Marzo è stato un mese pieno di uscite musicali importanti, tanto che invece dei soliti tre CD ne presenteremo ben 6. In particolare, parleremo dei nuovi CD dei Depeche Mode, dei Real Estate, di Drake, dei Dirty Projectors, di Mount Eerie (nome d’arte di Phil Elverum) e di Laura Marling.
Mount Eerie, “A Crow Looked At Me”
“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il nuovo CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte di Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la morte dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando anche una bambina di un anno e mezzo.
Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato. In effetti, le similitudini con il bellissimo “Carrie & Lowell” (2015) di Sufjan Stevens sono molte, a partire dal tema principale e passando per le sonorità. Qualcosa di simile a questo “A Crow Looked At Me” lo avevano anche prodotto Nick Cave e i suoi fidati Bad Seeds l’anno passato, anche in quella circostanza influenzati da un tremendo lutto (la morte del figlioletto di Cave), nell’eccellente “Skeleton Tree”.
La domanda sorgerà spontanea: un CD tanto intriso di tragedia e dramma come giustifica un titolo così apparentemente bizzarro? Le 11 canzoni che compongono il disco hanno proprio lo scopo di spiegare questa immagine; anzi, possiamo dire che il compimento del lavoro, Crow, è il fine ultimo dell’intero LP.
Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a sottolineare il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”
In conclusione, però, cosa ha quindi di particolare l’immagine del corvo che fissa il cantante? Mount Eerie si candida ad autore del miglior testo del 2017: una mattina, ci dice, sua figlia mormora qualcosa nel sonno dopo che i due erano andati in gita insieme nella foresta che hanno vicino casa. Sua figlia dice distintamente la parola “crow”, evocando la figura di un corvo; Elverum, proprio in quel momento, immagina che proprio nel corvo chiamato dalla figlia possa celarsi l’anima di sua moglie Geneviève. Improvvisamente, egli per un secondo vede proprio la sua figura, che però scompare subito dopo, lasciando il posto a un corvo che, questa volta nella vita vera, fissa il cantante e la figlioletta.
Un qualcosa di così delicato e straziante erano anni che non lo ascoltavamo. Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma secondo noi di A-Rock questo è il primo serio candidato alla palma di miglior album dell’anno. Anzi, il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello pessimista che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire in poco tempo, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.
Voto finale: 9.
Drake, “More Life”
Il nuovo LP della superstar canadese del rap Drake era attesissimo, sia dal pubblico che dalla critica. Il precedente CD, “Views” del 2016, aveva il record di essere il primo album a totalizzare un miliardo di streaming su Apple Music e aveva passato ben 13 settimane in testa alla Billboard 200. Insomma, un successo clamoroso, sottolineato dai famosissimi singoli One Dance e Hotline Bling. Tuttavia, i critici (noi di A-Rock compresi) erano stati molto scettici nell’accoglienza di “Views”, troppo lungo e sovraccarico di influenze per piacere.
La domanda che tutti si ponevano era: Drake tornerà alla bellezza di “Take Care” (2011) o dovremo sorbirci un altro mattone? Ebbene, malgrado l’eccessivo numero di brani (22!) e una lunghezza che supera gli 80 minuti (!), “More Life” è decisamente migliore del predecessore. Drake è riuscito a creare una sintesi efficace fra rap e pop, creando un prodotto magari sovraccarico, soprattutto verso la fine, ma molto affascinante e intrigante.
L’inizio, in particolare, è molto solido: molto riuscite Free Smoke e No Long Talk, pezzi rap quasi feroci per lo stile cui ci aveva abituato l’artista canadese. Invece Passionfruit è più gioiosa e pop, ma non per questo meno efficace. Altro brano “commerciale” è Madiba Riddim, che va a comporre una parentesi più leggera assieme a Get It Together. I veri capolavori, però, sono 4422 (con Sampha) e Gyalchester, pezzo trap molto tosto.
Anche la parte centrale di “More Life” contiene brani interessanti, a differenza di “Views”. Abbiamo infatti Can’t Have Everything e Glow, con quest’ultima che contiene un featuring con Kanye West.
