Novembre è ormai finito. Un mese ricco di uscite rilevanti, le ultime peraltro eleggibili per occupare un posto nella top 50 di A-Rock. Tra di esse annoveriamo la soundtrack del nuovo “Suspiria” di Thom Yorke, il ritorno di Robyn, Julia Holter, dei The Good, The Bad & The Queen e dei Muse, l’esordio del giovane supergruppo boygenius, il nuovo album di Vince Staples e di Anderson .Paak e l’ennesimo disco del 2018 di Ty Segall. Buona lettura!
Robyn, “Honey”
Dopo un’attività discografica relativamente scarna nel corso degli ultimi otto anni, Robyn è tornata. La popstar svedese, in effetti, dopo la fortunata serie “Body Talk” del 2010, si era limitata a occasionali collaborazioni, di solito sotto forma di brevi EP (una nel 2014 con Röyksopp e una l’anno seguente con i francesi La Bagatelle Magique). Beh, possiamo dire che l’attesa è stata infine ripagata: “Honey” è un album composto da poche ma complesse melodie, che creano un CD coeso e profondo, degno della discografia passata di Robyn e che rinforza la sua fama di talento purissimo del mondo dance e pop.
L’apertura è “sintetica”: Missing U riporta alle menti le sonorità dance di “Body Talk” ma con un piglio che ricorda i Vampire Weekend di “Contra”, ossia un pop quasi di plastica, non finto ma anzi artatamente, plasticamente elaborato. Già in Human Being (che ricorda Grimes) Robyn ritorna a voler far ballare il suo pubblico, fatto rinforzato da altri pezzi, ad esempio la trascinante Honey e Beach2k20. Più romantica la ballata Baby Forgive Me, ma non per questo fuori contesto.
Liricamente, Robyn spiega le ragioni principali dietro la sua lunga assenza dalle scene: negli ultimi anni l’artista scandinava ha perso l’amico di lunga data Christian Falk e ha avuto una crisi (ma anche una riconciliazione) con il suo fidanzato. Entrambe queste storie non facili per Robyn sono esplicitate nel corso dei nove brani di “Honey”: ad esempio, in Missing U parla di un “empty space you left behind” e non capiamo se si riferisce alla morte dell’amico o alla rottura col fidanzato. In Because It’s In The Music Robyn rinnega la canzone condivisa con l’ex (ancora per poco) innamorato, mentre in Send To Robin Immediately e Honey finalmente i due innamorati si rimettono insieme, tanto che Robyn può cantare “Every breath that whispers your name it’s like emeralds on the pavement”. Il CD è quindi stato strutturato in forma diaristica, un’altra trovata non banale di Robyn.
In conclusione, molti aspettavano un successore al superlativo “Body Talk”; “Honey” forse non raggiunge quelle vette (Between The Lines e Beach2k20 non sono perfette), ma Robyn si conferma una popstar a sé, che vive in un mondo tutto suo fatto di brani dance e perfette perle pop. Non un fatto banale, in un mondo musicale sempre più stereotipato.
Voto finale: 8.
boygenius, “boygenius”
Questo breve EP è il primo prodotto della collaborazione fra Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus, vale a dire tre fra le più promettenti figure dell’indie rock mondiale. Il disco è un perfetto esempio di come a volte le collaborazioni riescano a replicare, se non in certi casi migliorare, le abilità dei singoli artisti che ne fanno parte.
I sei brani che compongono “boygenius” sono tutti significativi per la riuscita del lavoro: le voci delle tre artiste sono integrate perfettamente, specialmente in Me & My Dog e Stay Down. Nessuna inoltre suona fuori posto oppure tale che una tra Phoebe, Julien e Lucy prevalga sulle altre. Ciò è evidente già in Bite Hard, che apre l’EP, ma è una costante dell’intero album.
Liricamente, il progetto boygenius ricalca alcune delle tematiche affrontate dalle tre componenti nei loro lavori singoli: ad esempio, in Bite Hard la Dacus ricalca le traversie amorose che pervadono i suoi CD, cantando “I can’t love you how you want me to”, mentre il senso di solitudine che influenza da sempre la Baker esplode in Stay Down: “I look at you and you look at a screen” esprime perfettamente le conseguenze della presenza ossessiva degli smartphone sulle relazioni interpersonali. Infine, Phoebe Bridgers emerge nella ballata Ketchum, ID, in cui canta placidamente le bellezze di questo stato americano e il perché vivere in un posto quieto le aggraderebbe (essenzialmente, stare spesso da sola).
