Recap: aprile 2017

Dopo un marzo pieno di grandi uscite, uno poteva aspettarsi un aprile tranquillo. Invece, anche il mese appena concluso ha visto importanti artisti tornare a calcare il palcoscenico; in particolare, abbiamo il terzo CD di Father John Misty; il quinto album del grandissimo Kendrick Lamar; il nuovo lavoro di Arca. Tre LP eccellenti, tutti serissimi candidati al podio dei migliori del 2017.

Kendrick Lamar, “DAMN.”

damn

Il nuovo CD del miglior rapper in circolazione? Non poteva che essere un evento. Tuttavia, Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: K-Dot infatti invitava i suoi fan ad aspettare il 7 aprile per avere novità su nuova musica in uscita a suo nome. Detto, fatto: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto LP di Kendrick Lamar, in data 14 aprile.

Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

I risultati forse non raggiungono i risultati eccellenti di “Good Kid, M.A.A.D. City” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), considerati giustamente tra gli album hip hop più importanti del nuovo millennio. Non a caso, questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni, come invece accadeva nei due LP citati prima, dove Kendrick parlava della vita per un giovane di colore nella sua città natale (Compton) e del razzismo strisciante negli Stati Uniti. Adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica.

Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD lotterà (almeno) per la top 10 dei più belli del 2017. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare, quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è un’ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva. Poco prima dello sparo che chiudeva la prima canzone, però, si sentono dei suoni: essi rappresentano probabilmente la vita del personaggio della canzone, tanto che poi DUCKWORTH. si chiude con la ripresa proprio di BLOOD.

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

I versi migliori del disco? Sono contenuti in LOYALTY. (“Tell me who you loyal to. Is it money? Is it fame? Is it weed? Is it drink?”), PRIDE. (“Love’s gonna get you killed, but pride’s gonna be the death of you and you and me”, forse riferito agli episodi di razzismo e uccisioni di giovani neri ad opera delle forze dell’ordine) e LOVE. (“If I minimize my net worth, would you still love me?”).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un serissimo candidato alla palma di miglior album hip hop dell’anno.

Voto finale: 8,5.

Father John Misty, “Pure Comedy”

pure comedy

Il terzo LP solista di Joshua Tillman, in arte Father John Misty, era molto atteso: dopo un eccellente secondo lavoro come “I Love You, Honeybear” (2015) e l’abilità mostrata, sia nelle interviste rilasciate che sui social, di cogliere come pochi lo spirito dei tempi, eravamo tutti curiosi di vedere cosa mai avrebbe dissacrato in questo “Pure Comedy”. Ebbene, i risultati sono clamorosi, per molti versi nel bene ed altri nel male: quasi 75 minuti di durata, 13 canzoni di cui una di 13 minuti (!) e una ironia molto amara riguardo ai tempi, politici e non, dove siamo immersi.

Musicalmente parlando, “Pure Comedy” amplia i generi affrontati da Tillman: accanto al folk delle origini (è stato batterista dei Fleet Foxes fino al 2012), adesso abbiamo un rock molto denso e raffinato, a tratti orchestrale nella sua magniloquenza. I risultati, quando tutto gira per il meglio, sono ottimi: ne sono prova Pure Comedy e Total Entertainment Forever, le due tracce iniziali del disco. Altrove, nondimeno, la combinazione risulta eccessivamente monotona: in particolare ciò accade nella parte centrale del lavoro, fin troppo adagiata in un plateau sonoro fatto di rock acustico e molto simile fra un brano e l’altro. Emblema di tutto ciò è l’interminabile Leaving LA, 13 minuti davvero lunghi e difficili da apprezzare.

La situazione si risolleva nella brillante parte finale, dove pure Tillman torna a fare quello che lo ha reso così amato dal pubblico: non concentrarsi su sé stesso, quanto dare uno sguardo disincantato sul mondo, aiutato da un folk-rock con intarsi elettronici davvero ammaliante. I migliori brani sono proprio le ultime due canzoni della tracklist, So I’m Growing Old On Magic Mountain e In Twenty Years Or So.

Liricamente, come sempre in un album di Father John Misty, gli spunti di riflessione non mancano: da un riferimento agli Oculus Rift in rima con Taylor Swift (potete immaginare in che contesto) alla religione (“They get terribly upset when you question their sacred texts, written by woman-hating epilectics”), da una critica alla tecnologia (“There are some visionaries among us developing some products to aid us in our struggle to survive, on this godless rock that refuses to die”) a della sana e onesta autoironia (“So I never learned to play the lead guitar. I always more preferred the speaking parts”).

