Recap: aprile 2018

Anche aprile è passato. Musicalmente, possiamo definirlo un mese di transizione: maggio sarà infatti ricco di eventi, con i ritorni di Arctic Monkeys, Beach House e Courtney Barnett. Nondimeno, abbiamo un CD candidato a disco dell’anno di A-Rock. Abbiamo recensito soprattutto artiste: i CD di Janelle Monáe, Kacey Musgraves, Cardi B e Frankie Cosmos sono gli highlights. Tra i maschietti, abbiamo i lavori di The Weeknd e Amen Dunes. Buona lettura!

Janelle Monáe, “Dirty Computer”

janelle

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Se c’era un difetto in “The ArchAndroid” e “The Electric Lady”, era l’eccessivo numero di canzoni e, di rimando, il minutaggio: entrambi superavano l’ora, con 17-18 canzoni, divise in entrambi i casi in due suite. Janelle utilizzava uno pseudonimo, Cindi Mayweather, appunto un androide, attraverso cui narrava metaforicamente le difficoltà dei “diversi”, che si parlasse di razza, sessualità o religione. Insomma, progetti di sfrenata ambizione, riusciti ma non per tutti i palati. Con “Dirty Computer”, invece, l’artista statunitense ha puntato il dito sui propri tormenti interiori, risultando in un LP più semplice ma anche più coeso; in poche parole, un capolavoro.

L’inizio è ottimo: nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock.

Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

Liricamente, basti dire che Janelle ha eletto lo slogan “Let the rumours be true” a simbolo di “Dirty Computer”: diciamo che i gossip relativi alla sua sessualità vengono più volte confermati nel corso del disco. Il breve film tratto dal disco e i video dei singoli avevano già fatto intravedere il coming out: diamo atto che l’artista ha sempre avuto atteggiamenti ambigui, ma questa confessione dimostra coraggio. Insomma, “Dirty Computer” pare più avere lo scopo di esorcizzare i propri demoni che possedere messaggi universali, tuttavia i testi non risultano mai banali o troppo concentrati sull’ego di Janelle.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane, al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, come già detto, un capolavoro fatto e finito. Uno dei più bei CD non solo dell’anno, ma dell’intera decade.

Voto finale: 9.

Amen Dunes, “Freedom”

freedom

“Freedom” è il quinto lavoro del cantautore americano Damon McMahon, in arte Amen Dunes; ed è probabilmente quello destinato ad ottenere il maggior successo. McMahon infatti, per la prima volta, si affida ad un rock molto orecchiabile, abbandonando le influenze ambient e sperimentali che caratterizzavano i suoi precedenti CD, per rifarsi a classici come Bob Dylan e Neil Young.

Già la prima traccia vera e propria, dopo la sognante Intro, è testimonianza forte di questo cambiamento: Blue Rose è un pezzo delicato, apparentemente facile, ma che in realtà migliora ad ogni ascolto, un po’ come tutto il disco. Ma i brani riusciti non sono certo finiti qui: il nucleo del CD è Believe, pezzo di quasi sei minuti ma per nulla monotono. Buona anche Skipping School. Risultano invece meno belle Calling Paul The Suffering e L.A., troppo lunga. In generale, tuttavia, come già accennato, “Freedom” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli, anche grazie all’ottima produzione.

Liricamente, “Freedom” tratta il tema della perdita di una persona cara: la madre di Damon è morta di cancro alcuni anni fa, proprio mentre lui stava componendo il disco, che dunque riflette questa tragica perdita. Non a caso, predominano temi religiosi: Believe lo fa intuire già dal titolo, mentre in Blue Rose canta “We play religious music. Don’t think you understand, man”. Nondimeno, il disco è più affascinante per le sonorità che per i testi, spesso infatti la voce di Damon è soffusa e le parole inintelligibili, sulla falsariga di Panda Bear o Bradford Cox dei Deerhunter, per intendersi.

In conclusione, siamo di fronte ad una “rivoluzione conservatrice”, verrebbe da dire: McMahon, partito da lidi sperimentali, è finito per approdare a suoni e ritmi più accessibili, fra folk e rock. Anche una mossa del genere denota coraggio; quando poi i risultati sono così eccellenti, non si può non lodarla.

Voto finale: 8.

