Scheda: Bon Iver

Justin Vernon

Justin Vernon, la mente dietro il progetto Bon Iver.

Bon Iver è il nome del progetto principale del geniale Justin Vernon, frontman anche dei Volcano Choir (ma con risultati leggermente inferiori). Lo stile di Vernon si caratterizza per un sapiente mix tra folk, pop ed elettronica leggera. Una sorta di Sufjan Stevens con un pizzico di Fleet Foxes, da cui gruppi come Real Estate e Beach House hanno attinto a piene mani. La discografia dei Bon Iver è molto breve (almeno fino ad ora), ma senza passi falsi. Ripercorriamone le tappe principali.

“For Emma, Forever Ago”, 2007

For Emma Forever Ago

La genesi di “For Emma, Forever Ago” è un qualcosa di straordinario: Vernon, dopo aver rotto con la fidanzata (Emma), si rinchiude come un eremita e compone l’album, incentrato ovviamente su temi come l’addio e l’amore, con melodie apparentemente tradizionali, ma in realtà ricercate e mai banali (la incantevole voce di Vernon poi fa il resto).

Canzoni belle non mancano: da Flume a Lump Sum, passando per For Emma e Re:stacks, il CD contiene almeno 5-6 brani indimenticabili. Canzone-manifesto è però Skinny Love, non a caso primo singolo di lancio scelto: titolo che già dice tutto, sul pezzo e forse sull’intero “For Emma, Forever Ago”. La grande abilità di Bon Iver risiede nel saper emozionare l’ascoltatore, sfruttando la propria abilità compositiva e canora unitamente a un genere a metà fra indie, folk e pop che non può lasciare indifferenti.

“Indie folk”: ecco la giusta definizione per il mix messo in piedi da Vernon. Un genere non facilmente identificabile, ma tremendamente affascinante. Una cosa che all’esordio non molti sanno raggiungere. Voto: 9.

“Bon Iver, Bon Iver”, 2011

Bon Iver Bon Iver

Dopo il godibile EP “Blood Bank” del 2009 (voto 8), che conteneva canzoni molto riuscite come l’omonima Blood Bank e Babys (oltre alla celeberrima Woods, successivamente campionata anche da Kanye West), Vernon se ne esce con un album ancora migliore del già meraviglioso “For Emma, Forever Ago”.

Dopo essersi rinchiuso in un eremo, completamente solo e lontano da tutti, per comporre il precedente lavoro, Vernon ricorre a un altro stratagemma per rendere ancora più attraente “Bon Iver, Bon Iver”: immaginarsi un viaggio in località a volte reali (Perth, Minnesota), altre volte inventate (Michicant, Hinnom). Da sottolineare la varietà di suoni e strumenti adottata da Bon Iver: tutto sembra essere al posto giusto al momento giusto. Restano impresse la straziante Holocene e la conclusiva Beth/Rest, ideale culmine dell’opera, oltre alla iniziale Perth (una marcetta irresistibile) e le belle Towers e Michicant.

L’indie folk, se così possiamo chiamarlo, di Bon Iver ha perso l’effetto sorpresa, ma è da ammirare la capacità di Vernon di sapere quali corde emotive toccare e rendere l’ascolto dei suoi CD una straordinaria esperienza, attraverso una parziale apertura all’elettronica e al rock melodico (come in Towers e Calgary, nonché in Hinnom, TX). Miglior LP del 2011 e senza dubbio anche uno dei migliori album della decade. Voto: 9,5.

Scheda: Vampire Weekend

Vampire Weekend

I Vampire Weekend fino al 2015.

La mossa a sorpresa di Rostam Batmanglij, tastierista e mente principale dei Vampire Weekend, di lasciare il gruppo ha lasciato i fan della band newyorkese in ansia: i VW ritorneranno ai loro brillanti livelli anche dopo questa perdita? Oppure imploderanno? La preoccupazione è legittima: nel corso di una carriera costellata da tre ottimi CD, i Vampire avevano costruito un suono variegato e affascinante, fatto di rimandi all’indie dei primi anni 2000 e intarsi di pop raffinato. Analizziamone la produzione.

“Vampire Weekend”, 2008

VW album

Un debutto con un suono così fresco e innovativo erano anni che non lo sentivamo: “Vampire Weekend” colpisce per l’apparente noncuranza con cui è stato fabbricato, che nasconde in realtà una band capace di coagulare al meglio una moltitudine di diverse influenze (afro, indie, pop…) in modo quasi sempre efficace.

