Rising: Dogleg & Jay Electronica

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. Quest’oggi affrontiamo due profili: da un lato i Dogleg, un quartetto punk originario di Detroit, feroce quanto accessibile; dall’altro Jay Electronica, uno dei rapper più enigmatici e allo stesso tempo più attesi alla prova del primo LP. Ma andiamo con ordine.

Dogleg, “Melee”

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Cosa aspettarsi da un gruppo punk il cui esordio si intitola “zuffa”? Beh, nulla di più di alcune canzoni energiche, chitarre al massimo e testi potenti. I Dogleg riescono a raggiungere tutti questi obiettivi con apparente semplicità, iscrivendosi di diritto in una scena punk-rock mondiale che ultimamente ha visto nascere numerose nuove voci (Shame, IDLES e PUP solo per citare le più note).

I 10 brani del CD sono in effetti davvero brutali in molte parti: la doppietta iniziale formata da Kawasaki Backflip e Bueno resterà impressa per molto tempo nella mente e nelle orecchie degli ascoltatori, così come Hotlines. Solo in certi tratti emergono accenti diversi, più spostati sul ramo emo del genere, si ascoltino ad esempio Headfirst e Fox.

In realtà l’ispirazione dei Dogleg va ricercata negli Iceage: l’esordio “A New Brigade” (2011) era in effetti un ottimo album quasi hardcore in certi tratti, così come il durissimo “You’re Nothing” (2013). Vedremo il percorso futuro dei Dogleg come sarà, certamente il talento pare esserci. Anche testualmente il lavoro non è banale: emergono temi che, anche in questo caso, ricordano le band emo del passato (American Football su tutte), affrontando la depressione all’inizio del disco come alla fine, tanto che il CD inizia e finisce con Alex Stoitsiadis (il frontman della band) malinconicamente seduto a terra supino.

In generale, dunque, “Melee” non reinventa la storia del rock; tuttavia rappresenta una sferzata d’aria fresca necessaria in tempi come questi.

Voto finale: 8.

Jay Electronica, “A Written Testimony”

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L’album di esordio dell’ormai maturo rapper statunitense (43 anni) ha rappresentato un fulmine a ciel sereno per tutti. Jay Electronica infatti era quasi una figura mitica nel mondo della musica: collaborazioni eccellenti (Chance The Rapper, Kendrick Lamar, Nas) e alcuni singoli di grido nella decade 2000-2009 (!) avevano creato un’attesa enorme per il suo primo CD.

Attesa destinata ad essere disillusa… fino ad oggi. Accanto a Jay troviamo peraltro altri ospiti davvero illustri, su tutti un JAY-Z in grande forma, senza dimenticare Travis Scott e James Blake, che rendono “A Written Testimony” imperdibile. I beat sono decisamente old school, rimandando ai dischi hip hop del secolo passato, ma mai fuori fuoco o fini a sé stessi. In 10 canzoni e 39 minuti, infatti, Jay Electronica copre molto territorio, mescolando al rap anche soul e jazz, per creare un prodotto coeso: il migliore album hip hop dell’anno fino ad ora.

Va ricordato che JAY-Z dà una mano fondamentale all’omonimo Jay Electronica nel corso del CD, tanto da metterlo quasi in ombra in certi tratti: basti sentirsi The Blinding e Universal Soldier, per capire quanto ancora mister Carter abbia da dare alla musica. Come già accennato, tuttavia, nessun brano è scadente (solo Ezekiel’s Wheel è un po’ troppo lento); Jay Electronica anzi pare davvero in ottima condizione e molto affiatato con gli ospiti presenti nel disco.

Testualmente, “A Written Testimony” affronta temi da sempre cari alla musica hip hop: la condizione della gente di colore, la scalata al potere di persone esemplari (su tutti, guarda caso, proprio JAY-Z) e l’eredità degli schiavi afroamericani del passato. Accanto a tutto ciò emerge la forte fede musulmana di Jay Electronica, uno dei tratti fondanti della sua vita e della sua poetica.

