successiva Drag [Crashed], seppur maggiormente rock e dura, ha delle tendenze dance non banali.

Sono due dei migliori brani del lavoro e delineano solo in parte l’estetica del gruppo; ad esempio, la brevissima Mosaick è puro rumore bianco. Il noise trionfa anche in 2 Stripe, mentre è più tranquilla Iron Maiden. Altro brano interessante è Peach Fuzz, techno di alto livello.

Se qualcuno desidera informazioni sui testi di “i’ve seen a way”, diciamo che non sono la parte più riuscita del disco: un po’ per l’uso che Caulfield fa della sua voce, un po’ per la presenza del francese che rende tutto più musicale ma meno intelligibile, è spesso difficile capire di cosa parlino le canzoni in tracklist. Tra i versi più evocativi abbiamo l’inquietante “Everything is allowed… Finish off your opponent” (Injury Detail), mentre 2 Stripe contiene un verso più ottimista: “Always remember: there are more of us than them”.

In conclusione, “i’ve seen a way”, come annuncia il titolo, ha trovato un sottile equilibrio tra sperimentalismo e accessibilità, almeno nelle sue parti meno rumorose. Non tutto gira alla perfezione, ma nei suoi momenti migliori il CD è davvero riuscito e inserisce i Mandy, Indiana tra le migliori promesse della scena rock sperimentale d’Oltremanica.

Voto finale: 7,5.

Blondshell, “Blondshell”

Blondshell album

L’esordio di Sabrina Teitelbaum, in arte Blondshell, può suonare nostalgico verso un certo rock anni ’90, a firma Hole e Liz Phair: ragazze sicure di sé, preda di uomini spesso ingombranti (si pensi a Courtney Love e alla sua relazione con Kurt Cobain), desiderose di raccontare le loro esperienze di vita e offrire una prospettiva diversa rispetto a quella maschio-centrica secondo loro prevalente.

“Blondshell” da questo punto di vista non è quindi un album innovativo, ma l’indie rock suonato da Teitelbaum genera un CD coerente e sempre interessante: i 32 minuti di durata evitano qualsiasi effetto filler e rendono l’ascolto organico, con picchi come Kiss City e Salad. Invece, sotto la media del disco resta solo Dangerous.

Liricamente, Blondshell si propone come cantrice dei traumi della crescita e di relazioni sbagliate: “Not in a position to judge, I know with drugs there’s never enough” canta sconsolata in Sober Together. In Olympus rimpiange un amore del passato: “I’d still kill for you”, mentre in Sepsis prende in giro un ex fidanzato (che sia lo stesso di prima?): “He wears a front-facing cap, the sex is almost always bad”. I versi più potenti sono contenuti però in Salad, in cui promette di vendicare l’aggressione subita da un’amica: “She took him to the courthouse and somehow he got off… Then I saw him laughing with his lawyer in the parking lot”.

In conclusione, Sarah Teitelbaum pare incapace di cantare canzoni con un lieto fine, fatto che rende l’ascolto di “Blondshell” a tratti deprimente. Allo stesso tempo, il rock alternativo che permea buona parte del CD suona fuori tempo rispetto all’attuale panorama musicale, dominato da trap e pop, ma molto coerente e ispirato. Blondshell ha un futuro radioso davanti a sé, scommettiamo?

Voto finale: 7,5.

Recap: maggio 2023

Maggio è ormai finito. Un mese interlocutorio, con relativamente poche pubblicazioni di valore, che ha visto le nuove uscite di billy woods & Kenny Segal. Abbiamo poi i nuovi lavori di Paul Simon e Kesha, oltre all’esordio del duo KAYTRAMINÉ, formato da KAYTRANADA e Aminé. Buona lettura!

billy woods & Kenny Segal, “Maps”

maps

Il nuovo album collaborativo tra il rapper billy woods e il produttore Kenny Segal segue “Hiding Places” (2019) e si inserisce nelle estetiche dei due in maniera efficace: beat jazzati e sperimentali, testi duri ed evocativi. Aiutati da ospiti di spessore della scena rap sperimentale (Danny Brown, Quelle Chris ed E L U C I D tra gli altri), woods e Segal hanno pubblicato uno dei migliori CD rap del 2023.

La struttura di “Maps” può risultare frammentata, abbiamo infatti diverse canzoni sotto i due minuti, ma vi sono degli highlights innegabili, da Year Zero (con un grande Danny Brown) a Babylon By Bus, che rendono l’ascolto del CD consigliato per tutti gli amanti dell’hip hop versante East Coast. Gli episodi meno riusciti sono invece Kenwood Speakers e Bad Dreams Are Only Dreams.

Come autore dei testi, billy woods si conferma abilissimo, soprattutto a enunciare in pochi versi concetti duri da accettare: “Delivery fee is ooof” (Rapper Weed), anche se riferito ad una “merce” diversa dal solito, rappresenta un pensiero comune. “I already knew the options was lose-lose. Baby, that’s nothing new… That just make it easier to choose” (The Layover) è invece un riassunto efficace dell’intera filosofia di vita di woods.

Dal canto suo, Segal è molto abile a creare un’atmosfera old style, in cui sample svariati, da Feeling Good a pezzi al sassofono, sono mescolati con tastiere scure, malinconiche. Non parliamo di una rivoluzione nel mondo hip hop, The Alchemist e Madlib sono maestri in questo, ma Segal non ha nulla da invidiare a questi maestri in “Maps”.

In conclusione, “Maps” è un buonissimo CD: billy woods e Kenny Segal si confermano coppia affiatata. Ad oggi, il CD è candidato ad essere eletto miglior lavoro hip hop dell’anno.

Voto finale: 8.

Kesha, “Gag Order”

gag order

Il quinto album della popstar americana è una sorpresa: laddove fino a “High Road” (2020) avevamo canzoni trascinanti, perfette per una festa a forte base alcolica, Kesha lascia decisamente più spazio all’elettronica e allo sperimentalismo, aiutata da collaboratori di tutto rispetto (Rick Rubin, Hudson Mohawke e Kurt Vile tra i più rappresentativi). Siamo di fronte al suo album meno commerciale e più riuscito musicalmente, ma sono le liriche a colpire nel profondo.

Sono decisamente lontani i tempi di Tik Tok, ma anche il country-pop di “Rainbow” (2017) non rientra nello spettro musicale di “Gag Order”: cantautorato (Living In My Head, Happy) ed elettronica (Eat The Acid, The Drama) la fanno da padrone. Il pop si riaffaccia solo nel ritornello di Only Love Can Save Us Now, vero highlight del disco: Kesha è ormai una persona matura, che ha processato molti traumi e subito molte sconfitte, giudiziarie e no.

In effetti, a farla da padrone nei testi sono riferimenti, velati o meno, agli abusi subiti a suo dire dal produttore Dr. Luke in passato, per cui i giudici lo hanno assolto (e anzi lui ha presentato un esposto per diffamazione ai danni di Kesha). È difficile analizzare la vicenda in modo imparziale, certo è che Kesha si sente tremendamente male: “There’s so many things I said that I wish I left unsaid” (Happy), “The bitch I was, she dead, her grave desecrated” (Only Love Can Save Us Now) e “You don’t wanna be changed like it changed me” (Eat The Acid) sono alcuni tra i più potenti versi del CD. Quello più deciso e forse controverso è però il seguente: “Don’t fucking call me a fighter”, tratto da Fine Line. Kesha è chiaramente stanca di lottare per qualcosa che sente di meritare, ma per cui pubblico e giustizia sono quantomeno incerti.

In conclusione, “Gag Order” è un LP cupo, che ha poco o nulla del pop solare e scatenato della prima Kesha. Questo non è per forza un difetto, come accennato, anzi dimostra la maturità della Nostra. Le auguriamo in ogni caso di trovare serenità, che è completamente assente in “Gag Order”.

Voto finale: 7,5.

Paul Simon, “Seven Psalms”

seven psalms

Il nuovo CD di Paul Simon è una sorta di testamento per le prossime generazioni di cantautori: chitarra acustica, voce e solo occasionalmente suoni esterni rendono l’ascolto di “Seven Psalms” un’esperienza molto intima, a tratti condita da testi surreali, ma con sempre un chiaro substrato religioso.