Insomma, un lavoro non semplice, sia musicalmente che per i contenuti affrontati. Tuttavia, se affrontato nella giusta prospettiva e colto appieno, “Pure Comedy” si staglia come un ottimo CD di musica rock impegnata; e dimostra un coraggio non comune da parte di Joshua Tillman, che affronta temi delicati in maniera sempre pungente e intelligente. Non un capolavoro, ma qualcosa di molto simile sì.

Voto finale: 8,5.

Arca, “Arca”

arca

Il terzo album del musicista venezuelano Alejandro Ghersi, meglio noto come Arca, è il suo CD più intimo e personale. Innanzitutto, in “Arca” Ghersi per la prima volta canta nella sua lingua d’origine, lo spagnolo: ciò, apparentemente, al fine di svelarci di più sulla sua idea di amore e di sessualità. Entrambi questi temi sono sempre stati al centro della sua produzione e l’ambiguità mantenuta al riguardo era uno degli enigmi maggiori riguardo ad Arca, come uomo e come musicista.

Musicalmente parlando, “Arca” mantiene l’intelaiatura dei suoi precedenti lavori, rispettivamente “Xen” (2014) e “Mutant” (2015): vale a dire una musica ambient molto ricercata, a tratti criptica e in altri più sinuosa e accattivante. Rispetto ai due predecessori, tuttavia, questo album dà più attenzione alla parte melodica, quasi pop, dell’estetica di Arca: ne sono esempi i due magnifici brani iniziali, Piel e Anoche. La parte centrale contiene le tracce più sperimentali, come Reverie e Castration. Altro pezzo da ricordare è Coraje, dalla delicata melodia davvero delicata; meno riuscita è Whip, troppo chiassosa. La costruzione del CD si rivela comunque straordinaria: la parte conclusiva ritorna alle sonorità minimali e commoventi dell’inizio, sottolineate dal canto fragile di Ghersi: ne sono esempi perfetti Miel e Fugaces.

In generale, colpisce la continua evoluzione di questo talentuoso artista, capace di produrre canzoni per pezzi da 90 come Kanye, FKA Twigs e Bjork, e contemporaneamente mantenere una feconda attività di cantante solista, peraltro di buonissima qualità. Questo “Arca” è il culmine di tutto ciò, un lavoro insieme misterioso e pop, difficile e fragile: insomma, uno dei migliori CD di musica elettronica degli ultimi anni, non molto lontano da “In Colour” di Jamie xx e “Hopelessness” di Anohni.

Voto finale: 8,5.

Recap: marzo 2017

Marzo è stato un mese pieno di uscite musicali importanti, tanto che invece dei soliti tre CD ne presenteremo ben 6. In particolare, parleremo dei nuovi CD dei Depeche Mode, dei Real Estate, di Drake, dei Dirty Projectors, di Mount Eerie (nome d’arte di Phil Elverum) e di Laura Marling.

Mount Eerie, “A Crow Looked At Me”

mount eerie

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il nuovo CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte di Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la morte dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando anche una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato. In effetti, le similitudini con il bellissimo “Carrie & Lowell” (2015) di Sufjan Stevens sono molte, a partire dal tema principale e passando per le sonorità. Qualcosa di simile a questo “A Crow Looked At Me” lo avevano anche prodotto Nick Cave e i suoi fidati Bad Seeds l’anno passato, anche in quella circostanza influenzati da un tremendo lutto (la morte del figlioletto di Cave), nell’eccellente “Skeleton Tree”.

La domanda sorgerà spontanea: un CD tanto intriso di tragedia e dramma come giustifica un titolo così apparentemente bizzarro? Le 11 canzoni che compongono il disco hanno proprio lo scopo di spiegare questa immagine; anzi, possiamo dire che il compimento del lavoro, Crow, è il fine ultimo dell’intero LP.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a sottolineare il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

In conclusione, però, cosa ha quindi di particolare l’immagine del corvo che fissa il cantante? Mount Eerie si candida ad autore del miglior testo del 2017: una mattina, ci dice, sua figlia mormora qualcosa nel sonno dopo che i due erano andati in gita insieme nella foresta che hanno vicino casa. Sua figlia dice distintamente la parola “crow”, evocando la figura di un corvo; Elverum, proprio in quel momento, immagina che proprio nel corvo chiamato dalla figlia possa celarsi l’anima di sua moglie Geneviève. Improvvisamente, egli per un secondo vede proprio la sua figura, che però scompare subito dopo, lasciando il posto a un corvo che, questa volta nella vita vera, fissa il cantante e la figlioletta.

