Il mese di novembre, come consuetudine, rappresenta l’ultimo valido per quanto riguarda la composizione della lista dei 50 migliori album dell’anno di A-Rock. Abbiamo recensito i nuovi lavori degli Elbow, di Skee Mask e di FKA twigs. In più abbiamo i ritorni di Mikal Cronin, Andy Stott, Michael Kiwanuka ed Earl Sweatshirt, oltre alla collaborazione Mount Eerie/Julie Doiron e al clamoroso ritorno dei TNGHT. Tuttavia, per gli amanti del rock due sono stati gli eventi imperdibili: il ritorno dei Coldplay e il CD postumo di Leonard Cohen.
FKA twigs, “MAGDALENE”
La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.
Il CD, molto atteso da critica e pubblico, era stato anticipato da singoli molto diversi fra loro: la meravigliosa cellophane è il più bel brano mai creato da FKA twigs, una delicata ballata solo voce e piano, con synth solo accennati. Invece holy terrain, con Future, era quasi trap; infine sad day e home with you si rifacevano, nello stile e nel ritmo, all’esordio di Tahliah, “LP1” (2014).
Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD sono fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come la già citata cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.
Menzioniamo infine l’aspetto testuale: in “MAGDALENE” l’artista inglese evoca, già nel titolo, la figura di Maria Maddalena, una delle più dibattute nei Vangeli. In alcuni brani emerge il ricordo della storia appena finita con Pattinson: in thousand eyes si sente “if I walk out the door it starts our last goodbye”, mentre sad day evoca il giorno in cui Tahliah ha capito che era finita. Altrove invece appare lo smarrimento che ha colpito la talentuosa performer nei momenti peggiori della sua vita: “I’m searching for a light to take me home and guide me out”, un verso desolante di fallen alien, ne è un esempio chiaro.
FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale. Il CD entrerà facilmente nella top 10 di A-Rock, resta solo da stabilire in quale posizione.
Voto finale: 8,5.
Coldplay, “Everyday Life”
L’ottavo disco dei Coldplay, la celeberrima band inglese capitanata da Chris Martin, è un deciso ritorno alle sonorità del decennio ’00 del XXI secolo, come da molti anticipato? Sì, senza dubbio. Certo, il sound più pop e caleidoscopico degli anni recenti non viene abbandonato, ma per esempio gli eccessi di “A Head Full Of Dreams” (2015) sono accantonati per fare spazio a ritmi più rock e atmosfere più calde, a volte addirittura orchestrali (si senta Sunrise).
Il doppio album si apre con la metà dedicata all’alba, intitolata appunto “Sunrise”. Che “Everyday Life” sia un ritorno ai tempi creativamente gloriosi di “A Rush Of Blood To The Head” (2002), con un po’ di “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), è chiarissimo da Church e Trouble In Town: due brani eleganti, semplici ma che crescono ascolto dopo ascolto.
I singoli parevano aver fatto intravedere addirittura il lato sperimentale dei Coldplay: Arabesque ad esempio contiene una parte di sassofono decisamente rilevante, fatto insolito per Martin e soci. Invece Orphans, uno degli highlights immediati del CD, è un pezzo gioioso, che riporta alla memoria Viva La Vida. Il lato più ambizioso del complesso si vede anche in BrokEn, che pare un pezzo di Chance The Rapper col suo incedere gospel e i temi sacri affrontati.
La seconda metà, “Sunset”, potrebbe parere più raccolta come sonorità, data la presenza di pezzi come Cry Cry Cry e Old Friends, ma è anche vero che contiene la hit Orphans e la quasi country Guns, che sembra di ispirazione Johnny Cash e di resa Rolling Stones. Molto interessante poi Champion Of The World, che pare presa da “X & Y” (2005).
Affrontiamo infine l’aspetto lirico: il CD è rilevante anche perché i Coldplay, seppure sempre in maniera discreta, affrontano temi molto importanti, dal controllo delle armi (Guns) ai problemi legati alla brutalità della polizia e al razzismo (Trouble In Town). Insomma, Chris Martin e soci sono ormai persone mature, capaci di affrontare temi non solo legati all’amore, come molte volte sono stati accusati di fare in passato.
