Recap: aprile 2018

Anche aprile è passato. Musicalmente, possiamo definirlo un mese di transizione: maggio sarà infatti ricco di eventi, con i ritorni di Arctic Monkeys, Beach House e Courtney Barnett. Nondimeno, abbiamo un CD candidato a disco dell’anno di A-Rock. Abbiamo recensito soprattutto artiste: i CD di Janelle Monáe, Kacey Musgraves, Cardi B e Frankie Cosmos sono gli highlights. Tra i maschietti, abbiamo i lavori di The Weeknd e Amen Dunes. Buona lettura!

Janelle Monáe, “Dirty Computer”

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Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Se c’era un difetto in “The ArchAndroid” e “The Electric Lady”, era l’eccessivo numero di canzoni e, di rimando, il minutaggio: entrambi superavano l’ora, con 17-18 canzoni, divise in entrambi i casi in due suite. Janelle utilizzava uno pseudonimo, Cindi Mayweather, appunto un androide, attraverso cui narrava metaforicamente le difficoltà dei “diversi”, che si parlasse di razza, sessualità o religione. Insomma, progetti di sfrenata ambizione, riusciti ma non per tutti i palati. Con “Dirty Computer”, invece, l’artista statunitense ha puntato il dito sui propri tormenti interiori, risultando in un LP più semplice ma anche più coeso; in poche parole, un capolavoro.

L’inizio è ottimo: nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock.

Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

Liricamente, basti dire che Janelle ha eletto lo slogan “Let the rumours be true” a simbolo di “Dirty Computer”: diciamo che i gossip relativi alla sua sessualità vengono più volte confermati nel corso del disco. Il breve film tratto dal disco e i video dei singoli avevano già fatto intravedere il coming out: diamo atto che l’artista ha sempre avuto atteggiamenti ambigui, ma questa confessione dimostra coraggio. Insomma, “Dirty Computer” pare più avere lo scopo di esorcizzare i propri demoni che possedere messaggi universali, tuttavia i testi non risultano mai banali o troppo concentrati sull’ego di Janelle.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane, al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, come già detto, un capolavoro fatto e finito. Uno dei più bei CD non solo dell’anno, ma dell’intera decade.

Voto finale: 9.

Amen Dunes, “Freedom”

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“Freedom” è il quinto lavoro del cantautore americano Damon McMahon, in arte Amen Dunes; ed è probabilmente quello destinato ad ottenere il maggior successo. McMahon infatti, per la prima volta, si affida ad un rock molto orecchiabile, abbandonando le influenze ambient e sperimentali che caratterizzavano i suoi precedenti CD, per rifarsi a classici come Bob Dylan e Neil Young.

Già la prima traccia vera e propria, dopo la sognante Intro, è testimonianza forte di questo cambiamento: Blue Rose è un pezzo delicato, apparentemente facile, ma che in realtà migliora ad ogni ascolto, un po’ come tutto il disco. Ma i brani riusciti non sono certo finiti qui: il nucleo del CD è Believe, pezzo di quasi sei minuti ma per nulla monotono. Buona anche Skipping School. Risultano invece meno belle Calling Paul The Suffering e L.A., troppo lunga. In generale, tuttavia, come già accennato, “Freedom” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli, anche grazie all’ottima produzione.

Liricamente, “Freedom” tratta il tema della perdita di una persona cara: la madre di Damon è morta di cancro alcuni anni fa, proprio mentre lui stava componendo il disco, che dunque riflette questa tragica perdita. Non a caso, predominano temi religiosi: Believe lo fa intuire già dal titolo, mentre in Blue Rose canta “We play religious music. Don’t think you understand, man”. Nondimeno, il disco è più affascinante per le sonorità che per i testi, spesso infatti la voce di Damon è soffusa e le parole inintelligibili, sulla falsariga di Panda Bear o Bradford Cox dei Deerhunter, per intendersi.

In conclusione, siamo di fronte ad una “rivoluzione conservatrice”, verrebbe da dire: McMahon, partito da lidi sperimentali, è finito per approdare a suoni e ritmi più accessibili, fra folk e rock. Anche una mossa del genere denota coraggio; quando poi i risultati sono così eccellenti, non si può non lodarla.

