Anche luglio è finito. Un mese solitamente riposante, con non troppi CD pubblicati dai cantanti più in voga. Beh, il 2021 è un’eccezione alla regola: A-Rock ha infatti recensito i nuovi, attesi lavori di Vince Staples e Dave. In più, troverete l’analisi dei nuovi EP a firma Tkay Maidza e Yves Tumor, del ritorno di Clairo e dei Darkside, oltre che del terzo album di Laura Mvula. Buona lettura!
Dave, “We’re All Alone In This Together”
Avevamo lasciato Dave, il talentuoso rapper britannico di origine nigeriana, al successo dell’esordio “Psychodrama” (2019), che gli aveva fatto vincere il Mercury Prize e lo aveva reso una delle voci preminenti della nuova generazione inglese. Beh, tutta questa credibilità viene mantenuta, se non rinforzata, da “We’re All Alone In This Together”: un CD lungo, difficile, ma di infinita profondità e con testi sempre toccanti ed efficaci. Potremmo davvero essere di fronte al miglior rapper d’Oltremanica al momento.
Le 12 canzoni di “We’re All Alone In This Together” sono variegate, possono contare su ospiti di spessore internazionale come James Blake e Stormzy… e allo stesso tempo creano un album di altissimo replay value. Passiamo dalla durezza di Verdansk ai ritmi quasi tropicali di System (con Wizkid) alla trap accennata di Clash (che vanta Stormzy), con le perle delle monumentali cavalcate Both Sides Of A Smile e Heart Attack, la prima di circa otto minuti e la seconda lunga quasi dieci!
Anticipavamo che il CD non è di immediata assimilazione, anche per i temi trattati da Dave: nei testi possiamo infatti ritrovare riferimenti alla vita degli immigrati di origine jugoslava costretti a emigrare nel Regno Unito durante la guerra degli anni ’90, così come la denuncia della maggiore ingiustizia mai patita da immigrati in terra inglese (rimpatriare nei Caraibi delle persone che avevano diritto di stare Oltremanica, privandoli dei loro averi e delle loro case). A chiudere il quadro, nell’introduttiva We’re All Alone il rapper parla di istinti suicidi sia per sé stesso che per il ragazzo con cui dialoga nel corso del brano, mentre nel pezzo finale Survivor’s Guilt si mette a piangere a causa di un attacco d’ansia… Del resto, da colui che aveva immaginato il suo esordio come la confessione di uno psicopatico non potevamo aspettarci di meno.
In conclusione, la ricchezza di significati e di sonorità fanno di “We’re All Alone In This Together” un album imprescindibile per gli amanti dell’hip hop. Dave si candida come re dello scenario rap britannico e, chissà, a sfondare anche in altre parti del mondo. La cosa più incredibile è che non si può essere sicuri che abbia raggiunto il picco delle proprie qualità: che si sia di fronte al nuovo Kendrick Lamar? La risposta al prossimo CD. Per ora godiamoci questo LP, ad oggi miglior prodotto hip hop dell’anno.
Voto finale: 8,5.
Laura Mvula, “Pink Noise”
Il fascino degli anni ’80 è davvero infinito. The 1975, Dua Lipa… tanti sono gli artisti che recentemente hanno pubblicato lavori che si rifacevano a estetica e sonorità di quella decade magica per la musica pop. Il terzo CD di Laura Mvula, artista inglese come i due citati precedentemente, è un altro esempio di passione per gli anni della Milano da bere, questa volta sul versante R&B.
“Pink Noise” giunge cinque anni dopo il precedente “The Dreaming Room” e pochi mesi dopo “1/f-E.P.”, il quale remixava tracce del suo passato in chiave nuova, mostrando una Laura Mvula più sicura di sé. Il nuovo lavoro costruisce abilmente su questa ritrovata voglia di emergere, con canzoni ballabili e sexy, la voce di Laura in primo piano e strumentazione quasi sempre al top.
I risultati non cambiano la storia della musica e suonano un po’ nostalgici, ma complessivamente “Pink Noise” è molto gradevole ed ha buon replay value. Fra i brani migliori abbiamo sicuramente Safe Passage e l’irresistibile Church Girl, invece inferiore alla media Golden Ashes. Michael Jackson (Got Me) e Prince (Safe Passage) sono chiari riferimenti, ma la Mvula riesce a non suonare monotona malgrado i diversi rimandi a questi due giganti.
In generale, Laura Mvula si conferma nome interessante nella scena musicale moderna. Da un lato abbiamo un’ottima voce e una flessibilità in termini di generi affrontati in carriera che la fanno passare agilmente dal pop all’R&B alla dance; contemporaneamente, però, il successo non l’ha ancora baciata, viene quasi da pensare che la sua dimensione sia questa. Vedremo in futuro, per ora godiamoci questo “Pink Noise”, CD non certo fondamentale ma graditissimo agli amanti del pop anni ’80.
Voto finale: 7,5.