In generale, “Everyday Life” è un LP davvero riuscito, con alcuni dei pezzi migliori mai scritti dai Coldplay (ad esempio Orphans) e una voglia di sperimentare, ma con raziocinio, che pareva persa da parte del gruppo britannico, tra sbornie dance (Something Just Like This) e intrallazzi con le stelle dell’R&B (Hymn For The Weekend). È senza dubbio il miglior disco dei Coldplay dal 2008 a questa parte, non una cosa da poco per quattro ragazzi che suonano insieme da 23 anni (!).
Voto finale: 8.
Michael Kiwanuka, “Kiwanuka”
Il terzo album del cantante soul britannico Michael Kiwanuka è un altro tassello prezioso di una carriera in continua ascesa. Già premiato da critica e pubblico col precedente “Love & Hate” (2016), nominato anche per il Mercury Prize, Kiwanuka mantiene lo stile soul ma anche psichedelico che ne aveva decretato il successo, aggiungendo una produzione raffinata grazie a Inflo e Danger Mouse.
I 14 brani di “Kiwanuka”, come già il titolo preannuncia, sono più personali del passato, tuttavia Michael non si espone fino in fondo: a volte sentiamo frasi come “All I want is to talk to you”, in Piano Joint (This Kind Of Love), oppure “The young and dumb will always need one of their own to lead”, in Light. Mai, però, il talentuoso cantautore va più in là: un modo per mantenersi ermetico o il timore dei giudizi del pubblico?
Conta relativamente, data la bellezza del disco: la delicatezza di Piano Joint (This Kind Of Love) è incredibile, così come la carica di Hero. I 52 minuti del CD scorrono benissimo e ripetuti ascolti svelano sempre nuovi dettagli del lavoro, facendo peraltro assumere alla voce di Kiwanuka un’importanza sempre maggiore. Molto interessante poi la struttura dell’album: gli intermezzi sono numerosi, ma in alcuni casi perfettamente funzionali (ad esempio Hero – Intro introduce perfettamente Hero) e soprattutto nessuno è messo solo per motivi di streaming, cosa purtroppo comune nel mondo hip hop.
In conclusione, il soul ha trovato un nuovo volto: se “Love & Hate” poteva essere un fuoco di paglia, tutti i dubbi sono stati cancellati da “Kiwanuka”, che affianca il cantautore inglese a figure come Temptations e D’Angelo, senza la carica sexy del secondo e la creatività dei primi, ma con una capacità di lavorare sui dettagli almeno simile.
Voto finale: 8.
Earl Sweatshirt, “FEET OF CLAY”
Il nuovo, bravissimo EP a firma Earl Sweatshirt arriva poco meno di un anno dopo “Some Rap Songs”, il CD fino ad ora più riuscito della sua produzione, che ha raggiunto nuovi livelli di creatività e arditezza nell’ambito del rap sperimentale, mischiandolo abilmente con il jazz d’avanguardia. “FEET OF CLAY” pare un estratto di quell’incredibile lavoro: l’EP continua la striscia di pubblicazioni sempre più fuori di testa di Earl, basti sentirsi la base sghemba di EAST.
Il lavoro è composto da 7 brani per 15 minuti di lunghezza: va però sottolineato che solo in un paio di occasioni le canzoni superano i 2 minuti di lunghezza, vale a dire in EL TORO COMBO MEAL e 4N. Il resto dei brani sono quasi degli schizzi in attesa di essere completati, in questo ricordando il Kanye West di “JESUS IS KING”.
Anche tematicamente il disco è un’ideale continuazione di “Some Rap Songs”: in TISK TISK / COOKIES Earl mormora: “The moments that’s tender and soft, I’m in ’em, the memories got strong. But some of them lost”, mentre in EAST fa riferimento ai suoi problem di alcolismo, “My canteen was full of the poison I need”.
In conclusione, “FEET OF CLAY” è un altro rilevante lavoro di Earl Sweatshirt, che si conferma voce veramente unica nel panorama rap contemporaneo. Le sue basi sempre eccentriche, con chiari elementi jazz quando non elettronici, hanno influenzato molti artisti, dagli Injury Reserve a MIKE. Tuttavia, nessuno ha l’onestà intellettuale e la capacità di creare lavori coesi come lui: “FEET OF CLAY” suona contemporaneamente come chiusura di un ciclo e apertura di nuovi orizzonti. Inutile dire che ad A-Rock siamo eccitatissimi.
