Rising: Dry Cleaning & For Those I Love

Quest’oggi la rubrica di A-Rock che analizza i giovani più promettenti del panorama musicale è dedicata interamente a progetti d’Oltremanica. Abbiamo infatti analizzato i Dry Cleaning e For Those I Love, due nomi che sicuramente si faranno sentire anche in futuro rispettivamente nel mondo del punk e dell’elettronica.

For Those I Love, “For Those I Love”

for those i love cover

Il progetto For Those I Love incarna in realtà l’estetica di una sola persona, l’irlandese David Balfe: la genesi dell’album di esordio di questo nuovo protagonista della scena elettronica è davvero tragica.

Nel 2018 Paul Curran, grande amico e partner musicale di Balfe, si è tolto la vita; da quel momento David ha cercato un modo di onorare nel modo giusto la memoria di Curran e di riportare alla memoria i bei momenti vissuti insieme. “For Those I Love”, come il titolo indica, è dedicato anche ai cari ancora in questo mondo: spesso nel modo di cantare di Balfe, quasi “spoken word” data la scarsa espressività della voce, si menzionano i familiari del Nostro e il fondamentale ruolo che hanno avuto e hanno tuttora nella vita del cantautore irlandese.

Ma in cosa consiste musicalmente il lavoro? “For Those I Love” è un ottimo CD di musica elettronica: le basi vanno dalla house alla trance, passando per momenti più psichedelici. I momenti migliori sono le iniziali I Have A Love e You Stayed / To Live, ma anche la più tranquilla The Shape Of You risalta. Invece è inferiore alla media Top Scheme. In generale, si possono rintracciare influenze di Burial, Chemical Brothers e Avalanches, con tocchi dei Primal Scream più rave, ma For Those I Love riesce a suonare originale, anche per il modo di affrontare un lutto altrimenti insopportabile.

I versi che restano impressi sono numerosi: “I felt like I had it all. I have a love, and it will never fade and neither will you, Paul. I love you bro” in I Have A Love è il più toccante di tutti. In Top Scheme viene alla luce il lato più politico e nichilista di Balfe: “It seems sometimes the love in these songs isn’t enough – because the world is fucked”. Infine, in Birthday / The Pain, abbiamo un momento filosofico, con più di un fondo di verità: “So we’ll spend the rest of our lives being brave, and hope that things will change, and age will still mark the time in the same way”.

“For Those I Love” non è un LP perfetto, come invece sostengono molte pubblicazioni inglesi (fra cui NME), ma certamente l’Irlanda si conferma terra ricca di spunti. Se prima la elogiavamo soprattutto per la scena punk e rock (U2, My Bloody Valentine e Fontaines D.C. ne sono luminosi esempi), anche nell’elettronica abbiamo trovato un nuovo esponente che pare destinato a scrivere pagine importanti in futuro.

Voto finale: 8.

Dry Cleaning, “New Long Leg”

new long leg

L’album di esordio della band punk inglese è davvero originale: testi assurdamente divertenti, una frontwoman che, più che cantare, sussurra o narra storie senza alcuna passione (almeno in apparenza), sonorità che rimandano ai classici del passato ma tremendamente attuali… Insomma, un CD davvero intrigante.

Nell’ordine, “New Long Leg” è contraddistinto da: fatti di vita comune (“I’ve been thinking about eating that hot dog for hours” canta Florence Shaw in Strong Feelings), scherzi mal riusciti, una canzone che si intitola John Wick ma non parla del personaggio cinematografico interpretato da Keanu Reeves, ex partner che non vogliono andarsene (“Never talk about your ex, never never never never, never”, Leafy).

Tutto questo parlare è fatto su basi peraltro davvero ben strutturate, in cui il punk si interseca con l’estetica degli Strokes e in certi tratti addirittura degli Smiths, per creare un suono chiaramente indebitato coi grandi del passato ma anche sintomo di una scena inglese sempre più rigogliosa. Sbaglia però chi pensa ai due gruppi britannici più avventurosi del momento, black midi e Black Country, New Road: i Dry Cleaning sono molto più solidi e meno “jazz” nelle loro interpretazioni, più simili ai The Fall insomma.

