Drake e Kanye: due facce della stessa medaglia

Tra metà agosto e inizio settembre il mondo del rap è stato sconvolto dall’uscita di due fra i CD più attesi dell’anno: i ritorni di due pezzi grossi del genere, Kanye West e Drake. I due, non è un mistero, sono divisi da una faida che va avanti da alcuni anni e anche recentemente si sono fatti dispetti e “diss” più o meno pesanti.

La verità è che sono troppo simili per piacersi: egocentrici ai massimi livelli, accentratori, talentuosi e baciati da un enorme successo. Ecco perché, probabilmente, i due album appena pubblicati soffrono di comuni difetti: eccessiva lunghezza, momenti in cui i due sembrano copiare i sé stessi di dieci anni fa, testi per lo più solipsisti. In poche parole: sia “Donda”, il CD che Kanye ha dedicato alla madre morta nel 2007, che “Certified Lover Boy”, il nuovo lavoro di Drake, sono dei grandi successi commerciali ma dei flop artistici. Analizziamoli in dettaglio.

Kanye West, “Donda”

donda

Può un artista che ha sostenuto pubblicamente l’ex presidente americano Donald Trump e l’anno scorso ha tentato maldestramente la corsa per diventarlo a sua volta, che ha dichiarato che “la schiavitù dei neri, durata 400 anni, è stata una loro scelta”, che ha dato il suo appoggio a personaggi quantomeno discussi come DaBaby (conclamato omofobo), Bill Cosby e Marilyn Manson (accusati di abusi sessuali su varie donne), essere ancora al centro dell’attenzione della scena discografica mondiale e del pubblico, che continua a adorarlo malgrado tutto?

Kanye West è ormai entrato nell’immaginario comune come il perfetto esempio del binomio genio-follia: se fino a cinque anni fa la prima dimensione prevaleva, basti pensare a capolavori come “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) e “The Life Of Pablo” (2016), negli ultimi anni il bipolarismo di cui soffre ha avuto la meglio. Collassi pubblici, dichiarazioni avventate sui social, il divorzio dalla star Kim Kardashan… tanti sono i segnali di una salute mentale deteriorata. A questo aggiungiamo un rapporto tormentato con la fede cristiana, incarnato dagli ultimi album gospel da lui prodotti, come “JESUS IS KING” del 2019.

Peraltro, il rollout di “Donda” è stato tutto meno che coerente: prima l’annuncio che il CD sarebbe uscito addirittura a luglio 2020, poi continui rinvii, con tanto di performance pubbliche in anteprima e uno stadio intero affittato per fargli finire il lavoro. Insomma, il rischio (per alcuni la certezza) che il lavoro sarebbe stato un flop colossale era ben presente. “Donda”, in qualche modo, grazie anche a un parco ospiti di grande qualità, riesce a guadagnarsi la sufficienza; ma davvero Kanye voleva dedicare un disco così confusionario e autoreferenziale alla memoria della madre morta?

Qui, in effetti, sta il paradosso: Donda West, madre amatissima di Kanye morta nel 2007, sarebbe il personaggio principale del CD. Invece la sua presenza è solo una minima parte nella cascata di canzoni che compongono la tracklist: un paio di intermezzi (Donda Chant e Donda), alcune canzoni in cui Kanye e i suoi amici la evocano, ma nulla di più. Altrove affiorano invece altri temi cari al Nostro, come la fede, il divorzio, l’impatto della celebrità… insomma, un fritto misto di difficile comprensione, anche dopo molti ascolti.

Ed è un peccato, perché canzoni di qualità ce ne sarebbero: Jail, con JAY-Z, è il pezzo forte della prima parte. Abbiamo poi la commovente Come To Life e Hurricane, collaborazione col sempre ottimo The Weeknd, che spiccano. Interessante anche Jesus Lord. Invece è incomprensibile la presenza dell’insopportabile Donda Chant e dell’inutile intermezzo Tell The Vision. Ancora più incredibile la scelta del rapper di piazzare a fine tracklist, dopo la buona No Child Left Behind, che avrebbe rappresentato un’ottima chiusura di “Donda”, quattro versioni alternative di brani già ascoltati precedentemente: Jail pt.2, Ok Ok pt.2, Junya pt.2 e la lunghissima Jesus Lord pt.2, che nulla aggiungono e anzi danno il palcoscenico a DaBaby e Marilyn Manson, di cui avremmo anche fatto a meno.

Insomma, “Donda” è la perfetta immagine del suo creatore: prolisso, geniale a tratti e insopportabile in altri. Se, come si dice, il CD rappresenta il termine della carriera musicale di West, è una fine ingloriosa; allo stesso tempo, a noi pare di assistere ad un crollo nervoso in diretta, un qualcosa che forse va al di là della nostra comprensione ma che mette a serio rischio la salute di Kanye West. È davvero questo che critica e pubblico vogliono da lui?

Voto finale: 6,5.

Drake, “Certified Lover Boy”

Certified Lover Boy

Guardate la copertina: se vi dicessimo che è stata realizzata dal celebre artista inglese Damien Hirst, cambierebbe l’opinione che probabilmente vi siete fatti? La bruttezza della cover, tuttavia, non deve per forza implicare un CD scadente; allo stesso modo, da un perfezionista come Drake ci aspetteremmo maggiore cura… oppure è tutto una gigantesca presa in giro?