Voto finale: 8.
Andy Stott, “It Should Be Us”
Il nuovo album dell’enigmatico DJ Andy Stott segue di tre anni “Too Many Voices”, un lavoro da molti considerato il più debole della sua produzione, a metà fra techno oscura e passaggi più ariosi. Stott in effetti è sempre stato maestro delle atmosfere dark, interprete di un’elettronica lenta e sincopata, non ballabile ma capace di momenti di vera bellezza.
Molto efficace anche in formato EP (basta sentirsi i due lavori del 2011 “Passed Me By” e “We Stay Together”), il produttore inglese ha definitivamente deciso da che parte stare: le 9 canzoni di “It Should Be Us” sono la perfetta colonna sonora dell’Apocalisse. Le atmosfere sono lugubri come mai nella discografia di Stott, i ritmi sono caratterizzati da bassi opprimenti e batteria quasi post-punk. Le poche voci udibili ricordano il Burial di “Untrue” (2007), esprimendo sensazioni più che parole vere e proprie.
Molto efficaci in questo senso Dismantle e Collapse, mentre è inferiore alla media Promises. In generale il CD è coeso ed è un buon compromesso fra EP e LP in termini di canzoni e durata: 9 pezzi per 46 minuti, pur in un genere così pessimista, non sono difficili da assimilare, fatto che dà ancora più fascino al lavoro.
Andy Stott ha ormai creato uno stile tutto suo, che certo lo tiene lontano dal mainstream ma ne assicura un’immediata riconoscibilità. “It Should Be Us” è un’altra interessante aggiunta ad una discografia che va ormai elogiata come una delle più efficaci nella scena elettronica mondiale.
Voto finale: 8.
Elbow, “Giants Of All Sizes”
L’ottavo album degli Elbow riprende esattamente dove il precedente “Little Fictions” (2017) aveva lasciato: ritmi decisamente più lenti e contemplativi rispetto agli esordi, testi impegnati ma anche eminentemente personali.
“Giants Of All Sizes” è stato decisamente tormentato durante la sua gestazione: oltre alle ben note vicende britanniche degli ultimi anni (Brexit, incendio della Greenfell Tower, più in generale malessere e rancore) si sono sommate tre morti di persone molto vicine alla band, ossia il padre del frontman Guy Garvey e due collaboratori, Scott Alexander e Jan Oldenburg. Il CD è quindi nei testi a volte molto pessimista e malinconico, ma non per questo nichilista o eccessivamente depressivo.
Già l’apertura del lavoro è decisamente particolare: Dexter & Sinister è una canzone lunga (quasi 7 minuti) e decisamente complessa, anche liricamente, con i riferimenti alle divisioni fortissime della società inglese. Non che il prosieguo del CD sia molto più brillante: solo con Empires i ritmi diventano più sostenuti. Invece i contenuti testuali sono più variegati, come già accennato: in My Trouble compare un elogio tenerissimo della moglie di Garvey, mentre On Deronda Road narra un viaggio che il cantante degli Elbow fece qualche anno fa col figlio. La nota veramente ottimista arriva in chiusura di Weightless, dove Garvey racconta di come il figlio appena nato lo abbia aiutato moltissimo in occasione della morte del padre, facendogli capire l’importanza della vita.
“Giants Of All Sizes” mostra una band ormai matura, contenta della propria posizione all’interno dello scacchiere musicale e ancora capace di produrre canzoni molto interessanti (si ascoltino White Noise White Heat e My Trouble). Il CD non è un capolavoro, ma fa capire una volta di più che gli Elbow hanno ancora qualcosa da dare alla musica.
Voto finale: 7,5.
Mount Eerie feat. Julie Doiron, “Lost Wisdom Pt. 2”
Il nuovo album del cantautore Phil Elverum, meglio conosciuto come Mount Eerie (oltre che ex leader dei Microphones), continua sulla strada tracciata dai due lavori che precedono questo CD, i tragici “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only” (2018). Ancora è forte il ricordo della moglie Geneviève Castrée, deceduta per un cancro due anni fa, ma anche il breve matrimonio con l’attrice Michelle Williams ha un importante ruolo.