Se uno ascolta i due EP del 2019 con cui la band si è fatta conoscere, “Sweet Princess” e “Boundary Road Snacks And Drinks”, i Dry Cleaning appaiono ora meno liberi; allo stesso tempo la produzione affidata al veterano John Parish (Aldous Harding, PJ Harvey) aiuta il gruppo a focalizzarsi ancora meglio sul suono e a mescolare la narrazione di Shaw col resto. I migliori risultati sono raggiunti in Unsmart Lady e Strong Feelings, mentre è leggermente sotto la media la title track. Addirittura psichedelica la conclusiva Every Day Carry, sette minuti davvero imprevedibili.

In conclusione, “New Long Leg” è un ottimo CD d’esordio, in cui i Dry Cleaning hanno già un’estetica ben delineata e inattaccabile. Si può fare meglio nel “punk sussurrato” che li contraddistingue? Difficile a dirsi, certamente ad A-Rock aspetteremo con trepidazione il prossimo lavoro della band inglese.

Voto finale: 8.

“Loveless”: il miracolo dei My Bloody Valentine

my bloody valentine

A trent’anni dalla sua realizzazione e finalmente disponibile sui servizi di streaming, “Loveless” dei My Bloody Valentine brilla ancora oggi per la sua bellezza e la radicale svolta data al mondo del rock. Andiamo ad analizzarlo insieme.

My Bloody Valentine, “Loveless”

loveless

Nel 1991 i My Bloody Valentine erano una giovane band irlandese pronta a spiccare definitivamente il volo. Il pregevole CD di esordio “Isn’t Anything” (1988) e i successivi EP “Glider” (1990) e “Tremolo” (1991) sembravano aprire la strada ad un nuovo genere nel rock: rumoroso ma anche romantico in certi suoi aspetti, pop nella scrittura ma molto noise nella realizzazione. Era quello che oggi è noto come “shoegaze”, sorgente da cui nasceranno band come Slowdive, Lush oltre che i primi vagiti del britpop.

Non che lo shoegaze fosse completamente sconosciuto: già alcuni gruppi si erano affacciati sul panorama musicale con chiare intenzioni che guardavano in quella direzione (i Ride su tutti), ma nessuno col talento dei MBV e la sostanziale perfezione di “Loveless”. La schitarrata iniziale di Only Shallow ancora oggi dà i brividi, così come la storia d’amore narrata in When You Sleep fa ancora commuovere malgrado sia narrata su un muro invalicabile di chitarre.

Ma in cosa esattamente si sostanzia lo shoegaze e in cosa si differenzia rispetto alle altre correnti del rock? “Loveless”, essendo la vetta creativa di un intero movimento, ne è anche simbolicamente l’emblema. Chitarre fortissime, basso pressoché impercettibile, batteria fondamentale per tenere il ritmo, voci spesso scarsamente intelligibili e androgine, testi evanescenti… Insomma, un qualcosa di totalmente diverso da quello che la scena era solita apprezzare all’epoca: basti ricordare che solo sei settimane prima di “Loveless” veniva pubblicato “Nevermind” dei Nirvana, unanimemente riconosciuto come manifesto dell’intero decennio e agli antipodi musicalmente.

A colpire ancora oggi del CD è lo stato di quasi ipnosi che genera nel pubblico: ogni ascolto rivela nuovi preziosi dettagli e i 48 minuti del disco potrebbero anche passare per una singola suite piuttosto che un insieme di canzoni, strumentali o meno. “Loveless” è anche uno dei pochi LP in cui anche gli intermezzi hanno una funzione rilevante: Touched ad esempio, pur essendo lungo solo 57 secondi, fa da ponte perfettamente tra prima parte e capitolo centrale. Gli highlights immortali, tuttavia, sono altri.

Only Shallow e When You Sleep sono i brani giustamente più famosi del CD e dell’intera produzione della band capitanata da Kevin Shields. Non per questo devono passare in secondo piano la soffice Sometimes e la chiusura raffinata di Soon; ma in realtà tutti i brani si intrecciano con gli altri in maniera praticamente impeccabile.

Dare un seguito a questo capolavoro si rivelò compito insormontabile per lunghi anni per i My Bloody Valentine: “m b v” arrivò solo nel 2013! Il celebre perfezionismo di Shields si rivelò una zavorra, ma anche un modo di produrre sempre CD apprezzatissimi. Si parla di due lavori imminenti per la band irlandese: vedremo se questa volta il gruppo manterrà la parola data. Intanto godiamoci finalmente i lavori precedenti sui servizi di streaming: “Loveless” non invecchia mai, anzi come il miglior vino acquista spessore ogni anno che passa.