Voto finale: 8.

Kacey Musgraves, “Golden Hour”

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Al quarto album non indipendente, la prolifica cantante americana Kacey Musgraves ha finalmente trovato quello che gli anglosassoni chiamano “breakthrough”: quel momento in cui anche il grande pubblico inizia ad apprezzarti e dai piccoli club si iniziano a riempire le arene medie e si viene invitati ai festival. Premio meritato, dato che “Golden Hour” è uno dei migliori album country del decennio.

Il CD mescola abilmente ballate a pezzi più pop, quasi dance (ad esempio High Horse), facendo di “Golden Hour” un ibrido strano, ma non in senso negativo; anzi, è proprio la bravura della Musgraves a muoversi con equilibrio tra generi apparentemente lontani a farne uno dei dischi più apprezzati dell’anno, sia dalla critica che dal pubblico.

L’inizio è magnifico: Slow Burning è, nomen omen, lenta a carburare anche nella realtà, ma è una canzone davvero magnifica. Anche la successiva Lonely Weekend è importante nell’economia dell’album, dato che introduce in maniera squisita la dualità del disco: un country finalmente al passo con i tempi, che possa comunicare qualcosa anche a chi non ama il genere. Altri ottimi brani sono la title track e l’intensa Love Is A Wild Thing. Oh, What A World inizia a metà fra Bon Iver e Daft Punk, ma poi vira su territori più conosciuti a Kacey. Convincono meno Butterflies e Happy & Sad, che sono non per caso anche i pezzi più “conservatori” del lavoro.

I testi della Musgraves rimandano soprattutto a temi legati all’amore, soprattutto a relazioni passate, quando lei canta per esempio “Sunsets fade and love does too” in Space Cowboy, oppure “All I need’s a place to land” in Wonder Woman. Tutto, però, ha una conclusione lieta in Rainbow, che già nel titolo racchiude il messaggio che la cantante ha infine trovato una sorta di pace interiore.

In conclusione, la bella Kacey Musgraves ha tutto per sfondare: grande fascino, talento compositivo non comune, abilità canora e presenza scenica. Che sia lei la prossima stella del country, famosa non solo in America?

Voto finale: 8.

Cardi B, “Invasion Of Privacy”

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L’esordio discografico della rapper americana Cardi B, anticipato dal celeberrimo singolo Bodak Yellow e da molti altri in cui spiccavano collaborazioni con SZA e Chance The Rapper, è sorprendente. Molti haters pensavano che lei sarebbe stata sopraffatta dalla pressione di produrre un CD all’altezza di quel primo singolo, ma lei non ha deluso. Affrontando generi molto differenti, pur restando nel sentiero a lei più congeniale della trap, Cardi B è riuscita a parlare della sua “prima vita” non risultando monotona, anzi essendo coinvolgente, forte e fragile allo stesso tempo.

Ma andiamo con ordine. “Invasion Of Privacy” ha almeno due pregi: la lunghezza e il numero di canzoni sono pienamente accettabili (13 pezzi per 49 minuti) e la franchezza di Belcalis Almanzar (questo il vero nome di Cardi B) nel parlare anche dei fatti più brutti da lei vissuti è ammirevole. Abbiamo versi notevoli come “I write a verse while I twerk”, in She Bad, riferimento al suo passato da spogliarellista che sognava di diventare una famosa rapper; oppure “Those comments used to kill me. But never did I change, never been ashamed”, in Best Life: i commenti sono superflui.

Musicalmente, come già anticipato, il disco si inserisce nel filone trap che sta diventando dominante nel rap moderno: non a caso fra i collaboratori ingaggiati da Cardi B troviamo i Migos, grandi esponenti del genere. Nondimeno, anche chi non ama alla follia la trap può trovare qualcosa di interessante: dal rap melodico e non troppo carico di Get Up 10, al rap-gospel di Best Life (dove non a caso compare Chance The Rapper), al reggae di I Like It per finire con il pop suadente di Ring. Insomma, un cocktail sonoro esplosivo, impreziosito dalle collaborazioni con SZA, Chance The Rapper, Migos, Kehlani e 21 Savage.