In effetti “Lost Wisdom Pt. 2” è un breakup album: molto spesso nel corso delle 8 canzoni che compongono il CD appaiono immagini legate alla Williams, ad esempio quando in una libreria Elverum si rende conto di quanto la ama, oppure viceversa quando i due capiscono di non poter vivere assieme, lei abituata ai paparazzi e lui invece allergico al pubblico troppo largo.
Da non sottovalutare sono infine due aspetti del disco: la collaborazione con la cantautrice Julie Doiron avviene perfettamente alla pari, come del resto avveniva nel precedente lavoro della serie, “Lost Wisdom” (2008). È un piacere sentire la voce dolce di Mount Eerie mescolarsi con quella altrettanto angelica di Julie, per creare armonie gradevoli anche se non rivoluzionarie. Altro aspetto interessante è la struttura del CD. Il primo brano si intitola Belief, l’ultimo Belief Pt. 2 e riprende esattamente dove il primo aveva lasciato. I pezzi migliori sono proprio la lunga Belief e Love Without Possession, mentre è inferiore alla media la troppo breve Pink Light.
I frequenti cambi di ritmo e il ruolo finalmente tornato importante della chitarra elettrica fanno sì che “Lost Wisdom Pt. 2” non sia mai prevedibile e che i 31 minuti di durata siano ben investiti anche dopo ripetuti ascolti. Certo, il lavoro non raggiunge le vette di sensibilità e magnificenza di “A Crow Looked At Me”, ma è un’altra buona aggiunta ad una discografia ormai imponente.
Voto finale: 7,5.
Leonard Cohen, “Thanks For The Dance”
Il quindicesimo album a firma Leonard Cohen arriva tre anni dopo la sua morte: un album postumo corre sempre il rischio di suonare falso o, peggio, messo insieme per sfruttare fino alla fine (e anche oltre) la fama del defunto, si vedano le pubblicazioni a firma XXX Tentacion.
“Thanks For The Dance” è in realtà un album onesto da questo punto di vista: curato dal figli Adam assieme a giganti del rock recente come Feist (Broken Social Scene), Bryce Dessner (The National) e Beck, il CD è un modo per dire definitivamente addio ad uno dei più grandi artisti degli ultimi 50 anni e capire ancora una volta come anche i suoi scarti possono creare prodotti interessanti.
Come può apparire scontato, le 9 melodie dell’album, composte nelle stesse session di “You Want It Darker”, hanno sonorità malinconiche e testi carichi di tragici significati, con riferimenti all’Olocausto (Puppets) e alla morte purtroppo imminente (The Hills). Il modo però in cui Cohen consegna questo testamento artistico, pieno di grazia e classe, ce lo fa apprezzare per un’ultima volta.
“You Want It Darker” (2016), composto mentre Leonard lottava contro il cancro, pareva già un ottimo modo di chiudere il cerchio, soprattutto grazie ai poetici quanto tragici versi contenuti in pezzi come la title track e Leaving The Table. Tuttavia, canzoni come Happens To The Heart e The Night Of Santiago rendono “Thanks For The Dance” una buona aggiunta ad una discografia davvero imponente. Certo, la grazia di LP come “Songs Of Leonard Cohen” (1967) oppure “I’m The Man” (1988) era impossibile da replicare, ma il CD è accettabile e, escludendo colpi di coda da parte di eredi spietati o case discografiche senza vergogna, chiude degnamente la carriera di un vero gigante della musica contemporanea.
Voto finale: 7.
Skee Mask, “ISS004”
La nuova pubblicazione del talento tedesco Bryan Müller, in arte Skee Mask, esplora una parte della sua estetica che fino ad ora era rimasta un po’ nascosta: l’amore per la scena rave e il mondo dei club. Fin dalla prima traccia infatti “ISS004” pare più l’opera di un autore come Autechre piuttosto che di un talento della scena techno/ambient come lui.