Il dubbio viene ascoltando Way 2 Sexy e vedendone il video promozionale: uno dei featuring più attesi, Drake + Future + Young Thug, si risolve in una canzone davvero imbarazzante, che campiona I’m Too Sexy, la hit dei Right Said Fred, per costruirci sopra un orrido pezzo trap, con testo a metà tra il ridicolo e il volgare. Sentendo poi Girls Want Girls, con Lil Baby, il ribrezzo aumenta: “Said that you a lesbian, girl me too, ayy” è il verso che ci fa capire che c’è qualcosa che non va in Aubrey Graham.

Perché qui sta il problema: Drake, malgrado il grande successo che lo ha baciato fin dall’esordio “Thank Me Later” (2010), è un uomo insicuro e malinconico. Nei suoi dischi è sempre stato evidente il lato più pop e gaudente, ma c’era quel retrogusto di vanità che restava, anche a causa di testi spesso fin troppo espliciti e indicatori di una vita privata quantomeno “variegata”, forse troppo. Questa malinconia di fondo è evidente lungo tutto “Certified Lover Boy”, malgrado le canzoni a volte assurde presenti nella tracklist. Ed è un peccato, perché all’interno del CD ci sono comunque delle tracce valide.

Ci eravamo lasciati, in effetti, con di fronte un Drake in buona forma: sia il mixtape “Dark Lane Demo Tapes” (2020) che l’EP “Scary Hours 2” dello scorso marzo avevano presentato il consueto pop-rap del Nostro, però cambiato il giusto per non sembrare derivativo. Il problema è che “Certified Lover Boy”, che il canadese aveva promesso sarebbe stato considerevolmente più breve del precedente “Scorpion” (2018), è invece prolisso: 21 canzoni, 86 minuti di ruminazioni sulla lealtà, il sesso e gli amori fuggevoli di una sola persona, peraltro non proprio facile a livello di immedesimazione, sono davvero troppo, per chiunque. Non è un caso che questo sia il CD con le peggiori recensioni ad oggi nella carriera di Drake, malgrado gli streaming poderosi.

Musicalmente, dicevamo, è un peccato vedere uno dei rapper più talentuosi della sua generazione perdersi in una sorta di imitazione del Drake che meravigliò il mondo con “Take Care” (2011) e “Nothing Was The Same” (2013). Alcuni brani sono buoni: Champagne Papi, Love All (con JAY-Z) e Fair Trade sono contrastati da flop come le già citate Girls Want Girls e Way 2 Sexy. Allo stesso tempo, nella seconda parte, No Friends In The Industry e 7am On Bridle Path sono ok, mentre sono puro riempitivo sia Race My Mind che Get Along Better.

Come sempre, infine, testualmente Drake è un’arma che sa ferire con la sua sincerità (“My soul mate is somewhere out in the world just waiting for me… My heart feel vacant and lonely” canta in Champagne Papi) e attirare risate facendo il finto duro (“Said you belong to the streets, but the streets belong to me… It’s like home to me”, Pipe Down). Altrove abbiamo dimostrazioni di fragilità, sia in Love All: “Loyalty is priceless and it’s all I need”, che in Fair Trade: “I’ve been losing friends and finding peace. Honestly that sounds like a fair trade to me”.

Ci eravamo lasciati alla fine della recensione di “Scorpion” con questa frase: “Abbiamo la sensazione che il prossimo sarà il CD della verità, per lui e per i suoi fans.” L’impressione è confermata: “Certified Lover Boy” è stato scritto, secondo noi, puramente per compiacere i fan. Drake è bloccato in una inerzia negativa e dannosa per la qualità dei suoi componimenti: per quanto tempo il patto col pubblico può durare? Staremo a vedere, però una cosa va detta: di questo passo, l’artista più significativo della decade 2010-2019 (almeno secondo Billboard) rischia di avere imboccato troppo presto il viale del tramonto.

Voto finale: 5,5.

Rising: Indigo De Souza

Indigo De Souza

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata ai giovani talenti della musica leggera contemporanea. Quest’oggi dedichiamo la nostra attenzione alla talentuosa Indigo De Souza, nuova stellina della scena indie americana.

Indigo De Souza, “Any Shape You Take”

any shape you take

Il secondo disco della cantante è una boccata di aria fresca in una scena indie rock un po’ ferma nel 2021. “Any Shape You Take” migliora ogni aspetto dell’esordio “I Love My Mom” (2018), passato un po’ in sordina: sia a livello compositivo che lirico, Indigo si conferma matura e pronta a scrivere pagine importanti del genere nei prossimi anni.

I riferimenti della Nostra sono chiari: PJ Harvey, Fiona Apple e Alanis Morissette sono le prime icone femminili del pop-rock che vengono in mente ascoltandola. Tuttavia, De Souza non si limita a prendere spunto da queste grandi autrici: innestando su questa ricetta elementi grunge e quasi sperimentali (si senta Real Pain a tal proposito), “Any Shape You Take” è un CD figlio dei nostri tempi: in bilico fra speranza e disperazione, la giovane Indigo De Souza dimostra in realtà una maturità sorprendente.

