Recap: agosto 2017

Dopo mesi frenetici e ricchi di CD interessanti, agosto si è confermato più tranquillo, come già nel 2016 (se eccettuiamo il ritorno di Frank Ocean l’anno passato, proprio di questi tempi). Malgrado ciò, abbiamo comunque da recensire almeno tre lavori molto attesi e che confermano il talento degli artisti che li hanno prodotti: stiamo parlando dei ritorni dei Grizzly Bear, delle Queens Of The Stone Age e di Kesha. Buona lettura!

Queens Of The Stone Age, “Villains”

qotsa

Il settimo album della gloriosa band simbolo dell’hard rock anni ’00 era atteso con trepidazione da fans e critica: Josh Homme e compagni avrebbero cambiato ancora una volta la loro ricetta sonora, dopo la rivoluzione pop di “…Like Clockwork” (2013)? I QOTSA sono stati, ancora una volta, molto furbi ed abili: non hanno stravolto la base ritmica trovata quattro anni fa; tuttavia, con poche ma azzeccate innovazioni hanno mantenuto fresco il loro sound, del resto sempre al passo con i tempi.

Partiamo, quindi: “Villains” arriva quattro anni dopo “…Like Clockwork”, album fondamentale nella discografia dei Queens Of The Stone Age; non il loro migliore (inarrivabili in tal senso “Rated R” e “Songs For The Deaf”), tuttavia aveva lasciato intravedere il lato più melodico della band, con canzoni quasi pop come la title track e Kalopsia. La presenza di ospiti di spessore, da Alex Turner a Mark Lanegan, aveva poi arricchito la formula vincente del disco. Pertanto, il metal delle origini è ormai abbandonato: come sarebbe suonato il settimo album di un gruppo così rinnovato musicalmente?

In “Villains” possiamo parlare di funk-rock: le prime due, bellissime tracce del CD, Feet Don’t Fail Me e il singolo The Way We Used To Do, sono la grande intro al disco. Le sole 9 canzoni farebbero pensare ad un lavoro pigro del gruppo; in realtà, molte superano i 5 minuti di durata e le strutture delle melodie sono spesso complesse e intricate. La durata complessiva, non a caso, raggiunge i 48 minuti.

Gli highlights sono almeno quattro: oltre alle già citate Feet Don’t Fail Me e The Way We Used To Do, abbiamo il secondo singolo The Evil Has Landed e la più melodica Fortress. Meno bella la frenetica Head Like A Haunted House, che è anche la più breve traccia del CD. Non trascurabile, infine, la conclusiva Villains Of Circumstance. I testi fanno spesso riferimento al diavolo e alla sua presenza nel mondo: Homme e co. si rendono conto che viviamo in tempi difficili e, sebbene non stiamo parlando di Bob Dylan o Leonard Cohen, i testi riflettono ciò con ironia e arguzia.

In conclusione, i QOTSA si confermano band fondamentale dello scenario rock mondiale: nonostante la mancanza di collaborazioni eccellenti che avevano contraddistinto i precedenti LP del complesso statunitense, i risultati sono comunque molto buoni. Lavorare con Iggy Pop ha ampliato ancora di più gli orizzonti musicali di Josh Homme, che si conferma grande artista rock. Le “regine dell’età della pietra” sono entrate definitivamente nell’età moderna, con un hard rock funkeggiante e molto ballabile.

Voto finale: 8.

Grizzly Bear, “Painted Ruins”

grizzly bear

I Grizzly Bear venivano da due album di grande successo, sia con la critica che con il pubblico: “Veckatimest” (2009) e “Shields” (2012) avevano delineato un genere a metà fra rock e folk, con accenni di sperimentalismo e, contemporaneamente, al pop (ricordate Two Weeks?). Insomma, le aspettative per “Painted Ruins” erano molto elevate: ripetersi avrebbe rischiato di non replicare la cristallina bellezza dei due lavori che hanno dato il successo alla band, ma anche cambiare avrebbe comportato rischi notevoli.

