Aprile è stato davvero un mese ricchissimo di uscite imperdibili, in ogni genere: hip hop, rock, dream pop… A-Rock ha recensito i nuovi lavori di Jack White, Red Hot Chili Peppers, Father John Misty e Vince Staples. Come se non bastasse, abbiamo analizzato anche il ritorno di Kurt Vile, dei Fontaines D.C. e degli Spiritualized. Come dimenticare poi la pubblicazione del nuovo lavoro di Pusha T, il secondo CD dell’australiana Hatchie e il ritorno dei Bloc Party? Buona lettura!
Fontaines D.C., “Skinty Fia”
Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.
Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.
In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.
In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativ), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.
Voto finale: 8,5.
Jack White, “Fear Of The Dawn”
Il nuovo CD di Jack White, il primo dei due annunciati per il 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.
Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).
“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.
In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.
Voto finale: 8.
Father John Misty, “Chloë And The Next 20th Century”
Il quinto CD di Josh Tillman firmato con il nome d’arte di Father John Misty è una reinvenzione radicale: il cantautore folk rock sbruffone e logorroico che abbiamo imparato a conoscere e amare (oppure disprezzare) negli scorsi anni in CD come “I Love You, Honeybear” (2015) e “Pure Comedy” (2017) lascia il posto ad un narratore che fa degli anni ’50 il suo riferimento. Siamo in piena atmosfera golden age hollywoodiana: big band, swing e jazz sono i tre generi che, inaspettatamente, spesso affiorano nel corso di “Chloë And The Next 20th Century”, si senta Chloë a riguardo per un assaggio.
Ci eravamo lasciati con “God’s Favourite Customer” (2018), un CD più semplice del passato e pensavamo che la parabola di FJM sarebbe proseguita sulla stessa traiettoria; invece, “Chloë And The Next 20th Century” apre prospettiva nuovissime per Tillman. Già il titolo è un tuffo nel passato: cosa intende Tillman con la menzione del ventesimo secolo? In realtà, studiando attentamente i testi e immergendosi nelle atmosfere oniriche del CD, il riferimento è più chiaro. Il futuro, secondo Father John Misty, non esiste; o meglio, meglio non pensarci, visto il drammatico momento storico che stiamo vivendo… quasi come se fossimo ancora nel XX secolo, quello delle due guerre mondiali e di svariate altre tragedie.
La Chloë citata spesso nel corso del lavoro è, in fondo, solo uno dei tanti personaggi dissoluti che abitano le undici canzoni che formano “Chloë And The Next 20th Century”: una starlet del mondo cinematografico, il cui partner precedente è tragicamente deceduto. Ben sei morti arrivano nel corso del CD, di cui una, la più toccante, è quella del gatto del narratore, oggetto della bellissima Goodbye Mr Blue.
Se abbiamo highlights come la citata Goodbye Mr Blue, Funny Girl e Q4, non tutto il resto dell’album gira a meraviglia: ad esempio, Kiss Me (I Loved You) e We Could Be Strangers sono inferiori alla media dei componimenti del lavoro. Tuttavia, l’ambizione di Father John Misty, completamente calato in questa nuova surreale atmosfera, rende anche questi momenti in qualche modo memorabili. Menzione, infine, per Olvidado (Otro Momento), il momento bossa nova (!!) che nessuno si aspettava da Josh Tillman.
“Chloë And The Next 20th Century”, in conclusione, è il meno “tillmaniano” degli LP a firma Father John Misty. I risultati non sono perfetti, ma tengono alta la bandiera del cantautorato più ricercato e creano nuovi, inesplorati spazi per la carriera futura di uno dei più talentuosi musicisti americani della sua generazione.
Voto finale: 8.
Pusha T, “It’s Almost Dry”
Il quarto album solista di Pusha T non aggiunge nulla ad un’estetica ormai ben conosciuta: rime dure, basi potenti, testi molto gangsta rap, ospiti scelti con cura. “It’s Almost Dry”, in questo senso, può essere una delusione per coloro che cercano un disco rap avventuroso e sperimentale; ma, del resto, chi ascolta King Push con queste idee in testa al giorno d’oggi?