Non tutto fila liscio: quando si prendono tutti questi rischi, è fisiologico. Non convincono appieno Money Bag e Bartier Cardi, ma i risultati complessivi sono comunque accettabili. Complessivamente, dunque, “Invasion Of Privacy” è un buon esordio per Cardi B, che probabilmente in futuro avrà modo di affinare ulteriormente il suo stile. Le premesse per una carriera radiosa ci sono tutte: puntare contro di lei si è rivelato un errore.

Voto finale: 7,5.

Frankie Cosmos, “Vessel”

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Il terzo album di Greta Kline, meglio conosciuta con il nome d’arte Frankie Cosmos, è un ulteriore approfondimento dell’indie rock che l’ha resa celebre. Non il suo lavoro migliore, però senza dubbio merita un ascolto attento, sia per le canzoni presenti che per le liriche, sempre pungenti.

Il grande problema di “Vessel” è l’eccessiva frammentarietà: stiamo parlando di un disco composto da 18 canzoni ma di soli 33 minuti di durata! Molte infatti non raggiungono nemmeno i due minuti. Non è un caso, tuttavia, che le più belle siano quelle più rifinite: per esempio Caramelize e Being Alive. In effetti, “Vessel” ha il suo fascino, in un certo senso, proprio in questo senso di indeterminatezza: sembra di aver sorpreso un artista nel bel mezzo della lavorazione.

Testualmente, la Kline si conferma molto abile nel fotografare la condizione dei ventenni contemporanei, sospesi fra precarietà e voglia di vivere. Tra le liriche più efficaci abbiamo “Being alive matters quite a bit, even when you feel like shit”, contenuta in Being Alive, e “I wasn’t built for this world. I had sex once, now I’m dead”, in Cafeteria. In generale, dunque, traspare un certo pessimismo per il futuro, non inusuale in Greta e in molti giovani.

Tra i brani migliori abbiamo le già citate Caramelize e Being Alive; molto carina anche Jesse. Convincono meno i pezzi più abbozzati, come Bus Bus Train Train e gli intermezzi (addirittura sotto al minuto) Hereby, Ur Up? e My Phone. Peccato, perché con questi pezzi definitivamente compiuti avremmo avuto risultati migliori.

In generale, pertanto, l’evoluzione di Frankie Cosmos ha subito una battuta d’arresto, non tanto in termini di qualità quanto in termini di compiutezza dei brani ed eccessiva frammentarietà della tracklist. Risolti questi due problemi, la Kline potrebbe regalarci il lavoro superbo che tutti sappiamo essere nelle sue corde.

Voto finale: 7,5.

The Weeknd, “My Dear Melancholy, EP”

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Il nuovo lavoro di Abel Tesfaye è un breve EP, composto da sei canzoni e della durata di 21 minuti: un disco agile, finalmente, dopo due album buoni ma penalizzati da un eccessivo numero di canzoni come “Beauty Behind The Madness” (2015) e “Starboy” (2016). Le sonorità di The Weeknd, inoltre, segnano un ritorno alle origini per l’artista canadese: l’R&B oscuro di “My Dear Melancholy,” riporta ai primi tre mixtape pubblicati da Tesfaye, in particolare “House Of Balloons” (2011). Il problema è che le canzoni non sono così innovative ed efficaci come suonavano i pezzi della trilogia di mixtape pubblicati ormai sette anni fa.

Abbiamo senza dubbio una produzione raffinata e un mixaggio ottimo, ma la sostanza dei pezzi è meno consistente: tra i migliori abbiamo Try Me e Calling Out My Name, mentre sono meno riusciti Wasted Times e la conclusiva Privilege.

La cover, molto scura, come il titolo “My Dear Melancholy,”, con quella virgola messa in fondo, fa capire che il lavoro è più diretto ad affrontare i demoni interni di Abel, fatti di cadute in depressione e uso di droghe, che per parlare di temi universali, quasi si trattasse di una lettera a sé stesso.

