“Nevermind” a 30 anni: il capolavoro del grunge

Nirvana

Tutti abbiamo in mente l’iconica copertina. Tutti o quasi abbiamo sentito almeno un estratto da “Nevermind”: più probabilmente Smells Like Teen Spirit, ma forse anche Lithium e Come As You Are. Molti conoscono il CD a memoria, altri (pochi purtroppo) hanno addirittura avuto la possibilità di vedere live i Nirvana in tutta la loro fierezza. Trent’anni fa, in poche parole, usciva un album destinato a cambiare la storia del rock e la vita di molte persone.

Kurt Cobain e compagni venivano dal discreto successo dell’album di esordio “Bleach” (1989) e cercavano un modo per emergere nella scena punk e hardcore di Seattle. In quegli anni stava nascendo un nuovo movimento nel rock: vicino al punk, con parti di pura ferocia, ma con ganci pop indelebili nei momenti più melodici. Ebbene, stava nascendo il grunge: camicie di flanella, capelli lunghi, aria finta trasandata e chitarra in spalla, molti giovani avevano trovato uno sfogo al nichilismo e al pessimismo nel rock pesante, ma mai menefreghista nei confronti del pubblico. Beh, i Nirvana arrivarono a incarnare nel mondo intero l’ideale del grunge grazie ad un solo, portentoso disco: “Nevermind”, anno di grazia 1991.

Nevermind

Non si deve pensare che il CD sia stato composto in un baleno da tre ragazzi appassionati di rock e punk: come le varie ristampe hanno dimostrato, i demo e le bozze del disco avevano un aspetto drammaticamente diverso dal prodotto finale. I risultati di tale duro lavoro sono sotto gli occhi di tutti: assunto da poco uno sconosciuto batterista, la futura leggenda Dave Grohl, Cobain e Novoselic (rispettivamente voce e chitarra il primo, basso il secondo) cominciarono a cercare di comporre un punk meno abrasivo di “Bleach”. Allo stesso tempo, i segnali di uno stress eccessivo del carismatico frontman erano sotto gli occhi di tutti: le storie dei suoi abusi di droghe con la compagna Courtney Love avevano portato il cantautore sull’orlo della morte varie volte e la vita della band era appesa a un filo.

Il risultato di questa voglia di autodistruzione e del talento sconfinato dei tre Nirvana è “Nevermind”: un LP potente, nichilista, pop, punk, sensibile, drammatico… e l’elenco potrebbe continuare. Ognuno vede qualcosa di diverso in questo disco. Poi, ovviamente, ci sono le canzoni: ad oggi, Smells Like Teen Spirit ha quasi un miliardo di streaming su Spotify. Altre hit indelebili, che anche oggi sono molto celebri, sono Come As You Are, In Bloom e Lithium. Tutte sono accomunate da alcuni tratti: testi poetici e pessimisti, batteria irresistibile, basso eclettico e malleabile, la voce di Kurt in primo piano e sempre appassionata.

La ricetta può apparire semplice, ma nessuno, ripetiamo nessuno, l’ha messa in pratica meglio dei Nirvana negli anni ’90. Il grunge ha avuto altri ottimi esponenti: Soundgarden, Pearl Jam… ma nessuno di loro ha espresso il malessere del proprio animo in modo tanto universale. È anche per questo, forse, che la candela dei Nirvana si è spenta così presto.

Fondati nel 1987, la band si è sciolta nel 1994, appena dopo il suicidio del proprio frontman. In sette anni, i Nirvana hanno composto due EP, tre CD, una raccolta di b-sides e rarità (“Incesticide” del 1992) e più nulla. Il destino del gruppo era inscindibilmente legato a Cobain: la sua tragica fine ha contribuito a rendere il gruppo leggendario, anche mediaticamente. Ma non è tutto fumo e niente arrosto: a parte qualche svista nella seconda parte del lavoro (ad esempio Lounge Act e Stay Away), il CD è tutt’oggi una goduria e la traccia che i Nirvana hanno lasciato nella storia del rock è indelebile.

