Cosa ci eravamo persi?
Il 2018 è stato un anno ricco di uscite rilevanti in questi primi mesi. Alcuni ritorni erano annunciati (Drake, Gorillaz, Parquet Courts), altri sono stati sorprendenti (la Yeezy Season di giugno). Alcuni CD, anche di artisti importanti, inevitabilmente non sono stati intercettati dai radar di A-Rock; ecco l’occasione di rimediare. In questo articolo infatti riportiamo le recensioni dei nuovi lavori di Florence + The Machine; A.A.L. (Against All Logic), il nuovo progetto di Nicolas Jaar; e il ritorno dei Death Grips e del collettivo The Internet.
Death Grips, “Year Of The Snitch”
Il sesto album dei Death Grips, uno dei gruppi più estremi del panorama rap, è davvero incredibile. Il trio originario di Sacramento, infatti, riesce a produrre il suo lavoro più astratto e allo stesso tempo più accessibile. Certo, l’effetto novità è finito un attimo dopo aver ascoltato “The Money Store” del 2012, il loro scioccante album d’esordio, ma questo “Year Of The Snitch” è altrettanto innovativo in termini di generi affrontati. Fondendo spesso generi disparati come rap, rock, metal e techno, i Death Grips mantengono la loro freschezza e la capacità di scioccare l’ascoltatore.
Accanto a brani dal sapore shoegaze, quasi pop come Death Grips Is Online e Linda’s In Custody, abbiamo infatti pezzi decisamente duri come Black Paint e Shitshow, che a tratti sono puro rumore di sottofondo, con le liriche di MC Ride del tutto inintelligibili. I Death Grips scioccano tuttavia anche con le scelte visuali e liriche: la voglia di sconcertare o inorridire il pubblico non è terminata. Basti dire che il titolo del disco richiama la figura di Linda Kasabian, ex sodale di Charles Manson che poi però ha deciso di fare la spia e consegnare la setta (“Snitch” in inglese significa infatti “spia” e il CD è uscito per il compleanno della controversa donna). Il video di Shitshow, invece, è stato bannato da Youtube a causa dei suoi contenuti troppo violenti.
Il bello è che, malgrado questi nemmeno troppo velati tentativi di sabotare la propria carriera, il terzetto mantiene una fanbase leale, anche grazie ad una produzione abbondante ma sempre di qualità, a suo modo. A “Year Of The Snitch” collabora anche il bassista dei Tool Justin Chancellor, non un ospite di poco conto per un gruppo oscuro come i Death Grips, segno che il terzetto è stimato nel mondo della musica alternativa.
I pezzi migliori sono le già citate Black Paint, Linda’s In Custody e Death Grips Is Online; convincono invece molto meno Shitshow e Little Richard, troppo confusionarie. Inutili gli intermezzi Outro e The Horn Section. Ancora una volta, un album dei Death Grips è troppo lungo per essere totalmente convincente (la parte finale perde molto vigore); soprattutto, non è chiaro verso chi o che cosa sia rivolta la rabbia che pervade il gruppo. Il dubbio è che l’anarchia sia proprio la condizione desiderata dai Death Grips, espressa molto chiaramente negli ormai quasi dieci anni di carriera.
In conclusione, una volta di più i Death Grips si confermano gli artisti più divisivi nel panorama hip hop contemporaneo: molti sono legittimamente schifati dall’apparenza e dai messaggi trasmessi dal gruppo. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può non ammirare la completa libertà espressiva presente nei Death Grips: lo spirito pionieristico del gruppo non si è estinto, fatto che, dopo una carriera così estrema, non è per nulla banale.
Voto finale: 8.
A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017”
Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.
La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.
L’unico problema di “2012-2017” può risultare nell’eccessiva lunghezza: in effetti, 67 minuti di musica elettronica da club/discoteca e canzoni che superano facilmente i 5 minuti possono essere ostacoli non banali per gli ascoltatori casuali, ma non fatevi spaventare. A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.
Voto finale: 8.
The Internet, “Hive Mind”
Il collettivo americano The Internet ha pubblicato il suo quarto album di inediti, “Hive Mind”, un anno dopo che la loro leader, Syd (ex Odd Future), aveva dato alla luce il suo primo album solista, “Fin”. Insomma, una iperattività notevole, ma baciata da un talento notevole. Non è un caso che entrambi siano dei picchi di creatività e coesione stilistica: sia da solista che in gruppo la giovane Syd ha dimostrato di essere una più che credibile erede di Prince e Stevie Wonder.