I Grizzly Bear hanno optato per una soluzione di compromesso: nella lunga assenza dalle scene (ben cinque anni), hanno affinato il loro caratteristico genere e, allo stesso tempo, inserito delle interessanti sonorità elettroniche, che rendono il nuovo LP molto intrigante. Possiamo anzi dire che “Painted Ruins” è il CD più elettronico a firma Grizzly Bear; prova ne siano i due singoli Mourning Sound e Three Rings, tra i migliori brani del disco.

Tuttavia, la seconda parte del lavoro riporta alla mente i passati sforzi creativi del gruppo: per esempio, il rock di Cut-Out ricorda soprattutto “Veckatimest” e “Yellow House”, mentre l’intricata Glass Hillside (non bellissima) è più assimilabile alle atmosfere di “Shields”. Menzione finale per l’ottima chiusura del CD: come sempre, i Grizzly Bear mantengono il meglio alla fine. Sky Took Hold, in effetti, è a pieno diritto tra i migliori pezzi di “Painted Ruins”: una canzone epica al punto giusto, gran finale di un LP gradevole anche se non perfetto.

Purtroppo, infatti, Ed Droste e Daniel Rossen (menti e voci della band), forse anche a causa dello scarso dialogo intercorso nelle sessions di registrazione di “Painted Ruins”, dove si inviavano le loro bozze tramite mail, non raggiungono i miracolosi risultati di “Shields”: a parte la già menzionata Glass Hillside, non convince pienamente neppure Systole, ma sono peccati veniali.

Non bisogna credere, infatti, che il CD sia un fiasco; anzi, “Painted Ruins” entra di diritto fra i migliori CD dell’anno, magari non nei primi 10, ma certamente nei primi 50. Non siamo ai livelli di “Shields”, vero capolavoro del gruppo, ma certamente “Yellow House” è alla portata di “Painted Ruins”. Tutto dipende da cosa ci aspettavamo dai Grizzly Bear: non sono mai stati fermi nelle loro posizioni, quindi aspettarsi una copia dei passati dischi sarebbe stato un’illusione. Un po’ di elettronica non ha fatto altro che bene alla band: vedremo dove li porterà questo nuovo percorso, ma abbiamo piena fiducia nelle capacità dei Grizzly Bear di reinventarsi costantemente senza perdere lo smalto e il gusto per la sperimentazione che li hanno sempre contraddistinti.

Voto finale: 8.

Kesha, “Rainbow”

kesha

Kesha Sebert è tornata a comporre musica, dopo cinque anni di assenza dalle scene. Sembrerebbe la più classica delle pause di riflessione da parte di un’artista in cerca di una svolta nella sua carriera: dopotutto, non è quello che hanno fatto anche i Grizzly Bear? Tuttavia, la storia di Kesha, un tempo stellina pop e adesso artista a tutto tondo, è tragica.

La cantante, infatti, nel 2016 ha sporto denuncia contro il suo mentore, quel Dr. Luke che ha aiutato a delineare la scena pop di inizio millennio, plasmando i due grandi successi di Kesha: Tik Tok e Die Young. Le accuse sono molto pesanti: violenza psicologica e abusi sessuali ripetuti sulla povera Kesha. È chiaro che tutti si aspettavano che Kesha, nel suo nuovo CD, avrebbe affrontato a piene mani queste delicate questioni, magari con un deciso cambio di stile. Ebbene, il ragionamento è giusto solo a metà.

In particolare, possiamo dire che mai prima d’ora Kesha era suonata così rock; la collaborazione con le Eagles Of Death Metal (sì, proprio quelli del Bataclan) certamente aiuta, così come avere una madre celebre (la cantante country Pebe Sebert). Ne sono prova le due tracce iniziali, la bella Bastards e Let ‘Em Talk (titoli eloquenti, vero?), la prima più country, la seconda a metà fra Paramore e Pink. Liricamente, come già i titoli accennano, si trattano temi come l’effetto del successo, la violenza maschile e l’autenticità artistica: cose molto vicine alla vera vita di Kesha, tanto che “Rainbow” può essere quasi visto come un concept album circa gli ultimi due anni della vita dell’artista.