Kacey Musgraves, “Golden Hour”

kacey

Al quarto album non indipendente, la prolifica cantante americana Kacey Musgraves ha finalmente trovato quello che gli anglosassoni chiamano “breakthrough”: quel momento in cui anche il grande pubblico inizia ad apprezzarti e dai piccoli club si iniziano a riempire le arene medie e si viene invitati ai festival. Premio meritato, dato che “Golden Hour” è uno dei migliori album country del decennio.

Il CD mescola abilmente ballate a pezzi più pop, quasi dance (ad esempio High Horse), facendo di “Golden Hour” un ibrido strano, ma non in senso negativo; anzi, è proprio la bravura della Musgraves a muoversi con equilibrio tra generi apparentemente lontani a farne uno dei dischi più apprezzati dell’anno, sia dalla critica che dal pubblico.

L’inizio è magnifico: Slow Burning è, nomen omen, lenta a carburare anche nella realtà, ma è una canzone davvero magnifica. Anche la successiva Lonely Weekend è importante nell’economia dell’album, dato che introduce in maniera squisita la dualità del disco: un country finalmente al passo con i tempi, che possa comunicare qualcosa anche a chi non ama il genere. Altri ottimi brani sono la title track e l’intensa Love Is A Wild Thing. Oh, What A World inizia a metà fra Bon Iver e Daft Punk, ma poi vira su territori più conosciuti a Kacey. Convincono meno Butterflies e Happy & Sad, che sono non per caso anche i pezzi più “conservatori” del lavoro.

I testi della Musgraves rimandano soprattutto a temi legati all’amore, soprattutto a relazioni passate, quando lei canta per esempio “Sunsets fade and love does too” in Space Cowboy, oppure “All I need’s a place to land” in Wonder Woman. Tutto, però, ha una conclusione lieta in Rainbow, che già nel titolo racchiude il messaggio che la cantante ha infine trovato una sorta di pace interiore.

In conclusione, la bella Kacey Musgraves ha tutto per sfondare: grande fascino, talento compositivo non comune, abilità canora e presenza scenica. Che sia lei la prossima stella del country, famosa non solo in America?

Voto finale: 8.

Cardi B, “Invasion Of Privacy”

cardi b

L’esordio discografico della rapper americana Cardi B, anticipato dal celeberrimo singolo Bodak Yellow e da molti altri in cui spiccavano collaborazioni con SZA e Chance The Rapper, è sorprendente. Molti haters pensavano che lei sarebbe stata sopraffatta dalla pressione di produrre un CD all’altezza di quel primo singolo, ma lei non ha deluso. Affrontando generi molto differenti, pur restando nel sentiero a lei più congeniale della trap, Cardi B è riuscita a parlare della sua “prima vita” non risultando monotona, anzi essendo coinvolgente, forte e fragile allo stesso tempo.

Ma andiamo con ordine. “Invasion Of Privacy” ha almeno due pregi: la lunghezza e il numero di canzoni sono pienamente accettabili (13 pezzi per 49 minuti) e la franchezza di Belcalis Almanzar (questo il vero nome di Cardi B) nel parlare anche dei fatti più brutti da lei vissuti è ammirevole. Abbiamo versi notevoli come “I write a verse while I twerk”, in She Bad, riferimento al suo passato da spogliarellista che sognava di diventare una famosa rapper; oppure “Those comments used to kill me. But never did I change, never been ashamed”, in Best Life: i commenti sono superflui.

Musicalmente, come già anticipato, il disco si inserisce nel filone trap che sta diventando dominante nel rap moderno: non a caso fra i collaboratori ingaggiati da Cardi B troviamo i Migos, grandi esponenti del genere. Nondimeno, anche chi non ama alla follia la trap può trovare qualcosa di interessante: dal rap melodico e non troppo carico di Get Up 10, al rap-gospel di Best Life (dove non a caso compare Chance The Rapper), al reggae di I Like It per finire con il pop suadente di Ring. Insomma, un cocktail sonoro esplosivo, impreziosito dalle collaborazioni con SZA, Chance The Rapper, Migos, Kehlani e 21 Savage.