Ma parliamo del CD. “Hive Mind” si compone di 13 tracce molto coese tra loro: questo è anzi un rimprovero che alcuni fanno al disco, accusato in certi tratti di ripetersi. In realtà, questa è una forza di “Hive Mind”, non una debolezza: sentire in rapida successione pezzi funk del livello di Come Together, Roll (Burbank Funk) e Come Over è davvero un piacere, fatto di ritmiche sensuali e voci perfettamente intrecciate.
Se vogliamo trovare un difetto al disco è l’eccessiva lunghezza: diciamo che se la durata fosse 45-50 minuti e le canzoni 10-11 il voto finale sarebbe ancora più alto. Soprattutto la parte centrale può risultare troppo uniforme, con pezzi deboli come Bravo e Look What U Started. Tuttavia, il CD ritorna ai livelli delle prime canzoni con pezzi ambiziosi come la suite Next Time / Humble Pie, che dimostra appieno il talento dei The Internet.
Liricamente, Syd e compagni parlano soprattutto di amore, giovinezza e di come vivere la vita con ottimismo aiuti ad affrontare anche gli ostacoli più duri della vita. Ne sono esempio le seguenti liriche, presenti in Hold On: “Thinking ahead of time, why don’t you spend the night? I know you love me”, forse connessa a “I think she wants to be my girl. At least I hope she does, shit” che Syd canta in Wanna Be (l’omosessualità di quest’ultima era cosa nota dai tempi degli Odd Future).
In conclusione, il disco conferma i The Internet fra i migliori interpreti del funk nel XXI secolo: una volta che il quintetto avrà capito al meglio come creare CD coesi e unitari senza risultare pesanti a causa dei troppi brani in scaletta, avremo probabilmente un capolavoro fatto e finito. Di certo “Hive Mind” è il loro LP migliore e ci fa ben sperare per il loro futuro. Aspettiamo con trepidazione il loro quinto album.
Voto finale: 7,5.
Florence + The Machine, “High As Hope”
Florence Welch e la sua band sono stati fin da subito apprezzati da pubblico e critica per la loro capacità di abbinare messaggi non banali con melodie cariche di pathos e strumentazioni barocche, ma mai sovraccariche, con la bella voce della frontwoman a fare da corollario al tutto. “High As Hope”, il quarto album dei Florence + The Machine, mantiene questa formula, cercando di trovare un po’ di cambiamento nella presenza di ospiti di spessore internazionale, da Jamie xx a Kamasi Washington.
La formula vincente del gruppo rimane potente ed efficace nei suoi momenti migliori: ad esempio, l’apertura di June è molto efficace e introduce immediatamente il mood del disco. Bella anche Grace. Tuttavia, per la prima volta nella discografia incontriamo pezzi francamente deludenti e sottotono: Big God è una ballata piano, voce di Florence Welch e strumentazione minimale, ma non carbura mai. Stesso discorso per 100 Years, che assomiglia troppo a una canzone qualsiasi di Adele. Peccato, perché in un CD di 10 brani questi passi falsi si notano di più.
Liricamente, “High As Hope” affronta temi familiari per Florence e compagni: rapporti personali in crisi, i problemi causati dalla fama (“I felt nervous in a way that can’t be named” canta la Welch in Hunger)… Vi è pure un omaggio a Patti Smith in Patricia e un riferimento a problemi di anoressia avuti da Florence Welch in gioventù (“At 17, I started to starve myself”). Insomma, non avremo mai canzoni allegre e spensierate con l’artista inglese, diciamo.
In generale, dunque, questo è un album decisamente più low-profile e accessibile rispetto, ad esempio, a “How Big, How Blue, How Beautiful” del 2015. Allo stesso tempo, la mancanza di reali novità sul piano delle ritmiche affrontate e delle tematiche trattate nei testi delle canzoni fanno ritenere che il prossimo CD potrebbe essere determinante per Florence + The Machine e i suoi numerosi fans: un altro disco sulla stessa falsariga rischierebbe di apparire troppo “conservatore”. Ci attendiamo più novità, cara Florence, nel prossimo LP.
Voto finale: 7.