Recap: giugno 2018

Anche giugno è finito. Un mese pieno di uscite interessanti, a volte inattese, di artisti molto amati. Ad A-Rock recensiamo i nuovi dischi di Father John Misty, Natalie Prass, dei Deerhunter e di Stephen Malkmus (ex leader dei Pavement) assieme ai fidati Jicks. Ma soprattutto punteremo l’attenzione sulla collaborazione della più potente coppia della musica contemporanea: Jay-Z e Beyoncé.

Father John Misty, “God’s Favourite Customer”

fjm

Joshua Tillman è giunto al quarto CD sotto il nome di Father John Misty, quello che lo ha portato alla celebrità e contemporaneamente a diventare uno dei cantautori indie più discussi anche online, a causa delle sue prese di posizione sempre controverse, ma mai banali. “God’s Favourite Customer” arriva pochi mesi dopo il monumentale “Pure Comedy”, senza dubbio il lavoro più ambizioso di Tillman: il CD era infatti un’analisi di tutti i mali della società contemporanea, fatta su canzoni molto barocche, per una durata complessiva di 74 minuti. Insomma, un lavoro potenzialmente molto divisivo, che tuttavia aveva fatto breccia anche nel pubblico meno ricercato ed era entrato in molte liste dei migliori album del 2017 (compresa la nostra) con pieno merito.

“God’s Favourite Customer” probabilmente avrà la stessa fortuna, ma per motivi opposti: il disco è considerevolmente più breve di “Pure Comedy” e caratterizzato da canzoni meno complesse. Anche liricamente l’album è radicalmente diverso: adesso Tillman affronta i propri demoni personali, lasciando da parte le riflessioni sul mondo esterno. I risultati, come sempre con lui, sono ottimi.

Già le prime due tracce, Hangout At The Gallows e Mr. Tillman, rappresentano appieno questa svolta: ritorno alle ritmiche e sonorità di “Fear Fun”, durata ragionevole e immediato appeal. Il CD proseguirà poi su questa strada, affiancando canzoni più rock (la bella Disappointing Diamonds Are The Rarest Of Them All e We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That)) ad altre più melodiche (Just Dumb Enough To Try e The Songwriter). A coronamento di tutto sta la bella voce di Father John Misty, più calda ed evocativa che mai: basti sentire The Palace, solo voce e piano.

Liricamente, dicevamo, Tillman affronta gli angoli più oscuri della sua psiche, in particolare la paura di perdere l’amata moglie e le pene d’amore che questo provocherebbe. Un’apertura considerevole e sincera, soprattutto considerato che parliamo di un artista noto per il suo ego infinito e la sua sagace ironia piuttosto che per la sua fragilità.

In conclusione, in soli 38 minuti e dieci canzoni, Father John Misty conferma ancora una volta il suo immenso talento: mescolando influenze disparate (da Neil Young a Bob Dylan ai Fleet Foxes, il suo ex gruppo), Joshua Tillman ha prodotto un LP tanto semplice quanto gradevole. Chissà che il picco delle sue capacità non debba ancora essere raggiunto…

Voto finale: 8.

Stephen Malkmus And The Jicks, “Sparkle Hard”

stephen malkmus

Chi apprezza l’indie rock non può non venerare Stephen Malkmus, un artista che ha fatto la storia di questo genere con i Pavement negli anni ’90 del secolo scorso. Nondimeno, la sua carriera non si esaurì con lo scioglimento del gruppo: Malkmus ha poi cominciato una fiorente carriera alternativa con il suo nuovo complesso, i Jicks, non limitandosi a prendere ispirazione dai Pavement, ma anzi cercando sempre nuove sperimentazioni.

Ne è un’ulteriore dimostrazione questo “Sparkle Hard”, settimo CD di Stephen Malkmus assieme ai Jicks: accanto al classico indie rock che da lui ci aspetteremmo troviamo infatti uso diffuso del pianoforte e dell’autotune, che tanto va di moda oggi. Inoltre, Kim Gordon (ex Sonic Youth) fa una comparsata molto efficace in Refute.