In generale, dunque, non siamo certo di fronte ad un lavoro rivoluzionario, ma The Weeknd cerca con questo buon EP di ingraziarsi quella fetta del suo (immenso) pubblico che non aveva gradito troppo la svolta pop intrapresa a cavallo fra mixtape ed album veri e propri. Un buon punto di (ri)partenza, aspettando di capire se la popstar canadese tornerà in territori R&B anche nel suo prossimo CD oppure rimarrà sul pop à la Michael Jackson che lo ha reso celebre.

Voto finale: 7.

 

Rising: Kali Uchis & Saba

Aprile sembrava un mese di passaggio, in attesa di maggio e del ritorno di pezzi da 90 come Arctic Monkeys e Beach House. Invece, A-Rock ha individuato due nuove promesse della scena musicale: una, Kali Uchis, sembra destinata ad un futuro radioso nel mondo del pop. Saba, invece, è un rapper che ha pubblicato un disco davvero eccellente. Ma andiamo con ordine.

Saba, “CARE FOR ME”

saba

Il rapper di Chicago, giunto alla sua quinta esperienza in studio e al secondo album vero e proprio, ha finalmente trovato la consacrazione. Saba, nato Tahj Malik Chandler, era conosciuto, fino a pochi anni fa, più come collaboratore di Chance The Rapper che come solista, tuttavia negli ultimi due anni ha trovato una propria dimensione, che potrebbe notevolmente ampliarsi dopo la pubblicazione di un CD bello come “CARE FOR ME”.

Le scritte tutte maiuscole farebbero pensare a “DAMN.” di Kendrick Lamar, tuttavia le influenze che sentiamo in questo disco sono più rivolte a “Summertime ‘06” di Vince Staples e all’amico Chance The Rapper: dunque, un rap infarcito di gospel, con basi calme, quasi contemplative. I risultati, come già accennato, sono ottimi: “CARE FOR ME” scorre benissimo, senza frizioni fra i brani, per una durata che in termini di canzoni (10) e minutaggio (42 minuti) è finalmente in linea con il recente passato, senza sovraccaricare il disco di troppe canzoni, come alcuni colleghi di Saba fanno (Drake, Migos ecc).

Come sempre in un album hip hop, i testi sono una parte cruciale nel valutare un LP: Saba descrive il processo di accettazione della morte prematura del cugino Walter, ucciso l’anno scorso dopo una colluttazione nella metropolitana da un ladro che voleva il suo cappotto. Una morte tragica, per cui Saba ha scritto testi strazianti. Per esempio, in BUSY/SIRENS canta “I’m so alone” e successivamente “Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat”. Il dramma è ancora ben presente, dunque. Colpisce la struttura del CD, che arriva in HEAVEN ALL AROUND ME ad una visione di Walter in Paradiso, che veglia su Saba e i suoi cari. Insomma, la fede ha decisamente aiutato il rapper ad accettare la morte del suo mentore, colui che per primo lo aveva introdotto alla musica.

Altre liriche toccanti sono “They want a barcode on my wrist to auction off the kids that don’t fit their description of a utopia” in LIFE e “We got in the car, but we didn’t know where to drive to. Fuck it, wherever you are my nigga, we’ll come and find you” in PROM/KING, penultimo brano della tracklist, dove notiamo un’accettazione definitiva della morte di Walter.

Musicalmente, i pezzi che più restano impressi sono BUSY/SIRENS, SMILE e la dura LIFE; notevole anche FIGHTER. Meno bella LOGOUT, ma i risultati restano sorprendenti. Saba, infatti, pur parlando di temi strettamente personali, riesce a trasmettere messaggi universali: il suo viaggio può infatti essere intrapreso da chiunque abbia perso una persona amata, un po’ quello che Mount Eerie ha fatto in “A Crow Looked At Me” e “Now Only”. Sono questi LP che rendono speciali anche le canzoni più semplici, no?

Voto finale: 8.

Kali Uchis, “Isolation”

Kali Uchis

Il primo album vero e proprio della cantante colombiana segue l’EP del 2015 “Por Vida” e dimostra un deciso passo in avanti in termini di scrittura e ricchezza espressiva. Kali ora, infatti, passa senza problemi dal pop latino al soul, dal reggae al funk, per creare un ensemble che ricorda Prince e Solange Knowles.