Fa piacere però sentire che Kesha ride spesso durante i 48 minuti del disco, spesso a metà della canzone (come nella riuscita Woman); forse il peggio è alle spalle per la bionda cantante. Le tracce migliori del disco, oltre Woman, sono Bastards e la trascinante Hymn. Curiose le influenze presenti: da Lorde a Adele, passando per Neil Young (!), Kesha crea un caleidoscopio sonoro molto vario, forse troppo.

Un altro problema è che la disposizione dei brani rende il CD piuttosto sbilanciato: quasi tutte le più belle sono nella prima parte. In particolare, la parte centrale è deludente e fa temere il peggio; nel finale però Kesha torna a graffiare, con la non trascurabile Spaceship a costituire un ideale rimando all’intro di Bastards, visto che sono i due pezzi più country dell’album.

In generale, possiamo dire che questo LP avrebbe avuto un gradimento ancora maggiore se fosse stato costituito da meno canzoni e meglio amalgamate fra loro: con 12 tracce e 40 minuti di durata avremmo avuto un mezzo capolavoro. Ciononostante, va premiata la voglia di Kesha di staccarsi da un passato ingombrante e dal pop che l’aveva resa famosa: sono proprio le tracce più simili alla Kesha di “Animal” (2010) a deludere di più, per esempio Learn To Let Go e Boots. Sarà un caso?

“Rainbow” rappresenta dunque un’interessante passo avanti nella discografia di Kesha, che ci spinge a chiederci: avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure l’esplorazione di rock e country porterà frutti ancora migliori?

Voto finale: 7,5.

 

Recap: luglio 2017

Estate, tempo di mare e tormentoni. Tuttavia, anche la musica meno commerciale non si ferma e noi di A-Rock, come sempre nei nostri Recap, offriamo una sintesi delle nuove uscite. Luglio, oltre al nuovo CD degli Arcade Fire, già recensito, ha visto il ritorno di Lana Del Rey, dei Waxahatchee, di Jay-Z, del vulcanico Tyler, The Creator, di Calvin Harris, dei Beach House e dei Broken Social Scene.

Waxahatchee, “Out In The Storm”

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Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield e dalla sorella gemella Allison, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsene una prima idea: l’indie rock viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile.

Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

Liricamente, il CD è un tipico breakup album, di quelli che gli artisti compongono sempre più di recente: basti pensare a Ryan Adams e Dirty Projectors, solo per restare nel 2017. Karen Crutchfield canta difatti “everyone will hear me complain… everyone will pity my pain”; il verso forse più drammatico è però “I will unravel when no one sees what I see”. Insomma, sorprende l’abilità della Crutchfield di fondere inni spesso trascinanti con tematiche così delicate e tristi per lei.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, con interpreti come Strokes, Franz Ferdinand e Bloc Party (tutti i componenti di questi gruppi erano uomini, solo recentemente i BP hanno ingaggiato una batterista donna), ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo, ma che negli ultimi due-tre anni sembra essersi rivitalizzato. E Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

Voto finale: 8,5.

Lana Del Rey, “Lust For Life”

lust for life

Il quinto album della popstar Lana Del Rey, “Lust For Life”, si apre subito con una novità: nella cover Lana sorride, lei che fino a qualche tempo fa era presa in giro per i suoi testi tragici e la tristezza che le sue canzoni emanavano. Tuttavia, non si pensi che “Lust For Life” sia un CD allegro: cadremmo in un errore madornale. Lana mantiene il caratteristico spleen, cercando però di ampliare la propria palette sonora e ingaggiando ospiti di tutto rispetto.

