Recap: luglio 2018

L’estate è arrivata e i tormentoni imperversano ovunque. Noi di A-Rock però rimaniamo professionali e, come di consueto, offriamo una nostra sintesi del mese appena trascorso. Luglio è stato caratterizzato dal ritorno dei Dirty Projectors e di Laurel Halo; dall’atteso secondo album delle Let’s Eat Grandma; e dalla nuova collaborazione fra Ty Segall e White Fence.

Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears”

let s eat grandma

Il secondo, attesissimo CD delle giovani inglesi Rosa Walton e Jenny Hollingworth, in arte Let’s Eat Grandma, ha pienamente mantenuto le promesse: aiutate da produttori rinomati come Sophie Xeon e Faris Badwan, le due teenager (!) pubblicano un disco in molti tratti rivoluzionario, che fonde generi disparati come pop, psichedelia ed elettronica in un connubio spesso eccellente.

L’apertura già instrada magistralmente il lavoro: sia Whitewater che Hot Pink (quest’ultima vanta la produzione di Badwan e Xeon) sono stranianti, in particolare la seconda alterna ritmi pop e improvvise aperture industrial, che non per caso ricordano gli ultimi lavori di SOPHIE e Horrors. I brani riusciti non finiscono qui: Falling Into Me è un gioiello pop, che ricorda la miglior Lorde; le lunghissime Donnie Darko e Cool & Collected suggellano il CD. Le uniche pecche sono i due inutili intermezzi Missed Call (1) e The Cat’s Pijamas, ma non intaccano troppo la struttura del lavoro.

I testi affrontano con sagacia la condizione di molti teenager negli anni dei primi amori e della scoperta della propria sessualità: le due giovani artiste in Hot Pink cantano infatti “I’m just an object of disdain to you… I’m only 17, I don’t know what you mean”, il ritornello contiene un riferimento non solo velatamente sessuale: “Hot Pink! Is it mine, is it?”. Sono poi presenti riferimenti macabri, non inattesi da un gruppo che incita a mangiare un parente, in Falling Into Me: “I paved the backstreets with the mist of my brain. I crossed the gap between the platform and train”.

In conclusione, se il debutto “I, Gemini” del 2016 suonava inevitabilmente ingenuo in certi tratti e le voci della Walton e della Hollingworth ancora acerbe, “I’m All Ears” segna il primo vero LP degno di nota a firma Let’s Eat Grandma. Speriamo che sia solo l’inizio di una carriera di successo: le premesse sembrano esserci tutte.

Voto finale: 8.

Laurel Halo, “Raw Silk Uncut Wood”

laurel

A seguito del successo del precedente lavoro, quel “Dust” pubblicato l’anno scorso dove era riuscita a proporre una convincente sintesi di tutte le sonorità che aveva affrontato nella sua ormai quasi decennale carriera, Laurel Halo ha pubblicato questo mini album di 32 minuti, composto da sole sei canzoni. Non è ben chiaro se “Raw Silk Uncut Wood” sia classificabile come EP o CD, certo è che rientra di diritto fra i migliori dischi di musica ambient degli ultimi anni.

Questa svolta verso la musica d’ambiente può apparire strana a primo acchito, dato che, come già anticipato in precedenza, “Dust” era stato un ottimo disco di musica techno/dance. Tuttavia, chi conosce la Halo sa che lei è un’artista sempre pronta a rinnovarsi ad ogni nuovo CD, dunque un cambiamento anche radicale era preventivabile. Allo stesso tempo, però, la struttura perfetta dell’EP e la maturità con cui Laurel compone brani che guardano anche al jazz sono fattori non trascurabili.

All’inizio e alla fine del lavoro, infatti, sono poste due suite di oltre 10 minuti di durata, la title track e Nahbarkeit, due pezzi molto ambiziosi che ricordano Gas. In mezzo, invece, abbiamo quattro melodie più brevi e a tratti frammentarie: sembra quasi di percorrere un viaggio immaginario, dapprima calmo poi tumultuoso poi di nuovo sereno. I pezzi migliori sono Raw Silk Uncut Wood e Nahbarkeit; non pienamente a fuoco Quietude, ma resta comunque un esperimento apprezzabile.