Tkay Maidza, “Last Year Was Weird Vol. 3”
Il nuovo EP a firma Tkay Maidza trova l’artista ormai pronta a spiccare il volo. Se il primo episodio della serie, nel 2018, era una prova ancora acerba, sia il secondo volume (2020) che il presente lavoro sono maturi, ricchi di hit e momenti davvero riusciti.
L’esplosione sulla scena australiana, terra natia di Maidza, era già avvenuta nell’ormai lontano 2016, con l’album di esordio “Tkay”. Tuttavia, la Nostra si è successivamente eclissata per ritornare con un sound diverso: meno pop, più aperto a sperimentare con R&B e hip hop. Il risultato sono degli EP imprevedibili e fin troppo pieni di influenze per essere catalogati.
Si sentano a tal proposito Eden e Syrup: se il primo è un buon pezzo R&B con inserti hip hop, Syrup è rap duro, sperimentale, che pare preso da “Yeezus” o un CD di Timbaland. Kim è invece ispirata a Nicky Minaj. Tuttavia, ciò non intacca il risultato finale: “Last Year Was Weird Vol. 3”, titolo davvero azzeccato va detto, è infatti un lavoro che ci presenta un’artista davvero talentuosa.
Liricamente, capiamo che Tkay è ben conscia delle sue qualità: “I been going hard and I ain’t slept… And they ain’t even know it, I’m a threat” rappa fiera in Kim, mentre altrove la sentiamo dire “I want it all, can’t apologize. I’ll take the cake and the kitchen knife” (Syrup). Invece in Cashmere esce il suo lato ferito, probabilmente da una relazione finita male: “And when I wanted your wisdom you just gave me a reason to put a hole in your chest”.
In conclusione, tutta questa differenza fra un brano e l’altro per alcuni sarà un’opportunità di vedere Tkay Maidza all’opera in scenari diversi, per altri un limite: diciamo che lei è brava a giostrarsi sia nei brani più intensi che in quelli più intimi. Probabilmente in futuro sarà meglio per lei concentrarsi su un solo versante, per adesso godiamoci uno dei migliori EP del 2021.
Voto finale: 7,5.
Darkside, “Spiral”
La creatura di Dave Harrington e Nicolas Jaar sembrava destinata al dimenticatoio, dopo il meraviglioso “Psychic” del 2013, inserito da A-Rock nella lista dei migliori album della scorsa decade con pieno merito. Il chitarrista americano si era dato a collaborazioni di alto profilo e album solisti, mentre il produttore cileno aveva continuato una carriera di successo.
Invece, contro ogni previsione, qualche mese fa arrivò l’annuncio: i Darkside sarebbero tornati con il nuovo CD “Spiral” nel corso del 2021. I singoli che hanno anticipato il lavoro, da Liberty Bell a The Limit, avevano reso chiara una cosa: nel bene come nel male, “Spiral” avrebbe seguito i sentieri creati da “Psychic”.
Non che questi ultimi fossero ristretti: il lavoro infatti passava dall’elettronica all’art rock, con influssi disco e prog di incredibile fascino. I nove brani di “Spiral” si inseriscono abilmente in questa traiettoria sperimentale ma non fine a sé stessa, perdendo l’effetto sorpresa dell’esordio ma guadagnando in coerenza fra un brano e l’altro.
Se liricamente il progetto resta molto vago nei contenuti, come peraltro ci aspetteremmo da un disco prevalentemente di musica elettronica, non mancano i brani comunque evocativi. I migliori sono Liberty Bell e Lawmaker; da sottolineare gli otto minuti di Inside Is Out There, quasi à la Can con il loro incedere krautrock. Invece inferiore alla media The Question Is To See It All.
In generale, forse da un progetto che mette insieme due menti finissime come Harrington e Jaar era lecito attendersi qualcosa di ancora più radicale e innovativo. Tuttavia, “Spiral” resta un buon lavoro, non travolgente come “Psychic” ma comunque meritevole almeno di un ascolto.
Voto finale: 7,5.
Clairo, “Sling”
Claire Cottrill, meglio conosciuta col nome d’arte Clairo, ha fatto la stessa mossa che Bruce Springsteen ha effettuato con “Nebraska” (1982) e Taylor Swift con la coppia “folklore”-“evermore” (2020): pubblicare un disco folk, intimo e privo dei singoli che hanno reso quegli artisti delle leggende del rock e del pop.
“Sling” è quindi una mossa coraggiosa da parte di una giovane artista diventata virale grazie a Youtube e all’esordio “Immunity” (2019), infarcito di brani indie pop accattivanti e candidi nelle loro liriche. Il nuovo lavoro si allontana radicalmente da “Immunity”, privilegiando melodie raccolte, minimali, con testi più maturi ma non meno onesti.
I richiami non sono più Lorde e la prima Taylor Swift (anche se la neozelandese è ospite del singolo Blouse), quanto Joni Mitchell e Carole King: più gli anni ’70 del ‘900 dei 2000, quindi. Non tutto fila liscio (sentirsi la monotona Joanie), ma nei momenti migliori “Sling” fa vedere una giovane donna eclettica e pronta ad entrare nei cuori degli amanti del cantautorato: basti sentirsi Just For Today e Amoeba.