Testualmente, infatti, la cantautrice è capace di trasmettere le sensazioni provate a causa di una relazione tossica del passato attraverso le urla disperate di Real Pain così come di farti sentire protetto in Hold U, quando canta “I will hold you” e “You are a good thing, I’ve noticed” convintamente. In Way Out appare il suo lato più sognatore quando sentiamo dirle “I wanna be a light”, mentre in Kill Me si riappropria di un tema a lei caro fin dal precedente album: “Call your mother, tell her you love her… Call my mother and tell her the same”.

In alcune canzoni, come la già citata Real Pain e Bad Dream, prevale un pessimismo molto forte; in altre, come 17, i toni sono più distesi. I pezzi migliori sono Hold U e Kill Me, mentre un po’ sotto la media Way Out. In generale, va detto, l’indie rock robusto, sperimentale a tratti di “Any Shape You Take” si fa quasi sempre apprezzare e i 38 minuti di durata del disco spingono il replay value (a differenza degli ultimi prolissi lavori di Drake e Kanye West, tanto per capirsi).

In conclusione, Indigo De Souza si conferma ragazza con del potenziale e “Any Shape You Take” è un CD già molto interessante. Vedremo se in futuro saprà fare meglio, per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori dell’anno nel genere indie rock.

Voto finale: 8.

Recap: agosto 2021

Agosto è solitamente il mese del “riposo” per A-Rock, ma in generale per la musica. C’è spazio per tormentoni di ogni genere, le spiagge si riempiono di pezzi reggaeton… Insomma, la musica solitamente aspetta settembre e ottobre per sganciare i pezzi da 90. Non è questo il caso del 2021: agosto ha infatti visto uscire i nuovi lavori di Nas, Isaiah Rashad, dei CHVRCHES, del duo LUMP e dei The Killers, tanto per fare nomi importanti e in alcuni casi imprevisti. Non ci scordiamo poi dei nuovi dischi di Lorde e dei Deafheaven e la collaborazione fra Boldy James & The Alchemist. In più, abbiamo il quinto CD di Tinashe e l’ennesimo LP a firma Ty Segall. Infine, abbiamo recensito il breve EP di cover di Angel Olsen e i CD dei Turnstile e dei Big Red Machine. Buona lettura!

Turnstile, “GLOW ON”

glow on

Giunti al terzo album di punk tanto duro quanto sperimentale, gli americani Turnstile hanno prodotto il migliore CD della loro carriera. Mescolando hardcore, rock alternativo, R&B (!) e dream pop (!!), la band con “GLOW ON” ha creato un’esperienza sonora davvero unica.

Sia chiaro, la sperimentazione è benvenuta, ma “GLOW ON” è un album di hardcore punk fatto e finito: pezzi come DON’T PLAY e HOLIDAY sono durissimi, tanto per capirsi. Invece abbiamo ad esempio UNDERWATER BOI e ALIEN LOVE CALL, che suonano quasi rilassanti. A chiudere il cerchio, il grande artista R&B Blood Orange (nome d’arte di Dev Hynes) collabora proprio in ALIEN LOVE CALL e LONELY DEZIRES, confondendo ancora di più le acque. Insomma, un cocktail sonoro incredibile e sorprendente, che ammalia sia i fan duri e puri sia, potenzialmente, il pubblico più mainstream.

Liricamente, il lavoro passa da liriche più riflessive (“Too bright to live! Too bright to die!” in HOLIDAY e “Still can’t fill the hole you left behind!” in FLY AGAIN) ad altri più trascinanti e pronti per i live incendiari della band, come “You really gotta see it live to get it” (NO SURPRISE) e “If it makes you feel alive! Well, then I’m happy to provide!” (BLACKOUT). La frase più rappresentativa dell’estetica dei Turnstile è però contenuta in HOLIDAY: “I can sail with no direction”.

I migliori brani sono BLACKOUT e MYSTERY, mentre un po’ sotto la media i brevi intermezzi HUMANOID / SHAKE IT UP e NO SURPRISE. In generale, tuttavia, siamo di fronte a un CD davvero innovativo per il genere hardcore e che potrebbe aprire la strada a molti gruppi nei prossimi anni, vogliosi di rischiare lo “sbarco” nel mondo più commerciale senza però tradire il genere.

Voto finale: 8,5.

The Killers, “Pressure Machine”

pressure machine

Il settimo album della band americana è un CD decisamente più introspettivo e modesto rispetto a quanto i The Killers ci avevano abituato nel loro passato sia prossimo che remoto. Se Brandon Flowers e compagni volevano produrre un LP folk-rock di qualità, missione compiuta; che lo abbiano fatto così bene da poter definire “Pressure Machine” il terzo miglior lavoro di sempre del gruppo, è sorprendente.

Ricordiamo che i The Killers avevano pubblicato nel 2020 “Imploding The Mirage”, un lavoro di buon heartland rock, che faceva il verso allo Springsteen più scatenato. “Pressure Machine”, registrato in pieno lockdown, che il frontman Brandon Flowers ha passato nella sua città natale nello Utah, Nephi, riporta alla mente invece “Nebraska” (1982) del Boss: un lavoro intimo, che scava nella memoria di un uomo di grande successo per rievocare episodi della sua infanzia e la vita nella città dove è cresciuto.