In conclusione, “boygenius” è fino ad ora l’EP dell’anno, un concentrato delle abilità delle protagoniste del progetto boygenius e ben più di un passatempo fra un album vero e proprio e l’altro. Questo almeno è quello che noi amanti dell’indie rock speriamo: avere un LP a nome boygenius sarebbe davvero intrigante, le potenzialità per un lavoro rilevante ci sono tutte.
Voto finale: 8.
Vince Staples, “FM!”
Il terzo album del talentuoso rapper americano è stato un fulmine a ciel sereno: annunciato il giorno prima della pubblicazione, avvenuta il 2 novembre, solo 22 minuti di durata e un’intensità non scontata per uno che ha dimostrato di trovarsi bene anche con sonorità meno ossessive (soprattutto nel suo capolavoro “Summertime ‘06” del 2015).
Ad aggiungere pepe all’intero progetto è il fatto che Vince rappa solo in otto delle undici tracce che compongono “FM!” (chiaro riferimento alle onde radio, come vedremo in seguito). Tre sono infatti brevi intermezzi dove, prendendosi gioco dell’ascoltatore, Staples annuncia un nuovo CD degli amici Earl Sweatshirt e Tyga. È chiaro l’intento del rapper, che dedica sostanzialmente un intero LP (anche se breve) alla radio e all’importanza che essa ha avuto nella sua infanzia.
Tuttavia, il fine puramente satirico dell’album non deve nascondere il talento immenso messo in mostra nuovamente da Staples, sempre più una voce fondamentale dell’hip hop contemporaneo. Le iniziali Feels Like Summer e Outside! sono infuocate e richiamano le sonorità degli esordi di Vince, infarcendole però anche con l’elettronica che permeava “Big Fish Theory” (2017) e l’EP “Prima Donna” (2016). Nessuna canzone fatta e finita è fuori posto, tanto che gli highlights più arditi (da Outside! a Run The Bands) non sono poi tanto migliori dei brani meno sperimentali, ma non per questo scontati: tutto è congeniale infatti a creare un disco tanto caotico quanto intrigante e mai scontato.
Dal punto di vista testuale, il rapper californiano è da sempre famoso per l’abilità nel descrivere la tragica condizione dei sobborghi (Ramona Park di Long Beach il suo bersaglio preferito). In “FM!” il mirino non è puntato unicamente su sé stesso, malgrado Vince abbia scritto su Intagram che avrebbe dedicato il lavoro al suo primo, vero fan: sé stesso. Vince sputa sentenze tanto dure quanto condivisibili o almeno corroborate dai numerosi episodi di razzismo accaduti recentemente in America. In Feels Like Summer abbiamo il seguente, durissimo verso: “We gonna party ’til the sun or the guns come out”. Altro esempio della sua visione disincantata della vita, già venuta alla luce nelle frasi di “Prima Donna” in cui enunciava le proprie tendenze suicide, è presente in FUN!: “My black is beautiful, but I’ll still shoot at you”.
Insomma, questo album breve/EP che dir si voglia è un’altra aggiunta preziosa ad una discografia sempre più ingombrante. I beat scorrono fluidamente, la produzione è ottima e Vince dimostra una voglia di sperimentare assolutamente rara nel mondo hip hop moderno. Dopo essere partito da sonorità tipiche del rap West Coast (ritmi lenti, basi cupe e liriche drammaticamente realistiche), Staples ha sperimentato con ritmi elettronici e decisamente più tesi nelle prove più recenti. “FM!” riassume tutto in 22 minuti: una missione quasi impossibile, ma riuscita quasi su tutta la linea.
Se questo è il picco delle sue abilità, ben venga; ma sembra proprio che Vince Staples abbia ancora molto da dare alla musica moderna. Che il suo manifesto definitivo debba ancora arrivare?
Voto finale: 8.