Oggi, trent’anni dopo, è facile pensare al “chissà cosa sarebbe successo con Kurt ancora fra noi”. Forse il gruppo si sarebbe sciolto, forse sarebbero diventati una band sfiancata come gli ultimi Pearl Jam… discussioni interessanti, ma purtroppo prive di fondamento. La verità è che i Nirvana ci hanno lasciato un’eredità inestimabile, che li ha portati nella Rock and Roll Hall of Fame già nel 2014, primo anno di eleggibilità. “In Utero”, nella sua ferocia e prescienza del futuro di Kurt Cobain, raggiunge vette elevatissime, ma non quanto “Nevermind”, il CD simbolo di un intero movimento. Per quanti altri possiamo dire lo stesso?

Voto finale. 9.

“Loveless”: il miracolo dei My Bloody Valentine

my bloody valentine

A trent’anni dalla sua realizzazione e finalmente disponibile sui servizi di streaming, “Loveless” dei My Bloody Valentine brilla ancora oggi per la sua bellezza e la radicale svolta data al mondo del rock. Andiamo ad analizzarlo insieme.

My Bloody Valentine, “Loveless”

loveless

Nel 1991 i My Bloody Valentine erano una giovane band irlandese pronta a spiccare definitivamente il volo. Il pregevole CD di esordio “Isn’t Anything” (1988) e i successivi EP “Glider” (1990) e “Tremolo” (1991) sembravano aprire la strada ad un nuovo genere nel rock: rumoroso ma anche romantico in certi suoi aspetti, pop nella scrittura ma molto noise nella realizzazione. Era quello che oggi è noto come “shoegaze”, sorgente da cui nasceranno band come Slowdive, Lush oltre che i primi vagiti del britpop.

Non che lo shoegaze fosse completamente sconosciuto: già alcuni gruppi si erano affacciati sul panorama musicale con chiare intenzioni che guardavano in quella direzione (i Ride su tutti), ma nessuno col talento dei MBV e la sostanziale perfezione di “Loveless”. La schitarrata iniziale di Only Shallow ancora oggi dà i brividi, così come la storia d’amore narrata in When You Sleep fa ancora commuovere malgrado sia narrata su un muro invalicabile di chitarre.

Ma in cosa esattamente si sostanzia lo shoegaze e in cosa si differenzia rispetto alle altre correnti del rock? “Loveless”, essendo la vetta creativa di un intero movimento, ne è anche simbolicamente l’emblema. Chitarre fortissime, basso pressoché impercettibile, batteria fondamentale per tenere il ritmo, voci spesso scarsamente intelligibili e androgine, testi evanescenti… Insomma, un qualcosa di totalmente diverso da quello che la scena era solita apprezzare all’epoca: basti ricordare che solo sei settimane prima di “Loveless” veniva pubblicato “Nevermind” dei Nirvana, unanimemente riconosciuto come manifesto dell’intero decennio e agli antipodi musicalmente.

A colpire ancora oggi del CD è lo stato di quasi ipnosi che genera nel pubblico: ogni ascolto rivela nuovi preziosi dettagli e i 48 minuti del disco potrebbero anche passare per una singola suite piuttosto che un insieme di canzoni, strumentali o meno. “Loveless” è anche uno dei pochi LP in cui anche gli intermezzi hanno una funzione rilevante: Touched ad esempio, pur essendo lungo solo 57 secondi, fa da ponte perfettamente tra prima parte e capitolo centrale. Gli highlights immortali, tuttavia, sono altri.

Only Shallow e When You Sleep sono i brani giustamente più famosi del CD e dell’intera produzione della band capitanata da Kevin Shields. Non per questo devono passare in secondo piano la soffice Sometimes e la chiusura raffinata di Soon; ma in realtà tutti i brani si intrecciano con gli altri in maniera praticamente impeccabile.

Dare un seguito a questo capolavoro si rivelò compito insormontabile per lunghi anni per i My Bloody Valentine: “m b v” arrivò solo nel 2013! Il celebre perfezionismo di Shields si rivelò una zavorra, ma anche un modo di produrre sempre CD apprezzatissimi. Si parla di due lavori imminenti per la band irlandese: vedremo se questa volta il gruppo manterrà la parola data. Intanto godiamoci finalmente i lavori precedenti sui servizi di streaming: “Loveless” non invecchia mai, anzi come il miglior vino acquista spessore ogni anno che passa.