Voto finale: 10.

Recap: marzo 2021

Marzo è stato un mese intenso per la musica. Abbiamo recensito ad A-Rock i nuovi lavori di Drake e dei The Horrors e la collaborazione fra il duo Armand Hammer e The Alchemist. Inoltre recensiremo l’atteso ritorno dei The Antlers e di serpentwithfeet, oltre all’EP dei Real Estate. Soprattutto, abbiamo analizzato il nuovo disco di Lana Del Rey e la sorprendente collaborazione fra Floating Points, Pharoah Sanders e la London Symphony Orchestra. Buona lettura!

Lana Del Rey, “Chemtrails Over The Country Club”

chemtrails

Il settimo disco di inediti di Lana Del Rey segue il bellissimo “Norman Fucking Rockwell!” (2019), premiato da molte pubblicazioni (fra cui A-Rock) come uno dei migliori dischi dell’anno. Creare un erede all’altezza sarebbe stata un’impresa ardua per chiunque; la nostra fede nel talento della cantautrice americana era tuttavia immensa.

Nel 2020 Lana non è stata del tutto ferma, anzi: ha pubblicato una raccolta di poesie accompagnate dalle soffici note al pianoforte del fidato Jack Antonoff, annunciato un album di cover di standard americani e il nuovo lavoro che stiamo qui recensendo. La pandemia ha insomma stimolato la popstar: “Chemtrails Over The Country Club”, malgrado non visionario come il precedente CD, è un lavoro curato che rientra con merito nel canone di Lana Del Rey e sarà sicuramente apprezzato dal pubblico che la segue ormai da dieci anni.

La prima parte del lavoro è più movimentata rispetto alla seconda: brani bellissimi e ambiziosi come White Dress e la title track sono fra i migliori della sua produzione. Anche Tulsa Jesus Freak ricalca bene le orme tracciate dai due pezzi precedenti. Invece la parte centrale ha delle ballad in puro stile Del Rey, da Let Me Love You Like A Woman a Breaking Up Slowly. “Chemtrails Over The Country Club” si chiude con una cover di For Free di Joni Mitchell, con l’assistenza di Weyes Blood: un tributo ad una delle maggiori ispirazioni della cantautrice nata Elizabeth Woolridge Grant.

Rispetto al passato, in generale, Lana pare tornata alle delicate atmosfere di “Honeymoon” (2015) piuttosto che al piano-rock di “Norman Fucking Rockwell!” o al pop suadente degli esordi. Il folk predomina, un po’ come in “folklore” ed “evermore” di Taylor Swift. Sebbene le due siano lontane come atteggiamenti ed estetica, va detto che le connessioni fra i loro ultimi lavori sono numerose.

Testualmente, infine, i riferimenti di Lana Del Rey sono collegati come al solito all’America nel senso più ampio del termine: David Lynch, Hollywood, il country club del titolo, le citazioni di Tulsa e Yosemite… Insomma, la diva americana è più immersa che mai nel suo paese. Troviamo poi rimandi a Dio (“It made me feel like a God” canta in White Dress, non contando il titolo stesso di Tulsa Jesus Freak) e all’amore (“If you love me, you love me, because I’m wild at heart” in Wild At Heart).

In conclusione, “Chemtrails Over The Country Club” rappresenta un altro passo avanti per una delle più riconoscibili voci del panorama pop contemporaneo. Lana Del Rey si conferma talentuosissima e in possesso di una visione sempre chiara per ogni suo progetto; la bellezza di “Norman Fucking Rockwell!” non è stata raggiunta, ma questo LP entrerà sicuramente nel cuore di molti.