L’inizio è molto “strokesiano”, o almeno chiaramente indie: Mansard Roof, la deliziosa Oxford Comma e la celeberrima A-Punk stregano subito l’ascoltatore. Ma l’album prosegue ancora meglio: la bellissima M79 e la africaneggiante Cape Cod Kwassa Kwassa colpiscono, niente da dire. Non male poi la conclusiva The Kids Don’t Stand A Chance, a sottolineare la vena pop dei Vampire Weekend. Musica per hipster? Forse, ma senza dubbio ottima musica.

“Vampire Weekend” non cambierà la storia della musica, ma certamente ha portato una ventata di creatività salvifica nel panorama musicale. Voto: 8.

“Contra”, 2010

vampireweekend_contra

Il rischio dei secondi album di band talentuose ma fondamentalmente “conservatrici” è quello di tentare di ripetere il primo, riuscendoci solo a tratti. Questo è il caso di Strokes, Interpol, Bloc Party e Franz Ferdinand, per dirne alcuni celebri. Ma “Contra”, secondo CD dei Vampire Weekend, non compie questo errore: la band riesce ad ampliare notevolmente il proprio range sonoro, aprendo ad atmosfere alla Bon Iver e Radiohead.

Se infatti l’inizio ricalca l’indie scanzonato di “Vampire Weekend”, il bell’esordio del 2008, con brani veloci e ben fatti come Horchata, White Sky e Holiday, la parte centrale (per esempio con Run o Taxi Cub) ma soprattutto l’ultimo tratto dell’album aprono a sonorità nuove e potenzialmente di radicale cambiamento: basti ascoltare Giving Up The Gun o Diplomat’s Son, lunga addirittura 6 minuti!

In conclusione, i Vampire Weekend, anche se non sempre centrano il bersaglio, restano ancora una band su cui puntare: possiamo dire una start up, ancora in divenire, ma con una prospettiva a 5 stelle. Voto: 8.

“Modern Vampires Of The City”, 2013

modern vampires of the city

Ricordate i Vampire Weekend? Quella band americana indie rock, ma che sapeva anche essere complessa, particolarmente nel suo secondo lavoro “Contra”? Beh, sono spariti. Scomparsi. Caput. Ma allora la domanda vi sorgerà spontanea: chi sono questi omonimi cantanti autori di “Modern Vampires Of The City”? Sono sempre loro, ma completamente trasformati. Ma proprio completamente.

L’inizio già è abbastanza spiazzante: Obvious Bicycle comincia molto lenta, quasi come un pezzo dei Wilco, ma poi cresce, fino a diventare irresistibile. Stesso effetto con la successiva Unbelievers, ma la perla vera del lavoro è Hannah Hunt, che rievoca le atmosfere di “Contra”, ma con un suono davvero pop, apparentemente discordante con i precedenti CD del gruppo, particolarmente “Vampire Weekend”, l’esordio molto più facile e diretto.

Infatti, al primo ascolto “Modern Vampires…” può apparire strano e sconclusionato, ma alla lunga si apprezza il festival sonoro messo su dai 4 newyorkesi, con pezzi come le già citate Hannah Hunt e Obvious Bicycle, ma non solo: non male anche Everlasting Arms e Finger Back. Molto riuscita la raffinata Step, una delle migliori prove canore della carriera del frontman Ezra Koenig. Meno riuscita la bizzarra Ya Hey, mentre colpisce positivamente il post-rock di Hudson e lo spleen di Young Lion, degna chiusura di un grande disco come “Modern Vampires Of The City”. Voto: 9.

Scheda: Lotus Plaza

lotus plaza

La formazione dei Lotus Plaza: al centro Lockett Pundt.

Lotus Plaza è il nome del progetto solista di Lockett Pundt, chitarrista dei Deerhunter. La produzione di Pundt solista si caratterizza per una grande attenzione alla parte melodica delle canzoni, creando un genere a metà fra indie rock ed ambient music. Analizziamo i CD dei Lotus Plaza uno ad uno, sottolineando come nei Deerhunter non vi sia un solo genio creativo (il frontman Bradford Cox), ma due.

“The Floodlight Collective”, 2009

The Floodlight Collective

E’ fondamentale inquadrare “The Floodlight Collective” nella carriera dei Deerhunter, il progetto primario di Pundt: era passato appena un anno da “Microcastle”, primo capolavoro della produzione “deerhunteriana”, e Pundt voleva creare musica per conto suo.

