Recap: maggio 2018

Anche maggio è terminato. Un mese ricchissimo di uscite musicali molto attese, su tutte Arctic Monkeys e Beach House, i cui CD sono stati analizzati qualche giorno fa. Ma abbiamo ovviamente anche il nostro recap: ad A-Rock ci concentriamo su Courtney Barnett, Jon Hopkins, Gas, Grouper, DJ Koze, gli Iceage e i Parquet Courts.

Parquet Courts, “Wide Awake!”

wide awake

Giunti ormai al settimo album di studio, considerando anche quelli registrati come Parkay Quarts e quello collaborativo con il DJ italiano Daniele Luppi, i Parquet Courts non intendono interrompere la striscia vincente iniziata con “Light Up Gold” (2012), un mix di irriverenza, indie rock estremamente orecchiabile e testi spesso allegramente nonsense.

La copertina di “Wide Awake!” effettivamente sembra proseguire su questa traiettoria; anche un ascolto del disco conferma questa prima impressione. Il CD inizia subito a mille: Total Football e Violence ricordano le sonorità del precedente lavoro del gruppo, “Human Performance” (2016), mentre Before The Water Gets Too High è più sperimentale, sulla falsa riga di “Sunbathing Animal” (2014). Invece, Mardi Gras Beads è forse il pezzo più melodico mai scritto da Savage & co., ricordando gli Arctic Monkeys di Mardy Bum.

Anche la seconda parte del disco contiene canzoni molto interessanti, che ne fanno ad ora il disco più vario e completo della produzione dei Parquet Courts: Back To Earth è strana ma riuscita, Normalization breve ma coinvolgente. Tolti i due intermezzi NYC Observation e Extinction, insomma, il CD è davvero ottimo, il migliore di una band sempre al passo con la modernità e pronta a cambiare quel tanto da risultare fresca. “Wide Awake!” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli. Bravi, Parquet Courts.

Voto finale: 8,5.

Jon Hopkins, “Singularity”

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Il nuovo lavoro del compositore inglese Jon Hopkins, uno dei più stimati nel panorama della musica elettronica, conferma tutte le sue qualità. Mescolando abilmente techno e ambient, “Singularity” è fino ad ora uno dei CD di elettronica più intriganti del 2018, che in generale si sta rivelando eccellente per questo tipo di musica: basti pensare ai dischi pubblicati da Nicolas Jaar (A.A.L.) o da DJ Koze (si veda più in basso).

La partenza è ottima: Singularity è potente e suadente allo stesso tempo, ricordando Aphex Twin nei suoi momenti migliori. Il titolo evoca la vita e, contemporaneamente, la singolarità: ossia quel momento in cui la capacità delle macchine supererà la mente umana. Insomma, il disco sembra quasi assumere l’aspetto di un concept album. Fatto ulteriormente confermato dalle altre tracce presenti, dai titoli altamente evocativi, come C O S M, Everything Connected e Feel First Life.

Tecnicamente, come sempre, Jon Hopkins si dimostra un maestro: la produzione e il mixaggio sono magnifici, l’ospitata di Clark in Emerald Rush aggiunge ulteriore profondità alla canzone… Insomma, da questo punto di vista nulla da eccepire. Possono risultare invece troppi e molto densi i 62 minuti dell’album, che infatti per essere pienamente apprezzato richiede almeno 3-4 ascolti. Nondimeno, il premio per questa pazienza è uno degli LP di musica elettronica migliori del decennio.

I pezzi migliori sono la title track, Emerald Rush, Luminous Beings e Recovery, che riporta alla mente le sonorità ambient di Brian Eno. Ma nessuna traccia è veramente deludente, sintomo di un album difficile (alcune canzoni superano i 10 minuti) ma coeso. Giunto al quinto CD di inediti, Hopkins sembra aver trovato la definitiva maturità. Chi pensava che “Immunity” (2013) fosse solo un episodio fortunato dovrà ricredersi.

