Rising: black midi & Hatchie

Quest’oggi la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti propone il ritratto dei black midi, un giovane gruppo britannico che suona un rock davvero particolare, con ricche influenze di jazz e metal. Insomma, tutto meno che il pop che va tanto di moda.  Accanto ai black midi abbiamo poi Hatchie, nuova stellina australiana del dream pop. Ma andiamo con ordine.

black midi, “Schlagenheim”

schlagenheim

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. Come già accennato, i black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti sfrenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? Allora, l’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; come sempre a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

Voto finale: 8,5.

Hatchie, “Keepsake”

keepsake

L’Australia si conferma terra fertile per il rock. Nella decade che sta per terminare abbiamo avuto l’affermazione di progetti del calibro di Tame Impala, King Gizzard & The Lizard Wizard e Alvvays; Hatchie si inserisce al confine tra pop e rock, creando con il suo CD d’esordio “Keepsake” un interessante ibrido di dream pop e shoegaze, mai però troppo sperimentale o fuori dagli schemi.

Questa è forse la critica maggiore ad un disco altrimenti pregevole: abbiamo influenze chiare degli Stone Roses e degli Smiths, tanto per citare due pilastri del rock anni ’80-’90 del secolo scorso. A colpire è soprattutto la capacità di Hatchie di proporre brani fondamentalmente pop con quello sguardo alla modernità che, se non presente, la renderebbe puramente una copia degli artisti sopra citati.

Come già ribadito, chi si aspettasse un album rivoluzionario rimarrà deluso; tuttavia l’hype che circonda la giovane australiana non è del tutto immeritata. Certo, brani scontati come Without A Blush starebbero meglio nelle mani di gente come Carly Rae Jepsen o Charli XCX, ma altri come l’iniziale Not That Kind e Unwanted Guest sono perle vere.

Liricamente, il lavoro è uno dei tanti breakup album usciti ultimamente nel mondo pop-rock, non ultimi quelli di Julia Jacklin e Sharon Van Etten: sentiamo Harriette Pilbeam (questo il vero nome di Hatchie) cantare in Secret “Just for a while, let’s reconcile”, ma anche altrove emergono sentimenti contrastanti verso l’ex partner. Insomma, anche sul versante testuale nessuna novità di rilievo.

In conclusione, “Keepsake” è una parziale delusione: chi si aspettava il CD-manifesto della promettente artista australiana dovrà pazientare ancora qualche anno. I momenti interessanti non  mancano, ma Hatchie deve ancora farne di strada per arrivare a risultati davvero eccezionali. L’impressione è che le riescano meglio le canzoni più aderenti allo shoegaze, staremo a vedere dove la porterà il prosieguo della carriera.

Voto finale: 6,5.

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