Voto finale: 10.

Alla scoperta dei Daft Punk

Daft Punk

Poco più di un mese fa il mondo della musica era sconvolto dalla pubblicazione di Epilogue, in cui i Daft Punk annunciavano, in maniera piuttosto evocativa, il proprio scioglimento. Dopo 28 anni di onorata carriera, i due robot più famosi della musica elettronica francese hanno detto basta: un annuncio che ha gettato nello sconforto molti fans, noi di A-Rock compresi. Per onorarne la memoria e per analizzare la ricorrenza del ventennale del loro CD più emblematico, “Discovery” (2001), dedichiamo al lavoro un necessario approfondimento.

Daft Punk, “Discovery”

discovery

I francesi venivano dal buon successo riscontrato dal loro album d’esordio, “Homework” (1997), in cui avevano già piazzato alcuni dei loro brani più iconici, da Da Funk ad Around The World. Era quindi grande l’attesa per il suo erede, contando che “Homework” era comunque ancora un CD acerbo pur con picchi di talento innegabili.

“Discovery” è un concept album, come dice il titolo, sulla scoperta: Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter (i due Daft Punk) ricordano il loro senso di stupore di fronte ai film dell’infanzia e trasportano questo sentimento in molte delle canzoni più belle del disco, come Digital Love e One More Time. L’amore per la musica è poi uno dei temi portanti del lavoro: tutto il lavoro è una magnifica fusione fra l’elettronica tipica del marchio Daft Punk con altri generi, dall’R&B al prog rock alla house, con tocchi di Giorgio Moroder e Aphex Twin.

Sono però le canzoni, sia prese singolarmente che nell’insieme, che formano un prodotto pressoché impeccabile. La quaterna iniziale formata da One More Time, Aerodynamic, Digital Love e Harder Faster Better Stronger è ad oggi una delle più belle entrée di qualsiasi disco di musica leggera mai pubblicato. Crescendolls ha una progressione irresistibile anche oggi in qualsiasi discoteca; Veridis Quo è una perla di elegante musica elettronica.

Anche i brani minori, o comunque meno conosciuti, non passano inosservati: Nightvision è un intermezzo raffinatissimo, Face To Face è probabilmente il singolo più sottovalutato da molti… Solo forse Superheroes e Short Circuit sono eccessivamente cariche di adrenalina, ma non rovinano un quadro generale clamoroso per originalità e coesione.

I Daft Punk hanno successivamente pubblicato (i maligni dicono solo per terminare il contratto con la Virgin) il loro lavoro più debole, “Human After All” (2005), che pareva segnare la parola fine per il duo francese. Invece un paio di anni dopo Kanye West li ha resi molto noti anche in America, prendendo un campione dalla loro Harder Faster Better Stronger per farne il nucleo di Stronger, uno dei suoi maggiori successi. È poi storia la resurrezione rappresentata da “Random Access Memories” (2013), evento mediatico dell’anno e CD che comprende brani del calibro di Giorgio By Moroder, Get Lucky e Instant Crush.

Ognuno ha il suo LP preferito del duo francese: c’è chi ama il candore e la spontaneità di “Homework”; chi preferisce la magica atmosfera di “Discovery”, chi il parco ospiti sterminato e la musica anni ’70 di “Random Access Memories”… Ad A-Rock in effetti forse preferiamo proprio quest’ultimo lavoro, ma la lotta è sul filo di lana: “Discovery” è davvero un lavoro curato in ogni minimo particolare, ricco di invenzioni e con replay value infinito, consigliato ad ogni amante della musica elettronica e designato da molti come pilastro cruciale per capire gli sviluppi successivi del genere.

Il video-epilogo potrà essere amaro, ma ci ha fatto capire una volta di più il terremoto che l’arrivo dei Daft Punk ha avuto sulla scena elettronica mondiale e, più in generale, sul mondo del pop. Lo avremmo mai detto 28 anni fa che due giovani francesini chiamati sprezzantemente dalla stampa specializzata “un gruppetto di stupidi teppisti” avrebbero fatto tanta strada nel mondo della musica?

Voto finale: 9.