Thom Yorke, “Suspiria”
Il cantante dei Radiohead, chiamato da Luca Guadagnino a scrivere la colonna sonora del remake di Suspiria, il classico dell’horror diretto da Dario Argento nel 1977, ha ancora una volta sorpreso positivamente i suoi numerosi fans. Piuttosto che replicare o provare ad imitare l’iconica soundtrack dei Goblin dell’originale, Yorke ha infatti cercato di metterci molto del suo, creando un album coeso e producendo molte canzoni che sono fra le migliori mai composte nella sua carriera solista.
Sappiamo che i Goblin erano famosi per essere dei pionieri del progressive rock, mentre l’attività solista di Yorke è soprattutto fatta di suoni elettronici, spesso ambient. Ebbene, Thom ha deciso di consolidare questo suo percorso, creando una colonna sonora spaventosa, degna di un grande film dell’orrore: le atmosfere sono cupe, le ballate tristissime, la conclusione devastante. Alcune tracce del lungo disco (più di 80 minuti) possono apparire fuori contesto, essendo strettamente legate al film (si vedano ad esempio Sabbath Incantation e The Inevitable Pull), ma i picchi sono bellissimi.
Le due parti di Suspirium, in particolare, sarebbero entrate benissimo nei due LP più acustici dei Radiohead, “In Rainbows” (2007) e “A Moon Shaped Pool” (2016). Affascinante anche l’esperimento trip hop di Has Ended, decisamente inquietante Volk, che ricorda l’Aphex Twin più oscuro e sperimentale.
In conclusione, malgrado una lunghezza e un numero di canzoni non semplici da affrontare, “Suspiria” è una soundtrack che merita attenzione anche sganciata dal film di Luca Guadagnino, date le numerose perle che Thom Yorke ha deciso di disseminare lungo il percorso. Se qualcuno aveva ancora dubbi sulla versatilità e sul talento del frontman dei Radiohead, dovrà ricredersi.
Voto finale: 8.
The Good, The Bad & The Queen, “Merrie Land”
La seconda metà degli anni ’10 si sta rivelando davvero prolifica per Damon Albarn. Il celebre musicista inglese, frontman di band del calibro di Blur e Gorillaz, ha pubblicato il seguito di “The Good, The Bad & The Queen” (2007), l’omonimo album del supergruppo formato con Simon Tong, Paul Simonon e Tony Allen (rispettivamente ex membri di Verve, Clash e Fela Kuti).
Se il precedente CD era più che altro un divertissement, “Merrie Land” è decisamente calato nei nostri tumultuosi tempi. Albarn ha infatti dichiarato che il disco era già pronto nel 2014, ma che la Brexit ha costretto i quattro a riscrivere l’intero album. Ciò è particolarmente evidente nelle tematiche affrontate: numerosi sono i riferimenti alla Brexit, naturalmente, offerti non in modo snobistico, ma anzi molto tenero e mai scontato. Damon canta “This is not rhetoric, it comes from my heart. I love this country” nella title track, ma l’ammissione di nostalgia più forte arriva in Nineteen Seventeen: “I see myself moving backwards in time today from a place we can’t remain close to anymore. My heart is heavy, because it looks just like my home.”
Musicalmente, i The Good, The Bad & The Queen si rifanno al sound del loro primo LP: un rock leggero, con frequenti richiami folk ed elettronici, perfetto per il tono malinconico dei pezzi e i testi decisamente pessimisti. Spiccano Gun To The Head e Nineteen Seventeen, ma va detto che il CD è compatto e coeso, nessun pezzo fuori posto e l’abilità strumentale dei componenti risalta. Interessante il momento più mosso del lavoro, Drifters & Trawlers; inferiore alla media invece The Truce Of Twilight, un po’ troppo pomposa.
Insomma, non stiamo parlando del capolavoro di una vita, ma certamente Damon Albarn e compagni hanno prodotto un disco che non fa rimpiangere la loro discografia passata. “Merrie Land” si staglia quindi come un altro tassello prezioso in una carriera, quella di Damon Albarn, sempre più stupefacente per livello medio e varietà di generi affrontati, quasi sempre con successo.
Voto finale: 8.
Julia Holter, “Aviary”
La musica di Julia Holter è sempre stata difficile da catalogare: pop ma allo stesso tempo sperimentale, accessibile ma anche ricca di riferimenti a tragediografi greci del passato, film francesi ormai classici e libri semisconosciuti. Insomma, una figura come la sua è difficilmente paragonabile ai suoi contemporanei.