Un CD che poteva uscire malissimo si rivela invece una bella scoperta del lato più amaro e intimista dei The Killers: riuniti con lo storico chitarrista Dave Keuning, assente nel precedente lavoro, ma privi del bassista Mark Stoermer, che ha preferito non rischiare il contagio, pezzi come Terrible Thing e Runaway Horses (con Phoebe Bridgers) sarebbero inconcepibili in “Hot Fuss” (2004) e “Day & Age” (2008). Invece In The Car Outside è una melodia trascinante, che farà la fortuna dal vivo del complesso (sperando che questo momento arrivi presto).

È testualmente, però, che i The Killers stupiscono: la band i cui testi prima erano spesso insensati o molto astratti, ha scritto delle liriche davvero toccanti. Desperate Things rievoca un fatto scandaloso dell’infanzia di Flowers, in cui un poliziotto uccise il marito della figlia, che la abusava quotidianamente (“You forget how dark the canyon gets, it’s a real uneasy feeling”). Quiet Town, uno dei pezzi migliori di “Pressure Machine”, parla della dipendenza da oppioidi, che in America è una crisi di dimensioni enormi. Infine, Terrible Thing è la canzone più commovente: un giovane, incerto sulla sua sessualità, contempla il suicidio per il trattamento che subisce a Nephi, città del profondo sud degli Stati Uniti e quindi molto conservatrice.

In generale, l’unico rammarico di “Pressure Machine” è che non abbiamo le canzoni trascinanti che hanno reso i The Killers un pilastro del mondo pop-rock, basti ricordare Somebody Told Me, When You Were Young e soprattutto Mr. Brightside. Tuttavia, questo lavoro ci mostra il volto “autoriale” di una band che ha trovato nuova linfa dopo il mezzo disastro di “Battle Born” (2012). Tre LP in quattro anni sono un ottimo biglietto da visita; che siano di qualità crescente denota un talento non comune. Chapeau, Brandon.

Voto finale: 8.

Tinashe, “333”

333

Il quinto CD della talentuosa cantante R&B è un altro tassello prezioso in una carriera in continua ascesa. Se nel precedente “Songs For You” (2019) Tinashe ci aveva fatto apprezzare il suo lato più commerciale e mainstream, “333” ritorna alle atmosfere di R&B alternativo degli esordi.

“333” non va inteso però come un ritorno al passato puro e semplice: Tinashe, infatti, sperimenta anche con l’elettronica, con basi spesso molto interessanti e che le permettono di occupare una nicchia molto delicata ma redditizia a cavallo fra pop, R&B e hip hop. Il CD scorre bene e, grazie anche a ospiti importanti come Kaytranada e Jeremih, è uno dei migliori album R&B del 2021.

La storia artistica di Tinashe non può essere distinta dalla battaglia per l’indipendenza condotta contro la sua precedente etichetta, la RCA, a causa di scelte discografiche su cui la Nostra non era d’accordo. “333” è infatti autoprodotto dalla cantante e ballerina statunitense: una mossa che certo potrebbe precluderle l’accesso alle classifiche, almeno nelle posizioni di vertice, ma dimostra forte voglia di indipendenza.

I brani migliori del lotto sono Let Go, un brano neo-soul davvero raffinato, e Undo (Back To My Heart). Buona anche Last Chase. Invece sono sotto la media la brevissima Shy Guy e la prevedibile Let Me Down Slowly. Da sottolineare infine la grande coesione del CD: malgrado i diversi generi affrontati,  “333”  suona organico e curato e i 47 minuti di durata passano senza intermezzi palesemente monotoni.

In generale, ormai Tinashe è un’artista matura e che sa, allo stesso tempo, mantenere le aspettative del pubblico e trovare quei due-tre trucchetti per non suonare troppo derivativa. “333” non è un capolavoro, ma rappresenta una solida addizione ad una discografia di tutto rispetto.

Voto finale: 8.

Big Red Machine, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?”

how long do you think it's gonna last

Il secondo CD del progetto Big Red Machine, capitanato da artisti del calibro di Justin Vernon (Bon Iver) e Aaron Dessner (The National), è molto più aperto a influenze esterne rispetto all’eponimo esordio del 2018. I risultati sono migliori sotto vari punti di vista, anche se la lunghezza del lavoro può risultare indigesta alla lunga.

I Big Red Machine hanno sempre assunto la forma di side-project per Vernon e Dessner; se in passato il progetto appariva come un divertissement un po’ fine a sé stesso e per i soli appassionati dell’estetica indie folk-rock del duo, in “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” le cose cambiano. Abbiamo infatti degli ospiti davvero di grande livello: Taylor Swift, Robin Pecknold dei Fleet Foxes, Sharon Van Etten e Anaïs Mitchell, solo per citare i più noti.

Se c’è una pecca nel lavoro, come già accennato, è l’eccessiva lunghezza: 64 minuti di musica soft, nebbiosa, tendente al folk ma con sottofondo elettronico, possono risultare troppi. Allo stesso tempo, inoltre, Birch ed Easy To Sabotage, ad esempio, sono prolisse e tolgono ritmo al disco. Tolto questo difetto, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” è un buonissimo LP: Renegade (con Taylor Swift), Phoenix e Latter Days sono highlights innegabili. Invece Hoping Then è inferiore alla media.