In conclusione, “Raw Silk Uncut Wood” marca un’altra tappa cruciale nella maturazione di questa artista, che sta diventando ad ogni uscita sempre più rilevante per la scena della musica elettronica mondiale. Brava, Laurel Halo: vorremmo che il mondo avesse più artisti visionari come te.

Voto finale: 7,5.

Dirty Projectors, “Lamp Lit Prose”

dirty projectors

La storia dei Dirty Projectors sembra sempre più poter essere divisa in due: con Amber Coffman e senza Amber Coffman. Ricordiamo infatti che il sodalizio (e la relazione amorosa) fra la cantautrice e David Longstreth si sono interrotti nel 2016: da quel momento il solo Longstreth è rimasto nei Dirty Projectors. Non è un caso che “Dirty Projectors” (2017) sia il disco più cupo della carriera del gruppo, tutto incentrato sulla rottura fra le due anime della band. Al contrario, questo “Lamp Lit Prose” è forse il più solare e pop fra i dischi a firma Longstreth: aiutato anche da ospiti di grande spessore, infatti, David crea melodie sempre orecchiabili e lascia da parte le sperimentazioni barocche del passato.

Right Now è perfetta in apertura per settare il mood del disco, ulteriormente chiarito da Break Thru, in realtà uno dei pezzi più deboli del progetto. In altre parti, tuttavia, “Lamp Lit Prose” brilla di luce propria: Feel Energy e I Found It In U sono fra i pezzi più melodici e gradevoli al primo ascolto dei Dirty Projectors. Dicevamo poi dei numerosi ospiti presenti nel disco: da Rostam Batmanglij a Syd, passando per Amber Mark e Empress Of, tutti danno un loro contributo che aiuta il disco, pur breve, a decollare.

Liricamente, Longstreth è meno ermetico del solito, forse ancora sotto shock a causa della rottura con la Coffman, tanto che dichiara in Right Now “There was silence in my heart, but now I’m striking up the band”, segno che si possono superare molti lutti nella vita grazie alle proprie passioni. Vi sono anche riferimenti alla politica qua e là (“The sky has darkened, Earth turned to hell”), ma la coppia di versi più bella è presente in I Found It In U: “I’m in love for the first time ever…All the painful dreams I failed to extinguish were the footlights down dark aisles I’ve taken. Now they’ve led me to you”. Un messaggio di rinnovato ottimismo e segno che David ha ritrovato l’amore.

Non tutto è perfetto in “Lamp Lit Prose” a partire dall’eccessiva brevità del disco (soli 36 minuti e 9 canzoni), ma ciò favorisce la coesione e la benvenuta assenza di momenti piatti. Possiamo però dire che questo LP e “Dirty Projectors” sono sullo stesso livello, pur affrontando generi totalmente agli antipodi: diciamo che se Longstreth avesse ricavato un solo CD dalla rottura con la Coffman avremmo avuto un altro classico dei Dirty Projectors, accanto a “Bitte Orca” (2009) e “Swing Lo Magellan” (2012). Ma del resto al cuore (e all’ispirazione) non si comanda; è quindi benvenuto questo “Lamp Lit Prose”, ennesima buona prova di un artista che non ha paura di rinnovarsi ad ogni uscita.

Voto finale: 7,5.

Ty Segall & White Fence, “Joy”

ty tim

Era nell’aria che un’altra collaborazione fra Tim Presley (aka White Fence) e Ty Segall ci sarebbe stata: troppo affini sono infatti due fra le figure più iperattive del rock contemporaneo. Basti dire che entrambi hanno già pubblicato un CD quest’anno e che il fatto di pubblicare due o più album di inediti in pochi mesi non è una novità per nessuno dei due.

Perché diciamo “un’altra collaborazione”? White Fence e Ty Segall, in effetti, hanno già prodotto un disco congiunto, “Hair”, nel 2012: un disco pieno di riferimenti al rock anni’60, con inserti psichedelici sempre imprevedibili. “Joy” ripercorre la traiettoria di “Hair”, con ancor più spirito libero e frammentarietà: basti dire che il CD è composto da 15 canzoni, ma dura solamente 31 minuti e si passa da canzoni che durano 16 secondi (Prettiest Dog) a tracce oltre i 5 minuti (She Is Gold). Insomma, un caos totale!