Dopo aver assistito negli anni scorsi agli addii di David Bowie e Leonard Cohen sotto forma di grandi CD, viene il dubbio che “Seven Psalms” rappresenti quello che “Blackstar” ha rappresentato per il Duca Bianco e “You Want It Darker” per il secondo. I versi di Simon sono spesso di stampo religioso, ma in altri momenti lo sentiamo pensare alla sua vita passata: “I lived a life of pleasant sorrows, until the real deal came”. Spesso le invocazioni a Dio assumono quasi un aspetto surreale ed ironico: “The COVID virus is the Lord… The Lord is my engineer, the Lord is my record producer”. Uno dei più versi più visionari è il seguente: “My hand’s steady, my mind’s still clear… I hear the ghost songs I own”.

I 33 minuti di durata di “Seven Psalms” e il fatto che Simon è stato determinato a farne una sola suite, pur se divisa in sette movimenti, fanno sì che il CD suoni molto coeso. Certo, udire Paul Simon tornare a suonare come agli esordi dei Simon & Garfunkel produce un effetto nostalgia notevole, che piacerà ai più maturi dei suoi fan. Tuttavia, non si possono ignorare i numerosi messaggi di addio di uno dei maggiori cantautori degli ultimi 60 anni. Se fosse così, “Seven Psalms” sarebbe un più che degno addio alle scene e, chissà, alla vita.

Voto finale: 7,5.

KAYTRAMINÉ, “KAYTRAMINÉ”

Kaytramine

L’esordio del duo formato dal produttore KAYTRANADA e dal rapper Aminé è un tipico CD estivo: allegro, ballabile e con testi che non richiedono interpretazioni eccessivamente complesse. Anzi, spesso il comparto testuale è proprio quello più carente, con accenni spinti al sesso che dopo un po’ diventano monotone. Tuttavia, i due artisti si dimostrano affiatati e, aiutati da ospiti di spessore (tra cui contiamo Pharrell Williams e Snoop Dogg), producono un CD di buona fattura.

I beat di chiaro stampo elettronico di KAYTRANADA si sposano benissimo col flow fintamente monotono di Aminé, con buoni risultati soprattutto in Who He Iz. Il primo vero highlight è 4EVA, con Pharrell Williams, il quale dona il suo tocco magico ad un pezzo già di qualità. Buona anche letstalkaboutit, con Freddie Gibbs. Invece inferiori alla media STFU3 e Ugh Ugh, che rendono la parte centrale del CD pesante. Apprezzabile, infine, la chiusura di K&A.

I 33 minuti di durata per fortuna aiutano ad evitare l’effetto riempitivo che troppo spesso caratterizza i lavori hip hop; tuttavia, alcuni contenuti testuali sono censurabili o, per lo meno, alla lunga noiosi: “Just popped an X bitch I feel like I’m Malcolm” (Who He Iz) e “Two girls suckin’ dick, I had my own Verzuz” (letstalkaboutit) ne sono due esempi.

In conclusione, “KAYTRAMINÉ” è un LP agile, simpatico e inoffensivo: perfetto per i party estivi sulle spiagge di tutto il mondo. Solo, non chiedetegli di cambiare la vostra vita o di rivoluzionare la scena musicale.

Voto finale: 7.

Recap: aprile 2023

Aprile è terminato. Un mese di buona musica, che ha visto le nuove uscite dei Wednesday, dei The National, dei Metallica e di Feist. Abbiamo inoltre i nuovi EP a firma Angel Olsen e Beach House. Infine, spazio a Jessie Ware, Indigo De Souza e Daughter. Buona lettura!

Jessie Ware, “That! Feels Good!”

that feels good

Il quinto disco della cantautrice inglese prosegue il fortunato filone incominciato nel 2020 con “What’s Your Pleasure?”, migliorando ulteriormente alcuni aspetti e creando, in conclusione, un quasi perfetto album di disco music. Nostalgico? Forse, ma è innegabile l’appeal che la bellissima voce di Jessie e la perfetta produzione hanno anche sull’ascoltatore più casuale.

L’atteggiamento da novella Donna Summer, anche nel tono vocale, dona molto all’estetica di Jessie Ware, una delle artiste che ha contribuito al revival della disco negli ultimi anni, assieme alle superstar Dua Lipa (“Future Nostalgia” del 2020) e Beyoncé (“RENAISSANCE” del 2022). “That! Feels Good” in questo senso non è un disco innovativo, ma perfeziona tutto quello che già di buono c’era in “What’s Your Pleasure?”: la produzione, affidata a James Ford e Stuart Price, è immacolata. Abbiamo anche una traccia paragonabile alla superlativa Spotlight del CD precedente: Begin Again è trascinante allo stesso modo, pressoché intoccabile.

I migliori pezzi di “That! Feels Good!” sono non a caso i singoli di lancio Free Yourself, Pearls e Begin Again. Molto buone anche la più romantica Hello Love e la title track, mentre sotto l’altissima media del CD sono solamente Beautiful People e Shake The Bottle.

Anche liricamente abbiamo versi importanti, che risuonano con molti: la title track declama il manifesto dell’intero LP, “Freedom is a sound, and pleasure is a right”. “I wake up in the morning and I ask myself, ‘What am I doing on this planet?’” (Beautiful People) è invece la descrizione di una sensazione che tutti abbiamo provato, prima o poi.

In poche parole, “That! Feels Good” è uno dei migliori CD pop del 2023 fino ad ora. Tanti potenziali successi, grande coesione, durata ragionevole lo rendono uno dei veri candidati alla top 10 di A-Rock. Jessie Ware si conferma grande cantautrice e nella parte migliore di una carriera ormai lanciatissima.

Voto finale: 8,5.

Wednesday, “Rat Saw God”

rat saw god

Il terzo album dei Wednesday vede la band americana ancora vogliosa di sperimentare con generi tanto diversi come rock, shoegaze e country, con risultati spesso interessanti. In generale, il mondo indie continua a sfornare album rilevanti in questi ultimi tempi, spesso con artiste al comando: basti pensare a Phoebe Bridgers, Mitski, Lucy Dacus e gli Alvvays, tra gli altri.

I Wednesday in effetti si inseriscono in un filone molto prolifico, ma nessuno ad oggi suona come loro: certo, abbiamo elementi dei già menzionati Alvvays (Hot Rotten Grass Smell), così come del grunge anni ’90 (Quarry). Tuttavia, un pezzo epico e proteiforme come Bull Believer è indizio di un talento fuori dal comune. Buone anche la più classicamente indie Chosen To Deserve e Quarry, mentre sotto la media resta Got Shocked, un po’ scontata.

Il CD vale come una sorta di percorso di crescita per la band capitanata da Karly Hartzman: vengono evocati i luoghi della sua infanzia: “We always started by telling our best stories first… Now that it’s been awhile I’ll get around to tellin’ you all my worst”, da Chosen To Deserve, è uno dei manifesti del lavoro. Nella stessa canzone troviamo poi un verso davvero malinconico: “Now all the drugs are gettin kinda boring to me, now everywhere is loneliness and it’s in everything”.

In conclusione, “Rat Saw God” è un gradevole CD indie rock. I Wednesday si confermano ambiziosi e pronti al grande salto: vedremo il futuro dove li condurrà, per il momento godiamoci uno dei migliori LP rock del 2023.

Voto finale: 8.

Indigo De Souza, “All Of This Will End”

all of this will end

Il terzo CD della giovane cantante indie statunitense aggiunge ulteriori livelli di lettura ad un’artista considerata, non a torto, tra le più promettenti della sua generazione. All’indie rock che caratterizzava “I Love My Mom” (2018) ed “Any Shape You Take” (2021) si aggiungono momenti quasi country (Younger & Dumber), che rendono questo lavoro davvero interessante.

Uno degli aspetti interessanti di “All Of This Will End” è che la seconda parte è migliore della prima: un fatto insolito, che dimostra la volontà di De Souza di dare modo all’ascoltatore di apprezzare ogni aspetto del CD, senza presumere nulla. Esemplari in questo caso Not My Body e Younger & Dumber, che chiudono magistralmente “All Of This Will End”, mentre la traccia più debole, Losing, è la terza della tracklist.

Liricamente, si conferma l’innata abilità di Indigo De Souza di indagare sul proprio passato per trarne lezioni di vita: “You came to hurt me in all the right places… Made me somebody” canta orgogliosa in Younger & Dumber. Altrove troviamo riferimenti ad una relazione finita male, in cui però lei prova a perdonare il partner: “I’d like to think you got a good heart and your dad was just an asshole growing up” (You Can Be Mean). Il verso più efficace, sempre su questo tema, è però contenuto in Time Back: “You fucked me up”.