“A Written Testimony” quindi, malgrado la sua brevità, non è un disco assimilabile al primo colpo. Ripetuti ascolti tuttavia trasmettono molto, soprattutto una cosa: l’età, anche in un mondo sempre affamato di nuove facce come quello musicale (in special modo l’hip hop), non è necessariamente un freno. Soprattutto se coinvolgi nello stesso progetto Jay Electronica e JAY-Z.

Voto finale: 8.

Rising: Porridge Radio

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Un primo piano dei Porridge Radio.

Ritorna la rubrica del blog dedicata alla musica emergente. Quest’oggi ci occupiamo dei britannici Porridge Radio, un gruppo indie rock che grazie a una vocalist carismatica e testi diretti ha pubblicato un CD molto interessante.

Porridge Radio, “Every Bad”

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Il secondo album dei Porridge Radio è un riuscito amalgama di punk e indie rock, reso ancora più interessante dalla prova vocale a 360 gradi di Dana Margolin, capace di urli quasi heavy metal e sussurri da ballata pop che ne denotano l’elasticità canora.

Il primo LP del complesso inglese era passato quasi inosservato; la mutazione avvenuta fra “Rice, Pasta And Other Fillers” (2016) e “Every Bad” è notevole. Se prima le sonorità ispiratrici erano più virate verso l’indie pop, adesso i Porridge Radio sono diventati una rock band a tutti gli effetti. Il gruppo si va ad aggiungere ad una scena britannica davvero rigogliosa: IDLES, Shame, black midi e Fontaines D.C. sono i nomi più noti di una riscossa rock causata probabilmente, fra le altre cose, da una profonda insoddisfazione per la situazione corrente del Regno Unito e dell’Irlanda in questi ultimi anni.

L’inizio del CD ricorda quasi i Deerhunter: quando la Margolin in Born Confused ripete come un mantra “Thank you for leaving me, thank you for making me happy” per un minuto intero quasi ci torna alla mente Nothing Ever Happened. Altrove troviamo influenze più punk, dagli IDLES al Nick Cave delle origini, che creano un impasto sonoro denso ma mai fine a sé stesso.

È difficile trovare difetti in un album così ben sequenziato, lungo al punto giusto (11 brani per 41 minuti) e con continui cambi di ritmo, che lo rendono sempre imprevedibile. I pezzi migliori sono Born Confused e la più raccolta Pop Song, leggermente sotto la media (molto alta) del lavoro invece Nephews e Circling.

Abbiamo già accennato alle liriche dei Porridge Radio: in molte canzoni troviamo riferimenti personali, spesso desolati (“I’m bored to death” e “What is going on with me?” in Born Confused) e altre volte violenti (“And sometimes I am just a child, writing letters to myself, wishing out loud you were dead… and then taking it back” in Sweet). Infine però la band pare trovare pace in Lilac: “I don’t want to get bitter, I want us to get better, I want us to be kinder to ourselves and to each other”.

Questo messaggio di speranza è la degna chiusura di un CD davvero riuscito, l’ennesima bella scoperta del rock inglese. I Porridge Radio, come si dice sempre o quasi, non hanno rivoluzionato la musica; nondimeno ascoltando il disco non si può non sperare che, anche in questi tempi difficili, finisca come hanno detto loro: che tutti diventiamo migliori e più gentili con gli altri.

Voto finale: 8,5.

Recap: 28/02/2020

Il numero spropositato di CD interessanti usciti nel penultimo giorno di febbraio ha reso necessario redigere un articolo ad hoc. A-Rock non ha infatti potuto includere nel consueto recap di fine mese i nuovi lavori di Caribou, Soccer Mommy, Christine And The Queens e Real Estate. Buona lettura!

Soccer Mommy, “color theory”

soccer

Il secondo album della cantautrice di Nashville Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, è un ottimo passo avanti in una discografia che era cominciata col botto. “Clean” (2018) infatti aveva colpito pubblico e critica (aveva anche fatto parte di una rubrica Rising di A-Rock) per la sua disarmante sincerità e per testi sempre diretti, in cui Sophie addirittura immaginava di mangiare i propri ex partner (Cool) e in cui declamava fiera “I don’t wanna be your fucking dog” (Your Dog).