“The Floodlight Collective” non è un cattivo LP: è anzi raffinato e intrigante a tratti. Tuttavia, manca dei colpi di genio a cui i Deerhunter ci avevano abituato: le atmosfere ambient alla lunga risultano monotone, soltanto Quicksand e Different Mirrors colpiscono davvero l’ascoltatore. Malgrado la presenza del fido Cox, il CD non decolla mai, malgrado una qualità media dei brani più che discreta. Voto: 7.

“Spooky Action At A Distance”, 2012

Spooky Action at a Distance

Il secondo CD di Lockett Pundt a nome Lotus Plaza è un enorme balzo avanti rispetto all’opaco precedente lavoro: le melodie si fanno più convincenti e le rasoiate della chitarra di Pundt più efficaci. Inoltre, finalmente il chitarrista dei Deerhunter si sente a proprio agio nel canto. Non a caso viene dopo il secondo capolavoro della carriera dei Deerhunter, “Halcyon Digest” (2010) e poco dopo il bel “Parallax” (2011) di Atlas Sound, nome del progetto solista di Bradford Cox. Possiamo dire che le due anime dei Deerhunter hanno raggiunto il loro picco creativo in questi tre anni; e “Spooky Action At A Distance” non è da meno.

I brani ben riusciti non mancano: impressionano soprattutto Monoliths e Strangers, due bellissimi pezzi rock. Non sono da meno Jet Out Of The Tundra e Remember Our Days; la chiusura finale di Black Buzz ricorda addirittura Neil Young a tratti. Insomma, un trionfo: la definitiva affermazione del compositore Pundt e la dimostrazione del suo grande talento. Voto: 8,5.

Kendrick non sbaglia un colpo

kendrick lamar

Kendrick Lamar.

Solo un anno fa usciva “To Pimp A Butterfly”, album capolavoro di Kendrick Lamar, miglior CD di musica afroamericana del 2015 (qui trovate la lista completa). Brani come Alright, King Kunta e How Much A Dollar Cost? sono ormai storia (quest’ultima è stata eletta miglior canzone del 2015 addirittura dal presidente Obama!). Per questo stupisce che Kendrick se ne esca solo un anno dopo con una raccolta di nuove canzoni.

untitled unmastered

Il quarto CD di inediti nella produzione di Kendrick Lamar nasce come una collezione di 8 brani (tutti curiosamente Untitled) registrati tra 2013 e 2014, quindi durante le sessions di “To Pimp A Butterfly”. Tuttavia, i risultati non sono per nulla deludenti: pur essendo solo “b-sides”, le 8 canzoni che compongono “Untitled Unmastered” non sono certo scarti.

Anche la coesione tra di esse non è banale: la divertente frase “Pimp! Pimp! Hurrah!” fa da collante tra le parti nevralgiche dell’LP; le prime due canzoni sembrano dare un tono più oscuro dei precedenti lavori di Lamar a “Untitled Unmastered”, in particolare la notevole Untitled 02 ha una base potente quanto inattesa da uno come lui. L’impressione iniziale peraltro non viene confermata dal resto dei pezzi: Untitled 06, in cui figura Cee-Lo Green, ne è manifesto.

Il pezzo forte sarebbe la penultima canzone nella tracklist, Untitled 07: peccato per la coda finale troppo lunga. In conclusione, comunque, un altro interessante tassello alla già grandissima carriera di KL è stato aggiunto: facciamo i complimenti al più talentuoso rapper della sua generazione, coraggioso nell’affrontare temi delicati come il razzismo e la vita dei neri nelle periferie USA con crudezza ed efficacia.

Voto finale: 7,5.

Scheda: Real Estate

Real Estate band

La formazione al completo dei Real Estate.

Non si può parlare del pop anni ’10 senza almeno una scheda dedicata ai Real Estate. Il quintetto originario del New Jersey nel corso degli anni ha prodotto un suono sempre più definito, a metà fra Fleet Foxes e Beach Boys, che nessuno sa replicare con tale maestria. Ripercorriamone la carriera e le caratteristiche più importanti.

 “Real Estate”, 2009

Real Estate

L’esordio di Courtney e co. già delinea il sound del gruppo: ritmi solari, canzoni vivaci e serene, vocalizzi di assoluto livello. Cose magari già sentite, ma non per questo meno affascinanti: a partire da Beach Comber, primo brano nella tracklist, ci si immerge volentieri nelle atmosfere create dai Real Estate.

Altri brani da segnalare sono la breve canzone strumentale Atlantic City, la buffissima Suburban Beverage (con testo composto solamente dalla strofa “Budweiser and Sprite, do you feel alright?”) e Black Lake. Solamente Let’s Rock The Beach è ripetitiva, ma è un peccato veniale in un CD altrimenti pregevole. Insomma, una buonissima introduzione al mondo dei Real Estate. Voto: 8.

