Il mese di marzo ha regalato CD molto attesi da critica e pubblico. Ad A-Rock recensiremo i nuovi lavori di Jack White, David Byrne, Preoccupations, Young Fathers, Mount Eerie e dei Voidz di Julian Casablancas. Insomma, dal rock al rap, passando per new wave e folk: ne abbiamo davvero per tutti i gusti! Buona lettura!
Mount Eerie, “Now Only”
La storia di Phil Elverum, frontman dei Microphones e successivamente solista col nome di Mount Eerie, è tristemente nota. Nel 2016 sua moglie Geneviève è morta di cancro, lasciando lui e la loro figlioletta a chiedersi il perché di tanta sofferenza a una così giovane età. Elverum ha deciso di affrontare questo tragico lutto facendo quello che sa fare meglio: scrivere canzoni. Mount Eerie non è mai suonato così scarno come negli ultimi due suoi CD, “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only”. È possibile infatti vedere questo disco come una continuazione del precedente, ma contemporaneamente “Now Only” contiene differenti sonorità in alcuni tratti, che lo rendono un capolavoro a sé stante.
La partenza è straziante: Tintin In Tibet narra alcuni frammenti del passato di Phil e Geneviève, per esempio il loro primo incontro, ma si apre e si chiude con le seguenti parole: “I sing to you”. È facile intuire chi sia quel “tu” a cui si rivolge Elverum, non a caso queste canzoni sembrano più un’autoconfessione che un lavoro per piacere al pubblico. Il loro fascino, tuttavia, risiede proprio in questo: essere scritti con uno scopo personale, ma avere una risonanza universale.
Musicalmente parlando, come già accennato, “Now Only” riprende il folk scarno di “A Crow Looked At Me”, tuttavia in alcuni brani riecheggiano chitarre distorte e una lieve base di batteria, che rendono il CD più vicino ai primi lavori dei Microphones rispetto al suo predecessore. I brani migliori sono Tintin In Tibet, Earth (unica traccia con chitarre rock), la title track e Two Paintings By Nikolai Astrup. A colpire, però, sono soprattutto le liriche: nella lunghissima Distortion Elverum recita “the first dead body I ever saw in real life was my great-grandfather’s; the second dead body I ever saw was you, Geneviève, when I watched you turn from alive to dead right here in our house.” Uno dei versi più sinceri e tragici mai cantati. C’è spazio per un’accettazione della morte dell’amata moglie, quasi con sollievo, quando Phil dice “you’re sleeping out in the yard now”.
I fan di Mount Eerie ricorderanno sicuramente l’immagine del corvo presente in “A Crow Looked At Me”, che prendeva le sembianze della moglie agli occhi di Elverum, ancora incapace di accettare la sua perdita; vi è un richiamo in “Now Only”, tanto che l’ultima canzone si intitola proprio Crow, Pt.2. Adesso, però, Elverum canta “I don’t see you anywhere”. Il cantante statunitense sembra finalmente aver capito che Geneviève non tornerà più indietro: meglio vivere la vita che ci resta e crescere la propria figlia, mantenendo le promesse fatte alla moglie morente. Non c’è messaggio migliore da prendere da questo LP.
Voto finale: 8,5.
Young Fathers, “Cocoa Sugar”
Il terzo album del trio scozzese è il compimento di un percorso che li ha visti costantemente migliorare, gli Young Fathers sono infatti a tutti gli effetti tra i maggiori innovatori nel mondo hip hop. Le loro basi mescolano sapientemente rock, pop, soul e ritmi africani, creando brani a volte caotici, ma nella maggior parte dei casi sorprendenti e mai banali. Ne sono esempio, nel nuovo CD “Cocoa Sugar”, In My View e See How.
Anche i testi degli Young Fathers non sono innocui: già il titolo del disco, “Cocoa Sugar”, anticipa un tema portante, la contrapposizione fra bianchi e neri purtroppo ancora centrale nella società. Tuttavia, non possiamo parlare di rap politico: gli Young Fathers spesso accennano solamente a tutto ciò, non volendo soverchiare l’ascoltatore con messaggi troppo forti. Molto diversi da un Kendrick Lamar, tanto per capirsi. Liriche potenti ne abbiamo comunque: da “don’t turn my brown eyes blue, I’m nothing like you” a “I’m not here to drown you, I’m only here to clean you”.
I risultati complessivi sono ottimi: “Cocoa Sugar” è uno dei migliori album rap non solo dell’anno, ma della decade. Accanto ai già citati See How e In My View, abbiamo altri pezzi molto efficaci: da Tremolo a Toy, passando per la base industrial di Turn (quasi à la Nine Inch Nails) e i paesaggi pastorali di Lord, che quasi ricorda i Walkmen più intimisti.