La copertina dell’album farebbe pensare a due nemici di un film comico o di animazione: uno biondo, l’altro moro; Ty amante dei cani, Tim dei gatti. Al contrario, l’intesa fra i due è totale: lo si nota dall’intrecciarsi perfetto delle chitarre e delle voci. I pezzi migliori sono Body Behavior, molto energica; i due pezzi molto beatlesiani Good Boy e My Friend; e A Nod. Da sottolineare, come già detto, lo spirito di totale libertà creativa del disco: in Other Way udiamo distintamente i latrati di Fanny, la cagnolina di Ty (sì, quella di Fanny Dog); abbiamo poi tre pezzi che non arrivano al minuto di durata.

Nei suoi momenti migliori, il CD rientra di diritto nella parte alta della produzione di entrambi i cantanti; tuttavia, l’eccessiva frammentarietà della struttura dell’album e le canzoni a volte solo abbozzate lo rendono difficilmente gradito a chi non è già fan di Tim o Ty. In questo ultimo caso, tuttavia, “Joy” sarà probabilmente l’album dell’anno. Prendere o lasciare: un ascolto, almeno uno, è decisamente consigliato.

Voto finale: 7.

Rising: Snail Mail, SOPHIE & serpentwithfeet

 

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata ai cantanti emergenti. Quest’oggi dedichiamo la nostra attenzione a tre artisti che, musicalmente, sono molto diversi: gli Snail Mail sono un gruppo indie rock americano; serpentwithfeet (sì, questo è il nome) un cantautore R&B sperimentale statunitense; Sophie Xeon invece, in arte SOPHIE, è una produttrice e autrice scozzese ormai trapiantata a Los Angeles, che si caratterizza per una musica elettronica tanto visionaria quanto affascinante. Tuttavia, una cosa li accomuna: tutti e tre vogliono rivoluzionare i rispettivi generi e sembrano avere il talento e l’ambizione per farlo. Ma andiamo con ordine.

SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”

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Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegarci la mania recente degli artisti di chiamare i dischi (e a volte loro stessi) con lettere tutte maiuscole: da Kendrick Lamar a Pusha-T ai Carters (cioè Jay-Z e Beyoncé), passando ora per SOPHIE, questa moda sembra diffondersi sempre di più. Detto ciò, il titolo del nuovo album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita ora con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping. Non capita tutti i giorni di trovare un’artista così versatile: viene in mente Bjork e tutti sappiamo che è un paragone molto delicato, di Bjork ne nascono davvero poche.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco.

In conclusione, la musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE. Se il primo lavoro “PRODUCT” era decisamente perfettibile, questo LP resterà probabilmente anche negli anni a venire: mescolare così sapientemente musica sperimentale e accenni di pop da radio (evidenti in Immaterial) non è per nulla facile, farlo con questi eccellenti risultati ancora meno. Aspettiamo con trepidazione il suo prossimo disco, con la speranza che quanto di buono fatto in “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” non venga sprecato.

Voto finale: 8,5.

Snail Mail, “Lush”

lush

Fa effetto dire che gli Snail Mail sono capitanati da una cantante 18enne, però questi sono i fatti. Non a caso, molta stampa specializzata d’Oltreoceano li ha già bollati come “il futuro del rock”. Etichetta che ha portato bene per alcuni (vedi gli Arctic Monkeys), meno per altri (qualcuno ricorda i Gallows?). Nondimeno, se anche in Gran Bretagna ammettono che Lindsey Jordan & co. hanno davvero talento, un motivo deve esserci. In effetti, “Lush” è un ottimo disco d’esordio: non perfetto, ma dimostra un enorme potenziale, che speriamo potrà essere messo in mostra in futuro.

L’inizio è lento: la Intro serve a chiarire che non dobbiamo aspettarci chissà quali novità, fatto ulteriormente confermato da Pristine, prima canzone vera e propria dell’album. Tuttavia, due cose sono interessanti: primo, la produzione è pulita, fatto che allontana decisamente i paragoni con artisti lo-fi come Ty Segall ed Elliott Smith. Secondo, la Jordan parla molto limpidamente dei propri problemi adolescenziali, tra amori non corrisposti e incertezze sul futuro, mettendo in mostra la propria fragilità con molta trasparenza. Ad aggiungere ulteriore pepe ad una ricetta già intrigante è la grande abilità della Jordan con la chitarra, che disegna traiettorie sempre varie nel corso di “Lush”.