Voto finale: 8.

serpentwithfeet, “DEACON”

serpentwithfeet-DEACON

Il secondo CD di Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, è un ulteriore sviluppo di un’estetica in continua evoluzione. Partendo da territori sperimentali in “blisters” (2016), Wise ha progressivamente virato verso territori più vicini all’R&B, si ascolti il breve EP “Apparition” dello scorso anno. “DEACON” è ad oggi il suo lavoro più curato e più affascinante.

serpentwithfeet è decisamente cambiato rispetto al passato: se in four ethers, contenuta in “blisters”, cantava “It’s cool with me if you want to die… And I’m not going to stop you if you try”, adesso il fulcro dell’attenzione del cantautore è l’amore omosessuale. Similmente, anche le atmosfere si fanno più rassicuranti: lo sperimentalismo e l’elettronica delle origini lasciano il posto a canzoni serene, come Old & Fine. Anche i collaboratori sono simbolici: NAO e Sampha non sono certo i più arditi su piazza.

Liricamente, dicevamo, “DEACON” tratta temi molto familiari: ad esempio, guardare film col proprio partner, anche quelli fuori stagione (“Christmas movies in July with you”, Fellowship), l’amore per il prosecco (sempre Fellowship) e la libertà di vestire in modi che noi italiani potremmo disprezzare (“Blessed is the man who wears socks with his sandals” canta Josiah in Malik).

La brevità del CD (29 minuti) aiuta a mantenerlo su binari sempre coerenti fra loro, non c’è spazio per tentativi fuori luogo: una mossa forse rischiosa in tempi di streaming, ma che aiuta il replay value e inoltre evita gli episodi più deboli che colpiscono ogni disco oltre i 50 minuti di durata. I migliori pezzi sono Same Size Shoe, Fellowship e Amir, mentre sotto media è la fin troppo eterea Derrick’s Beard.

In conclusione, “DEACON” è un CD molto interessante, che cementa ulteriormente la fama di serpentwithfeet come artista imprescindibile per la scena R&B presente e futura. La sensazione è che ancora il suo capolavoro vero e proprio debba arrivare; per ora accontentiamoci di un lavoro curato e intenso come “DEACON”, fra i più bei dischi R&B dell’anno finora.

Voto finale: 8.

Floating Points, Pharoah Sanders & London Symphony Orchestra, “Promises”

promises

La collaborazione fra un grande veterano del jazz, un talentuoso compositore di musica elettronica e una tra le orchestre più stimate a livello mondiale non poteva che dare risultati interessanti. “Promises” è un lavoro molto ambizioso, che riesce nel complesso a mescolare abilmente i tre mondi messi a confronto e lascia brillare tutti e tre gli interpreti in eguale maniera.

Il CD si compone di nove movimenti composti da Sam Shepherd, in arte Floating Points, poi arrangiati assieme a Pharoah Sanders, leggenda vivente del jazz, e alla London Symphony Orchestra. Se all’inizio è difficile riuscire a capire cosa aspettarsi, col tempo e attraverso ripetuti ascolti “Promises” si rivela un LP molto ricco, ma non sovraccarico, in cui gli attori sono tutti protagonisti allo stesso livello.

Il primo movimento è decisamente rilassante, un pezzo ambient in cui il potente sax di Sanders si sente solo nella parte finale; invece poi nel successivo la situazione si ribalta e Shepherd lascia il palcoscenico all’orchestra e a Pharoah. Il lavoro è un continuo, sapiente alternarsi fra momenti più vivi (Movement 4) e altri più quieti (Movement 8), che creano un prodotto davvero imperdibile per gli amanti del jazz e della musica d’ambiente. I migliori momenti sono rintracciabili in Movement 1 e Movement 6, mentre è sotto la media Movement 9.

In conclusione, la collaborazione fra tre pesi massimi della scena musicale, rappresentanti di generi apparentemente distanti come musica classica, jazz ed elettronica, ha generato un lavoro davvero ben strutturato, i cui 46 minuti rappresentano un toccasana in tempi così difficili. Non per tutti, ma “Promises” almeno un ascolto lo merita.

Voto finale: 8.

Armand Hammer & The Alchemist, “Haram”

haram

Il duo conosciuto come Armand Hammer, composto dai due rapper ELUCID e billy woods, con “Haram” ha deciso di collaborare con alcuni pezzi da novanta del panorama hip hop: The Alchemist, il celebre produttore dietro ad alcuni grandi successi di Freddie Gibbs (ultimamente lo abbiamo visto in “Alfredo”), ma anche Earl Sweatshirt e Quelle Chris.