Insomma, come già accennato, gli Young Fathers hanno probabilmente raggiunto il picco creativo nel rap sperimentale che li contraddistingue: come andranno avanti da qui in avanti sarà interessante. Intanto godiamoci questo LP, ennesima conferma di come il rap ormai sia così mainstream da dover contaminarsi con altri generi per diventare sperimentale. Era già successo al rock molti anni fa, quando molti dovettero contaminarlo con elettronica e rap (!) per rinnovarlo. La ruota gira…
Voto finale: 8,5.
The Voidz, “Virtue”
Julian Casablancas è tornato con gli ormai fidati Voidz con un CD molto diverso dal precedente sforzo del gruppo, quel “Tyranny” (2014) che mescolava ferocia e sperimentalismo, riff taglienti e canzoni semplicemente folli. Insomma, tutto meno che accessibile. Ebbene, “Virtue” riporta con la mente alle atmosfere del disco solista di Julian del 2008, “Phrazes For The Young”, che mescolava psichedelia e pop.
In particolare, sorprende la capacità del frontman degli Strokes di fondere fra loro tutte le influenze sperimentate negli ultimi 15 anni: dal rock di “A First Of Impression Of Earth” al suo album solista, ma anche il gusto anni ’80 di “Angles” e “Comedown Machine”. Il risultato potrà risultare straniante, a volte incoerente, ma mai prevedibile e sempre molto intrigante.
La prima canzone del CD, Leave It In My Dreams, è fra le migliori mai scritte da Casablancas dopo “Room On Fire”: synths raffinati, prova vocale ottima, base ritmica azzeccata. Idem per QYURRYUS, fra i singoli estratti, non per caso: i rimandi anni ’80 sono evidenti, per esempio ai Talking Heads, ma non invadenti. La prima parte di “Virtue” è quindi davvero convincente, contando su altri buoni pezzi come Permanent High School e ALieNNatioN. Non che la seconda sia da meno, tuttavia lo sperimentalismo a volte può risultare fine a sé stesso (per esempio in Think Before You Drink e Wink). I rimandi al precedente album dei Voidz sono pochi, ma non inutili: la chitarra potente di Pyramid Of Bones e One Of The Ones rende questi pezzi davvero coinvolgenti.
Il bilancio di questa cavalcata attraverso generi tanto diversi è eccellente: pur con alcuni questioni irrisolte (la lunghezza del lavoro soprattutto), i Voidz si confermano una voce davvero unica nel panorama rock contemporaneo. E poi, Julian non sembrava così libero e divertito dal comporre musica da “Room On Fire”; e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Voto finale: 8.
Preoccupations, “New Material”
I Preoccupations, giunti al secondo album dopo l’ennesimo cambio di nome, si confermano fra i più talentuosi artisti punk della scena musicale contemporanea. Gli ex Women e Viet Cong, infatti, mantengono intatti i tratti caratteristici del loro sound, comprese le tematiche affrontate nei loro testi, ma aggiornano la formula quel tanto da non apparire ripetitivi rispetto al passato.
Rispetto a “Preoccupations” (2016), i riferimenti ai grandi del post punk, su tutti i Joy Division, si fanno più evidenti; contemporaneamente, quel suono quasi ambient e industrial che caratterizzava il precedente CD viene confermato e reso forse un po’ più accessibile. Niente di commerciale, sia chiaro, però in “New Material” le ritmiche sono meno oppressive che in passati lavori di Flegel e compagni.
Ne sono esempio i migliori pezzi dell’album: su tutti Disarray, ma buona anche Decompose. Le percussioni di Espionage riportano vividamente alla memoria “Closer” dei Joy Division. Meno riuscita la conclusiva Compliance, traccia strumentale poco coinvolgente. Tuttavia, va elogiata l’ardita scelta dei Preoccupations di voler sempre sfidare l’ascoltatore, pur restando nel consueto territorio punk.
Liricamente, come dicevamo, i Preoccupations affrontano temi non nuovi per loro, ma sempre delicati: autodistruzione, dubbio, odio per sé stessi. Per esempio, in Disarray Flegel canta con voce calda “It’s easy to see why everything you’ve ever been told is a lie”, probabile riferimento al corrente contesto di fake news; un altro riferimento a ciò arriva in Antidote, dove si parla di “information overdose”. Manipulation, come già il titolo anticipa, tratta il potere di alcune persone di plagiare gli individui più fragili. Insomma, non temi facili, ma affrontati con onestà e preoccupazione. Il nome del gruppo si conferma azzeccato.
In conclusione, le otto tracce di “New Material” faranno sicuramente entrare il CD fra i migliori 50 del 2018 di A-Rock: ogni ascolto rivela nuovi dettagli, mai banali, circostanza che rende il disco riascoltabile molte volte. Non una cosa da poco, in un panorama musicale spesso sovraccarico di citazioni e LP monotoni allo sfinimento (si veda il nuovo album dei Migos).
Voto finale: 7,5.