Un qualcosa di così delicato e straziante erano anni che non lo ascoltavamo. Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma secondo noi di A-Rock questo è il primo serio candidato alla palma di miglior album dell’anno. Anzi, il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello pessimista che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire in poco tempo, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

Voto finale: 9.

Drake, “More Life”

drake

Il nuovo LP della superstar canadese del rap Drake era attesissimo, sia dal pubblico che dalla critica. Il precedente CD, “Views” del 2016, aveva il record di essere il primo album a totalizzare un miliardo di streaming su Apple Music e aveva passato ben 13 settimane in testa alla Billboard 200. Insomma, un successo clamoroso, sottolineato dai famosissimi singoli One Dance e Hotline Bling. Tuttavia, i critici (noi di A-Rock compresi) erano stati molto scettici nell’accoglienza di “Views”, troppo lungo e sovraccarico di influenze per piacere.

La domanda che tutti si ponevano era: Drake tornerà alla bellezza di “Take Care” (2011) o dovremo sorbirci un altro mattone? Ebbene, malgrado l’eccessivo numero di brani (22!) e una lunghezza che supera gli 80 minuti (!), “More Life” è decisamente migliore del predecessore. Drake è riuscito a creare una sintesi efficace fra rap e pop, creando un prodotto magari sovraccarico, soprattutto verso la fine, ma molto affascinante e intrigante.

L’inizio, in particolare, è molto solido: molto riuscite Free Smoke e No Long Talk, pezzi rap quasi feroci per lo stile cui ci aveva abituato l’artista canadese. Invece Passionfruit è più gioiosa e pop, ma non per questo meno efficace. Altro brano “commerciale” è Madiba Riddim, che va a comporre una parentesi più leggera assieme a Get It Together. I veri capolavori, però, sono 4422 (con Sampha) e Gyalchester, pezzo trap molto tosto.

Anche la parte centrale di “More Life” contiene brani interessanti, a differenza di “Views”. Abbiamo infatti Can’t Have Everything e Glow, con quest’ultima che contiene un featuring con Kanye West.

Parlando di ospiti, la lista è davvero sterminata: oltre a Kanye e Sampha, abbiamo Young Thug, PartyNextDoor (presente nella non memorabile Since Way Back), 2 Chainz, Skepta e Travis Scott. Insomma, il gotha del mondo hip hop internazionale.

Unica pecca, dicevamo, è l’alto numero di canzoni: senza brani deboli come il già citato Since Way Back, Fake Love e Ice Melts parleremmo di un lavoro eccellente. Così, invece, è solo un buonissimo CD da parte di un rapper molto talentuoso, ma voglioso di strafare e collezionare record di streaming e incassi. Così facendo, purtroppo, la qualità complessiva ne risente; nondimeno, questo “More Life” è ai livelli di “Take Care”, cosa per niente scontata date le premesse.

Nel bene o nel male, parleremo di questo CD fino a fine anno: possiamo dire, però, che senza ombra di dubbio anche i critici saranno soddisfatti stavolta.

Voto finale: 8.

Laura Marling, “Semper Femina”

semper femina

La cantautrice inglese Laura Marling è ormai giunta al sesto lavoro di inediti: un traguardo rimarchevole, soprattutto se consideriamo il fatto che ha appena 27 anni. Questo “Semper Femina”, riecheggiando nel titolo il motto dei marines americani “semper fidelis”, denota il tema portante dell’album: essere donna oggi. I risultati sono davvero ottimi, con punte di delicatezza e raffinatezza stilistica notevoli.

Il mood generale del CD è malinconico: il genere folk con venature pop e soft rock, tipico anche di artisti come Sufjan Stevens e Joanna Newsom, aiuta molto a trasmettere questo sentimento. Le melodie sono in generale semplici, quasi spoglie, spesso ridotte alla voce della Marling, la chitarra e un sottofondo morbido di tastiere. Non sarà una grande novità nel mondo della musica, ma chi lo è di questi tempi?

Restano impresse soprattutto canzoni come Soothing e Nothing, Not Nearly, con quest’ultima che ricorda molto la Angel Olsen di “My Woman” (2016) . Del resto, nessuna delle 9 tracce dell’LP è fuori posto: colpisce positivamente, infatti, la coesione del CD. “Semper Femina”, in conclusione, si staglia come uno dei migliori lavori folk dell’anno. Laura Marling, se sboccerà completamente, potrà diventare la Joni Mitchell del XXI secolo.