Il CD segue “Daytona” (2018), da molti riconosciuto come il miglior lavoro a firma Pusha T dai tempi dei Clipse, il duo formato col fratello No Malice con cui si è fatto conoscere nei primi anni ’00. Le sette canzoni, prodotte da Kanye West, erano tanto dure quanto irresistibili; in questo “It’s Almost Dry” è più variegato, potendo contare anche sulla collaborazione di Pharrell Williams, JAY-Z e Kid Cudi tra gli altri, oltre all’amico Kanye.
I risultati, pur leggermente inferiori, sono comunque buoni e paragonabili a “Daytona”, specialmente nei momenti migliori: ad esempio la doppietta iniziale formata da Brambleton e Let The Smokers Shine The Coupes, così come Diet Coke e Neck & Wrist, sono tracce di ottima fattura. Invece inferiori alla media Rock N Roll e Scrape It Off, ma complessivamente i 35 minuti di “It’s Almost Dry” scorrono bene e il CD mostra una coesione e una compattezza non facili da trovare in molti lavori hip hop recenti.
Liricamente, prima accennavamo al fatto che Pusha T sa essere tanto sincero quanto feroce nelle sue canzoni: molti ricorderanno il suo diss con Drake, concluso con la stratosferica The Story Of Adidon. Ebbene, in “It’s Almost Dry” il bersaglio del Nostro è l’ex manager dei Clipse, Anthony Gonzalez, che è stato condannato a otto anni in carcere per aver gestito un cartello della droga da 20 milioni di dollari. In un’intervista del 2020 Gonzalez dichiarò: “il 95% dei brani dei Clipse parlavano della mia vita”. A tal proposito, il verso più potente è racchiuso in Let The Smokers Shine The Coupes: “If I never sold dope for you, then you’re 95 percent of who?”.
In generale, pertanto, “It’s Almost Dry” è un buon CD hip hop vecchio stampo. Il 44enne Pusha T dimostra ancora una volta la propria, pregiata stoffa: non staremo parlando del suo miglior lavoro, ma certamente questo disco merita almeno un ascolto.
Voto finale: 7,5.
Red Hot Chili Peppers, “Unlimited Love”
Sedici anni dopo “Stadium Arcadium”, John Frusciante è tornato nel gruppo. I Red Hot Chili Peppers, al loro dodicesimo album di inediti, ritornano quasi naturalmente alle atmosfere dei primi anni ’00: i risultati non saranno radicali come ai loro esordi o semi-perfetti come ai tempi di “Californication” (1998), ma “Unlimited Love” migliora i risultati degli ultimi lavori del complesso e allunga, chissà per quanto, la gloriosa storia del gruppo californiano.
Pur troppo lungo di almeno 10-12 minuti, con canzoni evitabili come The Great Apes e One Way Traffic, il CD suona bene, organicamente, nel modo in cui ormai siamo abituati che suoni un disco dei Red Hot Chili Peppers: alternativo ma non troppo, con tre grandi musicisti (il batterista Chad Smith, il bassista Flea e John Frusciante alla chitarra) ad accompagnare i deliri di Anthony Kiedis. In più, vi sono perle pop come Not The One, che ricorda (pur con risultati peggiori) la grande hit Snow (Hey Oh) del 2006.
Il pezzo migliore è il primo singolo utilizzato per promuovere il CD, la brillante Black Summer, ma non trascuriamo Here Ever After e Aquatic Mouth Dance (quest’ultima con testo ai limiti dell’assurdo). Non male anche It’s Only Natural. Invece deludono le già menzionate The Great Apes e One Way Traffic, ma anche Whatchu Thinkin’ non è all’altezza.
L’aspetto lirico di “Unlimited Love” è problematico, ma allo stesso tempo semplice: Frusciante e co. non sono mai stati grandi autori, semplicemente non è di loro interesse. Nel corso delle 17 canzoni che compongono il CD abbiamo: un’invettiva sul traffico (One Way Traffic), la descrizione della cosiddetta “aquatic mouth dance” nell’omonima canzone, Kiedis che intona il seguente verso: “Please, love, can I have a taste? I just wanna lick your face” (She’s A Lover). No, non siamo di fronte a Bob Dylan.