Menzioniamo infine Brycie, dedicata da Dessner al fratello gemello, come canzone col verso più delicato: “You watched my back when we were young, you stick around when we’re old”; e Hutch, scritta in memoria dell’amico comune Scott Hutchinson (frontman dei Frightened Rabbit), recentemente suicidatosi, come quella con la lirica più commovente: “You were unafraid of how much the world could take from you. So how did you lose your way?”.

In conclusione, Big Red Machine si conferma progetto di valore, malgrado sia un passatempo per Vernon e Dessner in attesa di tornare a Bon Iver e ai The National. I collaboratori aggiungono sempre del loro ai componimenti, dando profondità, a volte troppa verrebbe da dire, ad un disco ambizioso e curato.

Voto finale: 8.

Boldy James & The Alchemist, “Bo Jackson”

bo jackson

La nuova collaborazione fra il rapper Boldy James e il leggendario produttore The Alchemist è un CD di hip hop vecchia maniera. Come avevamo già puntualizzato per l’altra opera che ha coinvolto The Alchemist quest’anno (“Haram”, con Arman Hammer), le sue basi sono la perfetta controparte quando si vogliono raccontare fatti legati alla vita di strada in modo crudo. La malinconia che traspare è infatti evidente e si sposa bene con le storie di Boldy James.

Siamo alla collaborazione numero quattro fra i due, dopo “My 1st Chemistry Set” (2013), l’EP “BOLDFACE” (2019) e “The Price Of Tea In China” (2020). La chimica fra i due è innegabile, come ulteriormente confermato in “Bo Jackson”: malgrado un inizio un po’ lento, pezzi come Brickmile To Montana e Photographic Memories alzano considerevolmente il livello. Da sottolineare poi il parco ospiti: Benny The Butcher, Earl Sweatshirt e Freddie Gibbs, giusto per citare i più celebri, danno una mano a rendere “Bo Jackson” davvero imperdibile.

Il CD, come accennato precedentemente, prende molti episodi di vita di strada vissuti in prima persona da Boldy James oppure narrati da quest’ultimo, con grande dovizia di particolari e versi a volte toccanti come: “All this pressin’ is depressin’, the pressure is still pressin’ against a nigga flesh, it’s beyond measure” (DrugZone).

In conclusione, “Bo Jackson” è un buonissimo album rap. Nulla capace di riscrivere la storia del genere, sia chiaro, ma da sentire almeno una volta e fortemente consigliato agli amanti del genere.

Voto finale: 7,5.

Lorde, “Solar Power”

solar power

Il terzo album della popstar neozelandese è una svolta piuttosto radicale nello stile di Lorde. Se in “Pure Heroine” (2013) e “Melodrama” (2017) l’artista si era fatta notare per un pop in technicolor e canzoni vivaci, provocatorie a volte come Royals e Green Light, riscrivendo molto dello stile pop presente e futuro, “Solar Power” suona come un ritiro in sé stessa.

Jack Antonoff, il produttore più cercato del momento (basti citare le recenti collaborazioni con Taylor Swift e Lana Del Rey), dà anche a questo CD il suo proverbiale tocco: atmosfere soffuse, voce sporca e svolta in direzione folk-pop compiuta. I risultati possono non piacere, soprattutto ai fan della prima ora della neozelandese, ma dimostrano che Lorde è qui per restare e che pretendere da lei sempre lo stesso disco è un’aspettativa destinata a essere infranta.

La principale critica che si può fare stilisticamente al disco è che suona “fuori tempo”: Lorde sembra serena e fin troppo rilassata, si sente qua e là un sapore psichedelico che rende “Solar Power” quasi derivato dai Beach Boys… manca inoltre quella critica sociale che aveva fatto la fortuna anche mediatica della neozelandese.

Il CD, concepito per essere un concept album sulla crisi climatica, suona in realtà un po’ sfocato liricamente: abbiamo riferimenti a Pearl, il suo amato cane da poco deceduto (Big Star); canzoni sull’amore finito (California); e poi anche referenze al riscaldamento globale (“How can I love what I know I am gonna lose? Don’t make me choose”, Fallen Fruit). Abbiamo, poi, un riferimento all’ansia da ragazza prodigio del pop (“Teen millionaire having nightmares from the camera flash”, The Path) e ad un uomo violento che si reinventa maestro new-age (Dominoes).

Musicalmente però, come già accennato, “Solar Power” è un altro LP di qualità nella discografia di Ella Marija Lani Yelich-O’Connor: la title track è un grande pezzo estivo, con ritornello irresistibile grazie anche alle armonie vocali di Clairo e Phoebe Bridgers. Anche California è un brano di ottimo livello. Invece The Man With The Axe e Dominoes sono fin troppo monotone e rompono il ritmo dell’album.

In generale, “Solar Power” pare quasi un CD di transizione, verso nuovi lidi: Lorde non vuole essere la portabandiera della sua generazione, come proclama fin dalla prima canzone The Path (“Now if you’re looking for a savior, well that’s not me. You need someone to take your pain for you? Well, that’s not me”). Non tutti saranno contenti di questa mossa; di certo dopo “Melodrama” ci aspettavamo un album più coraggioso. I risultati raggiunti in “Solar Power” non sono tuttavia da disprezzare: vedremo, presumibilmente tra quattro anni, dove Lorde condurrà la propria estetica.

