Il drammatico (causa Coronavirus) mese di marzo si è appena concluso. Ad A-Rock è stato un periodo piuttosto impegnativo; recensiremo i nuovi lavori di Noel Gallagher, Waxahatchee, Dua Lipa e di Four Tet; inoltre abbiamo analizzato i ritorni di Anna Calvi, The Weeknd e U.S. Girls. Oltre a tutto ciò, abbiamo i graditi nuovi CD di Sufjan Stevens, Childish Gambino e Nicolas Jaar. Buona lettura!
The Weeknd, “After Hours”

Il quarto album ufficiale di The Weeknd, non contando quindi i tre formidabili mixtape del 2011 e il breve EP “My Dear Melancholy,” del 2018, è uno dei suoi CD più compiuti. Riuscendo infatti a legare l’estetica pop scoperta recentemente con le origini dark del progetto The Weeknd, Abel Tesfaye riesce a creare un prodotto variegato ma coeso e ben sequenziato, grazie anche ai produttori eccellenti che lo affiancano nel corso del disco.
I singoli offerti al pubblico per lanciare “After Hours” erano accattivanti: Blinding Lights è un’istantanea hit, così come la quasi trap Heartless; invece la title track richiama chiaramente le atmosfere oscure di “House Of Balloons” (2011). Si era intuito quindi che il CD sarebbe stato versatile, ma pochi forse avevano immaginato un LP così perfettamente in equilibrio fra le due anime dell’artista canadese: quella edonistica di The Weeknd e quella tormentata di Abel.
Citavamo prima i collaboratori presenti in “After Hours”: sebbene il CD non contenga featuring, alla produzione troviamo pezzi da 90 come Kevin Parker dei Tame Impala, Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), Metro Boomin e Max Martin. Ognuno aggiunge la propria vena hip hop, R&B oppure elettronica, per creare un CD davvero dall’alto replay value.
Anche testualmente “After Hours” mostra passi avanti; se fino a “Starboy” (2016) The Weeknd era un cantante associato a notti insonni passate in discoteca e, spesso, al consumo di droga e al sesso sfrenato, raggiunti ormai i 30 anni Abel Tesfaye è diventato uomo, fragile come tutti: in Too Late lo sentiamo cantare “It’s way too late to save our souls, baby. It’s way too late, we’re on our own”, mentre in Faith emergono addirittura istinti suicidi: “But if I OD, I want you to OD right beside me. I want you to follow right behind me, I want you to hold me while I’m smiling, while I’m dying”.
In conclusione, un disco capace di passare senza problemi dal synthpop anni ’80 di Blinding Lights alla trap leggera di Heartless, passando per le atmosfere R&B di After Hours e il sax sontuoso di In Your Eyes, merita senza dubbio un voto alto. E se questo fosse addirittura il miglior LP mai creato da Abel Tesfaye in arte The Weeknd? Chapeau.
Voto finale: 8,5.
Dua Lipa, “Future Nostalgia”

Marzo è stato decisamente un mese interessante per il mondo pop. Oltre al nuovo, attesissimo CD di The Weeknd analizzato in precedenza, abbiamo anche il secondo album della popstar Dua Lipa. L’artista di origini kosovare e albanesi, ma nata in Inghilterra, mescola pop, funk e disco anni ’80, per creare con “Future Nostalgia” un impasto sonoro effettivamente nostalgico, ma mai banale.
Pregio non da poco è la concisione del lavoro: con 11 brani e 37 minuti Dua Lipa non ha tempo per i riempitivi, notizia benvenuta e a dire il vero sempre più rara nel mondo pop e rap, sempre alla ricerca dei record di streaming. L’intento dell’artista britannica è quindi chiaro: conseguire il successo non tramite mezzucci ma solo con il talento. Anche liricamente ciò è evidente: in Future Nostalgia sentiamo Dua Lipa cantare “No matter what you do, I’m gonna get it without ya. I know you ain’t used to a female alpha”.
In effetti pezzi accattivanti come la title track, Don’t Start Now e Physical aiutano a tenere lontano i pensieri in questi tempi non facili. Nessuno, come già accennato, è davvero superfluo: inferiore alla media solamente Pretty Please e l’orchestrale Boys Will Be Boys.
Dua Lipa è riuscita nella non facile missione di fondere l’estetica di Kylie Minogue, Madonna e Christine And The Queens creando qualcosa di retrò ma allo stesso tempo futuristico. Raramente titolo di un LP si è dimostrato più profetico.
Voto finale: 8.
Nicolas Jaar, “Cenizas”