Il percorso intrapreso nel precedente lavoro, un indie rock intervallato da brani più lenti, non viene abbandonato in “color theory”; piuttosto notiamo una crescita nella composizione e, allo stesso tempo, la perdita di quell’effetto sorpresa che aveva reso “Clean” così toccante. Il lavoro non è malvagio, anzi sono più gli alti dei bassi, ma la prossima volta sarà lecito attendersi più sperimentalismo da Sophie.

Il CD inizia molto bene: bloodstream è un ottimo pezzo indie rock, capace di una progressione potente che fa culminare il brano nel bellissimo finale. Invece royal screw up è più debole e sa di già sentito. Molto belle poi crawling in my skin e la breve up the walls. Colpisce poi un aspetto nella struttura complessiva del disco: molte canzoni superano i 4 minuti, addirittura yellow is the color of her eyes arriva a 7, testimonianza di una creatività mai doma.

Il tema dominante del lavoro è, già dal titolo, come i colori possono essere collegati alle sensazioni che tutti noi proviamo. Soccer Mommy presenta tre colori per tre corrispondenti emozioni: blu=depressione, giallo=dolore, grigio=mortalità. “color theory” vaga fra queste tre percezioni dell’animo non perdendo mai il filo della narrazione e delineando il profilo di una narratrice depressa, conscia che la vita è caratterizzata da momenti belli e altri brutti, ma merita di essere vissuta fino in fondo. Ne sono esempi “I am the problem for me, now and always” (royal screw up) e “Standing in the living room talking as you’re staring at your phone… it’s a cold I’ve known” (nightswimming).

“color theory” è il lavoro più maturo a firma Soccer Mommy, un nome ormai riconosciuto nel mondo indie e sinonimo di qualità e testi candidi. Sophie Allison ha già compiuto passi da gigante nella sua maturazione come artista e come donna, manca solo un ultimo step per comporre quello che potrebbe essere il suo LP definitivo.

Voto finale: 8.

Caribou, “Suddenly”

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Il settimo CD a firma Caribou arriva dopo ben 6 anni dal precedente “Our Love”: un intervallo di tempo così lungo non è tuttavia stato speso inutilmente da Dan Snaith, colui che si cela dietro il progetto Caribou. Daphni, infatti, altro alter ego del musicista canadese, aveva pubblicato “Joli Mai” nel 2017; un album che tuttavia non raggiungeva le vette dei migliori lavori a firma Caribou, come ad esempio “Swim” (2010) e lo stesso “Our Love” (2014).

“Suddenly” è l’album più stilisticamente vario di Snaith: pop, elettronica, rock e rap si trovano qua e là nel corso del CD, così come brevi parentesi jazz e psichedeliche. Ciò tuttavia non va a detrimento della qualità: il marchio Caribou ha sempre mantenuto alto il livello, è vero, ma “Suddenly” certamente ne tiene alto il nome.

Accanto a tutto ciò, forse per la prima volta in un disco di Caribou le liriche non sono semplici echi di voci lontane poste su basi house o psichedeliche: adesso la voce di Dan è spesso alta nel mix, così come quella dei numerosi ospiti presenti nei samples dei vari brani. Basti pensare a Home e Sunny’s Time, dove per la prima volta l’hip hop la fa da padrone. Potrà piacere o meno, ma denota una crescita e un coraggio nel produttore e cantautore Dan Snaith che non sono banali.

La lirica più commovente è cantata però da Dan stesso: “I’m broken, so tired of crying… Just hold me close to you”, in Cloud Song, è il simbolo di un uomo fragile, debilitato da esperienze drammatiche (il divorzio, la morte di persone care). Un’ammissione certamente non facile, per Dan, ma commovente.

Musicalmente, “Suddenly” è, come già accennato, un’aggiunta di spessore ad un catalogo ingombrante: non c’è forse un’altra Odessa o Can’t Do Without You, ma pezzi come You And I e Ravi (che pare un pezzo sanificato dei Prodigy) sono comunque notevoli. Invece troppo breve il pur affascinante intermezzo Filtered Grand Piano.