I testi delle 11 canzoni dell’album poi sono molto attuali: in Bike Lane Malkmus fa riferimento all’uccisione da parte della polizia di Freddie Gray, un caso che ha destato molto scalpore negli USA; in Middle America si schiera a fianco del movimento #MeToo, cantando che “Men are scum, I won’t deny it”. Non spesso si sente un artista di mezz’età cantare cose così forti: un merito in più di Stephen Malkmus.

I pezzi migliori sono Cast Off, la sognante Middle America e l’energica Shiggy; convincono meno Brethren e Difficulties – Let Them Eat Vowels, ma non sono in ogni caso pezzi da buttare. Diciamo che, se Ty Segall canterà ancora nel 2028, ci aspettiamo di sentirlo cantare così: intenso, ma consapevole che il tempo è passato e che, accanto all’energia delle origini, devono trovare spazio anche riflessioni più profonde sulla società e su quello che non va.

In conclusione, “Sparkle Hard” non è un LP che cambierà i destini del rock; del resto, Malkmus ne ha già prodotti almeno un paio con i Pavement, basti citare “Slanted, Enchanted” oppure “Crooked Rain, Crooked Rain”. Allo stesso tempo, però, si sentiva nel mercato la necessità che vedesse la luce un disco indie rock impegnato. Ben fatto, Stephen.

Voto finale: 8.

Natalie Prass, “The Future And The Past”

natalie prass

Il secondo album, si sa, è spesso la prova più difficile per un artista, specialmente dopo un buon lavoro d’esordio. Natalie Prass, in effetti, non ha dato alla vita “The Future And The Past” senza problemi: a fine 2016 le canzoni erano già pronte, però l’elezione di Donald Trump l’ha così scioccata che si è trovata costretta a riscrivere gran parte dei testi.

Musicalmente, rispetto all’omonimo “Natalie Prass” del 2015, le cose cambiano leggermente: mentre il primo suo CD eccelleva nelle strumentazioni barocche, adesso Natalie canta spesso su basi molto anni ’80, che richiamano Prince e i Police. Insomma, il riferimento al passato evocato nel titolo trova una soluzione; e il futuro?

Effettivamente, più che guardare al futuro, il disco è molto adatto al presente: in Sisters la Prass chiama le donne a raccolta per resistere al presidente più maschilista della storia. In Ship Go Down, il riferimento della metafora “I’ve always felt the rain, but now a hurricane is pouring on me” è evidente.

I brani migliori di un disco generalmente riuscito sono le iniziali Oh My e Short Court Style, molto danzerecce rispetto al disco d’esordio; la trascinante Ship Go Down; e Sisters. Meno convincente la monotona Hot For The Mountain e superfluo il breve intermezzo Interlude: Your Fire. Come già anticipato, tuttavia, pur non parlando di un capolavoro, Natalie Prass si conferma sostanzialmente ai livelli dell’omonimo esordio del 2015. Esame secondo album superato, dunque.

Voto finale: 7,5.

The Carters, “EVERYTHING IS LOVE”

the carters

Il nome del duo autore di “EVERYTHING IS LOVE” può trarre in inganno: chi saranno mai questi Carters? Ebbene, stiamo parlando della coppia più celebre e potente della musica nera (ma forse di tutta la musica): Jay-Z e Beyoncé. I due hanno infatti realizzato questo album collaborativo a compimento della crisi e della successiva riconciliazione che li ha visti protagonisti negli scorsi anni. Il CD è parte di una trilogia di cui fanno parte anche gli acclamati “Lemonade” e “4:44”, in cui Beyoncé e Jay-Z riflettevano soprattutto sulle rispettive responsabilità. Non è dunque un caso se l’album della definitiva riconciliazione si intitola “EVERYTHING IS LOVE”. In APESHIT Jay-Z trova peraltro anche il tempo di prendere in giro i suoi colleghi dell’industria discografica, sia perché su 8 nomination ai Grammy dello scorso anno “4:44” non ha vinto nulla, sia per non averlo difeso nella causa che la NFL ha intestato contro di lui per aver rifiutato di esibirsi al Super Bowl dopo aver dato la sua parola, per presunte beghe legate al compenso pattuito (“I said no to the Super Bowl: you need me, I don’t need you. Every night we in the end zone, tell the NFL we in stadiums too… Tell the Grammy’s fuck that 0 for 8 shit”).

