Rising: Anderson .Paak & Anna Meredith

Parte oggi una nuova rubrica di A-Rock: la sezione “Emergenti” raccoglierà recensioni riguardo nuovi artisti che hanno appena iniziato la loro carriera nel mondo della musica, ma che già promettono molto. Questo è proprio il caso di Anderson .Paak e Anna Meredith: due artisti che più diversi non potrebbero essere. Uno (Anderson) prevalentemente rap, americano; l’altra (Anna), scozzese e autrice di pezzi sperimentali e di chiara impronta elettronica. Tuttavia, entrambi hanno colpito critica e pubblico con i loro nuovi lavori: analizziamoli con maggiore attenzione.

Anderson .Paak, “Malibu”

malibu

Il giovane Anderson è già al secondo album di inediti: il primo, “Venice” (2014), era passato nel sostanziale anonimato, pur essendo di qualità discreta. E’ proprio con “Malibu” che il rapper statunitense è definitivamente esploso: era da tempo che non sentivamo una così sapiente miscela di soul, R&B e hip hop. Sì, è un CD addirittura migliore di “Untitled Unmastered” di Kendrick (di cui trovate la mia recensione qui): immaginate di ascoltare Lamar che scimmiotta D’Angelo e Frank Ocean e avrete una vaga idea della maestria di Anderson .Paak.

Parlando strettamente di musica, brani pregevoli non mancano: in particolare le prime due tracce, The Bird e Heart Don’t Stand A Chance, impressionano l’ascoltatore. Non dobbiamo però sottovalutare il resto di “Malibu”: la elettronica Am I Wrong, la trascinante Come Down e la chiusura di The Dreamer sono davvero notevoli. Peccato per due-tre tracce non riuscite: ricordiamo Your Prime e la breve Water Fall (Interluuube).

Insomma, ancora una volta Dr. Dre aveva visto lungo ingaggiando Anderson .Paak per la sua casa discografica, ormai sempre più fucina di grandi talenti: la presenza in “Compton” (l’album dell’anno scorso che ha chiuso la carriera di Dre) ha senza dubbio spinto al rialzo le quotazioni di Anderson, ma la stoffa resta ottima. Uno dei migliori album hip hop dell’anno (Kanye permettendo) e uno dei migliori esordi degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

Anna Meredith, “Varmints”

varmints

L’audace primo album di Anna Meredith, “Varmints”, si compone di 11 tracce, ma è capace di affrontare con buona maestria davvero molti generi musicali, anche molto eterogenei tra loro: synth pop, elettronica, jazz e rock tra gli altri. Il rischio di un pot-pourri senza né capo né coda era molto elevato, ma la giovane britannica non cade in questa trappola e anzi sforna un lavoro pregevole sotto molti punti di vista.

Meredith è una musicista che proviene dalla BBC Scottish Symphony Orchestra: questo aspetto è senza dubbio importante nella produzione di “Varmints”, in particolare nell’abilità di far convivere strumenti e ritmi molto diversi tra loro. Tuttavia, di musica classica troviamo ben poco in questo LP.

L’inizio è fantastico: Nautilus piace sempre di più ad ogni ascolto e Taken è trascinante, anche grazie al bel gioco di voci. Non tutte le altre melodie sono perfette (basti pensare alle deboli Vapours e Honeyed Words), ma il risultato è senza dubbio più che discreto. Da non trascurare poi pezzi come Something Helpful, R-Type e la conclusiva Blackfriars. Insomma, un album di musica sperimentale riuscito ed accattivante come “Varmints” erano anni che non lo sentivamo, probabilmente dal magnifico “Shields” dei Grizzly Bear (2012). Il voto non può che essere il medesimo di “Malibu”: per ora entrambi gli album sono in lizza per entrare nella top 20 dei più bei CD del 2016.

Voto finale: 8.

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