“Days”, 2011

Days

Eccolo qua il capolavoro (ad oggi) della discografia dei Real Estate: con “Days” la band statunitense raggiunge probabilmente il risultato massimo ottenibile con la formula che caratterizza il loro genere musicale. Dopo il breve EP “Reality” (voto 7, notevole Dumb Luck), i ragazzi hanno infatti sfoderato un vero “colpo da maestro”.

Dieci brani pressoché perfetti, coesi e senza passi falsi: si va dal soft rock di Out Of Tune alla travolgente cavalcata di All The Same, dal pop elegante di Green Aisles alla bellissima It’s Real. Il capolavoro vero è però Municipality, un brano degno dei migliori Beach Boys. In generale, in un 2011 caratterizzato da rivali di assoluto rilievo (Bon Iver, M83 e Fleet Foxes, per esempio), “Days” si staglia come uno dei migliori lavori non solo di quell’anno, ma anche del decennio. Voto: 9.

“Atlas”, 2014

Atlas

Replicare il successo di pubblico e di critica del pluripremiato “Days” non era semplice; i Real Estate decisero di mantenersi nel solco già tracciato con il precedente lavoro, cercando nel contempo di introdurre qualche gustosa novità.

Operazione riuscita in pieno: pur non raggiungendo le vette di “Days”, anche questo “Atlas” non è per nulla male: soprattutto le iniziali Had To Hear e Talking Backwards colpiscono positivamente. Anche The Bend e Crime tuttavia non sfigurano. In conclusione, un altro ottimo lavoro di questo ormai oliato ingranaggio, che sembra incapace di sbagliare completamente un LP. Voto: 8,5.

Scheda: Fleet Foxes

Fleet Foxes band

I Fleet Foxes al completo.

I Fleet Foxes sono un gruppo fondamentale per il folk degli anni ’10 del XXI secolo: pur avendo all’attivo solamente due album e un EP, la band di Seattle ha forgiato un sound perfettamente riconoscibile, a metà fra pop e canzone d’autore. Ripercorriamone insieme la carriera, con la speranza che la band torni a registrare nuova musica: il talento del gruppo americano è indiscutibile e noi, amanti della buona musica, apprezziamo album pregevoli come quelli dei Fleet Foxes.

“Fleet Foxes”, 2008

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L’omonimo esordio viene pochi mesi dopo la pubblicazione del bell’EP “Sun Giant” (voto 8), che aveva fatto gridare al miracolo molti critici. L’attesa era spasmodica e i Fleet Foxes mantennero le attese: melodie subito riconoscibili; la voce di Robin Pecknold, unita ai cori di sottofondo, semplicemente divina; una copertina del CD davvero affascinante… Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per uno degli esordi più dirompenti degli ultimi anni.

Brani belli non ne mancano: da Sun It Rises a Blue Ridge Mountains, passando per White Winter Hymnal e Ragged Wood, tutto gira a meraviglia. In poche parole: uno dei migliori album del 2008 e dell’intero decennio. Voto: 9.

“Helplessness Blues”, 2011

Helplessness Blues

Replicare il successo di pubblico e di critica di un album di capitale importanza come l’eponimo esordio non era per nulla semplice, ma i Fleet Foxes con “Helplessness Blues” furono ancora più ambiziosi: canzoni arrangiate in maniera più ardita e spesso più lunghe che in “Fleet Foxes”, durata del disco che supera i 50 minuti…

In generale dunque un deciso passo in avanti, una sorta di disco della maturità. Anche i testi si fanno più complessi, affrontando argomenti scomodi come il trascorrere del tempo e la giovinezza che se ne fugge via. Joshua Tillman, che poi diventerà Father John Misty, aggiunge alle percussioni più energia, ma sono sempre i vocalizzi la parte migliore dell’orchestrazione nei Fleet Foxes.

Non tutto fila liscio, ma il risultato complessivo è apprezzabile: spiccano soprattutto Montezuma e Grown Ocean, non a caso prima e ultima canzone della tracklist. Interessanti anche The Plains/Bitter Dancer e The Cascades. Voto: 8.

Quello che più dispiace è che ad oggi i Fleet Foxes non siano più attivi da quattro, lunghi anni: Tillman ha lasciato il gruppo per perseguire la propria carriera solista, Pecknold ha finalmente preso la tanto agognata laurea… Speriamo che le vicissitudini dei vari membri siano finite: abbiamo proprio bisogno di un altro bel CD dei Fleet Foxes, i migliori emblemi del “folk dal cuore tenero”.