Musicalmente, il disco è un perfetto incrocio fra lo stile dei due: abbiamo infatti tracce prettamente pop (la bella SUMMER e HEARD ABOUT US) e tracce che richiamano il rap old style di Jay-Z (713). Allo stesso tempo, tuttavia, la coppia ha una volta di più mostrato il suo talento: notiamo infatti tracce R&B e addirittura trap (FRIENDS e APESHIT, in cui non è un caso che collaborino anche Quavo e Offset dei Migos). Oltre a questi due celeberrimi artisti, notiamo anche comparsate di Ty Dolla $ign e Pharrell Williams: insomma, ospiti non banali.

Tra i brani migliori abbiamo SUMMER e APESHIT; convince invece poco NICE, ma è l’unico pezzo debole in un album per il resto apprezzabile, in cui la rivelazione del travaglio interiore che affligge anche le coppie più famose e ricche è un valore aggiunto non da poco. In generale, dunque, è ovvio che Bey e Jay non parlano per tutti, nondimeno i due sembrano finalmente sereni e pronti a riprendere la vita assieme. Valga come manifesto del CD questa frase tratta da LOVEHAPPY: “we came and we saw and we conquered it all”. Beh, non saranno modesti, ma il talento e la spavalderia certo non gli mancano.

Voto finale: 7,5.

Deerhunter, “Double Dream Of Spring”

deerhunter

Questo lavoro dei Deerhunter è molto particolare, sia come struttura che come genesi: si tratta infatti di una cassetta (!) distribuita ai concerti della band statunitense e prodotta in sole 300 copie (!!), quindi un pezzo da collezionisti fatto e finito. Dicevamo che anche la struttura dell’album è bizzarra: abbiamo infatti la prima parte completamente strumentale, mentre le ultime cinque tracce contengono anche la voce del frontman Bradford Cox.

Musicalmente, “Double Dream Of Spring” sembra raccogliere i pezzi dei Deerhunter più abbozzati e liberi da costrizioni: si alternano infatti brevissimi intermezzi (Clorox Creek Chorus) a lunghissime meditazioni krautrock (Dial’s Metal Patterns). Nella seconda parte il lavoro si fa più coeso: spicca in particolare la delicata chiusura Serenity 1919 (Ives), che riprende un’opera del compositore Charles Ives. Citazioni musicalmente colte abbondano anche in Faulkner’s Dance, dedicata al celebre scrittore: troviamo tracce di Stereolab e Can ben piazzate nel corso del brano.

In generale, quindi, possiamo ritrovare influenze di svariati album passati dei Deerhunter: da “Cryptograms” (2007) a “Halcyon Digest” (2010), passando per “Weird Era Cont.” (2008). Insomma, un caleidoscopio sonoro ricco, certo perfettibile ma che denota ancora grande voglia di sperimentare da parte di un gruppo attivo da quasi vent’anni. Aspettiamo con trepidazione il prossimo album vero e proprio del gruppo, in uscita quest’anno e con il titolo provvisorio “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?”, per capire meglio dove tutto ciò li avrà portati, certi tuttavia che Cox e compagni resteranno alfieri di un indie rock tanto fragile quanto superbo nei suoi momenti migliori.

Voto finale: 7.

La Yeezy Season più folle di sempre

Kanye West non sarà mai una persona banale nello star system internazionale. Tuttavia, in questi ultimi mesi ha fatto parlare di sé per i motivi più svariati: frasi equivoche sulla schiavitù, il supporto politico a Donald Trump, la scelta di chiudersi in una clinica per curare i suoi problemi di bipolarismo, i gossip sul matrimonio con Kim Kardashian… Insomma, tutto meno che la musica. Finalmente, però, Ye ha risposto con nuove canzoni; il bello è che ha prodotto quattro album in un mese, di cui uno personale e tre per gli amici Kid Cudi, Pusha-T e Nas! Insomma, un’iperattività incredibile. Andiamoli ad analizzare uno per uno: possiamo senz’altro dire che questa è la Yeezy Season più folle di sempre.