Voto finale: 7,5.

CHVRCHES, “Screen Violence”

screen violence

Il quarto album degli scozzesi CHVRCHES è un ritorno alle origini dopo il discusso “Love Is Dead” (2018). Il trio infatti produce interamente il CD, senza interventi esterni, se eccettuiamo il cameo del sempre ottimo Robert Smith (frontman dei The Cure) nella buona How Not To Drown. I risultati non rinnovano l’estetica del gruppo, come prevedibile, ma il disco scrive una buona pagina di synthpop.

Lauren Mayberry e compagni hanno scelto di comporre “Screen Violence” come una sorta di concept album, con temi tratti da film horror e altri più personali, come il peso del fallimento in un’industria spietata come quella discografica. Già il titolo è indicativo; le liriche a tratti sono anche più esplicite. La musica, invece, continua ad essere gioiosa e brillante: solo che, stavolta, il tentativo di andare mainstream non viene portato fino in fondo, come invece accadeva in “Love Is Dead”. Prova ne siano le oscure Violent Delights e Final Girl.

Curioso che a funzionare meglio siano proprio le melodie più dark del lotto: se, infatti, il singolo He Said She Said è pop molto scolastico e Lullabies va presa come puro filler, How Not To Drown e Final Girl sono gli highlights di un disco non perfetto, ma gradevole e addirittura trascinante nelle sue parti migliori.

Anche liricamente vale lo stesso: alcuni testi sono molto “safe” e prevedibili, mentre alcuni versi colpiscono il bersaglio in pieno. Ad esempio, in He Said She Said Mayberry urla “I’m losing my mind!” e le crediamo, sottoposta con la sua band a pressioni molto forti per avere la prossima hit. Altrove, dicevamo, abbiamo versi più faciloni: “I’ll never sleep alone again”, in Violent Delights, ne è un esempio.

In conclusione, “Screen Violence” è un CD carino, curato ma non imperdibile: certo, i CHVRCHES sanno come scrivere deliziosi pezzi pop così come brani più opachi e tormentati, ma manca qualcosa per rendere questa collezione di canzoni davvero eccellente. Probabilmente è la necessaria reinvenzione, che aspetta al varco gli scozzesi: ma sarà materia per il prossimo LP.

Voto finale: 7,5.

Deafheaven, “Infinite Granite”

infinite granite

Il quinto album dei Deafheaven è una delle mosse più controverse occorse nel mondo del metal da molti anni a questa parte. La band americana, infatti, in “Infinite Granite” si muove verso territori decisamente più soft del passato, in zona shoegaze/dream pop, laddove i Deafheaven erano conosciuti per la loro furia black metal, solo occasionalmente intervallata da inserti più gentili. Qui la proporzione si inverte: canzoni come In Blur e Shellstar sarebbero state impensabili in “Sunbather” (2013) o “New Bermuda” (2015).

I risultati non sono sempre convincenti, ma nei momenti migliori siamo di fronte a una delle migliori band su piazza: In Blur è un gran pezzo shoegaze, Great Mass Of Color una hit trascinante… peccato per la presenza della debole Other Language, altrimenti saremmo di fronte a un ottimo CD. Interessante poi l’intervallo ambient Neptune Raining Diamonds.

Certo, per i puristi metal e i fan della prima ora siamo di fronte probabilmente a un’aberrazione: la voce di George Clarke è praticamente sempre comprensibile e non urlata, eccetto che nella monumentale Mombasa, che chiude il lavoro, e in brevi tratti di Villain. Inoltre, i climax dati dalla violenza sommata delle chitarre e della batteria sono pressoché scomparsi (nessuna Dream House, per intenderci). Ripetiamo: tutto vero, ma “Infinite Granite” non sfigura affatto.

Questo LP rappresenterà probabilmente la mossa più divisiva della carriera dei Deafheaven: fino al 2018 alfieri del black metal, corrente blackgaze (cioè intervallato con l’estetica shoegaze), “Infinite Granite” contiene i brani più morbidi e “pop” della storia del gruppo, anche più mainstream di Near e Night People di “Ordinary Corrupt Human Love” (2018). Il passato deve essere preso come tale e messo da parte, oppure assisteremo in futuro a svolte altrettanto forti verso i lidi metal che hanno fatto la fortuna dei Deafheaven? Nessuno può saperlo, di certo abbiamo due cose: “Infinite Granite” è un buon CD e, se fosse un esordio, parleremmo di “miracolo”; allo stesso tempo, è il disco più debole nella produzione del gruppo. Se i Deafheaven vorranno continuare a esplorare territori shoegaze e dream pop, dovranno tenerlo a mente.

Voto finale: 7,5.

Nas, “King’s Disease II”

king's disease ii

Dopo il grande successo di pubblico e critica di “King’s Disease” (2020), che ha portato a Nas anche il Grammy per Miglior Album Rap dell’anno, “King’s Disease II” ritorna legittimamente alle atmosfere del predecessore, con ospiti di ancora maggior spessore e attenzione anche al mondo trap, con risultati discreti anche se non trascendentali.