“Isolation”, infatti, è un trionfo: non si direbbe proprio che questo sia un album di esordio. La sicurezza con cui la giovane colombiana passa attraverso generi così disparati è disarmante. È pur vero che Kali Uchis è un nome che già da sei anni circola: il suo primo mixtape è infatti del 2012. Lei ha inoltre collaborato nell’album “War & Leisure” di Miguel, uno dei cantanti soul più in vista del momento. Insomma, aver convinto a collaborare a questo LP giganti come Kevin Parker dei Tame Impala e Damon Albarn (Blur, Gorillaz), oltre a Tyler The Creator e Thundercat, non è casuale.

Anche liricamente il CD non è banale: in Your Teeth In My Neck canta “What do you do it for, rich man keeps getting richer taking from the poor”, riferendosi alla crescente disuguaglianza all’interno dei paesi sviluppati. Questo pessimismo è ulteriormente espresso in In My Dreams, dove Kali afferma “Everything is just wonderful here in my dreams”, implicitamente dicendo che la sua vita non è tutta rose e fiori. Infine, in Miami parla della condizione dei migranti e delle grandi (spesso false) speranze che loro hanno arrivando negli Stati Uniti, quando canta “Why would I be Kim, I could be Kanye in the land of opportunity and palm trees”.

I pezzi migliori sono In My Dreams, Miami e la sexy Tomorrow, mentre convincono meno Dead To Me e After The Storm. In generale, tuttavia, come già detto all’inizio, Kali Uchis sorprende l’ascoltatore con melodie sempre nuove e ritmi differenti, generando un disco davvero ricercato e mai banale. Se questo è solo l’inizio, c’è da credere che ne sentiremo parlare ancora a lungo.

Voto finale: 8.

Recap: marzo 2018

Il mese di marzo ha regalato CD molto attesi da critica e pubblico. Ad A-Rock recensiremo i nuovi lavori di Jack White, David Byrne, Preoccupations, Young Fathers, Mount Eerie e dei Voidz di Julian Casablancas. Insomma, dal rock al rap, passando per new wave e folk: ne abbiamo davvero per tutti i gusti! Buona lettura!

Mount Eerie, “Now Only”

mount eerie

La storia di Phil Elverum, frontman dei Microphones e successivamente solista col nome di Mount Eerie, è tristemente nota. Nel 2016 sua moglie Geneviève è morta di cancro, lasciando lui e la loro figlioletta a chiedersi il perché di tanta sofferenza a una così giovane età. Elverum ha deciso di affrontare questo tragico lutto facendo quello che sa fare meglio: scrivere canzoni. Mount Eerie non è mai suonato così scarno come negli ultimi due suoi CD, “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only”. È possibile infatti vedere questo disco come una continuazione del precedente, ma contemporaneamente “Now Only” contiene differenti sonorità in alcuni tratti, che lo rendono un capolavoro a sé stante.

La partenza è straziante: Tintin In Tibet narra alcuni frammenti del passato di Phil e Geneviève, per esempio il loro primo incontro, ma si apre e si chiude con le seguenti parole: “I sing to you”. È facile intuire chi sia quel “tu” a cui si rivolge Elverum, non a caso queste canzoni sembrano più un’autoconfessione che un lavoro per piacere al pubblico. Il loro fascino, tuttavia, risiede proprio in questo: essere scritti con uno scopo personale, ma avere una risonanza universale.

Musicalmente parlando, come già accennato, “Now Only” riprende il folk scarno di “A Crow Looked At Me”, tuttavia in alcuni brani riecheggiano chitarre distorte e una lieve base di batteria, che rendono il CD più vicino ai primi lavori dei Microphones rispetto al suo predecessore. I brani migliori sono Tintin In Tibet, Earth (unica traccia con chitarre rock), la title track e Two Paintings By Nikolai Astrup. A colpire, però, sono soprattutto le liriche: nella lunghissima Distortion Elverum recita “the first dead body I ever saw in real life was my great-grandfather’s; the second dead body I ever saw was you, Geneviève, when I watched you turn from alive to dead right here in our house.” Uno dei versi più sinceri e tragici mai cantati. C’è spazio per un’accettazione della morte dell’amata moglie, quasi con sollievo, quando Phil dice “you’re sleeping out in the yard now”.