In conclusione, un LP che contiene pezzi riusciti come You Can Be Mean, Smog e Younger & Dumber non può che essere, almeno in parte, riuscito. Non tutto è perfetto in “All Of This Will End”, soprattutto la prima sezione come già accennato, ma Indigo De Souza si conferma cantautrice di assoluto rilievo. Chissà che ancora non debba pubblicare il suo capolavoro…

Voto finale: 8.

Daughter, “Stereo Mind Game”

stereo mind game

Il terzo album della band inglese arriva ben sette anni dopo il precedente “Not To Disappear” (2016), tanto che avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD di inediti da parte dei Daughter.

“Stereo Mind Game” continua il percorso dei precedenti lavori degli inglesi: un indie rock pensieroso, con influenze dream pop. Nulla di trascendentale, ma le liriche spesso di alto livello rendono complessivamente il CD un buon prodotto.

Abbiamo chiare similitudini con Florence + The Machine (Dandelion, Be On Your Way), così come con Vampire Weekend (Swim Back) e Beach House (To Rage, Neptune). Ciò non toglie meriti ai Daughter, capaci di creare un LP coeso e molto efficace nei suoi momenti migliori: Be On Your Way e Swim Back sono davvero convincenti. Invece inutili la troppo breve ed eterea Intro e (Missed Calls).

Dicevamo che i testi di “Stereo Mind Game” sono rilevanti in molti frangenti: “I could stop if I want, I just don’t want to yet” (Party) è più che un manifesto. Junkmail contiene invece due versi significativi, per quanto pessimisti e rassegnati: “You can’t edit the scenery to view it better” e “Should I pay for viewing your faint lookalike?”.

In conclusione, “Stereo Mind Game” conferma il talento del gruppo inglese e il carisma della cantante Elena Tonra: l’unica pecca è che, quando sembrano pronti per spiccare il volo, i Daughter non riescono a compiere l’ultimo passo. Il CD resta comunque valido e merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

The National, “First Two Pages Of Frankenstein”

First Two Pages of Frankenstein

Il nono album della band statunitense è il loro lavoro più raccolto e malinconico: per una band che ha fatto proprio della nostalgia e dei toni grigi uno dei suoi tratti caratteristici, il rischio di sfociare nella noia era alto. Aiutati anche da ospiti di spessore (Phoebe Bridgers, Taylor Swift e Sufjan Stevens), però, i The National portano a casa un discreto risultato, anche se non paragonabile ai momenti migliori del gruppo.

Il CD ha un retroterra drammatico: il leader Matt Berninger ha sofferto di depressione e blocco dello scrittore durante il periodo pandemico e ne è guarito solo grazie all’aiuto della famiglia e degli amici. “First Two Pages Of Frankenstein” è perciò il risultato di un processo doloroso, ma necessario per far continuare a vivere i The National. Prova ne sono i toni molto sommessi del lavoro: solo Tropic Morning News ed Eucalyptus hanno una ritmica paragonabile ai migliori brani del gruppo. Invece episodi come Ice Machines e Send For Me sono fin troppo deprimenti e rendono il lavoro a tratti noioso.

Liricamente, abbiamo una delle migliori prove del gruppo: “If you’re ever sitting at the airport and you don’t wanna leave, don’t even know what you’re there for… Send for me” (Send For Me) rappresenta perfettamente il mood complessivo del disco. “But would your life be so bad if you knew every single thought I had?” (This Isn’t Helping) è un verso misterioso, ma pone una domanda forse senza risposta per molti di noi. Infine, “You were so funny then”, presa da Grease In Your Hair, è una frase che tutti abbiamo pensato di vecchi amici o partner, con cui abbiamo chiuso.

In conclusione, “First Two Pages Of Frankenstein” non è un LP perfetto, soprattutto se paragonato a “Boxer” (2007), “High Violet” (2010) e “Trouble Will Find Me” (2013). Allo stesso tempo, i The National si confermano incapaci di scrivere brutti CD: speriamo solo che la prossima volta trovino maggiore voglia di sperimentare.

Voto finale: 7,5.

Angel Olsen, “Forever Means”

forever means

La cantautrice americana Angel Olsen ritorna con un EP di sole quattro canzoni pochi mesi dopo “Big Time” (2022), il CD che aveva fatto scoprire la sua passione per il country e alcuni aspetti privati che ben pochi conoscevano (la morte dei suoi genitori nello spazio di poche settimane, il suo coming out).

Le quattro melodie sono a prima vista dei residui delle sessioni di registrazione che hanno portato a “Big Time” e compongono un interessante quadretto, dato che riportano alla mente i lavori precedenti di Angel Olsen. Ad esempio, la title track e Nothing’s Free ricordano rispettivamente le atmosfere rarefatte di “Half Way Home” (2012) e “Burn Your Fire For No Witness” (2014), mentre la conclusiva Holding On è la traccia più rock del lotto e rimanda all’indie rock di “MY WOMAN” del 2016. L’unico brano che è interamente assimilabile a “Big Time” è Time Bandits, il più debole dei quattro peraltro.

In conclusione, Angel Olsen conferma il suo feeling con il formato EP, contando che già nel 2021 ne aveva pubblicato uno, seppur di fattura completamente diversa: “Aisles” conteneva infatti cinque cover di successi anni ’80. “Forever Means” non è nulla di rivoluzionario, ma passare 16 minuti ascoltandone i brani è un passatempo più che accettabile.

Voto finale: 7.

Feist, “Multitudes”

multitudes

Il sesto album di Leslie Feist, che vanta una fiorente carriera solista ma è anche un membro fondamentale dei Broken Social Scene, è il suo lavoro più cantautorale: molte canzoni somigliano a Leonard Cohen o Joni Mitchell. Allo stesso tempo, i momenti più movimentati ci ricordano perché lei sia una delle autrici indie rock più celebrate del terzo millennio.

Composto prevalentemente durante i lockdown del 2020-2021, “Multitudes” è un CD influenzato dal Covid-19 pubblicato in ritardo rispetto ad altri album “pandemici”: in effetti, il folk e la calma di pezzi come Forever Before e The Redwing sono lontani dal solito mood di Feist, non sbagliati ma alla lunga forse un po’ monotoni.

I pezzi più trascinanti sono quelli più riusciti: l’iniziale In Lightning e Borrow Trouble ne sono chiari esempi. Anche liricamente vale lo stesso: molti pezzi contengono testi tranquillizzanti e idealizzati, ma a colpire davvero sono i seguenti drammatici versi, tratti da Become The Earth: “Some people have gone, and the people who stayed will eventually go in a matter of days”.

In conclusione, “Multitudes” difficilmente si affermerà come il miglior LP a firma Feist: “The Reminder” del 2007, in questo senso, è inarrivabile. Allo stesso tempo, la calma e la pazienza mostrate durante tutta la carriera dalla Nostra hanno trovato modo di esprimersi magari diversamente dal passato, ma non per forza in maniera errata.

Voto finale: 7.

Beach House, “Become”

become

Il nuovo lavoro della band formata da Victoria Legrand e Alex Scally è una sorta di quinto capitolo del doppio CD del 2022 “Once Twice Melody”. Nulla di rivelatorio o differente rispetto ai “soliti” Beach House, solo cinque canzoni gradevoli e che non sembrano proprio degli scarti rispetto alle 18 che hanno poi formato il disco originale.

Se i due avessero agganciato queste cinque canzoni alle quattro parti di cui si compone “Once Twice Melody”, avremmo potuto benissimo pensare ad una edizione deluxe del CD. In generale, abbiamo canzoni più raccolte (Devil’s Pool) così come altre più movimentate, sulla falsa riga di Superstar (Black Magic, American Daughter). Nessuna è fuori luogo, nessuna spicca palesemente sulle altre; la qualità media resta comunque soddisfacente.

Dobbiamo quindi prendere “Become” come nulla più di una pausa tra un LP di nuovi brani e l’altro. La cosa che più sorprende è che, in fin dei conti, Legrand e Scally suonano lo stesso genere ormai da quasi venti anni: malgrado ciò, il loro dream pop con inserti di shoegaze e psichedelia è sempre capace di far provare miriadi di sensazioni ai loro ascoltatori. “Become” si aggiunge, in conclusione, ad una produzione sempre simile, ma mai uguale a sé stessa.

Voto finale: 7.

Metallica, “72 Seasons”

72 seasons

Il dodicesimo album dei Metallica, contando anche quello collaborativo con Lou Reed (lo sfortunato “Lulu” del 2011), arriva ben sette anni dopo “Hardwired… To Self-Destruct” (2016) e rappresenta un altro lavoro infarcito di canzoni che ti aspetteresti da un gruppo leggendario del metal. Nulla di innovativo quindi, ma certamente Lars Ulrich e compagni si sono divertiti a suonare le tracce del disco e alcuni riff sono indimenticabili fin dal primo ascolto.