Parlando di ospiti, la lista è davvero sterminata: oltre a Kanye e Sampha, abbiamo Young Thug, PartyNextDoor (presente nella non memorabile Since Way Back), 2 Chainz, Skepta e Travis Scott. Insomma, il gotha del mondo hip hop internazionale.
Unica pecca, dicevamo, è l’alto numero di canzoni: senza brani deboli come il già citato Since Way Back, Fake Love e Ice Melts parleremmo di un lavoro eccellente. Così, invece, è solo un buonissimo CD da parte di un rapper molto talentuoso, ma voglioso di strafare e collezionare record di streaming e incassi. Così facendo, purtroppo, la qualità complessiva ne risente; nondimeno, questo “More Life” è ai livelli di “Take Care”, cosa per niente scontata date le premesse.
Nel bene o nel male, parleremo di questo CD fino a fine anno: possiamo dire, però, che senza ombra di dubbio anche i critici saranno soddisfatti stavolta.
Voto finale: 8.
Laura Marling, “Semper Femina”
La cantautrice inglese Laura Marling è ormai giunta al sesto lavoro di inediti: un traguardo rimarchevole, soprattutto se consideriamo il fatto che ha appena 27 anni. Questo “Semper Femina”, riecheggiando nel titolo il motto dei marines americani “semper fidelis”, denota il tema portante dell’album: essere donna oggi. I risultati sono davvero ottimi, con punte di delicatezza e raffinatezza stilistica notevoli.
Il mood generale del CD è malinconico: il genere folk con venature pop e soft rock, tipico anche di artisti come Sufjan Stevens e Joanna Newsom, aiuta molto a trasmettere questo sentimento. Le melodie sono in generale semplici, quasi spoglie, spesso ridotte alla voce della Marling, la chitarra e un sottofondo morbido di tastiere. Non sarà una grande novità nel mondo della musica, ma chi lo è di questi tempi?
Restano impresse soprattutto canzoni come Soothing e Nothing, Not Nearly, con quest’ultima che ricorda molto la Angel Olsen di “My Woman” (2016) . Del resto, nessuna delle 9 tracce dell’LP è fuori posto: colpisce positivamente, infatti, la coesione del CD. “Semper Femina”, in conclusione, si staglia come uno dei migliori lavori folk dell’anno. Laura Marling, se sboccerà completamente, potrà diventare la Joni Mitchell del XXI secolo.
Voto finale: 8.
Real Estate, “In Mind”
Il quarto CD della band statunitense dei Real Estate è il primo senza il membro fondatore Matthew Mondanile, chitarrista e autore (insieme al frontman Martin Courtney) della maggior parte dei brani del gruppo. Dopo un discreto esordio come l’omonimo “Real Estate” del 2009, il capolavoro “Days” del 2011 aveva fatto gridare al miracolo: un quintetto capace di ricreare le atmosfere di Beach Boys e Beatles, adattandole al XXI secolo, non si trova tutti i giorni. Prova ne siano brani perfetti nella loro semplicità come Municipality e It’s Real. Anche “Atlas” del 2014 aveva mantenuto le stesse atmosfere leggere e scanzonate, con picchi come Had To Hear e Talking Backwards.
Una pecca del gruppo era l’apparente incapacità di cambiare: dopo tre album molto simili tra loro come sonorità e temi trattati (soprattutto la vita di provincia e il trascorrere inesorabile del tempo), l’addio di Mondanile (determinato dal suo desiderio di concentrarsi sul progetto solista denominato Ducktails) avrebbe provocato ricadute drammatiche? La risposta è un sonoro no. Infatti, l’ingaggio di Julian Lynch ha solamente cambiato aspetti secondari nel sound dei Real Estate. Alcuni la vedranno come una cosa positiva, altri magari attendevano qualche cosa di più radicale; noi, guardando ai risultati di questo “In Mind”, siamo abbastanza soddisfatti.