Il terzo CD vero e proprio a firma Nicolas Jaar arriva a nemmeno due mesi da “2017-2019”, il disco dell’altro progetto tuttora attivo del produttore di origine cilena, A.A.L. (Against All Logic). Mentre quest’ultimo è focalizzato sulla house e dance music, Nicolas Jaar è maestro di sonorità più delicate, minimali tanto da essere considerato anche esponente della musica ambient.
La quantità in questo caso non è nemica della qualità: “Cenizas” è infatti un lavoro decisamente sperimentale, tanto che possiamo trovarci elementi elettronici ma anche jazz e ambient. La coesione è quindi una mancanza evidente nel corso delle 13 canzoni che compongono il CD, ma viene compensata da una varietà stilistica e timbrica notevole, sempre però nel segno di una malinconia esistenziale più forte che mai in un compositore peraltro mai particolarmente ottimista.
“Cenizas” (da tradursi in “ceneri”) è quindi un LP molto intimo, non facile ma non per questo da buttare. Anzi, ripetute sessioni premiano l’ascoltatore, catapultato in un mondo parallelo magari inquietante ma allo stesso tempo affascinante e raffinato, come tipico ormai dello stile Jaar. Spiccano particolarmente Gocce e Garden, mentre Menysid è forse troppo astratta, quasi solo rumore bianco.
A tutto questo si aggiungono delle liriche, quando presenti, sempre inquisitorie e mai banali: in Faith Made Of Silk Nicolas canta “A peak is just the way towards a descent, you have nowhere to look. Look around not ahead”. Altrove troviamo riferimenti al concetto di peccato (Sunder) così come titoli molto evocativi della voglia del Nostro, semplicemente, di scomparire (Vanish, Mud).
“Cenizas” non è un CD per tutte le stagioni, ma pare particolarmente adatto a quella presente, fatta di inquietudine, paura del contagio e pulsioni ambientaliste che cercano di salvare il pianeta dall’Uomo stesso. È probabilmente il lavoro più sperimentale di Nicolas Jaar, ma forse anche il più profondo, segno di un produttore che non ha terminato la voglia di addentrarsi in nuovi territori e oltrepassare i confini di come che un disco di musica elettronica dovrebbe suonare.
Voto finale: 8.
Waxahatchee, “Saint Cloud”

Il quinto album a nome Waxahatchee di Katie Crutchfield è un deciso cambio di tono e ritmi rispetto al suo precedente LP vero e proprio “Out In The Storm” (2017), più vicino all’EP “Great Thunder” uscito nel 2018. Le canzoni si avvicinano infatti al folk e al country, con liriche meno deprimenti rispetto al passato del progetto Waxahatchee.
Questa svolta è benvenuta: le canzoni sono armoniose, l’album è coeso e ricorda a tratti Father John Misty (meno spavaldo però) e i Fleet Foxes (con minori armonie vocali). Sin dall’apertura serena di Oxbow e della successiva Can’t Do Much capiamo la novità presente nell’estetica di Waxahatchee: la chitarra non si lancia in assoli quasi grunge come in passato, la voce di Katie è raccolta e l’atmosfera è molto folk, come già accennato.
Anche le liriche contribuiscono al cambiamento: se ad esempio in “Out The Storm” la Crutchfield scavava intensamente nella propria psiche e sviscerava i propri sentimenti, in “Saint Cloud” c’è una serenità d’animo solo a tratti intervallata da liriche più introspettive, come “And when I turn back around, will you drain me back out?” (Fire) e “If we make pleasant conversation, I hope you can’t see what’s burning in me” (Arkadelphia).
In conclusione, “Saint Cloud” è un ottimo esempio di come un’artista lodata per l’energia dei suoi lavori di gioventù possa affrontare la transizione verso lidi differenti, meno rumorosi ma anche più stimolanti, senza perdere nulla in termini di abilità compositiva.
Voto finale: 7,5.
U.S. Girls, “Heavy Light”