I fan di Mount Eerie ricorderanno sicuramente l’immagine del corvo presente in “A Crow Looked At Me”, che prendeva le sembianze della moglie agli occhi di Elverum, ancora incapace di accettare la sua perdita; vi è un richiamo in “Now Only”, tanto che l’ultima canzone si intitola proprio Crow, Pt.2. Adesso, però, Elverum canta “I don’t see you anywhere”. Il cantante statunitense sembra finalmente aver capito che Geneviève non tornerà più indietro: meglio vivere la vita che ci resta e crescere la propria figlia, mantenendo le promesse fatte alla moglie morente. Non c’è messaggio migliore da prendere da questo LP.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Cocoa Sugar”

young fathers

Il terzo album del trio scozzese è il compimento di un percorso che li ha visti costantemente migliorare, gli Young Fathers sono infatti a tutti gli effetti tra i maggiori innovatori nel mondo hip hop. Le loro basi mescolano sapientemente rock, pop, soul e ritmi africani, creando brani a volte caotici, ma nella maggior parte dei casi sorprendenti e mai banali. Ne sono esempio, nel nuovo CD “Cocoa Sugar”, In My View e See How.

Anche i testi degli Young Fathers non sono innocui: già il titolo del disco, “Cocoa Sugar”, anticipa un tema portante, la contrapposizione fra bianchi e neri purtroppo ancora centrale nella società. Tuttavia, non possiamo parlare di rap politico: gli Young Fathers spesso accennano solamente a tutto ciò, non volendo soverchiare l’ascoltatore con messaggi troppo forti. Molto diversi da un Kendrick Lamar, tanto per capirsi. Liriche potenti ne abbiamo comunque: da “don’t turn my brown eyes blue, I’m nothing like you” a “I’m not here to drown you, I’m only here to clean you”.

I risultati complessivi sono ottimi: “Cocoa Sugar” è uno dei migliori album rap non solo dell’anno, ma della decade. Accanto ai già citati See How e In My View, abbiamo altri pezzi molto efficaci: da Tremolo a Toy, passando per la base industrial di Turn (quasi à la Nine Inch Nails) e i paesaggi pastorali di Lord, che quasi ricorda i Walkmen più intimisti.

Insomma, come già accennato, gli Young Fathers hanno probabilmente raggiunto il picco creativo nel rap sperimentale che li contraddistingue: come andranno avanti da qui in avanti sarà interessante. Intanto godiamoci questo LP, ennesima conferma di come il rap ormai sia così mainstream da dover contaminarsi con altri generi per diventare sperimentale. Era già successo al rock molti anni fa, quando molti dovettero contaminarlo con elettronica e rap (!) per rinnovarlo. La ruota gira…

Voto finale: 8,5.

The Voidz, “Virtue”

Virtue

Julian Casablancas è tornato con gli ormai fidati Voidz con un CD molto diverso dal precedente sforzo del gruppo, quel “Tyranny” (2014) che mescolava ferocia e sperimentalismo, riff taglienti e canzoni semplicemente folli. Insomma, tutto meno che accessibile. Ebbene, “Virtue” riporta con la mente alle atmosfere del disco solista di Julian del 2008, “Phrazes For The Young”, che mescolava psichedelia e pop.

In particolare, sorprende la capacità del frontman degli Strokes di fondere fra loro tutte le influenze sperimentate negli ultimi 15 anni: dal rock di “A First Of Impression Of Earth” al suo album solista, ma anche il gusto anni ’80 di “Angles” e “Comedown Machine”. Il risultato potrà risultare straniante, a volte incoerente, ma mai prevedibile e sempre molto intrigante.