In conclusione, “Unlimited Love” è un LP che piacerà molto a chi è fan (o lo è stato in passato) dei RHCP: i quattro californiani non hanno perso nulla della loro irriverenza e voglia di far ballare il pubblico. Chi si aspettava novità nel sound della band farà meglio a passare la prossima volta: pare che la band abbia già pronta un’altra raccolta di inediti. Di certo possiamo dire che “Unlimited Love” supera in qualità sia “I’m With You” (2011) che “The Getaway” (2016), i due CD incisi con Josh Klinghoffer in mancanza del leggendario John Frusciante. L’assenza di quest’ultimo è stata profondamente avvertita, ma godiamoci questo momento di pace, con la band al completo: potrebbe non durare.
Voto finale: 7,5.
Hatchie, “Giving The World Away”
Il secondo album della giovane cantante dream pop australiana migliora molti aspetti rispetto all’acerbo esordio “Keepsake” del 2019, cercando una maggiore varietà sia nei testi che nell’offerta artistica. Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma “Giving The World Away” apre opzioni interessanti per Hatchie.
Avevamo recensito “Keepsake” in un profilo della rubrica Rising, scrivendo che, pur dimostrando del potenziale, Hatchie aveva ancora da percorrere molta strada prima di affermarsi definitivamente. Tre anni dopo, con in mezzo una devastante pandemia, Harriette Pillbeam (questo il vero nome di Hatchie) ha composto un lavoro che non lavora solamente sui noti terreni dream pop e shoegaze, con chiari rimandi agli anni ’90, ma cerca di esplorare anche terreni nuovi come la dance (Quicksand) e il pop zuccheroso da classifica (Take My Hand).
L’inizio è folgorante: Lights On e This Enchanted rappresentano due ottimi brani, pur avendo il primo chiari rimandi al passato e il secondo essendo un pezzo shoegaze probabilmente già composto meglio dagli Slowdive ai tempi di “Souvlaki” (1993). Purtroppo, arrivano poi due episodi molto deboli, le prevedibili Twin e Take My Hand. Un po’ tutto il CD ha queste montagne russe in termini di qualità, circostanza che influenza negativamente i risultati complessivi. Più avanti nella tracklist abbiamo, ad esempio, la monotona title track accostata alla buona The Key.
In termini lirici, se in “Keepsake” eravamo di fronte ad un breakup album piuttosto convenzionale, in “Giving The World Away” emergono le conseguenze che i lockdown pandemici hanno avuto sulla psiche dell’australiana: Pillbeam, infatti, ha addirittura messo in discussione il suo futuro nel mondo della musica. Nel singolo Quicksand, ad esempio, Hatchie dichiara sconsolata: “I used to think that this was something I could die for. I hate admitting to myself that I was never sure”. In The Key sentiamo invece: “Lost sight of who I’m supposed to be, but within the chaos I can see I’m not me”. Sunday Song probabilmente contiene i versi più malinconici: “Sick of waiting for something heaven sent… Can’t you see all that I see in you?”.
In conclusione, “Giving The World Away” mantiene Hatchie nel percorso intrapreso in “Keepsake”, cercando allo stesso tempo di innovare il sound della cantante australiana. Il CD rappresenta sicuramente un progresso e ci fa pensare che il meglio debba ancora venire nella carriera di Harriette Pillbeam.
Voto finale: 7,5.
Spiritualized, “Everything Was Beautiful”
Il nuovo disco della band capitanata da Jason Pierce aka J. Spaceman prosegue il percorso nel genere space rock intrapreso fin da inizio carriera, inserendo allo stesso tempo dei rimandi blues innovativi, ma non sempre centrati. I risultati non saranno i migliori di una carriera che ha visto in passato dei capolavori come “Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space” (1997), ma dimostrano che siamo di fronte ad una band viva e pronta a sfidare le proprie convenzioni.
“Everything Was Beautiful” segue “And Nothing Hurt” (2018) e completa una celebre frase di Kurt Vonnegut, anche se invertendone le due parti. Il precedente CD era stato annunciato come l’ultimo della band britannica, ma la presenza di “Everything Was Beautiful” non va presa come un mero modo di spremere più denaro dai fan. Anzi, vale il contrario: il pubblico affezionato allo space rock più sognante degli Spiritualized sarà deluso da parentesi molto à la Rolling Stones come Best Thing You Never Had (The D Song), un pezzo puramente blues. Lo stesso dicasi per The A Song (Laid In Your Arms), a dire il vero il momento più debole del lotto.