Tra i singoli utilizzati per promuovere il disco, infatti, troviamo delle collaborazioni con The Weeknd (la bella title track) e con A$AP Rocky (le meno riuscite Summer Bummer e Groupie Love). Oltre a questi due artisti abbiamo dei featuring anche con il figlio di John Lennon, Sean, Playboi Carti e Stevie Nicks. È da sottolineare come, a parte la title track, queste tracce siano tra le più deboli dell’album: sia le due con A$AP Rocky che Tomorrow Never Came con Sean Lennon Ono (chiaro riferimento alla celeberrima Tomorrow Never Knows dei Beatles) che Beautiful People Beautiful Problems con Stevie Nicks non convincono proprio. Meglio la Lana solista, quindi.

Ne abbiamo la dimostrazione nelle belle Love, Cherry e Get Free, che chiude il disco quasi con accenni di dream pop. Una caratteristica di “Lust For Life”, infatti, è che Lana amplia notevolmente il numero di generi affrontati: dal pop dolente all’R&B, fino al country e appunto al dream pop. Tutto questo fa molto ben sperare per il futuro della carriera della signorina Elizabeth Woolridge Grant, vero nome di Lana: se saprà fondere adeguatamente tutti questi ingredienti, il prossimo lavoro potrebbe davvero ridefinire la musica pop, un po’ quello che Lorde ha fatto quest’anno con l’eccellente “Melodrama”.

Menzione finale per la bella voce di Lana, asset fondamentale della popstar, sfruttata a dovere lungo tutto il CD e specialmente in Heroin e God Bless America – And All The Beautiful Women In It, non a caso fra le migliori canzoni di “Lust For Life”. È una voce che sa trasmettere sofferenza e sogno, che si sposa benissimo con il pop raffinato e melanconico di Lana. La collaborazione con Abel Tesfaye aka The Weeknd è un’altra prova di tutto ciò.

In conclusione, “Lust For Life” è il più bel CD nella carriera di Lana Del Rey: un’artista costantemente cresciuta, sia artisticamente che come seguito popolare. Peccato che “Lust For Life” sia composto da 16 canzoni per 72 minuti di durata: con due-tre canzoni e dieci minuti di riempitivo in meno avremmo avuto un mezzo capolavoro. Così il disco è “solamente” buono, ma il talento di Lana ci fa ben sperare per il prossimo futuro.

Voto finale: 8.

Broken Social Scene, “Hug Of Thunder”

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Dopo 7 anni, il ritorno dei canadesi Broken Social Scene rappresenta un ottimo momento per tornare ad ascoltare musica inedita da parte di uno dei gruppi indie rock più amati degli ultimi 15 anni. Il quinto album del collettivo canadese è un distillato di tutte le loro migliori qualità: forte base ritmica, voci soffuse, atmosfere quasi shoegaze.

Il ritorno di Leslie Feist segna il ritorno di uno dei membri di maggior successo al di fuori del gruppo e, contemporaneamente, un’iniezione di adrenalina pura nel sound della band: prova ne sia Halfway Home, il primo singolo utilizzato per promuovere il CD. Tutto gira bene, specialmente nella prima parte dell’album, con brani potenti e riusciti come la già citata Halfway Home, la vibrante Protest Song e la magnifica Vanity Pail Kids.

La seconda parte del disco è più raccolta ed intimista, facendoci scoprire il lato più pop dei Broken Social Scene: i migliori pezzi sono Towers And Masons e Please Take Me With You. Un po’ monotona invece Gonna Get Better. Questo passo falso viene però subito compensato dall’epica canzone finale, Mouth Guards Of The Apocalypse, che chiude degnamente un ottimo CD.