Quando il rock inglese dominava il mondo

Oggi è tempo di anniversari importanti: nel 1995 veniva pubblicato “(What’s The Story) Morning Glory?” degli Oasis e nel 2000 il capolavoro dei Radiohead “Kid A”. Entrambi, per motivi diversi, hanno segnato la loro epoca grazie a grandi successi di vendita, ma soprattutto per aver lasciato un’impronta indelebile nella storia del rock, che ancora oggi li riconosce come classici indisputabili del rock britannico. Ma andiamo con ordine.

Oasis, “(What’s The Story) Morning Glory?”

morning glory

Il secondo, trionfale CD della band originaria di Manchester è il punto più alto del britpop, il movimento nato ad inizio anni ’90 che avrebbe reso popolare il concetto di “Cool Britannia” grazie al successo di complessi come Blur, Verve e, appunto, Oasis. Se “Definitely Maybe” (1994) già aveva fatto intuire la stoffa pregiata di cui erano formati gli Oasis grazie a brani come Supersonic, Live Forever e Slide Away, “(What’s The Story) Morning Glory?” li portò nell’Olimpo del rock, troneggiando a lungo nella lista degli album più venduti e facendo vincere ai fratelli Gallagher la “guerra delle band” contro i Blur a mani basse.

Il paradosso è che la prima battaglia dello scontro feroce con la band di Damon Albarn era stato vinta proprio da quest’ultima: Country House, grande hit dei Blur, aveva surclassato Roll With It come singolo più ascoltato del momento. Pareva quindi che “The Great Escape” avrebbe stravinto la battaglia contro “(What’s The Story) Morning Glory”, ma gli Oasis avevano in realtà compiuto una mossa intelligente in retrospettiva: scegliere come primo singolo uno dei brani più deboli del disco. Se contiamo infatti che i successivi furono Wonderwall, Some Might Say, Champagne Supernova e Don’t Look Back In Anger, beh Roll With It scompare al loro confronto.

L’abbondanza di canzoni immortali e ascoltatissime ancora oggi rischia tuttavia di fare ombra a pezzi che sarebbero vette nella produzione del 90% delle band del tempo: la malinconica Cast No Shadow (dedicata da Noel a Richard Ashcroft, amico e frontman dei Verve) e la martellante Hey Now sono anelli fondamentali di una catena indistruttibile di successi. Gli unici pezzi sotto media sono proprio Roll With It e l’eccessivamente beatlesiana She’s Electric; il CD tuttavia non viene intaccato da questi episodi, rimanendo imprescindibile per gli amanti del pop-rock.

È un fatto che poi in futuro gli Oasis non siano mai nemmeno lontanamente andati vicini ai risultati incredibili di “(What’s The Story) Morning Glory”, ciò nondimeno non deve far passare in secondo piano che, nei loro primi anni di esistenza, gli inglesi capitanati da Liam e Noel Gallagher siano stati in grado di tenere testa agli americani Nirvana come band rock più famosa al mondo. Entrambe sono finite in modo drammatico, l’una con la morte del proprio frontman e l’altra fra liti infinite tra i due fratelli Gallagher. L’impatto di Nirvana e Oasis però resta vivo ancora oggi: se in un caso la discografia è impeccabile in ogni suo aspetto (Nirvana), gli Oasis hanno invece zoppicato soprattutto nella seconda parte di carriera. Ma chi si permetterebbe di dire che “(What’s The Story) Morning Glory?” è un CD mal riuscito?

Voto finale: 9,5.

Radiohead, “Kid A”

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I Radiohead arrivavano dall’incredibile successo di critica e pubblico per “OK Computer” (1997), il CD che li aveva catapultati sulla bocca di tutti come i salvatori del rock inglese. Dare un seguito a un disco così profetico (soprattutto oggi) sul rapporto fra uomo e macchine e contenente brani fondamentali come Paranoid Android e Karma Police era un’impresa titanica, che spinse il gruppo di Thom Yorke a cercare risposte audaci e ben poco convenzionali.