Il nuovo disco di Meg Remy, l’artista dietro il progetto U.S. Girls, continua il percorso intrapreso con “In A Poem Unlimited” (2018), il lavoro della maturità, entrato agilmente nella lista dei migliori CD del 2018 di A-Rock peraltro. “Heavy Light” canta sempre di tematiche importanti, ma questa volta non legate al #MeToo, quanto piuttosto alla sorte del nostro pianeta e ai problemi dell’essere giovani visti da una persona ormai adulta.
Potremmo definire l’intera carriera di Meg caratterizzata dalla voglia di spingersi oltre i confini del pop convenzionale: in molti suoi precedenti album infatti abbiamo riferimenti a psichedelia, soul e musica sperimentale non comuni in artisti pop. “Heavy Light” continua questa tradizione: l’iniziale 4 American Dollars richiama soul e gospel, mentre And Yet It Moves / Y Se Mueve i Voidz più melodici e la musica spagnoleggiante.
Interessante la struttura del lavoro: a dividere i vari capitoli in cui “Heavy Light” è articolato troviamo degli intermezzi in cui voci campionate mescolate a quella della Remy enunciano frasi su un certo tema. Ad esempio, in Advice To Teenage Self Meg consiglia “I would tell her that I loved her, and that life is long”, mentre in The Most Hurtful Thing si richiamano episodi sgradevoli dell’infanzia vissuta da Meg Remy. Altrove invece ritornano le tematiche care a U.S. Girls: State House (It’s A Man’s World) contiene la lirica “But it’s just a man’s world, we just breed here”.
In conclusione, “Heavy Light” non è un CD pop immediato come possono essere Taylor Swift o Adele; tuttavia canzoni come Woodstock ’99 e 4 American Dollars non lasciano indifferenti. “In A Poem Unlimited” aveva quell’effetto sorpresa che non è più disponibile per questo lavoro, ma “Heavy Light” è un altro passo avanti per Meg Remy.
Voto finale: 7,5.
Anna Calvi, “Hunted”

“Hunted” è un breve EP e segue di poco più di un anno “Hunter”, il terzo CD a firma Anna Calvi. Fin dal titolo è evidente un cambio di prospettiva: se prima la cantautrice inglese di origine italiana si immaginava cacciatrice, pronta a azzannare chiunque non condividesse le sue idee in fatto di gender e promiscuità sessuale, adesso sono le canzoni che la inseguono.
Ad arricchire una ricetta già interessante sono molti ospiti di spessore: da Charlotte Gainsbourg a Julia Holter, passando per Joe Talbot degli IDLES e Courtney Barnett, le canzoni rilette in chiave ora acustica ora più rock assumono un diverso significato.
Le 7 canzoni per 30 minuti di durata passano tutte d’un fiato e confermano la fama di Anna Calvi come artista maledetta, debitrice di artisti come Nick Cave e Kate Bush. Spiccano soprattutto la eterea Swimming Pools, con collaborazione decisiva di Julia Holter, e Don’t Beat The Girl Out Of My Boy; ma nessuna è fuori luogo (sotto la media solo Away), creando un EP coeso e sempre intrigante.
Voto finale: 7,5.
Four Tet, “Sixteen Oceans”