Pusha-T, “Daytona”

daytona

Si può definire CD un lavoro formato da sette canzoni per soli 21 minuti di durata? Il dubbio è legittimo, tuttavia non conta troppo analizzando “Daytona”. Pusha-T, infatti, grazie anche all’aiuto di Kanye West alla produzione e di alcuni importanti ospiti (su tutti lo stesso Kanye e Rick Ross), ha prodotto un disco compatto ma molto efficace, forse il migliore della sua produzione solista.

Lui infatti fino alla fine degli anni ’00 era parte dei Clipse, duo molto popolare all’epoca. La sua carriera solista era iniziata in maniera incerta, ma gli ultimi due suoi lavori (“My Name Is My Name” del 2013 e “Darkest Before Dawn” del 2016) avevano denotato una crescita costante e lo hanno visto infine tornare ai livelli raggiunti nei Clipse in “Daytona”.

Liricamente, Pusha-T non le ha mai mandate a dire, anche se spesso in passato i suoi testi parlavano dei temi tipici del gangsta rap: droga, sesso e violenza. Tuttavia, “Daytona” vede una svolta anche su questo versante: sono presenti versi molto duri su due mostri sacri del rap come Lil Wayne e Drake, accusati rispettivamente di essere pronti alla pensione (il primo) e di sfruttare il lavoro dei ghostwriter per il proprio successo (il secondo). Contiamo anche una canzone dedicata a Meek Mill, amico del rapper che è stato in carcere negli ultimi tempi (What Would Meek Do?).

Le canzoni migliori sono Santeria, con base trap molto potente; If You Know You Know e Infrared, che aprono e chiudono magistralmente l’album; e Come Back Baby. Unica nota stonata è Hard Piano, ma il contributo di Rick Ross salva la baracca.

In generale, dunque, il contributo di West ha senza dubbio aiutato Pusha-T a proporre un disco avvolgente e che difficilmente abbandoniamo di nostra volontà; il problema è che, due anni e mezzo dopo “Darkest Before Dawn”, finire con sole sette canzoni è un po’ una delusione. È un po’ lo stesso discorso fatto per Grouper, nondimeno Pusha-T si conferma ormai tornato ad alti livelli. Siamo davvero curiosi di vedere dove lo porteranno i suoi prossimi lavori.

Voto finale: 8.

Kids See Ghosts, “Kids See Ghosts”

kids see ghosts

Kids See Ghosts è il supergruppo formato da Kid Cudi e Kanye West: non è la prima volta che i due collaborano, ma è la prima volta invece che la cosa avviene su un piano totalmente paritario. Entrambi sono infatti parte attiva nelle canzoni e produttori. La presenza di ospiti di spessore come Pusha-T e Ty Dolla Sign rende poi il CD ancora più intrigante.

Il lavoro è molto breve: abbiamo sette canzoni in 24 minuti di durata complessiva. Sì, Kanye deve aver capito che è questo il formato migliore per lo streaming, visto che tutti gli LP di questo mese che portano il suo nome hanno questa struttura. Detto questo, mai Kid Cudi era suonato così sicuro di sé e con questo tono così caldo e vibrante, segno che forse la definitiva maturazione artistica è giunta anche per lui.