Voto finale: 8.

DJ Koze, “Knock Knock”

dj koze

Maggio è stato un mese importante per la musica in generale, ma in particolare per rock ed elettronica. Se nel primo caso abbiamo visto e ascoltato i nuovi dischi di Arctic Monkeys, Beach House, Parquet Courts e Courtney Barnett, nel secondo sia DJ Koze che Jon Hopkins hanno pubblicato i loro nuovi dischi. Entrambi sono artisti molto quotati e sempre più in vista anche per il grande pubblico, quindi i loro ritorni erano attesi.

Il dj tedesco Stefan Kozalla, in arte DJ Koze, fra dischi veri e propri e remix è stato molto attivo negli scorsi anni. Molti lo hanno scoperto grazie al suo “breakthrough album” del 2013, “Amigdala”, un mix sapiente di dance e psichedelia. “Knock Knock” riprende quella formula, allargando però il campo di gioco alla techno e all’elettronica minimal di The Field e Aphex Twin. Ne sono esempio pezzi come Bonfire (con un azzeccato sample di Bon Iver mentre canta Calgary) e Club Der Ewigkeiten. Dunque, un CD molto vario ed eclettico, quasi troppo: i 79 minuti sono davvero tanti. Diciamo che, con 2-3 canzoni in meno (ad esempio Moving In A Liquid e Planet Hase), i risultati sarebbero stati ancora migliori.

Non è da buttare, però, questo “Knock Knock”; anzi, è molto probabile che ci troveremo a ballare nelle discoteche e nei club sui pezzi di DJ Koze. I brani migliori, come Colors Of Autumn e Music On My Teeth, sono infatti quasi perfetti e rappresentano il picco per qualsiasi artista di musica elettronica. Infine, menzioniamo lo sterminato parco ospiti presenti in “Knock Knock”: José Gonzalez, Róisín Murphy, Kurt Wagner dei Lambchop e Sophia Kennedy sono solo i più famosi. Molti compaiono più volte, a dimostrazione della fiducia che avevano nel progetto di DJ Koze e della volontà di quest’ultimo di creare un lavoro coeso.

Perciò, in conclusione, Kozalla ha pubblicato quello che fino ad ora è il suo lavoro più riuscito: vario, differenziato e molto divertente. Sarà difficile in futuro fare di meglio, ma le sue capacità compositive sembrano in costante crescita. Un fatto che ci fa decisamente ben sperare per i prossimi suoi dischi.

Voto finale: 8.

Gas, “Rausch”

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La carriera del compositore tedesco Wolfgang Voigt, emblema della musica ambient da ormai più di vent’anni, è molto strana: al colmo della fama, dopo album di grande spessore come “Königforst” (1999) e “Pop” (2000), il progetto Gas venne messo in soffitta per oltre quindici anni. Il ritorno avvenne infatti solo nel 2017, con “Narkopop”: un CD che riprendeva le tipiche sonorità di Voigt, vale a dire canzoni molto lunghe, a tratti apparentemente monotone, ma dalla grande intensità e capacità evocativa. Non a caso, era entrato con merito nella top 50 degli album di A-Rock.

Il sesto disco con il nome Gas di Voigt, “Rausch”, arriva quindi a pochi mesi da “Narkopop”: molto strano, per un artista al sesto lavoro in 22 anni di attività. L’urgenza di pubblicare questo nuovo LP deriva forse dalla temperie politica: Voigt ha infatti creato un CD molto cupo, forse il più oscuro come ritmi e sonorità della sua produzione. Forse un riferimento alla politica tedesca, dove l’estrema destra sembra tornata a farsi sentire? In effetti, i 60 minuti di “Rausch” sarebbero la perfetta colonna sonora per questi tempi grami ed incerti.