Chi ascolta “Kid A” per la prima volta dopo aver amato “OK Computer” rimarrà frastornato: dove sono le schitarrate di Jonny Greenwood? Che fine ha fatto la batteria? E come mai pare un CD di Aphex Twin piuttosto che un lavoro rock? Le domande sono tutte legittime, ma le risposte denotano una volta di più la grandezza dei Radiohead. I Nostri, forse spaventati dall’enorme popolarità dei precedenti loro lavori e vogliosi di sperimentare, cominciarono ad ascoltare i CD jazz ed elettronici che avevano fatto la storia dei due generi: da “Bitches Brew” di Miles Davis ai lavori degli Autechre, passando per assaggi di Can e Tom Waits.

I risultati furono stupefacenti: se “OK Computer” già aveva abbandonato le atmosfere quasi britpop di “The Bends” (1995) in favore di testi criptici e canzoni ben più dark, “Kid A” induce alla follia. Sintetizzatori in primo piano, la voce di Thom Yorke più angosciata che mai, testi sull’alienazione e su come sparire del tutto (How To Disappear Completely), pezzi completamente dance (Idioteque), assoli di sax (The National Anthem), intervalli ambient à la Brian Eno (Treefingers)… Insomma, un’esperienza sonora indimenticabile.

In tutto ciò ci siamo scordati di menzionare i brani probabilmente più iconici dell’intero LP: l’iniziale Everything In Its Right Place e la title track sono pezzi stratosferici, misteriosi e però allo stesso tempo accessibili, sperimentali e avanguardisti. Non dimentichiamoci poi la traccia fintamente ottimista intitolata per l’appunto Optimistic e Morning Bell, che conduce il CD all’ultimo tratto in maniera superba.

I Radiohead ottennero ancora più riconoscimenti, con “Kid A” che vinse un Grammy per miglior disco di musica alternativa e venne incoronato miglior CD della decade 2000-2009 da pubblicazioni prestigiose come Rolling Stone e Pitchfork. La missione di autodistruzione lanciata da Thom York e compagni era pertanto fallita, aprendo anzi la strada a band come The xx e Grizzly Bear così come sul versante più rock a Muse e Coldplay, che riempirono il vuoto lasciato dai Radiohead.

In una decade che ha visto l’attentato alle Torri Gemelle, due guerre catastrofiche lanciate dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la crisi economica più grave dal 1929, eventi che ancora oggi hanno conseguenze sulle nostre vite, “Kid A” è in effetti stato un lavoro profetico. Tuttavia, il tema portante del lavoro, l’alienazione della società moderna, è ancora più pregnante oggi, in pieno Coronavirus e con Internet e i social sempre più pervasivi. Siamo infatti davvero sicuri che Facebook e gli altri social ci abbiano migliorato l’esistenza? Ai posteri l’ardua sentenza; “OK Computer” e “Kid A” restano in ogni caso capisaldi del rock ed hanno consacrato i Radiohead a veri eredi dei Beatles in fatto di voglia di sperimentare in ogni aspetto del rock.

Voto finale: 9,5.

“Heroes”, il capolavoro di David Bowie

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Una foto di David Bowie risalente al periodo berlinese.

Siamo nel 1977: David Bowie si è trasferito a Berlino per sfuggire all’autodistruzione del periodo americano, dove (parole sue) andava avanti nutrendosi di latte, peperoncini e… cocaina. Insomma, una dieta piuttosto dannosa per il fisico di qualsiasi essere umano. Ma non, musicalmente parlando, per il Duca Bianco: in America compose album ormai cult come “Young Americans” (1975) e il magnifico “Station To Station” (1976).

Dopo il tour seguito a quest’ultimo lavoro, Bowie decise dunque di tornare in Europa, ma non in Gran Bretagna, il suo paese natale. Lui, affascinato dalla cultura tedesca (anche da Hitler), pensò che ritrovare pace e serenità proprio nel cuore del continente gli sarebbe servito a rimettersi in sesto e mantenere l’ispirazione febbrile di quegli anni. Lì nacque, con la collaborazione di Brian Eno, il padre della musica ambient, la celeberrima “trilogia berlinese”. Bowie ed Eno collaborarono infatti in tre dei CD più importanti degli anni ’70, vale a dire “Low”, il già citato “Heroes” (entrambi del 1977) e “Lodger” (1979).