“Suddenly” non è un lavoro perfetto, ma rappresenta nonostante tutto un passo avanti importante per il musicista canadese. Dan Snaith non è mai suonato così libero eppure così fragile (in varie interviste ha detto di aver prodotto negli scorsi cinque anni ben 900 potenziali pezzi, fra campionamenti e melodie vere e proprie). Vedremo dove le prossime incarnazioni del progetto Caribou lo porteranno, ma sappiamo che resterà fedele a un motto: meglio pochi (LP) ma buoni.

Voto finale: 8.

Christine And The Queens, “La Vita Nuova”

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Il nuovo EP a firma Christine And The Queens arriva a due anni da “Chris”, il doppio album da ben 23 canzoni che era servito da presentazione massiva dell’estetica dell’artista francese (vero nome Hélöise Letissier). Cantato in francese, inglese, spagnolo ed italiano (!), l’EP è un piacevole antipasto del nuovo lavoro di Hélöise.

Accanto al breve lavoro compare anche un filmato, con soundtrack ovviamente rappresentata dai brani dell’EP, in cui Chris (l’alter ego creato nel precedente CD e ancora incarnato in “La Vita Nuova”) balla su un tetto per poi ritrovarsi, quasi fosse il video di Thriller, in un teatro pieno di vampiri a duettare con l’ex cantante dei Chairlift Caroline Polachek (presente in La Vita Nuova). Un’ambizione quindi visionaria da parte di Hélöise Letissier.

I 6 brani di “La Vita Nuova” sono ben amalgamati e rappresentano ad oggi il lavoro più coeso della musicista francese: di particolare rilevanza l’iniziale People, I’ve Been Sad e la raccolta Mountains (We Met), ma nessuno è fuori contesto. Anche liricamente il disco è ben focalizzato sui temi della perdita di un amore, ad esempio “Do you think there’s only one thing to do? To write a song about you?” canta Chris in Mountains (We Met), mentre in La Vita Nuova la sentiamo proclamare: “Heartbreakers… I never take their answer for sure”.

Complessivamente dunque siamo di fronte ad un ottimo EP, uno dei migliori dell’anno, che riporta meritatamente Christine And The Queens al centro del palcoscenico della scena pop che si rifà anni ’80, pronta a spiccare il salto verso lo stardom nel prossimo lavoro.

Voto finale: 7,5.

Real Estate, “The Main Thing”

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Il nuovo disco della band statunitense rappresenta, strano a dirsi, un deciso cambiamento per i Real Estate. Arrangiamenti più complessi, ospiti di spessore e canzoni più lunghe fanno sì che “The Main Thing” sia un CD non immediato, segno che il gruppo capitanato da Martin Courtney ha voglia di cambiare pelle.

Fin dalle prime due tracce, le suadenti Friday e Paper Cup (con quest’ultima che conta la collaborazione di Amelia Meath dei Sylvan Esso), capiamo che non siamo di fronte ad un nuovo “Days” (2011) o “Atlas” (2014): le tastiere la fanno da padrone e la delicata voce di Courtney è affiancata dalla Heath, prima volta che udiamo una voce femminile in un disco dei Real Estate.

È vero che altrove troviamo atmosfere più familiari ai fans della prima ora della band: Falling Down e Shallow Sun paiono prese dai primi CD dei Real Estate, con la loro andatura dolce e la chitarra in primo piano. Non avremo più Matt Mondanile a dettare i ritmi, ma il fascino di pezzi così semplici ma amabili non scema mai.

Liricamente, accanto a quei sentimenti di noia e paura di crescere dei lavori più rinomati dei Real Estate, troviamo anche riferimenti velati all’attualità politica: in Silent World Courtney canta “Can’t let you wander off out in this wicked world”, mentre in You affiorano le ansie per la crescita inesorabile dei suoi figli: “Just dream your time away, I see no better use for it, for soon you’ll be awake. Then you’ll have to get used to it”.

Il CD non è un capolavoro, come invece sbandierato da Martin Courtney in alcune interviste, ma dimostra che anche band considerate a torto o a ragione nostalgiche sono capaci di cambiare e “invecchiare con stile”, se si dispone del talento sufficiente. “The Main Thing” è quindi un prodotto di buon artigianato, che fa ben sperare per il futuro dei Real Estate. Non una cosa da poco, considerate le premesse poco lusinghiere degli osservatori più critici.

Voto finale: 7,5.