Il vero problema del CD è l’eccessiva lunghezza complessiva e quella di alcune specifiche melodie: eccettuata Lux Aeterna, peraltro una delle migliori, tutte superano i quattro minuti e la conclusiva Inamorata, la più lunga mai composta dai Metallica, arriva addirittura ad 11! In tutto abbiamo dodici pezzi per 77 minuti complessivi; Sleepwalk My Life Away e If Darkness Had A Son, ad esempio, sarebbero potute benissimo durare la metà.

In generale, va detto, il ritmo rilassato con cui i Nostri producono nuova musica (un disco ogni 5-7 anni) li aiuta evidentemente a trovare la giusta ispirazione, immortalata da 72 Seasons e Lux Aeterna. Buona anche Screaming Suicide. Invece inferiori alla media Sleepwalk My Life Away e Crown Of Barbed Wire.

“72 Seasons” non farà cambiare idea a nessuno: i fan di lunga data converranno che i bei tempi andati di capolavori come “Ride The Lightning” (1984) e “Master Of Puppets” (1986) non torneranno più, ma questo LP non intacca un’eredità magari incostante, ma in recupero. Gli scettici ovviamente resteranno tali. Ad A-Rock non possiamo dirci totalmente soddisfatti, ma le buone intenzioni del gruppo americano sono evidenti e il giudizio non può che essere, almeno parzialmente, positivo.

Voto finale: 6,5.

Rising: Yaegi

yaeji

Yaeji.

La rubrica di A-Rock che mantiene alta l’attenzione sulle nuove promesse della scena musicale quest’oggi propone l’esordio su CD di Yaeji, musicista americana di origine coreana. Buona lettura!

Yaeji, “With A Hammer”

with a hammer

Il nome di Yaeji non suonerà completamente nuovo agli osservatori più attenti della scena elettronica. La giovane artista, classe 1993, ha già all’attivo due EP e un mixtape: il suo genere è un interessante ibrido di house e pop, che la rende allo stesso tempo sperimentale e accessibile.

Il CD è stato concepito in un momento complesso per Yaeji: lei stessa ha confessato di aver riversato nel lavoro ricordi d’infanzia a lungo soppressi, analisi delle ragioni alla base del movimento Black Lives Matter e sentimenti di alienazione. “With A Hammer”, già dal titolo e dalla copertina, suona infatti euforico e malinconico, opprimente e invitante.

“With A Hammer” arriva tre anni dopo “WHAT WE DREW” (2020), il mixtape che aveva definitivamente lanciato la carriera della Nostra. I risultati non sono sempre perfetti, ma Yaeji si conferma nome da tenere d’occhio, capace di inserire pezzi ambient (1 Thing To Smash) in una ricetta già consolidata. I migliori brani sono la trascinante Michin e For Granted, mentre sotto la media sono I’ll Remember For Me, I’ll Remember For You e Submerge FM.

In conclusione, “With A Hammer” è un buon LP di musica elettronica, capace di mescolare momenti collegabili a diversi generi (house, ambient e glitch) in maniera coerente. Certo, non tutto è perfetto, ma la base su cui costruire altri momenti di qualità in futuro c’è.

Voto finale: 7,5.

Recap: marzo 2023

Marzo è terminato. Un mese ricco di buona musica, in cui A-Rock ha dedicato la propria attenzione ai nuovi lavori di Kali Uchis, M83 e Lana Del Rey. Inoltre, spazio al terzo CD di Slowthai e Fever Ray, così come agli esordi del duo JPEGMAFIA & Danny Brown e delle boygenius. Infine, marzo ha visto la pubblicazione del secondo CD dei 100 gecs e il ritorno di Yves Tumor e dei Depeche Mode. Buona lettura!

Slowthai, “UGLY”

Il terzo album del rapper britannico era stato identificato da molti come il momento della verità per Tyron Frampton: dopo l’ottimo esordio “Nothing Great About Britain” (2019) e l’interlocutorio “TYRON” (2021), “UGLY” poteva rappresentare una trappola per la carriera di Slowthai. Nulla di tutto ciò: il CD è ben costruito e la potenza di alcuni brani lo porta all’ottimo livello del primo suo lavoro, forse anche a migliori risultati.

Slowthai ha da sempre flirtato con il punk e il rock, soprattutto nei suoi brani più sfrenati: Doorman ne è l’esempio più riuscito. “UGLY” recupera quella crudezza che era stata messa da parte in “TYRON”: evidente questa scelta nella doppietta iniziale formata da Yum e Selfish, due tra i migliori episodi del CD. Abbiamo successivamente anche brani più raccolti, come Never Again, che servono come momenti di pausa.

Menzioniamo poi il parco ospiti di “UGLY”, davvero di ottimo livello: Fontaines D.C., Shygirl e Taylor Skye dei Jockstrap fanno capolino ed arricchiscono ulteriormente la ricetta alla base del lavoro. I migliori pezzi sono Yum e Selfish, come già accennato; ma buona anche Never Again. Invece sotto la media Wotz Funny. I risultati, in ogni caso, restano notevoli e fanno di Slowthai una figura di riferimento nella scena rap d’Oltremanica.

Questa leadership si deve anche ad una figura pubblica senza compromessi: Slowthai è colui che ha esibito la testa amputata di un manichino raffigurante Boris Johnson durante i Mercury Prize del 2019. Testualmente, questa onestà estrema si riflette nelle liriche di “UGLY”: Yum contiene riferimenti a varie posizioni sessuali, per poi esplodere in “More coke, more weed… One drinks never enough, excuse me while I self-destruct”. Altrove emergono invece i suoi sentimenti verso ciò che c’è di più prezioso nella sua vita: “I’m thankful for the life that I lead, I kiss my son before I put him to sleep” (Selfish). L’irrequietudine però riemerge prepotente nella title track: “The moment the world stands still, you are not in control”.

“UGLY” è un album davvero riuscito, sotto tutti i punti di vista: musicalmente, Slowthai testa i limiti del rap, allargandone gli orizzonti verso punk e rock alternativo. Liricamente, siamo di fronte ad un uomo depresso ma realizzato, pessimista ma consapevole di essere privilegiato: Tyron Frampton si conferma unico, nel bene come, a volte, nel male. “UGLY” è il suo LP più riuscito e, ad oggi, è il miglior CD hip hop del 2023.

Voto finale: 8,5.

Yves Tumor, “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”

Il lunghissimo titolo del nuovo album di Yves Tumor non tragga in inganno: non siamo di fronte ad un CD pretenzioso o eccessivamente prolisso. Anzi, vale il contrario: i 37 minuti di durata ne fanno un prodotto accessibile ai più, contando che la maggior parte delle canzoni è ispirata da post-punk e rock alternativo, con tocchi di psichedelia. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Yves Tumor, ormai otto anni fa, pubblicava “Serpent Music” (2015), concentrato di musica elettronica e noise.

Dal punto di vista testuale, il lavoro conferma la fama di artista misterioso di Sean Bowie (questo il vero nome di Yves Tumor): molto spesso contano più le sensazioni evocate che le parole. Abbiamo delle affermazioni di principio come “You’re still a friend of mine” (Lovely Sewer) così come considerazioni più poetiche (“Stare straight into the morning star, with lips just like red flower petals”, da Meteora Blues).

“Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” musicalmente riparte da dove “Heaven To A Tortured Mind” (2020) aveva lasciato: rock gotico, misterioso ma invitante. Yves Tumor, nato in Tennessee ma ormai da anni di base a Torino, ha pubblicato un altro LP di ottima qualità: lo shoegaze di Meteora Blues e la trascinante Heaven Surround Us Like Hood sono gli highlight immediati. Da non sottovalutare poi Operator e God Is A Circle. Unico brano superfluo è la strumentale Purified By The Fire.

Nulla in realtà suona fuori posto, tanto che “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” potrebbe addirittura essere il migliore lavoro a firma Yves Tumor. Il rock sporco e sensuale degli ultimi suoi lavori si addice decisamente bene all’estetica del Nostro, a cui ormai manca solo una vera hit per diventare una figura rispettata non solo dalla critica e dal pubblico più ricercato, ma anche dal mainstream.

Voto finale: 8,5.