In generale, comunque, i 44 minuti del lavoro scorrono agilmente e il CD merita più di un ascolto per essere analizzato con la dovuta attenzione. Rispetto a “And Nothing Hurt”, il lavoro è decisamente più vario, ma non migliore: semplicemente, Pierce e compagni stavolta hanno voluto sperimentare, con risultati alterni.
Se infatti Let It Bleed (For Iggy) è buona, delude la già citata The A Song (Laid In Your Arms). Highlight del disco resta l’introduttiva Always Together With You, uno dei migliori brani della produzione recente degli Spiritualized. Buona anche la dolce Crazy.
In conclusione, non tutto di “Everything Was Beautiful” convince appieno, però gli Spiritualized si dimostrano ancora nel pieno delle forze, pur con trent’anni di carriera alle spalle (!). Già questa è una ottima notizia.
Voto finale: 7.
Kurt Vile, “(watch my moves)”
Arrivato quattro anni dopo “Bottle It In”, il nuovo CD del cantautore americano Kurt Vile riprende da dove lo avevamo lasciato: folk rock di qualità, rilassante e mai troppo eccentrico. Gli amanti del cantautorato vecchia maniera troveranno pane per i loro denti; gli altri, beh, magari non lo gradiranno appieno, ma “(watch my moves)” merita almeno un ascolto.
A dire il vero “Bottle It In” (2018) non è l’ultimo lavoro a firma Kurt Vile prima di questo: il breve EP di cover “Speed, Sound, Lonely KV” (2020) era parso un omaggio ai fan durante il lockdown, ma non per questo era da ignorare. “(watch my moves)” è un LP lungo e denso (73 minuti per 15 canzoni complessive), con durate dei brani molto varie, dai due minuti scarsi a oltre sette, senza contare (shiny things), brevissimo intermezzo di 58 secondi. Tuttavia, il mood generale del disco è piuttosto uniforme, un plus ma anche un minus, soprattutto sulla lunga distanza.
Ad ogni modo, Kurt piazza comunque due ottimi brani, Mount Airy Hill (Way Gone) e Jesus On A Wire (che vanta la collaborazione di Cate Le Bon) sono infatti gli highlights assoluti del lavoro. Menzioniamo poi Wages Of Sin, canzone poco conosciuta di Bruce Springsteen la cui cover è presente nella parte finale della tracklist di “(watch my moves)”. Invece l’iniziale Goin On A Plane Today e Kurt Runner sono un po’ monotone, ma sono da mettere in conto in un album di Vile, così come i testi surreali.
A questo proposito, menzioniamo i due versi più significativi: “Thoughts become pictures become movies in my mind, welcome to the KV horror drive in movie marathon… But I’m just kidding and I’m just playing” (Like Exploding Stones); “Even if I’m wrong, gonna sing-a-my song till the ass crack o’ dawn… And it’s probably gonna be another long song” (Fo Sho). Non è mai chiaro se prendere seriamente o meno le dichiarazioni del Nostro, ma la sua sottile ironia mischiata con le acute osservazioni sul presente lo rendono un narratore magari inaffidabile, ma godibile.
In conclusione, “(watch my moves)” non aggiunge nulla di significativo ad una discografia che si conferma solida: magari non saremo ai livelli degli ottimi CD dei primi anni ’10 “Smoke Ring For My Halo” (2011) e “Wakin’ On A Pretty Daze” (2013), ma anche quest’ultimo disco non lascerà l’amaro in bocca ai fan di Kurt Vile. Se cercate innovazione o rock sperimentale, passate oltre.
Voto finale: 7.
Vince Staples, “RAMONA PARK BROKE MY HEART”
Il quinto lavoro del rapper californiano è stato composto durante le stesse sessioni che avevano portato a “Vince Staples” del 2021. Le aspettative erano ambivalenti: da un lato, da uno del talento di Staples è sempre lecito aspettarsi un lavoro di qualità. Dall’altro, però, “Vince Staples” era stato visto da molti (compresi noi di A-Rock) come il CD più debole della sua produzione; pertanto, un disco “gemello” non avrebbe aggiunto nulla ad una carriera che pareva in leggera flessione.