Musicalmente, dunque, nessuna rivoluzione: possiamo dire che Snail Mail è un mix riuscito fra Frankie Cosmos e Courtney Barnett, con pizzichi di Julien Baker ed Angel Olsen qua e là. I brani migliori sono Heat Wave, Speaking Terms e Pristine, mentre le canzoni più lente del disco sono meno avvincenti, ad esempio Deep Sea non convince appieno. Liricamente, invece, è interessante il modo di porsi di Lindsey verso gli ascoltatori: le canzoni sono piene di domande dirette, del tipo “do you love me?” o “Who’s your type of girl?”, ma due sono i momenti davvero notevoli: in Full Control esclama “I’m in full control, I’m not lost. Even when it’s love, even when it’s not”, mentre in Heat Wave la sentiamo dire “I’m not into sometimes”, segno che per lei le relazioni vere sono di lunga durata e che non è decisamente portata per le attività saltuarie. Diciamo che la ragazza, pur avendo solo 18 anni, ha le idee piuttosto chiare.

In generale, tuttavia, la coesione di “Lush” lo rendono un ascolto non banale: i 39 minuti passano sereni e alcuni momenti sono davvero ottimi. Certo, non parliamo ancora del “manifesto” della band, però le premesse per una carriera di successo ci sono tutte.

Voto finale: 8.

serpentwithfeet, “soil”

soil

Avevamo già anticipato il fastidio indotto da alcuni artisti quando scrivono i loro nomi o i titoli dei loro brani o dischi in maiuscolo, fatto che, come la più basilare netiquette conferma, sta per un urlo o una minaccia verso il lettore. Beh, Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, ha scelto una via del tutto opposta: scrivere sia i titoli dei suoi pezzi che il suo nome d’arte in minuscolo. Una cosa certamente secondaria, ma che forse nasconde un significato: mentre molti cantanti vogliono apparire a tutti i costi, anche per fatti non legati alla musica, serpentwithfeet punta su un basso profilo nella vita privata per puntare tutto sulla musica.

L’omosessualità del cantante è tuttavia cosa nota, con Josiah che ha fatto coming out fin da subito. Molte sue canzoni peraltro parlano di amore e sessualità, sia in “soil” che nel precedente EP “blisters”. Questo è infatti il primo LP a firma serpentwithfeet, uno degli artisti più visionari del mondo pop-R&B contemporaneo. Con una voce che nei momenti migliori assomiglia a Frank Ocean e una voglia di sperimentare degna del The Weeknd delle origini, Wise vuole riscrivere le regole dell’R&B, innestando elementi di musica classica e d’avanguardia nel genere forse più inflazionato ai giorni nostri.

Non tutto in “soil” è perfetto, ma certo il CD conferma una volta di più il grande potenziale del giovane artista statunitense: pezzi notevoli come whisper e fragrant aprono magistralmente il lavoro, mentre la superba ballata bless ur heart lo chiude stupendamente. Interessanti poi le sperimentazioni di mourning song e cherubim. Allo stesso tempo, convincono meno messy e wrong tree, ma non intaccano in maniera eccessiva il risultato complessivo.

In generale, dunque, “soil” è un’ottima introduzione a serpentwithfeet per chi ancora non lo conoscesse. Il disco merita più di un ascolto, a testimonianza che Josiah, aiutato anche da produttori celebri come Clams Casino e Paul Epworth, ha creato un CD non banale.

Voto finale: 7,5.

Drake e Gorillaz: due ritorni agli antipodi

Giugno è stato davvero un mese colmo di uscite molto attese da pubblico e critica. Nel nostro recap abbiamo analizzato i nuovi CD di Father John Misty e Beyoncé/Jay-Z, fra gli altri; tuttavia, venerdì 29 sono usciti due dischi che ad A-Rock aspettavamo con trepidazione, i nuovi lavori di Drake e Gorillaz. I due sono molto diversi, quasi agli antipodi, sia come struttura che come temi affrontati: potremmo infatti quasi definirli due LP ai poli opposti. Ma andiamo ad analizzarli in maggiore dettaglio.