Depeche Mode, “Memento Mori”

Il quindicesimo (!) album dei Depeche Mode ha rischiato di non vedere mai la luce: durante le registrazioni del lavoro uno dei tre componenti del gruppo, Andy Fletcher, è morto improvvisamente nella sua casa di Londra, lasciando Dave Gahan e Martin Gore da soli. Sarebbero stati in grado di produrre un CD tale da tenere alta la bandiera dei Depeche Mode?

La risposta è un sonoro sì. “Memento Mori” è uno dei migliori album di questo millennio per il gruppo britannico: brani oscuri come My Cosmos Is Mine si mescolano benissimo con hit dal sapore anni ’80 (Ghosts Again, Wagging Tongue) e ballate più simili ai Depeche Mode recenti (Soul With Me). Se anche questo fosse l’ultimo lavoro a firma Gahan & Gore, non potremmo dirci insoddisfatti.

Wagging Tongue, la seconda collaborazione diretta di sempre tra i due Depeche Mode superstiti, mette Gore e Gahan in bella mostra: il primo con una produzione sontuosa, il secondo con la sua sempre ricca voce in primo piano, in ottima forma. Altro highlight è il singolo Ghosts Again, che ricorda alcune tra le hit migliori del gruppo (People Are People e Never Let Me Down Again). Delude solo Caroline’s Monkey, troppo prevedibile.

Chi si aspettasse riferimenti testuali alla morte dell’amico Andy Fletcher resterà deluso; tuttavia, contiamo una canzone dedicata ad un altro grande artista recentemente scomparso, Mark Lanegan (Wagging Tongue). Altrove troviamo dimostrazioni di fragilità travestiti da proclami da macho (“Don’t stare at my soul, I swear it is fine”, My Cosmos Is Mine).

“Memento Mori”, date le circostanze in cui è stato concepito, è un titolo profetico. Inoltre, siamo di fronte all’album più elettronico e dark dei Depeche Mode dai tempi di “Playing The Angel” (2005): è un caso che sia anche il più riuscito degli ultimi 20 anni? Chapeau in ogni caso a Martin Gore e Dave Gahan, capaci di tenere alto il nome del gruppo synthpop, forse, più importante di sempre.

Voto finale: 8.

boygenius, “The Record”

Il supergruppo tutto al femminile formato dalle star dell’indie Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker ha finalmente pubblicato il suo LP d’esordio, dopo l’omonimo EP di grande successo del 2018. Uscito proprio l’ultimo giorno di marzo, “The Record” non è l’instant classic che alcune riviste d’Oltreoceano vogliono farci credere, ma senza dubbio è un CD riuscito e, nelle parti migliori, irresistibile.

Le tre artiste sono molto amiche anche nella vita fuori dal palcoscenico e questa vicinanza traspare nel corso del lavoro: gli spazi sono equamente distribuiti, così che Phoebe, Lucy e Julien possono ciascuna brillare. Alcuni brani godono di questo spirito collaborativo: $20 e Satanist sono highlight innegabili. Buone anche True Blue e Not Strong Enough. Invece sotto la media l’iniziale Without You Without Them e Revolution 0, entrambe senza mordente.

Liricamente, le tre boygenius si confermano maestre nello spiegare a cuore aperto i problemi che la generazione dei millennials si trova ad affrontare in questi anni di crescita e raggiungimento dell’età adulta: “I’m 27 and I don’t know who I am” canta sconsolata Bridgers in Emily I’m Sorry. Altro verso significativo è contenuto in Without You Without Them: “I’ll give everything I’ve got… Please take what I can give”. Infine, in Satanist troviamo addirittura un proclama rivoluzionario: “Will you be an anarchist with me? Sleep in cars and kill the bourgeoisie”.

In conclusione, “The Record” è un buon lavoro indie rock, in cui le estetiche di Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker trovano reciprocamente un perfetto complemento. Siamo di fronte a tre artiste che faranno parlare di loro ancora a lungo e il marchio boygenius è più vivo che mai: cosa chiedere di più ad un disco rock nel 2023?

Voto finale: 8.

Kali Uchis, “Red Moon In Venus”

Il terzo album della cantante di origine colombiana è un concentrato del miglior R&B: sensuale, creativo e sempre curato nei minimi particolari. Kali Uchis continua così una carriera di grande successo, sia di pubblico che di critica: dopo il felice esordio “Isolation” (2018) e il buon seguito “Sin Miedo (Del Amor Y Otros Demonios) ∞” (2020), “Red Moon In Venus” allarga ancora gli orizzonti della Nostra verso psichedelia e soul.

Il singolo di lancio, I Wish You Roses, è una delle canzoni più belle a firma Kali Uchis; ma abbiamo anche altre perle. Non possiamo infatti tralasciare Moonlight e Blue; sono inferiori alla media solo Fantasy e l’inutile In My Garden, lunga appena 25 secondi. Tuttavia, i risultati complessivi sono ottimi: il CD suona coeso, nessun brano è fuori posto e la voce di Uchis è sempre al top.

Il CD suona organicamente sia nella musica che nei testi: al centro del disco troviamo l’amore, in tutte le sue forme, da quello più materiale (Hasta Cuando) a quello più apparentemente inscalfibile (“Wanna spoil me in every way… It’s Valentine’s like every day”, da Endlessly), passando per le rotture sentimentali (“When you’re all alone, you’ll know you were wrong”, canta Kali in Moral Conscience). Da questo punto di vista, I Wish You Roses contiene il verso che sintetizza l’intero LP: “With pretty flowers can come the bee sting… But I wish you love”.

In conclusione, “Red Moon In Venus” è il miglior R&B del 2023 finora: Kali Uchis si conferma popstar di grande talento, pronta a scrivere pagine sempre più rilevanti per la musica moderna.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA & Danny Brown, “Scaring The Hoes”

Il primo album collaborativo dei due rapper iconoclasti per eccellenza è un esperimento estremo, dati i canoni dell’hip hop moderno: industrial, punk e noise creano delle basi imprevedibili, su cui i due declamano versi spesso polemici verso l’industria discografica o i loro pari. Non stiamo chiaramente parlando di un CD per tutti, ma è da provare se si ama l’hip hop più sperimentale.

A guidare è chiaramente JPEGMAFIA, che si prende anche gli oneri della produzione; quest’ultima in un certo senso, a seconda dell’ascoltatore, può rivelarsi un punto di forza o di debolezza dell’intero lavoro. Le basi sono sempre in primo piano, spesso a danno delle voci dei Nostri; ciò è inusuale soprattutto per Brown, nei cui CD solisti spesso abbiamo la sua tonalità nasale in grande rilievo.

Tuttavia, nei suoi momenti migliori “Scaring The Hoes” fornisce molti spunti di attenzione: i due singoli di lancio, Lean Beef Patty e la title track, sono tra le migliori tracce del lotto. Buona anche Garbage Pale Kids, con base davvero potente. Di difficile comprensione invece Fentanyl Tester, ma se non altro resta coerente col mood folle del CD.

È frequente rintracciare nel corso di “Scaring The Hoes” invettive contro l’industria discografica: ne è un esempio questo verso, preso da Steppa Pig: “It’s like I’ve been workin’ for crumbs, now I’m feelin’ free as my speech”. In Lean Beef Patty oggetto dei versi di JPEGMAFIA e Danny Brown è Elon Musk, in particolare la sua controversa gestione di Twitter. Abbiamo poi due brani che citano esplicitamente altri rapper di successo negli Stati Uniti: Run The Jewels e Jack Harlow Combo Meal.

In conclusione, siamo di fronte ad uno dei dischi più stralunati dell’ultimo periodo; ma del resto cosa potevamo aspettarci da due menti vulcaniche come JPEGMAFIA e Danny Brown? “Scaring The Hoes” non è un LP perfetto, ma i suoi momenti più memorabili lo rendono un’esperienza musicale davvero unica.

Voto finale: 8.

Lana Del Rey, “Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd”

Il nono album della cantautrice americana è al tempo stesso una rivisitazione delle sue passate incarnazioni e uno sguardo al futuro. Tra brani che suonano indubbiamente Lana Del Rey (la title track, Fingertips) ed esperimenti arditi (A&W, Taco Truck x VB), siamo di fronte ad un CD lunghissimo (77 minuti), complesso e a volte prolisso; ancora una volta, però, Lana porta a casa la pagnotta e apre nuovi, interessanti percorsi artistici.