Il rapper americano è diventato nel tempo una leggenda del genere, grazie soprattutto al fulminante esordio “Illmatic” (1994), uno dei migliori CD hip hop dei ’90. Col tempo Nas ha prodotto altri buoni lavori (come “It Was Written” del 1996) ma anche flop catastrofici, su tutti “Nastradamus” (1999). Negli ultimi tempi il rapper è tornato su buoni livelli: a partire da “Life Is Good” (2012) infatti Nas è tornato a rappare in maniera convincente, anche se spesso con testi controversi e versi assurdamente complottanti, si risenta “Nasir” (2018) al riguardo.

“King’s Disease II” scorre bene, i 51 minuti sono giusti per un LP non pretenzioso, impreziosito da ospiti come Eminem in EPMD 2 e Lauryn Hill in Nobody. Se un appunto va fatto, è sul sequenziamento: la prima parte appare più debole della seconda in termini di qualità compositiva. È un peccato che, in certe occasioni, i versi di Nas arrivino fuori luogo: “Money off tech, pushing a Tesla, rolled up a fresh one. It’s one IPO to the next one”, in Store Run, pare un commento di un broker di Wall Street più che una lirica in una canzone rap. In Moments, invece, evoca le figure del fratello e di Muhammad Ali: “I never met Muhammad Ali, wish I did. My brother saw him, champ told him nothing is real. Gave me the chills, thought about it, that’s how I feel”. Non dice molto vero?

In generale, comunque, “King’s Disease II” prosegue l’opera di riabilitazione di Nas, malgrado si abbiano risultati inferiori al primo LP della serie. Peccato, perché se prescindesse da YKTV (che pare rubata a Future), il CD sarebbe davvero buono, con gli highlights Store Run e Moments. Nas indubbiamente svetta su basi più old style piuttosto che puntando su scenari trap, perché non insisterci maggiormente? Speriamo che il prossimo suo lavoro segua questa direzione; per ora godiamoci “King’s Disease II”, un altro tassello in una discografia incoerente ma mai prevedibile, nel bene come nel male.

Voto finale: 7.

LUMP, “Animal”

animal

Il duo formato da Laura Marling (apprezzata artista folk inglese) e Mike Lindsay (membro dei Tunng), giunto al secondo album, si conferma su buoni livelli. Prendendo spunto da generi come art pop e folktronica e da artisti del calibro di Bon Iver e Sufjan Stevens, i LUMP hanno scritto un album evocativo, che rappresenta un ottimo stop-and-go prima di tornare alle rispettive carriere.

Le dieci canzoni di “Animal” sono tenute insieme dalla voglia di sperimentare dei due cantautori: Laura Marling è più pop del solito, a tratti quasi funk, mentre Lindsay si lascia alle spalle le atmosfere indie dei Tunng per passare al pop più raffinato. Insomma, ognuno lascia da parte un pezzo di sé per entrare nei LUMP a pieno titolo: se il precedente “LUMP” (2018) poteva sembrare un esperimento fine a sé stesso, “Animal” ci fa capire che il duo è qui per restare, anche se solo come passatempo per due artisti ben incanalati in una buona carriera solista (Marling) o in un gruppo (Lindsay).

I pezzi migliori sono Red Snakes e l’avvolgente Phantom Limb, mentre delude un po’ la ripetitiva Climb Every Wall. Menzione speciale per i due intermezzi Hair On The Pillow e Oberon, che fanno ottimamente da collante tra le varie parti del disco.

In generale, la musica dei LUMP non è fatta per essere goduta dal pubblico più commerciale, tuttavia molte tracce del CD sono orecchiabili e quasi ballabili, tanto che il risultato complessivo è un album ambizioso ma mai troppo complicato. “Animal” conferma dunque il talento dei due membri del gruppo, integrando due discografie molto interessanti.

Voto finale: 7.

Isaiah Rashad, “The House Is Burning”

the house is burning

Il nuovo lavoro di Isaiah Rashad arriva ben cinque anni dopo “The Sun’s Tirade”, un periodo lunghissimo nel mondo della musica, specialmente per un rapper che pareva sull’orlo di diventare una star, aiutato da una scuderia di talenti come la Top Dawg Entertainment, tra le cui fila contiamo anche un certo Kendrick Lamar.

Invece Isaiah, per cinque anni, è praticamente sparito dalla vita pubblica: nessun singolo, nessun mixtape. Solo la speranza che lo avremmo ritrovato, prima o poi, e che la magia non sarebbe sparita. Beh, questo è vero solo parzialmente: Rashad è infatti fortunatamente tornato a produrre musica, ma i risultati sono solo in parte soddisfacenti.

In questi cinque anni, purtroppo, poco è filato liscio per il rapper americano: ha vissuto periodi di quasi povertà e in seguito è stato chiuso alcuni mesi in un rehab per disintossicarsi. Il primo verso del CD è in effetti davvero toccante, conoscendo queste vicende: “Just came back. See, I done been dead for real” (Darkseid).