Non tutto fila liscio: quando si prendono tutti questi rischi, è fisiologico. Non convincono appieno Money Bag e Bartier Cardi, ma i risultati complessivi sono comunque accettabili. Complessivamente, dunque, “Invasion Of Privacy” è un buon esordio per Cardi B, che probabilmente in futuro avrà modo di affinare ulteriormente il suo stile. Le premesse per una carriera radiosa ci sono tutte: puntare contro di lei si è rivelato un errore.

Voto finale: 7,5.

Frankie Cosmos, “Vessel”

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Il terzo album di Greta Kline, meglio conosciuta con il nome d’arte Frankie Cosmos, è un ulteriore approfondimento dell’indie rock che l’ha resa celebre. Non il suo lavoro migliore, però senza dubbio merita un ascolto attento, sia per le canzoni presenti che per le liriche, sempre pungenti.

Il grande problema di “Vessel” è l’eccessiva frammentarietà: stiamo parlando di un disco composto da 18 canzoni ma di soli 33 minuti di durata! Molte infatti non raggiungono nemmeno i due minuti. Non è un caso, tuttavia, che le più belle siano quelle più rifinite: per esempio Caramelize e Being Alive. In effetti, “Vessel” ha il suo fascino, in un certo senso, proprio in questo senso di indeterminatezza: sembra di aver sorpreso un artista nel bel mezzo della lavorazione.

Testualmente, la Kline si conferma molto abile nel fotografare la condizione dei ventenni contemporanei, sospesi fra precarietà e voglia di vivere. Tra le liriche più efficaci abbiamo “Being alive matters quite a bit, even when you feel like shit”, contenuta in Being Alive, e “I wasn’t built for this world. I had sex once, now I’m dead”, in Cafeteria. In generale, dunque, traspare un certo pessimismo per il futuro, non inusuale in Greta e in molti giovani.

Tra i brani migliori abbiamo le già citate Caramelize e Being Alive; molto carina anche Jesse. Convincono meno i pezzi più abbozzati, come Bus Bus Train Train e gli intermezzi (addirittura sotto al minuto) Hereby, Ur Up? e My Phone. Peccato, perché con questi pezzi definitivamente compiuti avremmo avuto risultati migliori.

In generale, pertanto, l’evoluzione di Frankie Cosmos ha subito una battuta d’arresto, non tanto in termini di qualità quanto in termini di compiutezza dei brani ed eccessiva frammentarietà della tracklist. Risolti questi due problemi, la Kline potrebbe regalarci il lavoro superbo che tutti sappiamo essere nelle sue corde.

Voto finale: 7,5.

The Weeknd, “My Dear Melancholy, EP”

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Il nuovo lavoro di Abel Tesfaye è un breve EP, composto da sei canzoni e della durata di 21 minuti: un disco agile, finalmente, dopo due album buoni ma penalizzati da un eccessivo numero di canzoni come “Beauty Behind The Madness” (2015) e “Starboy” (2016). Le sonorità di The Weeknd, inoltre, segnano un ritorno alle origini per l’artista canadese: l’R&B oscuro di “My Dear Melancholy,” riporta ai primi tre mixtape pubblicati da Tesfaye, in particolare “House Of Balloons” (2011). Il problema è che le canzoni non sono così innovative ed efficaci come suonavano i pezzi della trilogia di mixtape pubblicati ormai sette anni fa.

Abbiamo senza dubbio una produzione raffinata e un mixaggio ottimo, ma la sostanza dei pezzi è meno consistente: tra i migliori abbiamo Try Me e Calling Out My Name, mentre sono meno riusciti Wasted Times e la conclusiva Privilege.

La cover, molto scura, come il titolo “My Dear Melancholy,”, con quella virgola messa in fondo, fa capire che il lavoro è più diretto ad affrontare i demoni interni di Abel, fatti di cadute in depressione e uso di droghe, che per parlare di temi universali, quasi si trattasse di una lettera a sé stesso.

In generale, dunque, non siamo certo di fronte ad un lavoro rivoluzionario, ma The Weeknd cerca con questo buon EP di ingraziarsi quella fetta del suo (immenso) pubblico che non aveva gradito troppo la svolta pop intrapresa a cavallo fra mixtape ed album veri e propri. Un buon punto di (ri)partenza, aspettando di capire se la popstar canadese tornerà in territori R&B anche nel suo prossimo CD oppure rimarrà sul pop à la Michael Jackson che lo ha reso celebre.

Voto finale: 7.

 

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