Nuovamente coadiuvata dal fidatissimo Jack Antonoff alla produzione (che compare anche col nome d’arte Bleachers in Margaret), Lana si apre a molte influenze esterne: Father John Misty, Jon Batiste e Tommy Genesis tra gli altri. Abbiamo alcune tra le migliori canzoni mai scritte dalla Nostra: A&W ha tre movimenti all’interno dei suoi sette minuti, The Grants (dedicato alla sua famiglia) è classicamente Del Rey, la conclusiva Taco Truck x VB addirittura remixa Venice Bitch.

Abbiamo poi episodi più sognanti, come Fingertips e Margaret, che fanno tornare con la mente ad “Honeymoon” (2015). Tra i brani che purtroppo vanno oltre c’è Judah Smith Interlude, in cui il pastore di fiducia di Lana declama un’omelia energica quanto fuori luogo nel computo generale del CD. Anche Kintsugi, pur raffinata, è troppo prolissa nei suoi sei minuti abbondanti.

Liricamente, in un album così abbondante di spunti, occorre fare una selezione accurata: The Grants, come già accennato, è dedicata alla sua famiglia. Compaiono riferimenti a parenti anche in Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing, in cui viene evocate la figura del nonno quasi come se fosse un guardiano che, dal cielo, protegga il padre di Lana. Peppers, invece, menziona i Red Hot Chili Peppers come figura di riferimento per Lana, mentre Fingertips pone domande che, prima o poi, influenzano tutti: “Will the baby be all right? Will I have one of mine? Can I handle it even if I do?”.

“Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd” è un LP complesso, che richiede più ascolti per essere analizzato con cognizione di causa. Non siamo di fronte al miglior lavoro a firma Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019) resta inarrivabile, ma l’abbondante creatività e ambizione di Lana fanno pensare che il suo serbatoio sia ancora pieno di belle canzoni.

Voto finale: 8.

M83, “Fantasy”

Quattro anni dopo “DSVII”, il complesso francese trapiantato a Los Angeles e capitanato da Anthony Gonzalez ritorna sui terreni preferiti: un pop magniloquente, molto anni ’80, a tratti eccessivo, ma capace di trasmettere forti sensazioni anche in mancanza di testi apprezzabili. Non saremo ai superbi livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011), il capolavoro degli M83, contenente hit come Midnight City e Reunion, ma “Fantasy” è senza dubbio un passo avanti rispetto alle ultime versioni della band.

La preparazione al CD era stata particolare: dapprima Oceans Niagara pubblicata come singolo di lancio, poi la decisione di pubblicare l’intera prima facciata di “Fantasy” come EP… quasi un modo di “spoilerare” i fan! Le speranze di essere di fronte ad un buon disco erano comunque intatte, come del resto viene confermato dal CD esteso. Certo, i 66 minuti a volte sono superflui (Radar, Far, Gone, Deceiver), ma pezzi come Amnesia e Us And The Rest sono notevoli e ci fanno tornare alla memoria i migliori momenti di “Before The Dawn Heals Us” (2005). Da non sottovalutare anche Earth To Sea.

Non si ascolta un LP degli M83 per il contenuto lirico, questo è risaputo, ma va detto che in “Fantasy” Gonzalez è più presente del solito: “Do you miss the day of human revolution… Television, what a good way to learn about us, and the heirs of our land” (Dismemberment Bureau) sono i versi più significativi. Altrove abbiamo invece assurdi riferimenti fantascientifici: “Hello freak! Can you see the sky ladder by the limbo café leading to the green ray?” (Us And The Rest).

In conclusione, “Fantasy” è il miglior CD a firma M83 dai tempi di “Hurry Up, We’re Dreaming”: è stato messo da parte il pop zuccheroso e vuoto di “Junk” (2016), così come l’ambient di “DSVII”, per creare un prodotto magari nostalgico e autoreferenziale, ma non per questo sbagliato.

Voto finale: 7,5.

100 gecs, “10,000 gecs”

Il secondo CD del duo più stralunato d’America cambia radicalmente le carte in tavola per i 100 gecs: se nell’esordio “1000 gecs” (2019) eravamo di fronte ad un mix spericolato di pop e musica elettronica, sperimentale certo ma in un certo qual modo accessibile, “10,000 gecs” vira decisamente verso rock, punk e ska, con accenni di metal. Servono ripetuti ascolti per farsi un’idea coerente, ma la domanda se siamo di fronte a due geni o a due truffatori è più viva che mai.

La pubblicazione di “10,000 gecs” è stata influenzata da numerosi ritardi: il CD doveva originariamente uscire nella primavera del 2022, poi a causa di ripensamenti e posticipi vari siamo arrivati al 2023. Dylan Brady e Laura Les, ovvero i 100 gecs, hanno in effetti dato spazio a tutto il repertorio del punk rock anni ’00: basti sentire Dumbest Girl Alive e Hollywood Baby, due highlight del disco. In altri episodi (757) tornano i 100 gecs degli esordi, mentre Billy Knows Jamie flirta col metal e I Got My Tooth Removed è puro ska. Frog On The Floor, infine, pare una canzoncina dello Zecchino d’Oro in salsa pop punk.

Anche liricamente siamo di fronte a testi ambivalenti: da un lato versi volutamente provocatori (“I’m smarter than I look, I’m the dumbest girl alive”), dall’altro riferimenti da presunti intellettuali (“I’m dumb and hypocritical, I’m taking things too literal when it was hypothetical”, da 757). The Most Wanted Person In The United States contiene il seguente quadretto: “I got Anthony Kiedis suckin’ on my penis”.

L’ambizione e l’approccio “vale tutto” di Brady e Les può piacere o meno, ma è un qualcosa di assolutamente inconcepibile nella musica moderna che due disadattati che producono canzoni così incomprensibili ai più siano arrivati a tale livello di successo. Merito di TikTok e in generale dello streaming, che ha reso disponibile pressoché tutta la musica mai prodotta al mondo intero.

La domanda iniziale resta tuttavia valida: siamo di fronte a due pazzi geniali, oppure a due prodotti del nostro tempo, tanto effimeri che spariranno nel giro di qualche anno? Ai posteri l’ardua sentenza; possiamo dire che “10,000 gecs” è un album assurdo, divertente, esagerato, pretenzioso… tutto vero, ma dopo tanti ascolti ad A-Rock non lo abbiamo ancora inquadrato a pieno.

Voto finale: 7,5.

Fever Ray, “Radical Romantics”

Il terzo album del progetto Fever Ray, ovvero Karin Drejer, metà dei The Knife (l’altra era rappresentata dal fratello Olof), è un altro passo in avanti in una discografia sempre più sperimentale ed ambiziosa. Il tema principale, come si può intuire dal titolo, è l’amore: ma un tipo di amore allo stesso tempo carnale e freddo, pop e misterioso, alieno e umano. Non tutto gira a meraviglia, ma Fever Ray si conferma unica.

Il CD segue “Plunge” (2017), in cui Drejer aveva dato sfogo alle sue pulsioni più techno: prova ne sia IDK About You. In generale, “Radical Romantics” è definibile quasi come pop, non fosse che Fever Ray ogni volta sabota le proprie canzoni attraverso improvvise sterzate o suoni dissonanti: in Shiver, ad esempio, uno dei pezzi forti del lavoro, abbiamo un suono quasi di zanzara in sottofondo. In New Utensils, allo stesso modo, percepiamo voci del tutto aliene in sottofondo. Si sente l’influenza della produzione del fratello Olof, che sembra anticipare una reunion dei The Knife.

La prima metà è più riuscita della seconda, in cui purtroppo risalta nel modo sbagliato la conclusiva Bottom Of The Ocean: sette minuti di suoni fini a sé stessi, che lasciano l’amaro in bocca all’ascoltatore. Peccato, perché il CD contiene comunque buoni pezzi come la già menzionata Shiver, What They Call Us e Kandy.

Testualmente, come accennavamo, Fever Ray affronta il più classico dei temi pop, l’amore, da varie angolazioni: abbiamo annunci quasi pubblicitari (“Looking for a person with a special kind of smile”, da Looking For A Ghost), così come riferimenti alla discriminazione verso le persone omosessuali (“Did you hear what they call us?”, da What They Call Us). Vi sono però sparsi anche riferimenti al bullismo (“This is for Zacharias, who bullied my kid in high school… There’s no room for you and we know where you live!”, in Even It Out).

In generale, “Radical Romantics” non è il più bel lavoro a firma Fever Ray: questo posto spetta probabilmente all’eponimo esordio del 2009. Tuttavia, con questo disco Karin Drejer si è probabilmente liberata di molti fantasmi ed è pronta ad esplorare altri territori. Non ci resta che aspettare, con pazienza, il suo nuovo LP.

Voto finale: 7,5.