I risultati sono davvero interessanti: malgrado Armand Hammer sia ancora sinonimo di canzoni destrutturate, spesso vicine al jazz e alla musica puramente sperimentale, le atmosfere create da The Alchemist rendono l’insieme più digeribile anche per il pubblico più mainstream. Ne sono esempi pezzi quasi accessibili come Robert Moses e Indian Summer. Il migliore brano del lotto è però Aubergine, in cui i Nostri (aiutati da FIELDED) creano un beat ipnotico, con improvviso cambio di ritmo il cui arrivo è una sorpresa ad ogni ascolto.

Testualmente, al contrario, le tematiche trattate restano dure: la copertina (due teste di maiale) e il titolo, che rappresenta la parola che nei paesi ebraici indica le cose proibite dall’Islam, ne sono chiari segnali. In alcuni brani emerge la rabbia per le uccisioni della polizia di persone di colore (“Got caught with the pork, but you gotta kill the cop in your thoughts still saying ‘pause’”, Chicarrones) e verso le disuguaglianze economiche (“Kill your landlord, no doubt, asymmetric unconventional extremist make meaning” in Roaches Don’t Fly).

“Haram” non riscrive la storia del rap, ma i 39 minuti di durata del CD passano bene: l’ascolto a tratti non è facile (si senta Wishing Bad a tal proposito), ma i beats di The Alchemist si congiungono perfettamente con i duri versi delle canzoni e il flow arrabbiato di ELUCID e billy woods. Armand Hammer, dal canto suo, è un progetto giunto al suo quarto disco in quattro anni: quando si dice che la prolificità è nemica della qualità, abbiamo l’eccezione che conferma la regola.

Voto finale: 7,5.

The Antlers, “Green To Gold”

green to gold

Il nuovo disco dei The Antlers si è fatto attendere ben sette anni. Il frontman Peter Silberman è stato purtroppo vittima di alcuni problemi di salute ed è stato spinto a mettere da parte il progetto, concentrandosi sul ritorno in piena forma e pubblicando il CD solista “Impermanence” nel 2017.

La ristampa del loro capolavoro “Hospice” nel 2019 aveva fatto capire che qualcosa bolliva in pentola, fatto confermato dall’arrivo di “Green To Gold”. Pur non essendo il capolavoro che era appunto “Hospice” (2009), il disco è gradevole e ben strutturato, con influenze ambient e post rock che non parevano essere nella palette sonora dei The Antlers.

L’iniziale Strawflower è un pezzo strumentale, che parte con dieci secondi di silenzio: scelta interessante per una band mai banale. Il seguito del lavoro non di discosta mai da atmosfere serene, da primavera/estate (anche i testi spesso spingono in questa direzione). Questa serenità di fondo non deve però far pensare ad un LP commerciale: il gruppo newyorkese ha la sua nicchia di pubblico affezionato, ma le tematiche affrontate soprattutto in passato (dal cancro alla morte dei propri animali domestici) ci fanno capire che i The Antlers non hanno nel successo di massa lo scopo della loro esplorazione musicale.

A parte un episodio debole come Wheels Roll Home, il CD è comunque gradevole e, nelle sue parti migliori (vedi Solstice e Volunteer), rimanda ai migliori giorni del gruppo. Testualmente, Silberman affronta temi più leggeri rispetto al precedente “Familiars” (2014) e ad “Hospice”, aiutato anche da una ritrovata salute fisica e mentale: Solstice ripete “Keepin’ bright, bright, bright” come un mantra e It Is What It Is è un ironico vaffa a chi possa ritenere scadente il lavoro. Invece in Just One Sec ritorna il Silberman più riflessivo: “For just one sec, free me from me” è un indizio chiarissimo di “scissione da sé stessi”.

In conclusione, “Green To Gold” non convertirà nessuno al culto dei The Antlers; nondimeno, Peter Silberman & co. sono tornati col giusto piglio e sembrano pronti a regalarci ancora momenti intimi e commoventi come in passato.

Voto finale: 7,5.

Drake, “Scary Hours 2”

scary hours 2

Il nuovo brevissimo EP a firma Drake trova il famosissimo rapper canadese a un bivio importante: dopo due album apprezzati dai fans ma che hanno lasciato fredda la critica, “Certified Lover Boy” (questo il titolo provvisorio del nuovo disco) sarà una prova fondamentale. Intanto godiamoci questo “Scary Hours 2”: tre buoni pezzi a firma Drake, che pare di nuovo carico e ispirato.