L’inizio non è neppure troppo pessimista: Rausch 1 è molto dolce ed evoca paesaggi misteriosi, come solo la miglior musica ambient riesce a fare. Tuttavia, già dalla seconda delle sette canzoni che compongono il lavoro, le cose cambiano: Rausch 2 e Rausch 3, infatti, sono davvero opprimenti e compongono il nocciolo dell’intero CD. Non si tratta, lo avrete capito, di un ascolto facile: per apprezzarne appieno le sfumature occorrono svariati ascolti e molta attenzione, ma il disco resta uno dei migliori del 2018 per quanto riguarda la musica elettronica. Belle in particolare Rausch 1 e Rausch 5; troppo lunga invece Rausch 3.

Potranno piacere o meno, ma queste lunghe canzoni dove ben poco cambia riescono comunque a trasmettere il senso di irrequietudine dell’artista: non un pregio da poco in tempi (musicali se non altro) dove la superficialità sembra farla sempre più da padrona.

Voto finale: 8.

Iceage, “Beyondless”

iceage Beyondless

Il quarto album dei danesi Iceage rappresenta un passo in avanti ambizioso per la band. Il punk feroce delle origini è ormai abbandonato, come già il precedente album “Plowing Into The Field Of Love” (2014) aveva lasciato intuire. Elias Bender Rønnenfelt e compagni, infatti, lasciano ampio spazio in “Beyondless” ad un punk-rock atmosferico, che ricorda quello dei maestri Joy Division, specialmente quelli di “Closer”, ma si rifà anche ai Preoccupations.

A colpire, come detto, è la vena quasi melodica di questo lavoro: non per caso, anche una cantante pop come Sky Ferreira dà il suo contributo, nel brano semi-glam Pain Killer. Tuttavia, gli episodi migliori fra i dieci brani del CD sono proprio quelli più duri: per esempio, Hurrah o la potente Catch It. Thieves Like Us ricorda gli Oasis, solo più punk, mentre Showtime è un pezzo quasi pop. Insomma, un pot-pourri di suoni molto vario, per certi versi ammirevole e per altri confusionario. Ad esempio, Under The Sun e The Day The Music Dies sono abbastanza deboli.

Insomma, malgrado una base ritmica come sempre efficace e la voce di Elias Bender Rønnenfelt calda ed espressiva come mai, “Beyondless” è il disco più debole finora nella produzione degli Iceage. Non per questo, tuttavia, è tutto da buttare: il desiderio di sperimentare nuove sonorità senza abbandonare le proprie radici punk è lodevole, speriamo che nel prossimo LP i risultati siano migliori.

Voto finale: 7,5.

Courtney Barnett, “Tell Me How You Really Feel”

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L’attesissima seconda prova della giovane cantante australiana Courtney Barnett è finalmente arrivata: “Tell Me How You Really Feel” arriva a pochi mesi dall’album collaborativo pubblicato con Kurt Vile, “Lotta Sea Lice” (2017), e tre anni dopo “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit”. Un debutto definito istantaneamente un classico dell’indie rock anni ’10: riff potenti, canzoni incalzanti e liriche mai banali. Insomma, la dimostrazione di un talento cristallino, ulteriormente arricchito dalla collaborazione con Vile. Insomma, le premesse per un ottimo secondo album c’erano tutte.

Peccato, perché sono state mantenute solo in parte. Infatti, “Tell Me How You Really Feel” ha poco dell’immediatezza del suo predecessore: ciò di per sé non sarebbe un male, tuttavia le canzoni sono in generale meno efficaci anche dopo ripetuti ascolti. Certo, la classe di Courtney salva la baracca in più di un caso: Nameless, Faceless è un ottimo singolo e parla di un tema molto attuale (gli haters sui social network), City Looks Pretty sarebbe stata benissimo nel suo primo CD. Detto questo, alcune delle dieci canzoni del disco (pochine) sono meno convincenti: ad esempio, Hopefulessness e I’m Not Your Mother, I’m Not Your Bitch mancano di nerbo.