Jack White, “Boarding House Reach”
Il terzo album solista di Jack White segna il ritorno di quello che da molti è ritenuto uno degli artisti rock più significativi della nostra epoca. Di certo, Jack White è riconoscibilissimo: i suoi riff hanno segnato la scorsa decade (chi non sa a memoria la intro di Seven Nation Army dei White Stripes?). Tuttavia, proprio la sua identità viene stravolta in “Boarding House Reach”: il CD contiene alcuni momenti davvero sperimentali, che potrebbero disorientare (per non dire sconcertare) i fan duri e puri dell’artista nativo di Detroit.
Infatti, White ha prodotto un disco che potremmo quasi definire temerario, almeno per i suoi standard: sia con i White Stripes che con i Raconteurs che nei Dead Weather lui aveva sempre mantenuto la sua creatività nei confini del blues e del rock. Pertanto, sorprende sentire molte volte tastiere o ritmiche africane nelle 13 canzoni che compongono “Boarding House Reach”; già nel suo precedente album solista, “Lazaretto” del 2014, White aveva inserito sezioni quasi hip hop e funk, ma non con questa frequenza e, verrebbe da dire, convinzione. I risultati sono a tratti ottimi, in altri confusionari; ma andiamo con ordine.
L’apertura del disco è deludente: Connected By Love (inspiegabilmente scelto come singolo di lancio) e Why Walk A Dog? sono i brani peggiori del disco, spenti e prevedibili. Meno male che Corporation, pur nella sua iperattività, risolleva il disco, portando White quasi in territori Talking Heads o Prince. Altri pezzi degni di nota sono Over And Over And Over (non a caso composto durante il miglior periodo di Jack, quello dei White Stripes) e Get In The Mind Shaft. In generale, meglio la seconda parte della prima; se non altro, più a fuoco come sperimentalismo. Valga da esempio Respect Commander, prima Led Zeppelin poi indie rock poi ancora LZ, però mai dispersiva. Trascurabili i brevi intermezzi, come la già citata Why Walk A Dog? e Abulia And Akrasia.
In generale, dunque, di certo “Boarding House Reach” non è il CD definitivo di Jack White, tantomeno rientra nella lista dei migliori dischi della decade; nondimeno, sembra aprire una nuova stagione per il cantante americano, un po’ quello che “Emotional Mugger” (2016) ha rappresentato per Ty Segall, peraltro un fedele seguace di JW. Vedremo se si rivelerà un lavoro di transizione o semplicemente un divertissement; di certo, non possiamo dire che ci si annoi.
Voto finale: 7.
David Byrne, “American Utopia”
David Byrne, il frontman e leader dei Talking Heads, insomma uno degli artisti che più hanno influenzato il rock anni ’70 e ’80, è tornato dopo una lunga assenza a produrre un album solista. Era addirittura dal 2004 che Byrne non faceva un disco interamente solista. Naturalmente, la sua attività non si era del tutto bloccata: aveva pubblicato CD collaborativi con Brian Eno e St. Vincent, oltre a occuparsi di pittura e pubblicare libri. Insomma, tutto meno che un pensionato.
“American Utopia” è il suo undicesimo album dopo la fine dei Talking Heads ed è parte di una creazione più ampia, intitolata “Reasons To Be Cheerful”, in cui Byrne vuole diffondere un messaggio di ottimismo pur in un momento storico particolarmente incerto. Musicalmente, il lavoro riprende molte delle sonorità tipiche della sua produzione: pop e rock presenti in egual misura, con inserti funk. A colpire sono soprattutto le liriche, ma non in positivo: da un grande vecchio della musica ci saremmo aspettati testi più impegnati rispetto, per esempio, a quello di Every Day’s A Miracle, dove proclama di avere “il cervello di un pollo e il pene di una scimmia” e che “il papa non significa nulla per un cane”. Mah… L’intento è evidentemente di far sorridere l’ascoltatore, ma spesso i risultati sono imbarazzanti.
Sorvolando sui testi, musicalmente il disco è apprezzabile: pur essendo in certi tratti troppo melenso e monotono, i risultati sono tutto sommato buoni. Degni di nota sono particolarmente i pezzi della seconda parte: Doing The Right Thing e Everybody’s Coming To My House sono fra i migliori pezzi recenti di Byrne. Buona anche I Dance Like This. Meno convincenti Everyday’s A Miracle e Dog’s Mind, ma non rovinano eccessivamente il CD.
In generale, dunque, se era più che legittimo aspettarsi qualche cosa di più da un veterano come David Byrne, possiamo dire che “American Utopia” è più che sufficiente. Con testi di miglior qualità, i risultati sarebbero stati anche migliori. Menzione speciale per la produzione di Brian Eno, che rende dignitosi anche i momenti peggiori del disco.
Voto finale: 7.
Mi hai dato delle dritte interessanti che mi hanno convinto.
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Mi fa piacere consigliare musica che ritengo interessante ai miei followers 🙂
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