Voto finale: 8.

Real Estate, “In Mind”

real estate

Il quarto CD della band statunitense dei Real Estate è il primo senza il membro fondatore Matthew Mondanile, chitarrista e autore (insieme al frontman Martin Courtney) della maggior parte dei brani del gruppo. Dopo un discreto esordio come l’omonimo “Real Estate” del 2009, il capolavoro “Days” del 2011 aveva fatto gridare al miracolo: un quintetto capace di ricreare le atmosfere di Beach Boys e Beatles, adattandole al XXI secolo, non si trova tutti i giorni. Prova ne siano brani perfetti nella loro semplicità come Municipality e It’s Real. Anche “Atlas” del 2014 aveva mantenuto le stesse atmosfere leggere e scanzonate, con picchi come Had To Hear e Talking Backwards.

Una pecca del gruppo era l’apparente incapacità di cambiare: dopo tre album molto simili tra loro come sonorità e temi trattati (soprattutto la vita di provincia e il trascorrere inesorabile del tempo), l’addio di Mondanile (determinato dal suo desiderio di concentrarsi sul progetto solista denominato Ducktails) avrebbe provocato ricadute drammatiche? La risposta è un sonoro no. Infatti, l’ingaggio di Julian Lynch ha solamente cambiato aspetti secondari nel sound dei Real Estate. Alcuni la vedranno come una cosa positiva, altri magari attendevano qualche cosa di più radicale; noi, guardando ai risultati di questo “In Mind”, siamo abbastanza soddisfatti.

Lynch, rispetto a Mondanile, punta più sulla potenza della chitarra elettrica e meno sugli arzigogoli raffinati tipici del sound Real Estate, di cui il suo predecessore era il principale esponente. Ciò è particolarmente evidente in Serve The Song, che ricorda i Wilco di “A Ghost Is Born”; e nella lunghissima Two Arrows. Ma i brani migliori del CD sono quelli più simili al vero sound del gruppo, ad esempio Darling e Stained Glass. Molto carina anche Holding Pattern; meno riuscite invece Time e Same Sun. La chiusura Saturday introduce addirittura un assolo di pianoforte iniziale, indice forse di una volontà di sperimentare qualche cosa di nuovo. Tutto però rimandato al prossimo LP: “In Mind” va infatti visto come un passaggio di transizione fra la prima e la seconda fase della vita dei Real Estate. La base di partenza è buona: vedremo come Lynch si integrerà e se Courtney vorrà dare maggiore libertà al suo genio creativo. Non ci resta che aspettare, con una certezza: un quinto album di musica estiva e solare inizierebbe a mostrare la corda e a risultare pesante, speriamo che anche i Real Estate se ne rendano conto.

Voto finale: 7,5.

Dirty Projectors, “Dirty Projectors”

dirty projectors

David Longstreth, il musicista dietro al progetto dei Dirty Projectors, è rimasto solo: la compagna Amber Coffman lo ha lasciato, sia nella relazione amorosa che nella band. La chimica fra i due era stata, fino a questo settimo album di inediti dei Dirty Projectors, la forza del gruppo: un insieme di rock, pop e raffinatezze elettroniche avevano generato alcuni fra i CD più interessanti degli ultimi anni, come “Bitte Orca” (2009) e “Swing Lo Magellan” (2012). Questo break-up album non raggiunge le vette espressive di questi due lavori, risultando a tratti sovraccarico di idee e spunti, lasciati però incompiuti (trascurabile Work Together, per esempio). Tuttavia, nei momenti migliori l’antica magia ritorna: ne sono esempi Little Bubble e Cool Your Heart.

Cambia la ricetta (nuovi membri della band, netto spostamento verso territori elettronici e sperimentali), ma non il risultato: un album dei Dirty Projectors merita comunque un ascolto. Attendiamo fiduciosi l’assestamento di Longstreth, che ancora oggi canta “I don’t know why you abandoned me. You were my soul and my partner”, dichiarando espressamente la sua disperazione per l’addio, sentimentale e artistico, della Coffman in Keep Your Name, la traccia introduttiva del disco.

Non un capolavoro, quindi, ma certo un LP intrigante e complesso come mai nella produzione dei Dirty Projectors. Da migliorare, ma la base di partenza è ottima.

Voto finale: 7,5.