Le liriche, come già detto, mantengono la sagacia e ironia di “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit”: in molti casi si fa riferimento alla fragilità e incertezza che pervadono gli esseri umani, specialmente in questa epoca (Crippling Self Doubt And A General Lack Of Self Confidence ma anche Help Your Self), oppure all’angoscia nel sapere che alcuni individui conoscono tutto di noi grazie alla nostra attività su Internet (“I don’t know a lot about you, but you seem to know a lot about me” canta in Need A Little Time, vero highlight del lavoro).

In generale, a conti fatti, Courtney Barnett ci ha parzialmente delusi: chi si aspettava il definitivo manifesto delle sue qualità canore dovrà attendere il prossimo album, sperando che questa volta la talentuosa australiana non si rinchiuda nelle sue incertezze e ci regali un LP aperto e compiuto. Attendere tre anni per un CD di “semplice” indie rock, composto da dieci canzoni per 37 minuti, è un po’ deludente: peccato, ma confidiamo in un miglior risultato in futuro.

Voto finale: 7,5.

Grouper, “Grid Of Points”

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L’undicesimo album della prolifica artista statunitense Liz Harris è anche il suo lavoro più breve ed etereo: appena 22 minuti e 7 canzoni. Quasi un EP, per certi versi. Musicalmente, la Harris ritorna sulle tracce che le avevano permesso di comporre “Ruins” nel 2014, tutt’oggi il suo miglior disco.

Abbandonati gli sperimentalismi elettronici dei suoi primi CD, Liz ha via via virato verso ballate tanto dolci quanto strazianti: ne sono esempio dischi come “Ruins” e “Grid Of Points”, due lavori molto simili, che mescolano pianoforte e musica ambient. Basti pensare che “Grid Of Points” inizia e finisce con suoni presi dal mondo fuori dallo studio di registrazione: The Races evoca le corse dei cavalli e delle auto, mentre Breathing termina in un suono di un treno che si allontana, costante e malinconico.

Il maggior problema di questo album è la sua eccessiva brevità: non si fa in tempo a calarsi nelle atmosfere rarefatte create da Grouper che il CD è terminato. A tal proposito, malgrado i quattro anni passati fra i due LP, non è sbagliato dire che “Grid Of Points” è un “Ruins” meno complesso, ma anche meno affascinante (forse una raccolta di b-sides?).

Non vanno tuttavia disprezzate le atmosfere evocative di pezzi brevi ma intensi come Parking Lot e Driving, ma nemmeno il fatto che solo cinque canzoni del CD superano i 3 minuti di durata… Insomma, quando la Harris dice che per comporlo ha impiegato 10 giorni c’è da crederle. Speravamo di meglio ecco, però il talento di Grouper resta intatto: ci auguriamo che in futuro sappia essere più audace nelle sue composizioni.

Voto finale: 7.

Arctic Monkeys e Beach House: due svolte riuscite

Maggio si preannunciava un mese molto intenso; e in effetti non sta deludendo le aspettative. Ad A-Rock, in attesa del consueto recap, ci concentriamo su due CD usciti venerdì 11 maggio. Stiamo parlando dei ritorni di Arctic Monkeys e Beach House, due fra i gruppi più amati nel mondo indie. Entrambe le band hanno intrapreso coraggiosi cambiamenti nel loro sound, ma i risultati sono stati all’altezza delle attese? Andiamo a scoprirlo.

Beach House, “7”

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I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare avanti, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Il numero 7 è molto presente nella simbologia dell’album: “7” è intanto il settimo CD del duo, il loro catalogo è composto da 77 pezzi, il primo singolo è stato pubblicato il 14/02 (1+4+2=7) e il terzo il 03/04… Insomma, tutto sembrava complottare in favore di questo titolo scarno. Tuttavia, come sempre, non si ascolta un CD dei Beach House per i messaggi insiti nelle liriche delle canzoni, quanto piuttosto per le atmosfere che i brani sanno evocare.

Ebbene, possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks e Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band.

Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

In conclusione, i Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: quando si ha talento, cambiare non deve spaventare, anzi può servire a scoprire delle abilità nascoste. Ad esempio, chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

Voto finale: 8,5.

Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino”

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Abbiamo aspettato cinque anni (al 2013 risale infatti “AM”). Ancora una volta, Alex Turner e soci hanno radicalmente cambiato pelle, approcciando un pop-rock con inserti blues e jazz che mai ci saremmo aspettati da loro, specialmente dopo un disco a tratti hard rock come “AM” e le esperienze di Turner e del batterista Matt Helders con due mostri sacri del rock pesante come Josh Homme e Iggy Pop.

“Tranquility Base Hotel & Casino” è infarcito di riferimenti culturali; a dirla tutta, è un vero e proprio concept album, composto praticamente in solitudine da Turner nella sua casa di Los Angeles. Egli si immagina che gli umani abbiano ormai colonizzato la Luna e che vi siano stati aperti locali, tra cui appunto il Tranquility Base (sia hotel che casinò) e la sua band suoni proprio in questo locale. Il nome non è casuale: il Tranquility Base era il sito lunare dove l’astronave americana Apollo 11 atterrò nel 1969. I riferimenti a romanzi e film di fantascienza sono poi sparsi lungo le 11 canzoni dell’album: vi è una canzone dedicata al tema (Science Fiction), una che evoca addirittura Batman (la suadente Batphone)… Nell’epica Four Out Of Five, si fa riferimento ad un libro del 1985, “Amusing Ourselves To Death”, in cui pionieristicamente si anticipavano i rischi che l’eccessivo flusso di informazioni, spesso false, può avere sugli uomini.

In effetti, questo è anche il disco più politico degli AM: oltre al riferimento alle fake news, Turner parla del presidente americano Donald Trump definendolo “un wrestler che veste pantaloncini dorati” (Golden Trunks) e degli effetti deleteri che una vita vissuta sui social media ha sulle persone più vulnerabili (She Looks Like Fun). Accanto a tutto questo, arriva anche una stoccata ai critici di professione (forse anche quelli musicali?), in Four Out Of Five.

Insomma, carne al fuoco ne abbiamo davvero moltissima. Ma musicalmente, il CD è riuscito o no? Ad un primo ascolto, le scimmie artiche sembrano aver perso tutto quello che le rendeva speciali: assoli praticamente assenti, la batteria di Helders a malapena percettibile, basso mai in evidenza. Tuttavia, iniziando ad apprezzare anche il contesto in cui Turner ha posto il disco, si inizia a comprendere pienamente i pezzi. Evidenti sono le influenze di “Pet Sounds” dei Beach Boys, ma anche di Leonard Cohen e Serge Gainsbourg, non casualmente alcuni degli artisti più apprezzati da Alex Turner.

I pezzi migliori sono l’iniziale Star Treatment, la spettacolare ballata The Ultracheese e Batphone; meno riuscite Golden Trunks (Helders completamente assente) e la confusa She Looks Like Fun, che evoca Jack White ma non pare completamente a fuoco.

In conclusione, Turner & co. hanno ancora una volta sorpreso i loro fan: chi si aspettava un nuovo “AM” rimarrà completamente deluso, nondimeno va elogiata la capacità degli Arctic Monkeys di riuscire ad ogni LP a cambiare pelle: passando dall’indie allo stoner rock, dal brit pop all’hard rock e ora al lounge pop, hanno mantenuto un livello compositivo altissimo. Averne di gruppi così coraggiosi e talentuosi; potrebbero davvero essere i Blur o, chissà, i Radiohead degli anni a venire.

“I just wanted to be one of the Strokes, now look at the mess you made me make”. Tutto il disco può essere sintetizzato in questo verso, rintracciabile in Star Treatment (titolo evocativo del trattamento riservato allo star system, peraltro). Probabilmente, però, l’allievo (Alex) ha superato il maestro (Julian).

Voto finale: 8.