In conclusione, la band canadese non introduce radicali cambiamenti nel sound che ne ha fatto la fortuna in passato, come era facile aspettarsi. Tuttavia, “Hug Of Thunder” segna il ritorno di un altro amatissimo gruppo della scena indie rock, in un anno trionfale per gli amanti del genere: Spoon, Phoenix, Arcade Fire e Broken Social Scene sono tornati con lavori molto interessanti e degni delle pesanti eredità che i rispettivi gruppi possiedono. Tutto aspettando LCD Soundsystem e, forse, Arctic Monkeys… Bentornati, Broken Social Scene.

Voto finale: 8.

Jay-Z, “4:44”

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“4:44” non è il miglior CD di Shawn Carter, meglio noto come Jay-Z, marito di Beyoncé, produttore apprezzato e quasi miliardario. Il momento più brillante nella carriera di Jay-Z è coinciso infatti con “Reasonable Doubt” e il classico “The Blueprint”. Tuttavia, per la prima volta i testi di Jay-Z sono profondamente personali, concentrati su temi come il tradimento, la famiglia, il lascito artistico… Insomma, possiamo considerarlo la risposta a quel “Lemonade” della moglie Beyoncé, in cui lei denunciava i tradimenti del marito? Non del tutto.

Se infatti è vero che Jay-Z parla apertamente di tutto ciò nella title track e in Family Feud, è anche vero che i temi affrontati sono vari, come già accennato in precedenza. Musicalmente, il CD riporta alla mente il rap abbastanza classico dei primi dischi di mister Carter: molto bella Smile (con un intervento della madre Gloria Carter in cui lei confessa la propria omosessualità) e interessanti le due tracce iniziali, Kill Jay-Z e The Story Of O.J.; i temi trattati sono facilmente intuibili dai titoli. Peccato che il CD perda mordente nella parte finale, dove i pezzi si fanno più noiosi: ne sono esempio 4:44 e Family Feud.

In generale, tuttavia, “4:44” è un convincente ritorno alla musica cantata per Jay-Z: considerato che i suoi ultimi lavori solisti avevano deluso critica e pubblico, questo è già un ottimo risultato. “4:44” è il CD perfetto per gli amanti dell’hip hop classico, 10 tracce dirette e complessivamente gradevoli.

Voto finale: 7,5.

Tyler, The Creator, “Flower Boy”

flower boy

A 26 anni, con già tre album ed un mixtape alle spalle, facendo parte del collettivo rap Odd Future (i cui passati membri includono Frank Ocean ed Earl Sweatshirt, fra gli altri), la carriera musicale di Tyler, The Creator è già ben avviata. Tuttavia, Tyler è famoso non solo per i suoi CD: molte controversie sono nate dai suoi commenti su donne ed omosessuali, che in passato denotavano misoginia e omofobia evidenti. Non una persona amabile, dunque: addirittura, l’Australia lo ha bandito per sempre proprio a causa di queste frasi!

Musicalmente parlando, Tyler ha sempre denotato una creatività vulcanica, con album lunghi e complessi, spesso anche troppo (basti pensare al mediocre “Cherry Bomb” del 2015). I testi erano, come già detto, pieni di riferimenti non carini a gay e donne, ma anche alle sue insicurezze e ansie giovanili. Questo “Flower Boy”, quarto LP della sua produzione, mantiene la bussola sul rap sperimentale e ardito tipico di Tyler, The Creator; tuttavia, liricamente contiene novità importanti, quasi a scusarsi dei suoi passati comportamenti.

Gli ospiti presenti nel disco contribuiscono a renderlo davvero interessante: Frank Ocean, Pharrell Williams, Corinne Bailey Rae, Lil Wayne, A$AP Rocky e Jaden Smith (figlio di Will) non sono nomi banali per la scena black contemporanea. In particolare, si rimane piacevolmente colpiti da pezzi come Where This Flower Blooms, con la preziosa collaborazione di Frank Ocean; le dolci See You Again e Garden Shed; e 911/Mr Lonely, ancora con Frank Ocean. Meno convincenti Who Dat Boy e Pothole, ma il risultato complessivo non ne viene troppo danneggiato.