David Bowie era all’apice della creatività e della capacità di mescolare generi in maniera ardita come quasi nessuno aveva fatto fino a quel momento: funk, rock, elettronica, soul… Tutto si ritrova perfettamente calato nella trilogia berlinese. Se “Low” è caratterizzato da brani velocissimi nella prima parte e suite elettroniche nella seconda, rigidamente divise, in “Heroes” troviamo le due componenti più equamente distribuite. Perso l’effetto sorpresa della collaborazione con Eno, David stupisce il pubblico e la critica con la chiamata di Robert Fripp, già nei King Crimson. Le sue schitarrate rendono l’album magnifico strumentalmente; la perfetta voce di Bowie fa il resto.

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L’iconica copertina di “Heroes”.

Ma parliamo delle canzoni: gli amanti del rock saranno pienamente soddisfatti da pezzi magnifici come Beauty And The Beast e Joe The Lion. La title track, beh, non ha bisogno di presentazioni: anche chi odia Bowie non può non inchinarsi di fronte alla limpida bellezza di Heroes, un inno per i più sfortunati e per chi non molla mai, nemmeno di fronte alle peggiori avversità. Può di diritto essere eletto miglior canzone rock del decennio.

Gli amanti del Bowie più sperimentale, tuttavia, non possono dirsi delusi: la seconda parte di “Heroes” traccia il percorso per molta della musica elettronica che verrà. Ricordiamo in particolare V-2 Schneider (già nel titolo tributo ai Kraftwerk) e Moss Garden. I 40 minuti del CD sono poi suggellati dall’ammaliante The Secret Life Of Arabia, sottovalutata ma davvero riuscita.

A 40 anni dall’uscita, “Heroes” mantiene intatto il suo fascino: ascoltandolo, si capisce pienamente l’importanza della figura del Duca Bianco per la musica moderna e la perdita subita il 10 gennaio 2016, giorno della sua morte. Il CD si staglia, non a caso, come uno dei capisaldi della discografia bowieana.

Voto finale: 9.

“Pet Sounds”, il CD che cambiò la storia del pop

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Una foto che ritrae i Beach Boys nel 1966, anno della pubblicazione di “Pet Sounds”.

Il 1966 è un anno fondamentale per la musica leggera: accanto al leggendario “Revolver” dei Beatles, in America i Beach Boys davano alle stampe uno dei CD più influenti dell’intera storia della musica: quel “Pet Sounds” che farà da apripista a band del calibro di Pulp e Blur, oltre alla produzione più barocca di Arcade Fire e Sufjan Stevens.

All’epoca, i Beach Boys erano apprezzati dal pubblico soprattutto per “canzonette” come Surfin’ USA e Barbara Ann, perfetti brani pop ma, insomma, un po’ leggerini, sia per la parte puramente musicale che per le tematiche trattate nei testi. Ebbene, con “Pet Sounds”, undicesimo album del complesso californiano, la storia cambia radicalmente.

All’interno dei Beach Boys c’era incertezza su come affrontare la concorrenza delle band più giovani nel genere che li aveva caratterizzati fino a quel momento, quel “surf-pop” che aveva fatto le fortune dei BB: Brian Wilson, leader e mente del gruppo, propendeva per un radicale cambiamento del sound, mentre Mike Love, che rappresentava la parte più conservatrice dei Beach Boys, era contrario. “Pet Sounds” non per nulla è ritenuto da alcuni quasi un lavoro solista di Wilson, che registrò tutte le canzoni e scrisse tutte le liriche da solo per poi passarle agli altri membri della band. Non è un caso che molte canzoni hanno carattere introspettivo, affrontando temi come la fiducia degli altri verso di noi, la fede, la soddisfazione personale e amorosa e così via. Anche la copertina del CD denota un forte cambiamento: mentre prima le covers degli album dei Beach Boys avevano sempre ritratto i cinque membri in atmosfere estive e felici, adesso vediamo una foto di un tipico paesaggio autunnale con addirittura degli animali rappresentati, che richiamano il titolo dell’LP.

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La copertina di “Pet Sounds”.