Il suo quinto album, “Aviary”, è anche il suo CD più massimalista: 90 minuti di durata, 15 canzoni di durata media sei minuti e un mix di generi quanto mai disparati (ambient, pop, sperimentale, addirittura jazz). Un’odissea di tale portata richiede naturalmente del tempo per essere apprezzata appieno, ma l’ascoltatore paziente sarà premiato: Julia abbandona qualsiasi tentativo di essere commerciale, coltivando completamente la propria visione artistica e raggiungendo momenti di rara bellezza. Certo, non tutto è a fuoco, ma i risultati complessivi sono buoni.
L’inizio è straniante: Turn The Light On riassume sostanzialmente tutte le sonorità che incontreremo nel corso dell’album, solo che lo fa in poco più di quattro minuti! Il risultato a primo acchito può sembrare cacofonico, ma nasconde un’attenzione per il dettaglio estrema. Non che Whether sia molto più accessibile. La “vecchia” Julia Holter compare nelle lunghe Chaitius e Voce Simul, rimandando ai tempi estatici di “Have You In My Wilderness” (2015). Il disco prosegue poi su questi binari estremi, passando da pezzi più facilmente apprezzabili (I Shall Love 2) ad altri decisamente più arditi (Everyday Is An Emergency).
Liricamente, l’artista americana ha detto di essersi ispirata, nella scelta del titolo, ad una frase di un romanzo libanese, il cui autore Etel Adnan diceva “I found myself in an aviary full of shrieking birds”, richiamando il caos del mondo moderno. La Holter evidentemente condivide questo punto di vista, tanto che “Aviary”, nella sua più totale libertà compositiva (spesso caotica) è l’immagine riflessa del caos della società moderna.
In conclusione, “Aviary” rappresenta un radicale passo avanti nella discografia di Julia Holter: mettendo da parte le sue tendenze più pop per dare spazio allo sperimentalismo più ambizioso, l’artista alienerà qualche fans, ma probabilmente a lungo andare la sua carriera potrà beneficiarne. Staremo a vedere; di certo, il suo prossimo CD, se metterà da parte alcuni eccessi, potrebbe essere il suo capolavoro definitivo.
Voto finale: 7,5.
Anderson .Paak, “Oxnard”
Il giovane artista americano Anderson .Paak, al terzo album, riassume tutte le ragioni che lo hanno fatto diventare una delle promesse più brillanti del mondo funk/R&B contemporaneo, insieme però ad alcuni difetti che gli hanno finora impedito di scrivere un CD davvero imprescindibile per gli amanti del genere.
“Malibu”, il disco che lo aveva fatto conoscere al grande pubblico, era stato una ventata di novità nel 2016: canzoni complesse ma divertenti e mai snob, produzione eccellente e la voce di Anderson sempre intonata, tanto che ad A-Rock lo avevamo inserito in una nostra rubrica “Rising” e nella lista dei migliori 50 album dell’anno. Anche i Grammy se ne erano accorti, nominando .Paak nelle categorie Miglior Artista Emergente e Miglior Album Urban. Insomma, tutto sembrava pronto all’album definitivo.
Invece, “Oxnard” punta eccessivamente sugli ospiti di grande spessore e su uno stile decisamente più rap rispetto a “Venice” (2014) e “Malibu”, perdendo a volte il focus e risultando in un album versatile e mai noioso, ma fin troppo carico di influenze per piacere davvero fino in fondo. A ciò aggiungiamo liriche fin troppo concentrate sull’aspetto sessuale della vita californiana, specialmente in Sweet Chick e 6 Summers, che alla lunga possono stufare.
Certo, brani come Tints (con Kendrick Lamar) e ospiti del calibro di Pusha T, Dr. Dre, lo stesso Kendrick e Snoop Dogg non possono che arricchire musicalmente sia “Oxnard” che lo stesso Anderson .Paak, ma il disco risente a volte di tutte queste diverse influenze: l’iniziale The Chase è davvero confusionaria, mentre Saviers Road è un po’ piatta. Nei momenti migliori, come le già menzionate Tints e 6 Summers, Anderson ritorna agli eccellenti livelli di “Malibu”, ma non sempre questo accade.