Juug è infatti un perfetto esempio di musica ideale per un club di medie dimensioni a notte inoltrata: batteria pulsante, bassi potenti e un ritmo avvolgente che termina quasi come un lento. La seguente Slow Music ha un titolo ingannevole: di tutto stiamo parlando meno che di musica lenta infatti, con i ritmi breakbeat prediletti da Müller in piena forma. Lo stesso dicasi per RZZ, caratterizzata da una base più inquietante ma dagli stessi ritmi ossessivi. La meno convincente del lotto è Play Ha, che pare un calco dei due brani precedenti. Chiude la tracklist Sphere In Total, che riprende la corrente più ambient e contemplativa di Skee Mask.
Il CD è in realtà anche vedibile come un EP lungo: i 5 pezzi fanno pensare al secondo, ma in realtà la durata vicina ai 30 minuti lo rende un album complesso e non assimilabile al primo ascolto. In generale, però, il Nostro si dimostra una volta di più un vero talento della scena elettronica mondiale, capace di spaziare tra ambient, rave e brani più eclettici in maniera scaltra e sempre con risultati interessanti.
Voto finale: 7.
TNGHT, “II”
Il secondo EP a firma TNGHT arriva ben sette anni dopo l’eponimo esordio. In questo periodo sia Lunice che Hudson Mohawke, i due componenti dei TNGHT, sono in realtà stati molto impegnati. I riflettori si sono giustamente puntati maggiormente sul secondo: le sue frequenti collaborazioni con Kanye West lo hanno reso un produttore molto richiesto nel mondo hip hop.
Nessuno avrebbe bisogno di un nuovo CD del duo, non fosse per un motivo: la scena trap, che i TNGHT hanno aiutato a definire con “TNGHT” (2012), è ormai diventata ubiqua, tanto da soppiantare elettronica e rock fra i più giovani. Quale modo migliore di “festeggiare” questo trend che creare un prodotto che si distanzia molto dal precedente? Nulla da sorprendersi del resto, conoscendo Lunice e Mohawke.
L’unica traccia che ricorda le atmosfere trap di “TNGHT” è Dollaz, davvero folle ma riuscita. Altrove invece abbondano esperimenti elettronici di varia natura, sulla scia dell’ultimo Flume (First Body) e di SOPHIE (Gimme Summn). Se a tutto ciò aggiungiamo la presenza di uno Skit di ben 5 secondi di durata (!!), l’EP diventa una vera follia, ma davvero gradevole.
I TNGHT paiono davvero divertiti da “II”: due famosi produttori che si danno alla pazza gioia in studio possono portare risultati tremendi oppure assurdamente buffi. Questo lavoro rientra nella seconda categoria: non parliamo certo di capolavoro, ma passare 22 minuti in compagnia di Hudson Mohawke e Lunice non è mai una perdita di tempo.
Voto finale: 7.
Mikal Cronin, “Seeker”
Il quarto disco solista di Mikal Cronin, fidato collaboratore di Ty Segall, ricalca le orme del precedente “MCIII” (2015): strumentazione più barocca del solito passato garage rock, ritmi più lenti e canzoni più mature. I risultati non sono sempre perfetti, mostrando una evoluzione nell’estetica di Mikal che non ci fa ben sperare per il suo futuro.
Laddove “MCII” (2013) aveva messo in mostra l’innata abilità di Cronin di comporre canzoni a metà fra power pop e indie rock, con la vetta forse irraggiungibile di Weight, già in “MCIII” si erano intravisti limiti nella sua estetica: le canzoni troppo barocche decisamente non si adattano bene a lui. Si sperava che in “Seeker” si trovasse un equilibrio fra le due componenti, questo tuttavia accade solo in parte: il problema risiede principalmente negli arrangiamenti a volte troppo prevedibili (Show Me), altre fin troppo arzigogolati (Shelter). I brani che davvero stupiscono favorevolmente sono Fire e la breve Caravan, ma non portano il CD ad essere pienamente apprezzabile.
È un peccato, infatti Mikal Cronin continua ad essere un talentuoso musicista, che non per caso collabora con il vero dio del garage rock, Ty Segall, contrastandone probabilmente le tendenze più metallare per creare quei gioielli per cui Ty è molto stimato da pubblico e critica. Come autore però Cronin pare aver perso il filo, “Seeker” infatti raggiunge a malapena la sufficienza… Vedremo il futuro dove lo condurrà, certo un ritorno alle radici garage rock non sarebbe un peccato.
Voto finale: 6.