What’s Next, brano che inaugura la collezione e unico senza un featuring, è il pezzo più debole del lotto: pare imitare la trap ora tanto di moda invece di guidare la giovane schiera di rapper. Brillanti novità sono invece presenti in Wants And Needs, con ottimo featuring di Lil Baby, e la conclusiva Lemon Pepper Freestyle, in cui Drizzy annichilisce un pur godibile Rick Ross rappando come ai bei tempi.

Testualmente, “Scary Hours 2” contiene alcuni versi tanto arroganti quanto divertenti; insomma, tipico Drake. Lemon Pepper Freestyle ad esempio è piena di perle: “I sent her the child support, she sent me the heart emoji” e “Wives get googly-eyed regardless of what they husbands do to provide, askin’ if I know Beyoncé and Nicki Minaj… of course” sono i due più emblematici. Invece Wants And Needs è più seria, “Leave me out the comments, leave me out the nonsense” è un messaggio chiaro.

In conclusione “Scary Hours 2”, così come il primo EP della serie, è un antipasto dell’album che verrà: se nel caso del primo “Scary Hours” il CD è stato il prolisso “Scorpion” (2018), senza dubbio il peggiore della produzione del rapper, speriamo davvero che “Certified Lover Boy” mantenga le gustose premesse impostate da “Scary Hours 2”.

Voto finale: 7.

The Horrors, “Lout”

lout

Il nuovo EP della band inglese li trova in un mood decisamente arrabbiato: “Lout” è formato da tre brani feroci, che fanno ritornare alla mente i Nine Inch Nails e il mondo industrial. Se questo breve lavoro è un indizio di nuove mutazioni per la band capitanata da Faris Badwan, beh il prossimo CD del gruppo minaccia di essere il loro disco più metal.

Lout, il singolo di lancio e title track, è il miglior brano del lotto: chitarre abrasive e la voce di Faris più espressiva che mai formano quattro minuti davvero intensi. La seguente Org, pezzo solo strumentale, è più elettronica, più vicina ai recenti lavori di Trent Reznor e compagni piuttosto che a “The Downward Spiral”. Infine abbiamo Whiplash, altro ruggito non per palati delicati.

In conclusione, The Horrors è ormai un marchio riconosciuto del rock alternativo inglese. Nel corso di cinque LP e quindici anni di carriera, i Nostri sono passati dal garage punk di “Strange House” (2007) al rock acido ed elettronico di “V” (2017), con in mezzo vari stop per esplorare shoegaze, psichedelia e post-punk. Insomma, la creatività non manca alla band; “Lout” dimostra ancora una volta che i The Horrors sono pronti a darci soddisfazioni in generi più minacciosi e duri del passato. Non vediamo l’ora di ascoltarne un assaggio più corposo e strutturato.

Voto finale: 7.

Real Estate, “Half A Human”

half a human

Ormai il marchio Real Estate rappresenta una certezza per gli amanti dell’indie rock più tranquillo: Martin Courtney e compagni, nel corso dei cinque album della loro carriera, hanno costruito un seguito magari non largo, ma certo fedele, fin dai lontani tempi di “Real Estate” (2009).

Questo breve EP è perciò “prevedibile” in molti tratti, ma ha la qualità di espandere il sound della band verso territori psichedelici (D+) e quasi ambient (Desire Path) senza snaturare la natura intima della band. Va detto che nel corso del tempo i Real Estate hanno prodotto album davvero notevoli, su tutti “Days” (2011) e “Atlas” (2014), quindi ci aspetteremmo una tendenza di Courtney & co. a voler replicare questi LP; il solo fatto di sentire brani quasi “sperimentali” per i canoni del gruppo è rinfrescante e apprezzabile.

Strana e forse non necessaria la presenza due volte dello stesso brano: la title track, infatti, è presente in una versione più ambiziosa in seconda posizione e, a conclusione del lavoro, accorciata per somigliare alla “solita” melodia dei Real Estate; unico aspetto davvero deludente, va detto, di un EP altrimenti gradevole, con il picco della Half A Human più “allungata”. Considerando che si tratta di scarti del precedente CD “The Main Thing” (2020), non ci possiamo lamentare.

Voto finale: 7.