Il produttore e DJ inglese Kieran Hebden, in arte Four Tet, in “Sixteen Oceans” ritorna verso atmosfere più quiete e rilassate rispetto al precedente “New Energy” (2017). Strumenti acustici si mescolano a sintetizzatori e armonie vocali inintelligibili, creando un insieme sonoro accattivante anche se a tratti un po’ inoffensivo rispetto agli alti standard a cui eravamo abituati da parte sua.
Le 16 tracce del CD farebbero pensare ad un’opera lunga; in realtà il minutaggio arriva a soli 54 minuti, sintomo di tracce brevi e accessibili fin da subito. Impressione confermata dal primo ascolto di “Sixteen Oceans”: Hebden infatti compone canzoni tranquille, ottime sia come sottofondo mentre si legge o si studia sia come centro dell’attenzione dell’ascoltatore. Ne sono chiari esempi School e Harpsichord.
Se la prima parte contiene tracce immediatamente godibili, nella seconda troviamo titoli decisamente più personali, quasi che il disco assumesse anche un significato strettamente privato per Four Tet. I brevi intermezzi This Is For You e Bubbles At Overlook 25th March 2019, assieme a Mama Teaches Sanskrit, sono esplicativi di questo fatto.
“Sixteen Oceans”, in future retrospettive sulla carriera di Four Tet, non risalterà certamente come il lavoro più innovativo o semplicemente riuscito dell’artista britannico (la palma probabilmente sarà di “Rounds” del 2003 o di “There Is Love In You” del 2010), il CD pare infatti un’opera di transizione verso nuovi lidi. Vedremo se la nostra impressione sarà confermata, di fondamentale rimane una cosa: anche quando è in modalità “pilota automatico” Kieran Hebden è incapace di scrivere brutte melodie.
Voto finale: 7.
Sufjan Stevens & Lowell Brams, “Aporia”

Il nuovo album di Sufjan Stevens, unanimemente riconosciuto come uno dei migliori cantautori americani degli ultimi vent’anni, è giunto come una vera sorpresa. Trattasi infatti di un album collaborativo, il terzo dopo “Planetarium” (2017) e la colonna sonora di The Decalogue (2019). Sufjan infatti non compone album solisti e puramente folk dal 2015, anno tragico per lui dopo la morte per cancro della madre, ma magico per i suoi fans, che hanno avuto in dono “Carrie & Lowell”, uno dei migliori album della scorsa decade e picco assoluto della discografia del Nostro, in cui al dolore immenso per la perdita subita si mescolavano musiche cristalline e struggenti.
Lowell Brams è il Lowell del titolo precedente, patrigno di Sufjan e figura fondamentale per la sua crescita e maturazione artistica. Lui ha infatti fondato la Asthmatic Kitty, casa discografica di lungo corso per Stevens e altri artisti d’avanguardia, oltre a fargli conoscere da piccolo la musica di Bob Dylan. Per festeggiare la pensione dell’ormai anziano Lowell, padre e figlio hanno ben pensato di comporre un disco celebrativo: mescolando new age, ambient ed elettronica i due paiono molto divertiti, malgrado i risultati non siano nemmeno lontanamente paragonabili ai migliori CD di Sufjan Stevens.
Il lavoro ricorda infatti uno dei primi e meno riusciti LP a firma Sufjan Stevens, “Enjoy Your Rabbit” (2001): un lavoro un po’ acerbo e sconclusionato, che ci fa capire come l’elettronica non sia proprio il genere prediletto per esaltare il talento del cantautore americano. “Aporia” è un CD frammentato, dove molte canzoni non superano il minuto di durata e la voce di Stevens è praticamente assente. I titoli sono a volte evocativi del mondo greco (Misology, Matronymic), altre volte misteriosi (Afterworld Alliance, For Raymond Scott). Non tutto è da buttare, ad esempio The Runaround e What It Takes sono buone, ma come già accennato non siamo ai livelli di “Illinois” (2005) o di “Carrie & Lowell”.
Ci fa piacere che Sufjan abbia trovato un po’ di pace, grazie anche alle figure veramente importanti per la sua vita, ma musicalmente parlando preferiremmo vederlo tornare sui terreni calcati nella parte centrale della sua carriera. Vedremo dove lo condurranno le sue personali Muse in futuro, di certo il talento di scrivere canzoni ancora una volta immortali non gli manca.
Voto finale: 6,5.
Childish Gambino, “3.15.20”