La prima canzone del CD, Leave It In My Dreams, è fra le migliori mai scritte da Casablancas dopo “Room On Fire”: synths raffinati, prova vocale ottima, base ritmica azzeccata. Idem per QYURRYUS, fra i singoli estratti, non per caso: i rimandi anni ’80 sono evidenti, per esempio ai Talking Heads, ma non invadenti. La prima parte di “Virtue” è quindi davvero convincente, contando su altri buoni pezzi come Permanent High School e ALieNNatioN. Non che la seconda sia da meno, tuttavia lo sperimentalismo a volte può risultare fine a sé stesso (per esempio in Think Before You Drink e Wink). I rimandi al precedente album dei Voidz sono pochi, ma non inutili: la chitarra potente di Pyramid Of Bones e One Of The Ones rende questi pezzi davvero coinvolgenti.

Il bilancio di questa cavalcata attraverso generi tanto diversi è eccellente: pur con alcuni questioni irrisolte (la lunghezza del lavoro soprattutto), i Voidz si confermano una voce davvero unica nel panorama rock contemporaneo. E poi, Julian non sembrava così libero e divertito dal comporre musica da “Room On Fire”; e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Voto finale: 8.

Preoccupations, “New Material”

preoccupations

I Preoccupations, giunti al secondo album dopo l’ennesimo cambio di nome, si confermano fra i più talentuosi artisti punk della scena musicale contemporanea. Gli ex Women e Viet Cong, infatti, mantengono intatti i tratti caratteristici del loro sound, comprese le tematiche affrontate nei loro testi, ma aggiornano la formula quel tanto da non apparire ripetitivi rispetto al passato.

Rispetto a “Preoccupations” (2016), i riferimenti ai grandi del post punk, su tutti i Joy Division, si fanno più evidenti; contemporaneamente, quel suono quasi ambient e industrial che caratterizzava il precedente CD viene confermato e reso forse un po’ più accessibile. Niente di commerciale, sia chiaro, però in “New Material” le ritmiche sono meno oppressive che in passati lavori di Flegel e compagni.

Ne sono esempio i migliori pezzi dell’album: su tutti Disarray, ma buona anche Decompose. Le percussioni di Espionage riportano vividamente alla memoria “Closer” dei Joy Division. Meno riuscita la conclusiva Compliance, traccia strumentale poco coinvolgente. Tuttavia, va elogiata l’ardita scelta dei Preoccupations di voler sempre sfidare l’ascoltatore, pur restando nel consueto territorio punk.

Liricamente, come dicevamo, i Preoccupations affrontano temi non nuovi per loro, ma sempre delicati: autodistruzione, dubbio, odio per sé stessi. Per esempio, in Disarray Flegel canta con voce calda “It’s easy to see why everything you’ve ever been told is a lie”, probabile riferimento al corrente contesto di fake news; un altro riferimento a ciò arriva in Antidote, dove si parla di “information overdose”. Manipulation, come già il titolo anticipa, tratta il potere di alcune persone di plagiare gli individui più fragili. Insomma, non temi facili, ma affrontati con onestà e preoccupazione. Il nome del gruppo si conferma azzeccato.

In conclusione, le otto tracce di “New Material” faranno sicuramente entrare il CD fra i migliori 50 del 2018 di A-Rock: ogni ascolto rivela nuovi dettagli, mai banali, circostanza che rende il disco riascoltabile molte volte. Non una cosa da poco, in un panorama musicale spesso sovraccarico di citazioni e LP monotoni allo sfinimento (si veda il nuovo album dei Migos).

Voto finale: 7,5.

Jack White, “Boarding House Reach”

jack white

Il terzo album solista di Jack White segna il ritorno di quello che da molti è ritenuto uno degli artisti rock più significativi della nostra epoca. Di certo, Jack White è riconoscibilissimo: i suoi riff hanno segnato la scorsa decade (chi non sa a memoria la intro di Seven Nation Army dei White Stripes?). Tuttavia, proprio la sua identità viene stravolta in “Boarding House Reach”: il CD contiene alcuni momenti davvero sperimentali, che potrebbero disorientare (per non dire sconcertare) i fan duri e puri dell’artista nativo di Detroit.