Liricamente, visti anche i personaggi coinvolti, “Kids See Ghosts” non poteva che essere un lavoro profondamente personale: sia Cudi che Ye ne hanno passate di cotte e di crude negli ultimi tempi, pertanto esorcizzare i propri demoni è più che legittimo da parte loro. Yeezy da un lato in Reborn afferma perentorio “What an awesome thing, engulfed in shame. I want all the pain, I want all the smoke, I want all the blame”, affrontando di petto le recenti controversie che lo riguardano; Cudi invece è più ottimista, sempre in Reborn, quando dice “Keep moving forward”, quasi un incitamento a sé stesso, a lasciarsi alle spalle le tendenze suicide e i problemi di droga degli ultimi mesi. In Cudi Montage Kanye riprende la polemica sul suo supporto a Trump, dicendo “Everybody want world peace until your niece gets shot in dome piece”. In generale, dunque, sembra quasi innestarsi una dinamica poliziotto buono/poliziotto cattivo fra i due rapper, con Kanye ad incendiare gli animi e Cudi a calmarli.

Musicalmente, dei quattro album di questa incredibile Yeezy Season, “Kids See Ghosts” è il secondo più riuscito: le tracce sono varie ma con un filo logico che le collega, i due artisti sono a loro agio e la produzione di West è come sempre eccellente. I pezzi migliori sono 4th Dimension e Reborn, mentre è troppo confusionaria l’apertura di Feel The Love. I risultati sono comunque buoni, eccezionali in certi tratti; da elogiare il fatto che Kanye ha ancora una volta tirato fuori il meglio da Kid Cudi, che non suonava così centrato dagli esordi di “Man On The Moon: The End Of Day” (2009). Il progetto, in conclusione, ha tutto per essere replicato in futuro.

Voto finale: 7,5.

Nas, “Nasir”

nasir

Nas è uno dei rapper più importanti della sua generazione: quella diventata celebre negli anni ’90, rappresentata per esempio da Snoop Dogg e Eminem. Il suo “Illmatic” (1994) è uno dei lavori più rilevanti di quegli anni, non a caso. “Nasir” è il dodicesimo suo album e vanta collaborazioni eccellenti: in particolare, nella tracklist troviamo versi di The-Dream, Puff Daddy e Kanye West (che cura anche la produzione).

La carriera di Nas, tra un album e l’altro, non è stata tutta rose e fiori: accanto ad album fondamentali come “Illmatic” troviamo anche flop come “Nostradamus” (1999). Si era rivista l’ambizione e la pulizia dei suoi lavori migliori in “Life Is Good” del 2012 e il rilancio è completato con questo “Nasir”. Il titolo, in realtà, richiama il nadir, cioè il punto più basso di un grafico: di certo questo CD non rappresenta il nadir della carriera di Nas. Nondimeno, allo stesso tempo, il nadir sembra essere riferito alle tensioni tra bianchi e neri in America, richiamate in molte canzoni di questo breve ma intenso lavoro (7 canzoni per 26 minuti, breve come del resto sono tutti i lavori di questa Yeezy Season).

L’intento di denuncia è presente già nella prima traccia: Not For Radio denuncia la tratta di minerali dall’Africa e la pratica di alcuni Stati americani di impedire ai neri di registrarsi alle liste elettorali (“Shoot the ballot box, no voter cards, they are all frauds”). Nella bella Cops Shot The Kid è evidente il riferimento alle troppo numerose sparatorie che vedono coinvolti giovani afroamericani e poliziotti solitamente bianchi (“The cop shot the kid, same old scene… Cop gon’ claim that it was self-defense. Say he was ridin’ dirty so the case rests”). Ottimo nel brano il verso recitato da Kanye. C’è anche tempo, in Simple Things, per prendersela con l’industria discografica: “Never sold a record for the beat, it’s my verses they purchase. Without production I’m worthless, but I’m more than the surface. Want me to sound like every song on the Top 40, I’m not for you, you not for me, you bore me”.

Il nucleo del lavoro è la lunga Everything, canzone gospel-rap che supera i 7 minuti di durata: una frase rappresenta il manifesto non solo del brano, ma dell’intero LP. Nas dice “If I changed anything, I mean anything I would change everything, oh yeah”. Un riferimento, chissà, anche personale; senza dubbio, però, una frase potente.