Musicalmente parlando, “Pet Sounds” rappresenta il progetto più ambizioso mai tentato dai Beach Boys e, in generale, dai musicisti fino a quell’anno: solo “Sgt Pepper’s Lonely Heart Club Band” (1967) dei Beatles saprà arrivare a questi, altissimi, livelli. Wilson, infatti, scatena la propria vena più artistica e barocca, introducendo nel sound semplice e allegro della band complicati arpeggi, strumenti come violini e trombe e creando bellissimi vocalizzi a cui avrebbero partecipato anche gli altri membri del gruppo. I risultati sono straordinari: l’iniziale Wouldn’t It Be Nice ricorda le antiche sonorità “beachboysiane”, ma già da You Still Believe In Me comprendiamo la fortissima cesura col passato orchestrata da Brian Wilson & co. Nessuno dei tredici pezzi di “Pet Sounds” può essere considerato un riempitivo, nemmeno i brevi intermezzi musicali. Altri capolavori sono la rockettara Sloop John B e la conclusiva Caroline, No; ma è il risultato generale che stupisce per coesione sonora e tematica, tanto che alcuni hanno definito “Pet Sounds” il primo concept-album vero e proprio nella storia della musica.

I riconoscimenti si sono sprecati nel corso degli anni successivi per questo magnifico CD: molte riviste musicali lo hanno inserito tra i migliori degli anni ’60 e addirittura della storia del pop, ma tutti sono concordi nel definire “Pet Sounds” uno dei lavori più significativi per le generazioni di musicisti successive. Non a caso, ancora oggi i fans della band californiana sono numerosissimi e, tranne coloro che si fermano all’ascolto superficiale delle “canzonette” di cui parlavamo all’inizio, tutti amano “Pet Sounds”, a tutti gli effetti il capolavoro della carriera dei Beach Boys.

Voto finale: 10.

“Revolver”: l’album che portò i Beatles nell’Olimpo della musica

BEATLES PICTURED IN PHOTO RELEASED BY CAPITOL RECORDS

I Beatles nel 1966, anno della pubblicazione di “Revolver”.

1966: sembra passato chissà quanto tempo! In effetti, di cambiamenti negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo visti molti, alcuni di incalcolabile importanza: progressi tecnologici, invenzioni fondamentali (computer, telefono cellulare)… Anche musicalmente di strada ne è stata fatta parecchia; molto, se non tutto il pop/rock contemporaneo, deriva dai Fab Four.

I Beatles erano già delle celebrità in tutto il mondo: partiti dal comporre canzonette apparentemente ingenue (ma in realtà affascinanti ancora oggi, basti pensare a Love Me Do o Twist And Shout), il quartetto di Liverpool era già arrivato alla settima fatica in studio. Colpisce la continua produzione di singoli e LP da parte dei Beatles: a quei tempi le attese superiori ai due anni significavano quasi sicuramente crisi all’interno del gruppo (anche i Beach Boys, ad esempio, avevano una creatività “torrenziale”). Fatto sta che Paul, John, George e Ringo erano davanti a una svolta nella loro carriera, quella che li avrebbe definitivamente consacrati come dei veri geni musicali.

Con “Rubber Soul” (1965) erano arrivati alla perfezione pop, basti sentire la squisita Michelle o Drive My Car. Con “Revolver”, i Fab Four giungono ad un livello decisamente superiore: in questo CD, ancora oggi pieno di sorprese ad ogni ascolto, troviamo marcate influenze della musica indiana e (addirittura!) tematiche politiche. In Taxman, ad esempio, si critica l’eccessiva imposizione fiscale inglese dell’epoca. Musicalmente, beh, serve almeno un paragrafo a sé stante.

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La copertina di “Revolver”.

Love You To è la più “indianeggiante” delle canzoni e anticipa l’inarrivabile capolavoro del complesso inglese, quel “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) da molti definito “il miglior album di tutti i tempi”. Poi abbiamo le gemme più pop: la celeberrima Yellow Submarine, la super-ottimistica Good Day Sunshine e la bellissima She Said She Said racchiudono l’intera discografia degli Oasis. Eleanor Rigby sembra quasi una canzone da camera, con quegli archi così prominenti: una volta in più il genio compositivo di McCartney viene messo in evidenza. Non male anche la più rockettara Doctor Robert. La conclusiva Tomorrow Never Knows è ancora oggi per certi versi misteriosa: come hanno fatto questi quattro a comporre un pezzo così avanti sui tempi e mantenere un tale successo popolare, cosa che per esempio non successe ai Beach Boys con il pur magnifico “Pet Sounds”? Probabilmente perché il pubblico, anche quello più semplice, non poteva resistere al fascino delle melodie di questi quattro (ok, tre più Ringo) geni musicali.