Rising: Model/Actriz

model actriz

I Model/Actriz.

Primo appuntamento del 2023 con la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. Quest’oggi ci focalizziamo sui Model/Actriz, gruppo americano che con l’esordio “Dogsbody” ci ha introdotti al loro mondo, duro e claustrofobico, ma da cui è difficile uscire una volta entrati.

Model/Actriz, “Dogsbody”

dogsbody

I Model/Actriz sono un quartetto originario di Brooklyn, attivi in realtà dal lontano 2016, ma “Dogsbody” è il loro primo CD; ed è una ventata di freschezza nella scena rock americana e non solo. Industrial, noise, elettronica e numerose altre influenze si mescolano, facendo della band un ibrido difficile da inquadrare: LCD Soundsystem, Talking Heads e Nine Inch Nails sono ispirazioni, ma nessuno suona esattamente come i Model/Actriz.

L’inizio del lavoro, in questo senso, è emblematico: Donkey Show è un assalto sonoro, una canzone davvero abrasiva e trascinante. Mosquito è invece quasi dance nel suo incedere, anche se poi la batteria tonante di Ruben Radlauer entra in scena con prepotenza. La suite Crossing GuardSlate è il momento migliore del CD, con la seconda che si inserisce direttamente nello spazio lasciato dalla prima, anche testualmente: Crossing Guard finisce con i versi “Oh it feels like, oh it feels like…”, per lasciare spazio a Slate, le cui prime parole sono “…Like pressure”.

Il disco contiene anche due momenti quasi delicati, Divers e Sun In, che sembrano preludere ad un futuro diverso per i Model/Actriz. Va detto che, come già accennato, i momenti migliori sono quelli più tosti musicalmente parlando: l’energia e la passione del gruppo sono davvero ammirevoli, così come da elogiare è la loro qualità di strumentisti. Dal canto suo, il cantante Cole Haden è trascinante, pur limitandosi spesso a declamare versi piuttosto che a cantarli.

In conclusione, “Dogsbody” è il miglior esordio del 2023 al momento nel mondo rock: i Model/Actriz hanno affinato negli anni una loro estetica, particolare e non accogliente verso l’ascoltatore medio, ma non per questo disprezzabile. Al contrario: il CD è candidato ad entrare nella top 10 dei migliori LP del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Recap: gennaio 2023

Gennaio è quasi terminato. Un mese ricco di nuove pubblicazioni e in cui A-Rock, come di consueto, ha analizzato anche delle uscite rilevanti pubblicate nel corso di dicembre 2022. Tra di esse contiamo i nuovi CD di MIKE, Little Simz, Stormzy e SZA. Abbiamo poi recensito il nuovo, brevissimo EP a firma PinkPantheress e i nuovi dischi dei Måneskin, di Mac DeMarco e dei The Murder Capital.

Little Simz, “NO THANK YOU”

no thank you

Annunciato e pubblicato nell’arco di una settimana, “NO THANK YOU” può sembrare semplicemente un CD che chiude un periodo trionfale per Little Simz. “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) l’ha resa una superstar e le ha fatto guadagnare il rispetto della critica, tanto che anche noi di A-Rock abbiamo eletto il CD come migliore di quell’anno. “NO THANK YOU”, tuttavia, non va sottovalutato.

Musicalmente, questo disco è un diretto discendente di “Sometimes I Might Be Introvert”, soprattutto in canzoni come Silhouette e X; allo stesso tempo, una traccia come Gorilla fa intravedere lati diversi di Little Simz, più sbarazzini. Insomma, abbiamo di fronte un CD variegato, ma breve al punto giusto (50 minuti) da non essere eccessivamente sovraccarico. Merito anche della produzione di Inflo, già leader dei SAULT, che dà al lavoro un tocco neo-soul non banale.

Liricamente, se in precedenza l’avevamo sentita trattare temi complessi come il rapporto col padre e con l’eredità degli artisti di colore, “NO THANK YOU” denuncia i mali dell’industria discografica: “You don’t even recognize who it is that you’re becoming, they don’t give a shit” (Heart On Fire) e “They don’t care if your mental is on the brink of something dark” (Angel) ne sono chiari esempi.

Le migliori canzoni di “NO THANK YOU” sono la magnifica Silhouette, che ha un azzeccatissimo cambio di base a metà pezzo; l’iniziale Angel, che apre egregiamente il lavoro; e Heart On Fire. Invece, inferiore alla media è solo la troppo breve Sideways.

In conclusione, “NO THANK YOU” si inserisce senza problemi in un’eredità artistica sempre più rilevante: Little Simz è ormai il simbolo del rap UK al femminile e una delle artiste più rilevanti di quest’epoca.

Voto finale: 8.

The Murder Capital, “Gigi’s Recovery”

gigi's recovery

Il secondo album della band post-punk irlandese continua a costruire su quanto di buono era contenuto in “When I Have Fears” (2019), provando allo stesso tempo ad ampliare il range sonoro dei The Murder Capital. I risultati sono ancora una volta buonissimi e ci fanno sperare di aver trovato un altro grande gruppo della nidiata magica d’Oltremanica, che ha portato alla luce talenti come IDLES, shame e Fontaines D.C., giusto per citarne alcuni esponenti.

Non tutto è punk o comunque assimilabile a questo genere in “Gigi’s Recovery”: The Murder Capital, infatti, diventa sinonimo di art rock (A Thousand Lives) e addirittura influenze elettroniche (The Stars Will Leave Their Stage). Va aggiunto, a onor del vero, che molte delle canzoni più riuscite sono di matrice punk, Crying e Return My Head su tutte.

Liricamente, il CD si impone come uno dei più profondi di questi primi momenti del 2023: James McGovern e compagni intraprendono in “Gigi’s Recovery” un viaggio alla scoperta di loro stessi, tra ammissioni di impotenza (“Strange feeling I’m dealing with, I can’t admit it – I’m losing grip”, in Existence) e domande esistenziali (“Is this our way to escape? Our way through the gates we built? Is this our end?”, da Crying). In Exist, infine, McGovern trova pace: “I’ll stay committed, I’ll make it stick. This morning I took ownership – to stay forever in my own skin”.

In conclusione, “Gigi’s Recovery” è un LP non facile, ma che regala piacevoli sorprese ad ogni ascolto. The Murder Capital è, indubbiamente, un nome sempre più importante nel panorama punk-rock europeo.

Voto finale: 8.

SZA, “SOS”

sos

Il secondo album di SZA arriva ben cinque anni dopo “CTRL”, che l’aveva fatta conoscere al pubblico di massa e, secondo molti, aveva fatto emergere una nuova grande promessa per l’R&B. Questa lunga attesa è stata in realtà riempita da numerosi singoli, molti dei quali hanno trovato spazio in “SOS”. Ma il prodotto finale è all’altezza delle tante speranze che avevamo riposto in lei?

Malgrado una lunghezza che può apparire eccessiva (23 pezzi per 68 minuti complessivi), buona parte di “SOS” è davvero ben fatta. Pezzi come Kill Bill, Blind e Good Old Days sono irresistibili; purtroppo, altri episodi sono inferiori alla media (SOS, Smoking On My Ex Pack, Conceited), ma non pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo. Menzione, infine, per gli ospiti di SZA: abbiamo protagonisti del rap (Don Toliver, Travis Scott) così come dell’indie rock (Phoebe Bridgers).

SZA si conferma quindi musicista di talento; anche i testi, nei loro momenti migliori, sono davvero iconici. “I might kill my ex… Not the best idea”, da Kill Bill, ne è un chiaro esempio. Snooze invece contiene il seguente verso: “How you threatening to leave and I’m the main one crying?”. Infine in Forgiveless, che vanta la collaborazione del defunto Ol’ Dirty Bastard (Wu-Tang Clan), SZA dichiara: “I’m too profound to go back and forth with no average dork”.

Ripetuti ascolti fanno emergere le melodie più riuscite, che avrebbero facilmente composto un CD imperdibile. Pur essendo sovraccarico di canzoni spesso simili le une alle altre, anche in questa forma “SOS” è una forte dichiarazione di intenti: speriamo che la minaccia di SZA di aver pubblicato il suo ultimo lavoro sia esagerata.

Voto finale: 7,5.

MIKE, “Beware Of The Monkey”

Beware of the Monkey

Il nuovo lavoro del rapper newyorkese mantiene i tratti più salienti della sua estetica, ma allo stesso tempo suona quasi euforico rispetto a passati CD come “tears of joy” (2019) e “Weight Of The World” (2020). L’evoluzione artistica di MIKE è lenta, ma costante.