Gorillaz, “The Now Now”

the now now

Il sesto album della band animata capitanata da Damon Albarn (leader anche dei Blur) è una sorta di ritorno alle origini, una summa di quello che il gruppo sa fare meglio: creare canzoni electropop con inserti rap, molto ballabili e divertenti, ma con il sottofondo malinconico tipico di Albarn. I CD di Albarn, specialmente negli ultimi anni, sono sempre stati caratterizzati da questa ambivalenza: divertimento vs malinconia e a tratti ansia per il futuro non roseo che si prospetta. Basti pensare al suo album solista “Everyday Robots” del 2015 o a “Humanz” del 2017, che rappresentava una specie di playlist dei Gorillaz dove una sfilata interminabile di ospiti si alternava a discettare sull’apocalisse. Quasi sfinente, a tratti, ma in generale riuscito.

“The Now Now” ha un approccio opposto: se in “Humanz” Albarn restava per lo più dietro le quinte, adesso è lui il frontman indiscusso di molte canzoni e il numero degli ospiti è ridotto all’osso. Abbiamo infatti solamente Snoop Dogg, Jamie Principle (entrambi in Hollywood) e George Benson (nell’ottima Humility); nel resto dei brani, è Damon a guidare le danze.

Dicevamo che il CD rappresenta un ritorno alle origini per i Gorillaz: in effetti, la band non suonava così “libera da ansie” dai tempi di “Plastic Beach” (2010). Colpiscono a tal proposito pezzi molto estivi come Humility e Tranz. Nondimeno, i Gorillaz hanno il loro tratto caratteristico nell’incredibile capacità di fondere tra loro generi molto lontani tra loro: elettronica, rap, rock e pop. Il tutto, peraltro, in una miscela spesso coesa ed esplosiva nei suoi momenti migliori (ad esempio nel magnifico “Demon Days” del 2005).

Liricamente, i testi sono decisamente meno apocalittici rispetto al precedente “Humanz”, che non a caso Albarn aveva definito “una playlist per la fine del mondo”: si fa spesso riferimento a storie d’amore interrotte e amori non corrisposti (la malinconia sembra non abbandonare mai Damon), ma nessun proclama politico, neppure lontanamente. Abbiamo frasi come “Calling world from isolation” e “Baby I just survived, I got drunk, I’m sorry, am I losing you?”, rispettivamente in Humility e Fire Flies, ma niente di più minaccioso. Del resto, un LP solare e estivo come questo non si può permettere di affrontare temi troppo delicati.

I migliori pezzi sono la già citata Humility, la raffinata elettronica di Lake Zurich e Kansas; buona anche Fire Flies. Un po’ debole il finale, con canzoni quasi folk come One Percent e Souk Eye, ma serve a chiudere (guarda caso) malinconicamente un disco altrimenti troppo volatile. Del resto, da Damon Albarn non potevamo che aspettarci tocchi di classe di questo tipo. Malgrado i quattro CD pubblicati negli ultimi cinque anni, la sua attenzione in ogni progetto è sempre massima.

In conclusione, non stiamo certo parlando di un capolavoro, ma allo stesso tempo non possiamo non elogiare l’etica del lavoro e il talento di Damon Albarn, un personaggio capace di scrivere la storia del britpop con i Blur e di essere visionario a tal punto da capire che il futuro non era il rock, ma l’hip hop e l’elettronica: i Gorillaz, non dimentichiamolo, sono stati pionieri nella fusione fra questi due generi. Nel suo lavoro forse meno ambizioso dai tempi di “The Fall”, i Gorillaz suonano sereni come mai hanno fatto. Alla fine, passare un’estate con loro non è un passatempo da buttare, no?

Voto finale: 7,5.

Drake, “Scorpion”

scorpion

25 canzoni, 90 minuti di durata: Drake non si è certo risparmiato per il suo nuovo CD. In effetti, è stato proprio il rapper canadese a inaugurare la tendenza di molti artisti della black music a pubblicare album lunghissimi e composti da molti brani. Come spesso nella sua carriera, Aubrey Graham aveva visto in anticipo su tutti le immense potenzialità dello streaming e le ha sfruttate appieno. Tuttavia, questo ha portato a produrre dischi troppo sovraccarichi, con inevitabili punti deboli: non è un caso che il suo ultimo disco davvero fondamentale sia “Take Care” del 2011.