Ecco perché “Revolver” è ancora oggi un CD fortemente consigliato, uno di quelli davvero cruciali per capire il rock e il pop successivo. Le influenze sugli artisti successivi sono immense: dai Blur ai già citati Oasis, dai Verve ai Pulp… Insomma, tutti (o quasi) hanno dovuto fare i conti con questo capolavoro. Semplicemente, uno degli album più importanti della storia della musica moderna.

Voto finale: 10.

“Is This It” e la rinascita del rock

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Gli Strokes come apparivano nel 2001: giovani e sfrontati.

Siamo nell’estate 2001: a New York è sindaco Rudy Giuliani, il presidente americano è George W. Bush, le Torri Gemelle sono ancora in piedi… Insomma, erano tempi decisamente differenti da quelli odierni. Musicalmente parlando, l’anno precedente aveva visto l’uscita del fondamentale “Kid A” dei Radiohead, destinato a cambiare radicalmente lo scenario musicale. Il rock di una volta (quello dei Velvet Underground e dei Led Zeppelin, tanto per capirsi) pareva ormai morto e sepolto, a causa dell’invasione di elettronica e rock sperimentale, oltre che di imitatori dei Radiohead (vero Coldplay e Muse?); l’hip hop non era ancora inflazionato come adesso.

Cinque ragazzi newyorkesi, di buona famiglia, decisero che le cose non dovevano andare così. Dopo essersi fatti conoscere con il breve EP “The Modern Age” (contenente la omonima celebre canzone), gli Strokes diedero una scossa clamorosa all’indie rock con l’uscita dell’album di esordio “Is This It”, la cui copertina già anticipava alcune delle caratteristiche peculiari della band.

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La celeberrima copertina dell’album.

Foto in bianco e nero di quello che pare il fondoschiena nudo di una donna: l’obiettivo di rifarsi al rock d’antan risultando affascinanti anche per le giovani generazioni, non solo maschili, era evidente. Musicalmente, gli Strokes non inventano nulla di nuovo: il loro è un rock veloce, preciso e tremendamente efficace. I mentori sono Lou Reed, Television e i Ramones più commerciali. La cosa ironica è che il CD, pur sembrando “tirato via”, quasi registrato live, presenta brani pressoché perfetti, incastonati l’uno nell’altro e tutti con testi che descrivono la New York più alternativa (il testo di New York City Cops, ad esempio, prende in giro la polizia di NY).

“Is This It” inoltre contiene alcuni brani iconici, tra i migliori della produzione della band newyorkese: Someday e Last Nite sono magnifiche, Hard To Explain già dal titolo è più seria ma non meno bella. Altre perle sono le conclusive Trying Your Luck e Take It Or Leave It, dove i due chitarristi Albert Hammond Jr e Nick Valensi sono in grande evidenza. Menzione finale per la bella voce del cantante Julian Casablancas, che serve da perfetto contraltare ai toni e ai ritmi delle canzoni della band.

Non è un caso che gli Strokes non siano riusciti a replicare il grande successo di critica e pubblico di “Is This It”: dopo aver cercato di copiarne la formula vincente con il successivo “Room On Fire” (riuscendoci solo in parte), i cinque ragazzi hanno tentato nuove strade, dal pop anni ’80 al rock simil-Talking Heads, con risultati alterni.

Non possiamo non finire citando i motivi che ci spingono ad iniziare questa nuova rubrica proprio con questo LP. Ebbene, avete presente Franz Ferdinand, Bloc Party e Arctic Monkeys? Ecco, forse senza un apripista del livello di “Is This It” non ne avremmo mai sentito parlare. Non un merito da poco. E poi: com’è possibile che a 15 anni dall’uscita suoni ancora così fresco?! Saranno anche stati uomini da “un CD e via”, ma i meriti degli Strokes sono infiniti.

Voto finale: 9.