Il quarto e (almeno apparentemente) ultimo progetto a nome Childish Gambino di Donald Glover, star multimediale protagonista anche di celebri serie tv (Atlanta) e film (Solo: A Star Wars Story), è un album capace di ottime canzoni e momenti decisamente meno ispirati. Lo stesso dicasi per l’aspetto testuale, a volte punto forte del CD altre davvero ingenuo. Ma andiamo con ordine.
Il disco era stato peraltro introdotto in maniera almeno scombussolata: dapprima il lavoro messo in streaming sul sito di Glover, poi tolto e infine reso disponibile anche in tutti i servizi come Spotify e Apple Music con il titolo che richiama il giorno del “leak” e canzoni che non hanno titolo a meno di Time e Algorhythm. Ad aggiungersi al mistero di questo rilascio una copertina completamente bianca.
Insomma, la curiosità era enorme per molti motivi. Tuttavia, Childish Gambino si conferma il progetto di minor successo finora nella vita artistica di Donald Glover: solo in “Awaken, My Love!” (2016) il rapper diventato cantante funk era riuscito a trasmettere un messaggio completo e coerente, il vero manifesto dell’estetica di Childish Gambino. “3.15.20” torna in parte ai difetti che già influenzavano “Because The Internet” (2013) e soprattutto “Camp” (2011): testi a volte ingiudicabili per quanto sono smielati e ingenui, canzoni fin troppo artificiose e tirate per le lunghe. Ne è un chiaro esempio 12.38, più di 6 minuti con base monotona di cui almeno 2 possono essere rimossi.
Sul lato testuale riportiamo degli estratti chiarificatori: “Sweet thing, you moved to Southern California, sweet thing… you’ll still believe in fairy tales, sweet thing” (questa storia della “sweet thing” va poi avanti per quasi 8 minuti in 24.19); oppure “Maybe all the stars in the night are really dreams, maybe this world ain’t exactly what it seems” (cantata da Ariana Grande in 12.38). Peccato, perché alcune parti sono davvero ben scritte. Ad esempio in Algorhythm Glover canta: “So very scary, so binary. Zero or one, like or dislike, coal mine canary. I dream in color, not black and white.” La lirica più poetica e profonda è però la seguente, contenuta in 19.10: “To be happy really means that someone else ain’t”.
In conclusione, peccato davvero, poiché vi sono anche bei momenti nel corso del CD, tuttavia Childish Gambino non riesce a trasmettere in pieno tutto il suo talento nel corso dei 57 minuti di “3.15.20”. Sarà per la prossima volta (forse).
Voto finale: 6.
Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Blue Moon Rising”

Il terzo ed ultimo EP pubblicato dalla nuova band del maggiore dei fratelli Gallagher prosegue la china discendente intrapresa con i due precedenti. Le sonorità psichedeliche ed acid rock tipiche dei Primal Scream non si adattano bene al Nostro, che anzi conferma un momento di appannamento che farà gongolare il fratellino Liam (autore poco tempo fa del pregevole “Acoustic Sessions” per di più).
“Blue Moon Rising” si apre con la title track: un pezzo un po’ psichedelico e un po’ à la Primal Scream, come già ricordato, che senza dubbio rinnova l’estetica di Noel ma poco aggiunge in termini di canzoniere ad uno che conta già, per esempio, Some Might Say e Don’t Look Back In Anger. Stesso dicasi per Wandering Star e Come On Outside, due brani britpop convenzionali che ricordano i dischi minori degli Oasis. I due remix di Blue Moon Rising poi non danno valore ad un EP mediocre.
Noel Gallagher era partito bene con la sua nuova avventura: i tre CD che avevano la firma dei Noel Gallagher’s High Flying Birds, specialmente l’ultimo “Who Built The Moon?” (2017), erano liberi da restrizioni e avevano rinverdito l’immagine di The Chief (questo il suo nickname ai tempi degli Oasis). La trilogia di EP cominciata con “Black Star Dancing” e proseguita poi con “This Is The Place” e questo “Blue Moon Rising” ha tuttavia intaccato questa rinascita. Vedremo il prossimo vero progetto di Noel cosa ci porterà; di certo negli ultimi due anni il vincitore dell’eterna guerra Noel-Liam è il secondo.
Voto finale: 5.