Musicalmente, pur nella sua brevità, il disco è compiuto; il messaggio che Nas vuole trasmettere è chiaro, la produzione di West aiuta a portarlo avanti attraverso suoni definiti, Nas e i suoi ospiti sono tutti in ottima forma. I pezzi migliori sono Cops Shot The Kid e Simple Things; può risultare invece meno efficace White Label. Insomma, un piccolo trionfo per il rapper statunitense, che si conferma ancora in grado di veicolare messaggi universali di parità razziale e contro l’uso delle armi in maniera efficace.

Voto finale: 7,5.

Kanye West, “Ye”

ye

Ecco la recensione forse più attesa di questo mese: quella relativa al nuovo disco (se così possiamo chiamarlo) di Kanye West. In effetti, parlare di album vero e proprio sembra eccessivo: sette canzoni per 24 minuti… beh, più un EP. In effetti, diciamo che la gestazione di “Ye” è stata molto complicata: fra crisi coniugali, polemiche ferocissime sull’appoggio manifestato da West per Donald Trump, frasi molto ambigue sulla schiavitù dei neri (giudicata una scelta più che una costrizione) e un periodo passato in una clinica per tornare alla normalità dopo un crollo nervoso avuto l’anno scorso, gli ultimi mesi non sono stati facili per il rapper statunitense. È quindi un mezzo miracolo che Ye sia stato in grado di focalizzarsi sulla musica, non solo producendo i nuovi dischi di Nas, Pusha-T e Kid Cudi ma pubblicando anche un lavoro a suo nome.

Partiamo da un assunto: questo è forse il disco più egocentrico mai fatto da Kanye. Un’affermazione coraggiosa, considerato che “Yeezus” del 2013 era una fusione fra Ye e Jesus… Nondimeno, mai come in “Ye” sentiamo il marito di Kim Kardashian aprirsi così francamente sui propri problemi mentali: se i precedenti suoi CD parlavano delle sue fantasie sessuali (“My Beautiful Dark Twisted Fantasy”) o della sua tristezza per la prematura morte della madre (“808s & Heartbreak”), mai Kanye aveva affrontato il suo lato più oscuro.

Ne è manifesto il primo brano nella scaletta: I Thought About Killing You è una sorta di auto-confessione, dove Kanye ammette che lui ama sempre più sé stesso del prossimo (“I love myself way more than I love you”) e di aver avuto fantasie omicide verso qualcuno (“Today, I seriously thought about killin’ you. I contemplated, premeditated murder”). Allo stesso tempo, però, vi è una nota di ottimismo quando dice che “the most beautiful thoughts are always besides the darkest”. Tutto il disco seguirà questo doppio binario: realismo riguardo la sua fragile condizione mentale, ma speranza che tutto questo passerà. Per esempio, in Ghost Town Kid Cudi (uno dei numerosi collaboratori presenti nel pur breve disco) canta “I’ve been tryin’ to make you love me, but everything I try just takes you further from me.” Oppure in Yikes Kanye dice “Sometimes I scare myself”. La nota positiva però è la presenza della moglie Kim Kardashian: non importa quante polemiche dovrà affrontare il marito, lei sarà sempre al fianco di West (“And I know you wouldn’t leave” canta PARTYNEXTDOOR in Wouldn’t Leave).

Ma musicalmente, dunque, cosa possiamo dire? Le basi sono ispirate a quelle di “The Life Of Pablo”: molto tranquille, quasi gospel in certi tratti (ad esempio Violent Crimes), seguendo la lezione di Chance The Rapper. Possiamo dire senza tema di smentita che è il primo disco dove Ye non copre nuovi generi o influenze: non necessariamente un male, anzi ciò aiuta il disco, già breve di suo, ad essere compatto e coerente al suo interno.

I migliori pezzi sono Wouldn’t Leave e Violent Crimes; meno bella Yikes, ma non intacca eccessivamente il risultato generale. In conclusione, dunque, Kanye ha fatto (e farà) ancora una volta parlare di sé; non importa come la pensiate riguardo le sue opinioni politiche e i suoi ultimi comportamenti, è innegabile la sua grandiosità come artista. “Ye” fortifica ulteriormente la sua eredità: non sarà certo il suo miglior CD, ma senza dubbio non è da buttare.

Voto finale: 7,5.