“RAMONA PARK BROKE MY HEART” prosegue in parte il percorso intrapreso nel precedente lavoro, ma riesce a migliorarne alcuni aspetti. Ad esempio, la voce annoiata di Vince rimane, quasi come se lui volesse staccarsi dalle storie drammatiche che vengono narrate nel corso delle sedici canzoni che compongono il CD. Allo stesso tempo, però, le basi sono più variegate e vive, rendendo il lavoro complessivamente più gradevole e digeribile. Menzione per i pochi, ma azzeccati ospiti presenti nel corso del lavoro: Mustard, Lil Baby e Ty Dolla $ign contribuiscono a rendere le canzoni in cui sono presenti più imprevedibili, basti citare EAST POINT PRAYER (con Lil Baby) e LEMONADE (con Ty Dolla $ign).
Gli highlights del lavoro sono ROSE STREET e WHEN SPARKS FLY, mentre deludono gli intermezzi NAMELESS e THE SPIRIT OF MONSTER KODY. In generale, “RAMONA PARK BROKE MY HEART” si staglia come un album con uno sguardo sul passato, soprattutto sulle drammatiche traversie passate dal Nostro nel corso della sua ancora giovane vita. Ad esempio, in WHEN SPARKS FLY Vince dichiara: “I’m ashamed to say I think I hate you now… ‘cause I can’t save you now”. Altrove il tono è meno malinconico, anzi quasi orgoglioso: “It’s handshakes and hugs when I come around” (MAGIC).
Sia chiaro, i tempi gloriosi dell’esordio “Summertime ‘06” (2015) oppure dello sperimentale “Big Fish Theory” (2017) sono purtroppo lontani; tuttavia, “RAMONA PARK BROKE MY HEART” recupera un po’ del mordente che aveva reso il nome Vince Staples uno dei più caldi del panorama hip hop americano nello scorso decennio. Non si tratta di un capolavoro, però speriamo che la ripartenza sia dietro l’angolo per Staples.
Voto finale: 7.
Bloc Party, “Alpha Games”
I Bloc Party mancavano dalle scene da ben sei anni: al 2016 risale infatti “Hymns”, il disco che all’epoca definimmo come un deciso cambio di passo, ma nella direzione sbagliata. Mischiando gospel con melodie elettroniche, il CD era un fiasco su più o meno tutta la linea, facendo rimpiangere non solo i tempi del fondamentale “Silent Alarm” (2005), ma anche di “A Weekend In The City” (2007).
“Alpha Games” ritorna alle sonorità indie rock che hanno fatto la fortuna del gruppo britannico, un po’ quanto tentato da “Four” (2012): anche in questa occasione, tuttavia, l’energia dei tempi migliori non è presente nella maggior parte dei brani. Abbiamo momenti interessanti come l’iniziale Day Drinker, in cui il cantato di Kele Okereke rasenta l’hip hop, oppure la buona Traps. Accanto a questi troviamo però Rough Justice e By Any Means Necessary, che sembrano b-side dei tempi d’oro del gruppo. Peccato poi che Callum Is A Snake, con potente base punk, duri solo due minuti.
Il maggior problema di “Alpha Games” è che pare estratto da un anno a caso tra il 2001 e il 2007: i Bloc Party, malgrado i cambi di formazione avvenuti nel corso degli anni, che hanno portato Gordon Moakes (basso) e Matt Tong (batteria) ad essere rimpiazzati, con perdite, da Justin Harris e Louise Bartle, sono tornati alla fine alle sonorità delle origini, ovviamente con minor impatto e ispirazione.
Pur rappresentando quindi un progresso rispetto ad “Hymns”, “Alpha Games” resta un lavoro mediocre, in cui i Bloc Party si aggrappano a quello che sanno fare meglio (un indie rock sbarazzino e ballabile) con disperazione, forse sapendo che mai torneranno alla miracolosa creatività che ha reso “Silent Alarm” un disco fondamentale degli anni ’00.
Voto finale: 6.