Allo stesso tempo, come già detto, le liriche di Clairo fanno un passo avanti in termini di maturità: in Blouse canta dell’abuso maschile, soprattutto da parte delle cosiddette “figure di riferimento” che spesso tali non sono (“Why do I tell you how I feel when you’re just looking down the blouse?”). In Management parla della stanchezza mentale causata dalla pressione dell’industria discografica, ma in terza persona: “She’s only 22” dice un commentatore anonimo. Infine in Bambi emerge la tristezza e la solitudine che tutti o quasi abbiamo patito nell’ultimo anno e mezzo: “But what if all I want is conversation and time?”
In conclusione, il tono del CD non è dei più invitanti per gli amanti della prima versione di Clairo, quella più pop e sbarazzina. La giovane Cottrill è cambiata, almeno in “Sling”: se sia per il meglio probabilmente lo vedremo nel prossimo LP. Per adesso godiamoci questo album, non perfetto ma utile per aprire nuove opportunità per la cantautrice americana.
Voto finale: 7.
Yves Tumor, “The Asymptotical World”
Yves Tumor si conferma artista imprevedibile e in continua evoluzione. L’EP “The Asymptotical World” è infatti un prodotto decisamente commerciale per colui che ci aveva abituato ai suoni dissonanti e all’elettronica degli esordi, specialmente “Serpent Music” (2016). Se già il precedente CD “Heaven To A Tortured Mind” aveva anticipato un rock più accessibile, quasi glam in certi aspetti, questo breve lavoro scava ancora più a fondo nella parte mainstream di Yves e lo candida come potenziale rockstar del futuro.
Jackie, primo singolo e apertura dell’EP, è anche il brano migliore: chitarra in primo piano, voce di Tumor praticamente senza effetti e ritmo trascinante. Se qualcuno volesse una prova della “commerciabilità” dell’artista Yves Tumor, eccola qua. Anche la successiva Crushed Velvet è molto interessante, con ritornello raffinato davvero ammaliante. La seconda parte del lavoro invece contiene pezzi inferiori: soprattutto Tuck, malgrado la collaborazione del duo industrial Naked, è davvero mediocre.
L’amore è il tema preponderante del lavoro (“We can go wherever, I don’t have a favorite spot. I just wanna look you in the eye”, Crushed Velvet); non sempre però quello tipico delle canzonette pop, quanto piuttosto un amore torturato e sempre sul punto di crollare. Ne sia esempio questo verso: “How can I miss you if you won’t go away?”, in Secrecy Is Incredibly Important To The Both Of Them. Altrove abbiamo addirittura delle evirate verso l’horror: “I feel myself growing big and hard inside you” canta Yves in Tuck.
In conclusione, “The Asymptotical World” è un EP interessante, che denota una volontà indagatrice da parte del Nostro mai sazia. Non sempre i risultati sono perfetti, ma la mutazione da artista sperimentale a rockstar di Yves Tumor procede a gonfie vele. Non vediamo l’ora di ascoltare il suo prossimo LP vero e proprio.
Voto finale: 7.
Vince Staples, “Vince Staples”
Il nuovo CD del rapper americano, prodotto da Kenny Beats, è un altro brevissimo lavoro. Seguendo un mini-album come “FM!” (2018), era lecito aspettarsi un formato diverso da Staples, che invece prosegue sulla stessa scia. I risultati, però, questa volta non sono buoni come in passato.
Ricordiamo che Vince Staples è stato uno dei nomi più interessanti del panorama hip hop degli anni ’10: fin dall’EP “Hell Can Wait” del 2014, proseguendo con gli ottimi album “Summertime ‘06” (2015) e “Big Fish Theory” (2017), il suo nome è circolato tra quelli dei più talentuosi rapper della sua generazione. Purtroppo, l’omonimo quarto LP della sua produzione è anche il suo più debole fino ad oggi.
Vince, nel cantare, pare quasi annoiato: la voce è molle, la basi sono curate, ma nessuna ruba l’occhio. Se pensiamo allo sperimentalismo di “Big Fish Theory” o ai crudi racconti posti su basi altrettanto cupe del magnifico “Summertime ‘06”, la differenza è palese. Se liricamente il Nostro è sempre abile a mescolare fatti di vita dura, di strada, con scherzi e ironia, dal punto di vista estetico il CD è solo a tratti godibile.
Ci sono infatti momenti intriganti, come la base à la James Blake di LAW OF AVERAGES e ARE YOU WITH THAT?, ma la maggior parte delle canzoni sono troppo brevi e simili tra loro per fare una reale impressione nel pubblico. Da contare poi che, in un lavoro già molto stringato, abbiamo anche due intermezzi, THE APPLE & THE TREE e LAKEWOOD MALL, che riducono ancor di più il replay value.
In conclusione, sicuramente “Vince Staples” è un lavoro minore del rapper originario di Compton e cresciuto a North Long Beach. Tuttavia, ci aspettiamo di più da lui la prossima volta: il CD non è brutto, è semplicemente molto inferiore alla media a cui Staples ci aveva abituato.
Voto finale: 6,5.