In conclusione, “Oxnard” verrà ricordato come un LP con grande potenziale, solo parzialmente mantenuto: tutto congiurava per farne un ottimo seguito di “Malibu”, anche la durata (56 minuti) e il numero di canzoni (14) erano sensati. Purtroppo, Anderson .Paak ha voluto strafare, caricando il CD di ospiti e generi musicali; i risultati restano discreti, ma non eccezionali. Sarà per la prossima.
Voto finale: 7.
Muse, “Simulation Theory”
L’ottavo CD dei Muse, il famosissimo gruppo rock inglese, è il loro lavoro più pop. Va dato loro atto che non si trovano molte band pronte a entrare in un mondo molto competitivo come il pop-rock dopo quasi 25 anni di carriera; i risultati non saranno sempre convincenti, ma possiamo dire serenamente che i Muse sono ancora vitali e lottano insieme a noi.
L’apertura di “Simulation Theory”, peraltro ornato con una copertina degna di un episodio di Black Mirror o Stranger Things, è molto solenne: Algorithm si apre lenta, prima che la sempre affascinante voce di Matt Bellamy prenda possesso del brano e lo guidi verso lidi più conosciuti, sulla falsariga di “The 2nd Law” (2012) e “Drones” (2015). La prima vera perla è Pressure, non a caso scelta anche come singolo di lancio: un pezzo che riporta i Muse alla gloria di “Black Holes And Revelation” (2006). Ottime anche Something Human e Get Up And Fight.
Purtroppo, alcuni passi falsi influenzano negativamente il risultato complessivo: Dig Down e Propaganda sono fin troppo carichi di tastiere e voci di sottofondo, mentre Blockades richiama le sonorità dei vecchi Muse di “Origin Of Symmetry” (2002) ma con diversa efficacia. La chiusura di The Void, tuttavia, redime anche la parte finale, creando tutto sommato un album coeso e gradevole che, pur non raggiungendo i picchi della produzione dei Muse a metà del decennio scorso, è però riuscito.
Liricamente, negli ultimi dischi i Muse si sono resi autori di potenti invettive contro l’establishment mondiale, accusato a più riprese di affamare i più poveri, tanto da necessitare una rivolta o comunque una presa d’atto di questo fatto (si riascolti Uprising per conferma). Anche “Simulation Theory” non è da meno, già dai titoli: Propaganda e Thought Contagion ne sono esempi, ma anche Get Up And Fight e The Dark Side non sono da meno.
In conclusione, il meglio per i Muse sembra ormai essere alle spalle. Nondimeno, “Simulation Theory” li conferma rock band ancora viva e vegeta, pronta a riempire le arene di tutto il mondo con il suo rock barocco degno di Queen e U2.
Voto finale: 7.
Ty Segall, “Fudge Sandwich”
Il 2018 di Ty Segall è… beh, difficile trovare le parole. Dopo aver pubblicato un album solista, uno con il fido compare White Fence e uno con il suo progetto secondario GØGGS, il cantante californiano è tornato con il quarto (!) disco dell’anno. Questa volta si tratta di una raccolta di cover, che spaziano da Neil Young a John Lennon ai Grateful Dead; insomma, tutti chiari riferimenti per Ty, che ha affrontato più o meno tutte le sfaccettature del rock durante la sua iperprolifica carriera (dal garage rock degli esordi alla psichedelia, passando per punk, folk-rock e hard rock).
L’inizio di “Fudge Sandwich” è insolitamente raccolto e richiama le atmosfere più sperimentali di “Emotional Mugger” (2016). Già da I’m A Man, però, ritroviamo il Ty Segall che tutti amiamo: energico, chitarrista sopraffino e grande interprete anche vocalmente parlando. Altri pezzi che catturano l’attenzione sono la dura Hit It And Quit It e Slowboat, mentre sono leggermente sotto la media Class War e Archangel Thunderbird.
Ty conferma quindi la sua innata qualità: saper creare CD sempre interessanti, che mai si rivelano buchi nell’acqua. Certo, ad alcuni potranno piacere meno alcuni tratti della sua visione musicale, ma è innegabile che, se c’è un artista che sta portando avanti a testa alta la bandiera del rock, questo è Ty Segall. Chapeau e buona fortuna, Ty: in questi tempi pieni di rap e R&B emergere con del rock’n’roll duro e puro non è semplice.
Voto finale: 7.
Preso il cd di J. Holter molto bello e complesso.
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