In conclusione, questo è senza dubbio il miglior album pubblicato a nome Tyler, The Creator: vedremo se sarà un punto di arrivo oppure una nuova partenza per una seconda parte di carriera apprezzata sia dalla critica che dal pubblico e, finalmente, priva di futili polemiche e frasi insultanti per qualsivoglia categoria e classe. Tyler non ne ha bisogno per dimostrare la sua rilevanza nel panorama rap.

Voto finale: 7,5.

Beach House, “B-Sides And Rarities”

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Dopo la doppietta del 2015 di “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”, i Beach House, beniamini del dream pop, si sono legittimamente presi una pausa per promuovere in maniera adeguata i CD e riflettere su come andare avanti nel loro percorso musicale. Quest’uscita, che raccoglie b-sides e rarità del duo, è un utile strumento per ricordare a tutti una cosa: anche nei brani apparentemente meno riusciti, i Beach House suonano immancabilmente come loro stessi.

Cosa intendiamo dire? Se siete fan dei Beach House e del dream pop, saprete che spesso ci troviamo di fronte a brani ballabili, ma lenti; eterei, ma mai inutilmente virtuosi. Ebbene, i Beach House sono la quintessenza del dream pop, non a caso sono fra i più amati gruppi di questo particolare genere musicale. Prova ne sia il successo di critica e pubblico dei loro due album migliori, gli splendidi “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012.

Anche “B-Sides And Rarities”, come già accennato, suona come un disco tipicamente Beach House: prova ne sia la bella Chariot, ancora inedita prima dell’uscita di questo CD. Bello anche scoprire l’evoluzione di molti fra i brani più amati del gruppo: ad esempio, Norway e Used To Be ci vengono presentate nella loro prima versione, molto più scarna e meno trascinante di quanto avremmo poi trovato nei dischi del gruppo. Addirittura, Rain In Numbers era una traccia nascosta all’interno dell’esordio discografico dei Beach House e Wherever You Go lo era in “Bloom”!

Insomma, non un LP perfetto, come era facile aspettarsi, ma senza dubbio un’uscita apprezzabile per tutti i fans della band e del dream pop, o anche semplicemente per coloro che stanno scoprendo solo oggi i Beach House.

Voto finale: 7.

Calvin Harris, “Funk Wav Bounces Vol.1”

calvin harris

Il quinto album del famoso DJ Calvin Harris è un trionfo per gli amanti della dance da spiaggia e dell’elettronica mainstream: con un parco ospiti sterminato e ritmi accattivanti, Harris riesce a comporre il suo CD più ambizioso e riuscito. Oltre all’elettronica, infatti, troviamo abbondanti tracce di hip hop e funk: un cocktail di generi davvero esplosivo.

Parlando degli ospiti presenti in “Funk Wav Bounces Vol.1”, abbiamo alcuni fra i nomi più importanti del panorama musicale contemporaneo: Frank Ocean, Migos, Ariana Grande, Katy Perry, Nicky Minaj, Snoop Dogg, Pharrell Williams, John Legend, Young Thug, Future e Travis Scott, solo per ricordare i più conosciuti. Non si deve però pensare che siano solo buoni per far parlare del disco, senza un’effettiva rilevanza per il risultato finale; per esempio, Frank Ocean rende Slide davvero interessante, ma non vale solo per lui. Ad esempio, Heatstroke senza Pharrell perderebbe moltissimo.

Tra i pezzi migliori abbiamo, oltre alle già menzionate Slide e Heatstroke, anche Feels; deludono invece Rollin e Skrt On Me, troppo commerciali e scontate. Convincente la conclusiva Hard To Love, con linea di basso prepotente e la voce di Jessie Reyez che ricorda vagamente Lorde.

In conclusione, album più estivo di questo, nel 2017, non è dato trovarne: fino a settembre rappresenterà un ottimo passatempo in spiaggia e il weekend a casa, quando la voglia di rilassarsi e divertirsi avranno la meglio.

Voto finale: 7.