Non che la precedente “playlist” intitolata “More Life” del 2017 sia stata un fiasco, anzi: sia pubblico che critica sono rimasti estasiati dalla capacità di Drake di fondere grime, rap e ritmi tropicali in un solo LP. “Scorpion” rappresenta una sfida: replicare a questo successo alzando ancora la posta. Il disco è diviso in due metà: la prima focalizzata sull’hip hop, la seconda su pop e R&B. I temi affrontati riguardano, come sempre, principalmente l’ego dell’artista: problemi di donne, la paternità tenuta nascosta al mondo, Drake sostiene, per evitare al figlio i gossip e lo stress derivanti da un padre così celebre… Soprattutto quest’ultimo tema ha fatto molto discutere: Pusha-T, in The Story Of Adidon, sosteneva che il figlio di Drake sarebbe stato rivelato contemporaneamente ad una campagna commerciale del padre con Adidas. La storia poi è andata diversamente, ma l’immagine immacolata di Drake ne è stata inevitabilmente intaccata. Lui era infatti noto per essere fra i pochi rapper a non aver mai avuto problemi con la giustizia o familiari, ma questo cambia tutto.

Musicalmente, Drake ha sempre cavalcato l’onda del pop/rap, quindi un hip hop gentile e dai ritmi soffusi, che lo ha portato ad essere una superstar. Allo stesso tempo, come già accennato, ha anche cercato di contaminare questi suoni ormai inflazionati con ritmi diversi, ottenendo spesso ottimi risultati (da Hotline Bling a Passionfruit). “Scorpion” è la prima volta che non possiamo dire la stessa cosa: certo, vi sono brani molto riusciti, ma anche alcuni passi falsi; e dal punto di vista dell’innovazione il CD lascia a desiderare. Drake ritorna infatti su territori già esplorati, sia nei precedenti dischi veri e propri (da “Thank Me Later” a “Take Care” a “VIEWS”) che nel mixtape “If You’re Reading This It’s Too Late”. Menzione però per la produzione, davvero eccezionale, che rende anche i pezzi più deboli ascoltabili.

Un paragrafo a parte meritano i testi e le collaborazioni del CD. Drake questa volta ha minimizzato il numero dei cantanti chiamati a collaborare al progetto: contiamo infatti Ty Dolla $ign, Jay-Z e… Michael Jackson, campionato in Don’t Matter To Me. Liricamente, invece, Drake in “Scorpion” è aperto come poche volte nella carriera. Il verso migliore è contenuto in March 14, la canzone che chiude il lavoro: “Single father, I hate when I hear it. I used to challenge my parents on every album, now I’m embarrassed to tell ‘em I ended up as a co-parent. Always promised the family unit, I wanted it to be different because I’ve been through it.” Una confessione sull’incapacità di trovare una definitiva maturità in campo familiare molto sincera, segno che anche lui sta capendo che, a 31 anni e con un figlio a cui badare, il tempo sta finendo.

Fra i brani migliori abbiamo le iniziali Survival e Nonstop, la delicata Emotionless (dove Drake per la prima volta parla del figlio) e la trascinante Nice For What. Buona anche la trap di Talk Up. Brutta invece I’m Upset, poco convincenti anche Is There More e Ratchet Happy Birthday. In generale, lo ripetiamo, album così lunghi rischiano di avere una qualità mediocre: solo pochi (Pink Floyd e Prince, ad esempio) sanno pubblicare CD doppi riuscitissimi in ogni pezzo. Peccato, perché all’interno di “Scorpion” è contenuto un ottimo disco singolo.

In conclusione, siamo certi che questo LP sarà l’ennesimo successo del rapper canadese, ma Drake sa di certo che, con un’immagine pubblica compromessa, l’attenzione di media e pubblico sarà sempre più concentrata sulla musica; non è un caso che “Scorpion” stia avendo recensioni tiepide. Abbiamo la sensazione che il prossimo sarà il CD della verità, per lui e per i suoi fans.

Voto finale: 6,5.