Già nel precedente “Disco” (2021) avevamo intravisto un lato diverso di MIKE, più sereno e meno tormentato dalla perdita dei propri cari e dalla depressione. “Beware Of The Monkey” prosegue in questo percorso di uscita dal tunnel, soprattutto in pezzi come Nuthin I Can Do Is Wrng e No Curse Lifted (rivers of love). Allo stesso tempo, come già accennato, troviamo melodie dove il MIKE delle origini torna alla ribalta, ad esempio What Do I Do? e Swoosh 23.

Liricamente, troviamo momenti di puro flex, in cui il Nostro si vanta della propria abilità (“This my only chance left, to prove to y’all, I’m the best rapper in the fuckin’ world”, As 4 Me), così come momenti di maggiore fragilità (“Dread and blasphemy, sitting ’laxed in my apartment where these raps put me”, Tapestry). In Stop Worry!, aiutato da Sister Nancy, onora la memoria della madre.

In generale, il rap sperimentale e jazzato tipico di MIKE non ha ancora mostrato la corda: grazie a piccoli ma costanti cambiamenti l’ancora giovane newyorkese ha mantenuto un’altissima qualità media. “Beware Of The Monkey”, in questo senso, non intacca assolutamente un’eredità sempre più rilevante.

Voto finale: 7,5.

Stormzy, “This Is What I Mean”

This Is What I Mean

Per la seconda volta in carriera Stormzy ha pubblicato una raccolta di inediti nel periodo di non eleggibilità per la lista dei migliori 50 album dell’anno di A-Rock: pertanto, dopo “Heavy Is The Head”, pubblicato a dicembre 2019, abbiamo questo “This Is What I Mean”, un CD decisamente più intimo e R&B rispetto al passato, in cui Stormzy mostra la sua parte più suadente e meno rap.

Il rapper inglese in realtà sembrava aver anticipato un album vecchia maniera con la stratosferica Mel Made Me Do It, che vantava la collaborazione niente meno che di José Mourinho! Invece in “This Is What I Mean” questa canzone non è stata inclusa e il Nostro ha privilegiato melodie più dolci, si sentano ad esempio Please e Hide & Seek. Non tutto gira a meraviglia, ma nei suoi momenti migliori (Fire + Water, la title track) Stormzy dimostra tutto il suo talento.

Liricamente, abbiamo riferimenti a Dio (Holy Spirit) così come una dimostrazione di solidarietà verso Meghan Markle (Please), accanto a riferimenti più materiali (una sua vecchia disputa col collega Wiley in My Presidents Are Black, il sesso in Need You).

Insomma, non avessimo brani eccessivamente lenti come Holy Spirit, saremmo di fronte forse al miglior album a firma Stormzy. Nondimeno, “This Is What I Mean” è un buon CD, che tiene alto il nome del Nostro e rende evidente la sua duttilità. È possibile che il prossimo sia l’album della verità per Stormzy: vedremo se riuscirà a consegnare quel capolavoro che pare avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

PinkPantheress, “Take Me Home”

Take Me Home

PinkPantheress si conferma una delle figure più originali nel panorama musicale odierno: le tre canzoni di questo EP ammontano complessivamente a meno di otto minuti. Vi sono canzoni che hanno fatto la storia della musica, da Runaway di Kanye West a Blackstar di David Bowie, che da sole hanno una durata maggiore: tuttavia, PinkPantheress è diventata famosa proprio grazie alla sua estrema concisione.

Basti dire che il suo album d’esordio, “to hell with it” del 2021, durava appena 18 minuti, ma molte sue canzoni (della durata media di un minuto e mezzo) erano divenute virali su TikTok, trasformando la giovane inglese in una celebrità. “Take Me Home” riparte da dove PinkPantheress aveva lasciato, anche se contiamo una melodia di ben tre minuti e venti.

La prima canzone della scaletta, Boy’s A Liar, prodotta da Mura Masa, riparte precisamente dai tratti salienti di “to hell with it”: ritmi veloci, pop ballabile e leggerino, basso potente. Do You Miss Me? è invece più danzereccia, non a caso vantando la produzione di Kaytranada. Abbiamo infine la title track, la più complessa del lotto, con tanto di finale in salsa trap: questa è la traccia che segnala una crescita reale di PinkPantheress e ci rende davvero interessati al prossimo suo album vero e proprio.

“Take Me Home” non è quindi un EP eccessivamente ambizioso: va inteso probabilmente come uno stop and go in attesa del secondo CD della Nostra. Nel frattempo, godiamoci questi otto minuti di discreta musica pop.

Voto finale: 7.

Måneskin, “RUSH!”

rush

Il terzo CD dei Måneskin, il primo dopo aver trovato la fama planetaria, è pieno di difetti, ma in qualche modo porta a casa la pagnotta. Peccato, perché a tratti i ragazzi riescono a produrre pezzi davvero di qualità, ma la tracklist eccessivamente carica e qualche scelta discutibile intaccano il risultato complessivo.

Ad esempio: aver piazzato alcuni dei singoli recenti da loro pubblicati in fondo alla scaletta sembra una mossa puramente votata a massimizzare gli streaming, ma rendono il CD eccessivamente lungo (quasi 53 minuti) e non aggiungono nulla al risultato finale. BLA BLA BLA è una delle peggiori canzoni rock degli ultimi anni e ferma l’inizio promettente di “RUSH!”, KOOL KIDS scimmiotta incomprensibilmente il post-punk britannico.

Dall’altro lato, abbiamo alcuni pezzi indubbiamente riusciti: la doppietta iniziale OWN MY MINDGOSSIP (quest’ultima con Tom Morello) sprigiona adrenalina, LA FINE è un ottimo pezzo rock, GASOLINE migliora ad ogni ascolto, non male le ballate IL DONO DELLA VITA e IF NOT FOR YOU. In generale, come già ricordato, il CD pecca nella costruzione della scaletta: errore che potrà senza dubbio essere corretto nei futuri lavori della band.

Liricamente, invece, i Nostri riescono a piazzare alcuni versi ben assestati: “You’re not iconic, you are just like them all, don’t act like you don’t know” (da GOSSIP) sembra rivolto tanto a loro stessi quanto a chi nell’industria musicale dubita di loro. In FEEL i Måneskin rievocano la “cocaina sul tavolo”, il presunto scandalo che ha rischiato di oscurare la loro vittoria all’Eurovision Song Contest del 2021. Infine, MARK CHAPMAN rievoca la figura dell’assassino di John Lennon e in GASOLINE Damiano David chiede: “How are you sleeping at night? How do you close both your eyes? Living with all of those lives on your hands?”, rivolto a Vladimir Putin e alle conseguenze della tragica invasione dell’Ucraina.

In conclusione, “RUSH!” non cancella i dubbi che molti avranno sui Måneskin, un fenomeno secondo loro costruito dai media piuttosto che basato su reali meriti artistici. Noi ad A-Rock vogliamo dare ancora una chance ai ragazzi romani: il prossimo LP sarà la prova della verità per il gruppo. Per il momento Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan potranno continuare a godersi gli altissimi numeri di streaming che “RUSH!” sicuramente regalerà loro.

Voto finale: 6.

Mac DeMarco, “Five Easy Hot Dogs”

five easy hot dogs

Il nuovo CD del cantautore canadese è composto da soli pezzi strumentali. Sebbene rappresenti un gradito cambio di passo in un’estetica che cominciava a farsi ripetitiva, nessuna delle melodie cattura davvero l’attenzione dell’ascoltatore, rendendo “Five Easy Hot Dogs” più adatto come musica di accompagnamento ad altre attività, che sia studiare o lavorare.

Mac ha deciso di comporre “Five Easy Hot Dogs” durante un lungo viaggio in America e Canada, tanto che le canzoni prendono i nomi dalle località in cui sono state composte. Alcune sono state composte nella medesima città: abbiamo infatti tre Vancouver, due Portland… DeMarco conferma il suo talento per gli arrangiamenti semplici, ma non per questo scontati; allo stesso tempo, la mancanza della parte cantata si fa sentire, soprattutto verso la fine del lavoro.

Nessuna delle 14 canzoni in scaletta, come detto, si distingue nettamente dalle altre, rendendo “Five Easy Hot Dogs” un CD gradevole e coerente, ma davvero leggero e poco memorabile. È davvero questo il destino di un cantautore una volta visto come uno dei migliori della sua generazione, che ha composto in passato CD interessanti come “2” (2012) e “Salad Days” (2014)?

Voto finale: 6.

Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!