Recap: febbraio 2016

Anche questo mese le uscite musicali interessanti non sono mancate: come sempre ne ho selezionate tre, che rappresentano il meglio della produzione musicale di febbraio 2016. Abbiamo il ritorno di Kanye West con l’attesissimo “The Life Of Pablo” (ma il titolo non era “Swish”? O forse era “Waves”? Bah), ma non solo. A completare il terzetto abbiamo il decimo album di inediti degli Animal Collective, “Painting With”, e l’EP dei Massive Attack, “Ritual Spirit”.

Kanye West, “The Life Of Pablo”

Con Kanye West non ci sono mezze misure: o si ama o si odia, non tanto il cantante quanto il personaggio. Il suo egocentrismo sfrenato può risultare pesante, ma la qualità della sua produzione è decisamente sopra la media: “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) ha praticamente ridefinito un genere, così come il successivo “Yeezus” (2013) ha rappresentato il primo tentativo di unire hip hop, house e punk.

Con “The Life Of Pablo” le aspettative erano altissime: saprà Kanye mantenere questi livelli o si perderà, tra impegni di moda sempre più frequenti, faide con ex amici (il povero Wiz Khalifa ne sa qualcosa) e presunti debiti per 53 milioni di dollari? Beh, la risposta è semplicemente debordante.

Malgrado a volte affiori confusione e scarsa coesione stilistica, il nuovo Kanye West firma un altro capolavoro: accanto a brani modesti come Feedback, Silver Surfer Intermission, il freestyle I Love Kanye e FML, troviamo infatti capolavori straordinari come Famous, Wolves e Ultralight Beam, il brano più gospel del CD; ma anche Real Friends e Waves sono davvero notevoli.

Insomma, se possiamo serenamente dire che “The Life Of Pablo” non è il miglior LP della discografia di West, possiamo senz’altro affermare che rientra nei primi 10 album hip hop del decennio. Ultima riflessione: dove lo trovate un altro artista che riesce a radunare ospiti come Kendrick Lamar, Rihanna, The Weeknd e Frank Ocean nello stesso CD?

Voto finale: 8,5.

The Life Of Pablo

Animal Collective, “Painting With”

Il Collettivo Animale è ormai giunto al decimo lavoro: un momento della carriera propizio per cadute e fiaschi di ogni genere. Ebbene, niente di ciò vale per gli Animal Collective: la loro eccentricità continua ad affascinare e, anzi, “Painting With” migliora il precedente “Centipede Hz” (2012), che era per contro troppo sovraccarico di influenze per piacere davvero.

“Painting With” si caratterizza per canzoni più brevi rispetto a molte, alcune davvero meravigliose, della band di Baltimora: in questo senso, la mancanza di Deakin (uno dei membri fondatori) si fa sentire. Nessuna Banshee Beat o Brother Sport, tanto per intenderci; al contrario, abbiamo dodici pezzi diretti e veloci, nessuno davvero brutto (ma neanche capolavori, a dire la verità).

Infatti, non sono male FloriDada e Golden Gal, che si rifanno alle atmosfere di “Merriweather Post Pavilion” (2009), miglior CD della carriera degli AC; meno riuscita Lying In The Grass, troppo elettronica. In generale, colpisce la voglia di sperimentare ancora del terzetto americano, con Panda Bear e Avey Tare (nomi d’arte di Noah Lennox e Dave Portner) ancora sugli scudi, creativamente parlando. Non il miglior LP dell’anno, ma di certo godibile e interessante: al decimo CD potevamo sperare di meglio?

Voto finale: 7,5.

Painting With

Massive Attack, “Ritual Spirit”

I Massive Attack sembrano finalmente pronti a tornare con un nuovo album di inediti, sei anni dopo il buon “Heligoland”. Il breve EP “Ritual Spirit”, composto da sole quattro canzoni, marca un altro bello step nella carriera del collettivo di Bristol. Le atmosfere sono sempre coinvolgenti, nessuna delle quattro tracce è fuori contesto (solo Voodoo In My Blood è leggermente più debole delle altre). Colpiscono positivamente Dead Editors, quasi rap nelle strofe e con base molto cupa, e Take It There, che segna il ritorno nella band britannica di Tricky, uno dei pionieri del trip-hop.

Insomma, posto che è solamente un EP, “Ritual Spirit” è apprezzabile sotto ogni punto di vista. Aspettiamo fiduciosi qualcosa di più corposo per vedere se i Massive Attack hanno fatto bene a produrre nuova musica oppure no. Non possiamo che essere fiduciosi.

Voto finale: 7.

Ritual Spirit