Depeche Mode, “Spirit”

depeche mode

I Depeche Mode, al 14° album di studio, dopo un CD per niente riuscito come “Delta Machine” (2013), erano a un bivio: prevedere un’altra caduta di una carriera complessivamente più che positiva sarebbe stato possibile. Tuttavia, questo “Spirit” riesce, grazie anche al mestiere e all’esperienza della band inglese, a ritornare ai livelli di “Sounds Of The Universe” del 2009, ultimo LP discreto del gruppo britannico.

In “Spirit”, i Depeche Mode, per la prima volta in carriera, affrontano temi dichiaratamente politici: ciò è evidente in brani come Where’s The Revolution, primo singolo estratto dal CD, non a caso; e in Going Backwards. I due brani sono anche fra i migliori presenti nel disco: Gahan canta “where’s the revolution? People, you’re letting me down”, deluso dalla mancanza di reazione popolare ai grandi sconvolgimenti accaduti nel 2016 (soprattutto Brexit e Trump). Si potrà essere d’accordo o meno sui contenuti, ma usare il synth rock per parlare di temi politici non è banale.

Altri brani riusciti sono The Worst Crime, anch’esso politicizzato, e You Move; meno belle Cover Me ed Eternal, per lo più consecutive nella tracklist, che frenano troppo il ritmo di “Spirit”; ma sono pecche non gravi in un prodotto complessivamente godibile. Non saremo ai tempi di “Playing The Angel” e tantomeno di “Violator”, ma la stoffa c’è ancora, così come il desiderio di essere ancora rilevanti. Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, un appello: non fermatevi, il mondo della musica ha ancora bisogno di voi!

Voto finale: 7.

Rising: Jay Som & Vagabon

Anche il mese di marzo ha regalato una manciata di ottimi CD. In attesa del recap, analizziamo due giovani artiste emergenti del mondo indie rock: Jay Som e Vagabon. Entrambe sono a pieno diritto candidate ad entrare nella top 50 dei migliori CD del 2017. Ma andiamo con ordine.

Jay Som, “Everybody Works”

everybody works

Questo “Everybody Works” è già il secondo album della giovane artista Melina Duterte, in arte Jay Som. Il primo, “Turn Into” (2016), era passato nel sostanziale anonimato malgrado le qualità che lasciava intuire. Era già formata infatti l’estetica della Duterte: un indie rock scanzonato e influenzato dal dream pop à la Arctic Monkeys di “Suck It And See”.

“Everybody Works” consolida questo sound, migliorando la produzione e la cura dei dettagli, facendo del CD un lavoro imperdibile per gli amanti dell’indie anni ’00. Già da qui capiamo che la giovane compositrice non propone nulla di clamorosamente innovativo, ma la raffinatezza con cui si ispira ad artisti molto più celebri (Arctic Monkeys, Beach House) senza cadere nel plagio è ammirevole.

Degne di nota sono The Bus Song, Baybee e 1 Billion Dogs, dove addirittura si flirta con lo shoegaze; ma nessuna delle 10 tracce del disco è fuori posto. Insomma, un LP di ottima fattura e di grande fascino: quando il talento di Melina Duterte sboccerà definitivamente, ne sentiremo delle belle.

Voto finale: 8.

Vagabon, “Infinite Worlds”

vagabon infinite worlds

Vagabon è il nome d’arte della newyorkese di origine camerunense Lætitia Tamko. Il suo esordio, “Infinite Worlds”, può a pieno diritto essere annoverato fra i migliori album rock dell’anno, almeno fino a questo momento. La Tamko riesce infatti a fondere perfettamente un indie rock di chiara ascendenza strokesiana con un dream pop molto ammaliante, di cui è simbolo la strumentale Mal A’ L’Aise. Le sole 8 tracce del disco limitano il voto, poiché sarebbe piaciuto vedere pienamente in gioco il potenziale della giovane artista. Tuttavia, per quello che abbiamo sentito, possiamo dire che Vagabon ha talento da vendere. Riuscire a creare un disco coerente mescolando Strokes, Cocteau Twins e Bloc Party non era facile.

Tra le tracce migliori di questo “Infinite Worlds” abbiamo le iniziali The Embers e Fear & Force; la già ricordata Mal A’ L’Aise e Cold Apartment, tuttavia, non sono da meno. Insomma, un esordio coi fiocchi da parte di un’artista davvero promettente.

Jay Som e Vagabon, dunque, hanno rivitalizzato generi come indie rock e dream pop che sembravano su un binario morto. Assieme ai Car Seat Headrest, il cui secondo CD “Teens Of Denial” del 2016 ha fatto gridare al miracolo, sono fra le migliori speranze del rock contemporaneo.

Voto finale: 8.