Lynch, rispetto a Mondanile, punta più sulla potenza della chitarra elettrica e meno sugli arzigogoli raffinati tipici del sound Real Estate, di cui il suo predecessore era il principale esponente. Ciò è particolarmente evidente in Serve The Song, che ricorda i Wilco di “A Ghost Is Born”; e nella lunghissima Two Arrows. Ma i brani migliori del CD sono quelli più simili al vero sound del gruppo, ad esempio Darling e Stained Glass. Molto carina anche Holding Pattern; meno riuscite invece Time e Same Sun. La chiusura Saturday introduce addirittura un assolo di pianoforte iniziale, indice forse di una volontà di sperimentare qualche cosa di nuovo. Tutto però rimandato al prossimo LP: “In Mind” va infatti visto come un passaggio di transizione fra la prima e la seconda fase della vita dei Real Estate. La base di partenza è buona: vedremo come Lynch si integrerà e se Courtney vorrà dare maggiore libertà al suo genio creativo. Non ci resta che aspettare, con una certezza: un quinto album di musica estiva e solare inizierebbe a mostrare la corda e a risultare pesante, speriamo che anche i Real Estate se ne rendano conto.
Voto finale: 7,5.
Dirty Projectors, “Dirty Projectors”
David Longstreth, il musicista dietro al progetto dei Dirty Projectors, è rimasto solo: la compagna Amber Coffman lo ha lasciato, sia nella relazione amorosa che nella band. La chimica fra i due era stata, fino a questo settimo album di inediti dei Dirty Projectors, la forza del gruppo: un insieme di rock, pop e raffinatezze elettroniche avevano generato alcuni fra i CD più interessanti degli ultimi anni, come “Bitte Orca” (2009) e “Swing Lo Magellan” (2012). Questo break-up album non raggiunge le vette espressive di questi due lavori, risultando a tratti sovraccarico di idee e spunti, lasciati però incompiuti (trascurabile Work Together, per esempio). Tuttavia, nei momenti migliori l’antica magia ritorna: ne sono esempi Little Bubble e Cool Your Heart.
Cambia la ricetta (nuovi membri della band, netto spostamento verso territori elettronici e sperimentali), ma non il risultato: un album dei Dirty Projectors merita comunque un ascolto. Attendiamo fiduciosi l’assestamento di Longstreth, che ancora oggi canta “I don’t know why you abandoned me. You were my soul and my partner”, dichiarando espressamente la sua disperazione per l’addio, sentimentale e artistico, della Coffman in Keep Your Name, la traccia introduttiva del disco.
Non un capolavoro, quindi, ma certo un LP intrigante e complesso come mai nella produzione dei Dirty Projectors. Da migliorare, ma la base di partenza è ottima.
Voto finale: 7,5.
Depeche Mode, “Spirit”
I Depeche Mode, al 14° album di studio, dopo un CD per niente riuscito come “Delta Machine” (2013), erano a un bivio: prevedere un’altra caduta di una carriera complessivamente più che positiva sarebbe stato possibile. Tuttavia, questo “Spirit” riesce, grazie anche al mestiere e all’esperienza della band inglese, a ritornare ai livelli di “Sounds Of The Universe” del 2009, ultimo LP discreto del gruppo britannico.
In “Spirit”, i Depeche Mode, per la prima volta in carriera, affrontano temi dichiaratamente politici: ciò è evidente in brani come Where’s The Revolution, primo singolo estratto dal CD, non a caso; e in Going Backwards. I due brani sono anche fra i migliori presenti nel disco: Gahan canta “where’s the revolution? People, you’re letting me down”, deluso dalla mancanza di reazione popolare ai grandi sconvolgimenti accaduti nel 2016 (soprattutto Brexit e Trump). Si potrà essere d’accordo o meno sui contenuti, ma usare il synth rock per parlare di temi politici non è banale.
Altri brani riusciti sono The Worst Crime, anch’esso politicizzato, e You Move; meno belle Cover Me ed Eternal, per lo più consecutive nella tracklist, che frenano troppo il ritmo di “Spirit”; ma sono pecche non gravi in un prodotto complessivamente godibile. Non saremo ai tempi di “Playing The Angel” e tantomeno di “Violator”, ma la stoffa c’è ancora, così come il desiderio di essere ancora rilevanti. Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, un appello: non fermatevi, il mondo della musica ha ancora bisogno di voi!
Voto finale: 7.