L’esordio “Cilvia Demo” (2014) aveva fatto gridare al miracolo: pareva davvero di aver trovato un rapper sicuro di sé, con un flow invidiabile e basi magari retrò, ma mai troppo nostalgiche. Se “The Sun’s Tirade” aveva sostanzialmente confermato tutto questo, “The House Is Burning” si piega invece ad alcune mode del momento: la trap è dominante in alcuni featuring, su tutti quello con Lil Uzi Vert in From The Garden. Abbiamo poi momenti più R&B, come Claymore, mentre l’hip hop più classico è relegato a pezzi efficaci come RIP Young e Headshots (4r Da Locals), troppo pochi per rendere il lavoro davvero ottimo.

I risultati non sono da buttare, sia chiaro: “The House Is Burning” è tutto sommato un lavoro discreto, con momenti efficaci e collaborazioni di spessore che lo arricchiscono (basti citare Smino, Jay Rock e SZA, oltre al già menzionato Lil Uzi Vert). Tuttavia, i cinque anni di attesa ci avevano fatto sperare in un lavoro unico e imprescindibile. Peccato, sarà per la prossima volta; speriamo solo che non serva un altro lustro per avere un erede di questo disco.

Voto finale: 7.

Angel Olsen, “Aisles”

aisles

Vi siete mai chiesti come suonerebbe Gloria, la hit di Laura Barrigan poi interpretata anche da Umberto Tozzi, in chiave synthpop? Oppure una Forever Young come fosse una nuova canzone art pop? Beh, da oggi potrete farlo: “Aisles” è una raccolta di cinque cover di successi anni ’80 firmato da Angel Olsen. I risultati sono stranianti, ma l’EP è gradevole tutto sommato.

La scelta dei brani da reinterpretare, strano ma vero, è del tutto casuale: Olsen ha dichiarato che si tratta dei più popolari presso un supermarket in cui faceva spesa durante il lockdown pandemico. Pertanto, non aspettiamoci chissà quali messaggi dietro queste cover: la cantautrice americana voleva semplicemente divertirsi e intrattenere i suoi fan con canzoni di successo ma uscite in parte dall’immaginario pop collettivo.

“Aisles” arriva dopo due LP molto densi da parte di Angel Olsen: “All Mirrors” (2019) era un CD di pop maestoso e molto complesso, mentre “Whole New Mess” (2020) era la versione scarna delle canzoni che componevano “All Mirrors”. Un contrasto di stili non ignoto nella discografia di Angel Olsen: partita infatti dal folk minimale di “Strange Cacti” (2010), la nostra si era poi evoluta nel corso degli anni in una stella dell’indie rock, soprattutto in “My Woman” (2016). “Aisles” è pertanto da intendersi come una pausa e un omaggio ai fan da parte di Olsen.

La migliore cover è quella di Gloria, in cui la versione originale viene stravolta: molto più lenta, meno trascinante, ma anche più densa e arricchita dalla voce baritonale di Angel. Buona anche Eyes Without A Face, mentre la successiva Safety Dance è la peggiore delle cinque proposte dell’EP. If You Leave ci fa sentire una versione quasi dance della cantautrice, non disprezzabile ma nemmeno azzeccatissima. Infine, Forever Young è l’unica melodia piuttosto fedele all’originale.

In conclusione, “Aisles” non è un’opera destinata a cambiare radicalmente la discografia di Angel Olsen o la sua estetica: prendiamolo per quello che si propone di essere, un EP divertente e senza pretese.

Voto finale: 7.

Ty Segall, “Harmonizer”

harmonizer

Il nuovo album dell’instancabile Ty Segall arriva due anni dopo “First Taste”, un CD decisamente radicale per il garage rocker californiano: la chitarra era stata completamente messa da parte, in favore di strumenti eccentrici come il bouzouki. “Harmonizer” continua sul percorso sperimentale di “First Taste”, questa volta sul lato tastiere, con risultati altalenanti.

Due anni rappresentano una pausa piuttosto comune per i normali musicisti, se non fosse per l’assurda prolificità di Ty: il Nostro è stato capace nel 2012 e nel 2018 di produrre ben tre dischi di inediti a suo nome! Senza poi contare le collaborazioni, gli EP, i live e le raccolte di cover, che spesso arrivano a infarcire una discografia sterminata. Allo stesso tempo, va detto che la qualità era spesso sopra la media: dischi come “Manipulator” (2014) e “Freedom’s Goblin” (2018) sono fra i migliori del mondo garage rock degli ultimi anni.

“Harmonizer” si muove su terreni innovativi, ma su una base sempre riconoscibile: quel mix garage-psych rock che ha fatto la fortuna di Segall. A ciò aggiungiamo delle tastiere spesso taglienti e una chitarra tornata forte nel mix: i risultati non sono sempre convincenti, ma nei momenti migliori “Harmonizer” ci ridà fiducia nel talento del cantautore americano.

In effetti, tracce come la title track, Ride e Play sono fra le migliori dell’ultimo Ty Segall; invece Whisper e Changing Contours deludono. In generale, “Harmonizer” difficilmente verrà ricordato dai fan dell’americano tra i suoi migliori lavori; assieme a “First Taste”, tuttavia, apre dimensioni inesplorate per l’ancora giovane rocker, pronto a sguazzarci anche nel prossimo LP, probabilmente imminente.

Voto finale: 6,5.