Infatti, White ha prodotto un disco che potremmo quasi definire temerario, almeno per i suoi standard: sia con i White Stripes che con i Raconteurs che nei Dead Weather lui aveva sempre mantenuto la sua creatività nei confini del blues e del rock. Pertanto, sorprende sentire molte volte tastiere o ritmiche africane nelle 13 canzoni che compongono “Boarding House Reach”; già nel suo precedente album solista, “Lazaretto” del 2014, White aveva inserito sezioni quasi hip hop e funk, ma non con questa frequenza e, verrebbe da dire, convinzione. I risultati sono a tratti ottimi, in altri confusionari; ma andiamo con ordine.

L’apertura del disco è deludente: Connected By Love (inspiegabilmente scelto come singolo di lancio) e Why Walk A Dog? sono i brani peggiori del disco, spenti e prevedibili. Meno male che Corporation, pur nella sua iperattività, risolleva il disco, portando White quasi in territori Talking Heads o Prince. Altri pezzi degni di nota sono Over And Over And Over (non a caso composto durante il miglior periodo di Jack, quello dei White Stripes) e Get In The Mind Shaft. In generale, meglio la seconda parte della prima; se non altro, più a fuoco come sperimentalismo. Valga da esempio Respect Commander, prima Led Zeppelin poi indie rock poi ancora LZ, però mai dispersiva. Trascurabili i brevi intermezzi, come la già citata Why Walk A Dog? e Abulia And Akrasia.

In generale, dunque, di certo “Boarding House Reach” non è il CD definitivo di Jack White, tantomeno rientra nella lista dei migliori dischi della decade; nondimeno, sembra aprire una nuova stagione per il cantante americano, un po’ quello che “Emotional Mugger” (2016) ha rappresentato per Ty Segall, peraltro un fedele seguace di JW. Vedremo se si rivelerà un lavoro di transizione o semplicemente un divertissement; di certo, non possiamo dire che ci si annoi.

Voto finale: 7.

David Byrne, “American Utopia”

david byrne

David Byrne, il frontman e leader dei Talking Heads, insomma uno degli artisti che più hanno influenzato il rock anni ’70 e ’80, è tornato dopo una lunga assenza a produrre un album solista. Era addirittura dal 2004 che Byrne non faceva un disco interamente solista. Naturalmente, la sua attività non si era del tutto bloccata: aveva pubblicato CD collaborativi con Brian Eno e St. Vincent, oltre a occuparsi di pittura e pubblicare libri. Insomma, tutto meno che un pensionato.

“American Utopia” è il suo undicesimo album dopo la fine dei Talking Heads ed è parte di una creazione più ampia, intitolata “Reasons To Be Cheerful”, in cui Byrne vuole diffondere un messaggio di ottimismo pur in un momento storico particolarmente incerto. Musicalmente, il lavoro riprende molte delle sonorità tipiche della sua produzione: pop e rock presenti in egual misura, con inserti funk. A colpire sono soprattutto le liriche, ma non in positivo: da un grande vecchio della musica ci saremmo aspettati testi più impegnati rispetto, per esempio, a quello di Every Day’s A Miracle, dove proclama di avere “il cervello di un pollo e il pene di una scimmia” e che “il papa non significa nulla per un cane”. Mah… L’intento è evidentemente di far sorridere l’ascoltatore, ma spesso i risultati sono imbarazzanti.

Sorvolando sui testi, musicalmente il disco è apprezzabile: pur essendo in certi tratti troppo melenso e monotono, i risultati sono tutto sommato buoni. Degni di nota sono particolarmente i pezzi della seconda parte: Doing The Right Thing e Everybody’s Coming To My House sono fra i migliori pezzi recenti di Byrne. Buona anche I Dance Like This. Meno convincenti Everyday’s A Miracle e Dog’s Mind, ma non rovinano eccessivamente il CD.

In generale, dunque, se era più che legittimo aspettarsi qualche cosa di più da un veterano come David Byrne, possiamo dire che “American Utopia” è più che sufficiente. Con testi di miglior qualità, i risultati sarebbero stati anche migliori. Menzione speciale per la produzione di Brian Eno, che rende dignitosi anche i momenti peggiori del disco.

Voto finale: 7.