Rising: Mandy, Indiana & Blondshell

La rubrica di A-Rock che si occupa dei nuovi volti della scena musicale è dedicata oggi ai Mandy, Indiana, un gruppo di origine britannica che suona uno strano connubio di elettronica e rock sperimentale. Accanto ai Mandy, Indiana spazio anche a Blondhsell, un’artista di base a Los Angeles che suona un rock reminiscente dei primi anni ’90.

Mandy, Indiana, “i’ve seen a way”

I've Seen a Way

Tutto è bizzarro nel mondo dei Mandy, Indiana: il gruppo ha origini inglesi, ma il suo nome richiama chiaramente i paesaggi degli Stati Uniti. La frontwoman, Valentine Caulfield, è francese e canta nella sua lingua madre. Tutto fa pensare ad un esperimento surreale e destinato al fallimento, ma in realtà “i’ve seen a way” è un album ostico, abrasivo, ma non sbagliato.

L’inizio peraltro farebbe pensare ad un CD elettronico, ma più di stampo anni ’80: i synth dolci di Love Theme (4K VHS) fanno tornare alla memoria le atmosfere della serie Stranger Things. Anche la successiva Drag [Crashed], seppur maggiormente rock e dura, ha delle tendenze dance non banali.

Sono due dei migliori brani del lavoro e delineano solo in parte l’estetica del gruppo; ad esempio, la brevissima Mosaick è puro rumore bianco. Il noise trionfa anche in 2 Stripe, mentre è più tranquilla Iron Maiden. Altro brano interessante è Peach Fuzz, techno di alto livello.

Se qualcuno desidera informazioni sui testi di “i’ve seen a way”, diciamo che non sono la parte più riuscita del disco: un po’ per l’uso che Caulfield fa della sua voce, un po’ per la presenza del francese che rende tutto più musicale ma meno intelligibile, è spesso difficile capire di cosa parlino le canzoni in tracklist. Tra i versi più evocativi abbiamo l’inquietante “Everything is allowed… Finish off your opponent” (Injury Detail), mentre 2 Stripe contiene un verso più ottimista: “Always remember: there are more of us than them”.

In conclusione, “i’ve seen a way”, come annuncia il titolo, ha trovato un sottile equilibrio tra sperimentalismo e accessibilità, almeno nelle sue parti meno rumorose. Non tutto gira alla perfezione, ma nei suoi momenti migliori il CD è davvero riuscito e inserisce i Mandy, Indiana tra le migliori promesse della scena rock sperimentale d’Oltremanica.

Voto finale: 7,5.

Blondshell, “Blondshell”

Blondshell album

L’esordio di Sabrina Teitelbaum, in arte Blondshell, può suonare nostalgico verso un certo rock anni ’90, a firma Hole e Liz Phair: ragazze sicure di sé, preda di uomini spesso ingombranti (si pensi a Courtney Love e alla sua relazione con Kurt Cobain), desiderose di raccontare le loro esperienze di vita e offrire una prospettiva diversa rispetto a quella maschio-centrica secondo loro prevalente.

“Blondshell” da questo punto di vista non è quindi un album innovativo, ma l’indie rock suonato da Teitelbaum genera un CD coerente e sempre interessante: i 32 minuti di durata evitano qualsiasi effetto filler e rendono l’ascolto organico, con picchi come Kiss City e Salad. Invece, sotto la media del disco resta solo Dangerous.

Liricamente, Blondshell si propone come cantrice dei traumi della crescita e di relazioni sbagliate: “Not in a position to judge, I know with drugs there’s never enough” canta sconsolata in Sober Together. In Olympus rimpiange un amore del passato: “I’d still kill for you”, mentre in Sepsis prende in giro un ex fidanzato (che sia lo stesso di prima?): “He wears a front-facing cap, the sex is almost always bad”. I versi più potenti sono contenuti però in Salad, in cui promette di vendicare l’aggressione subita da un’amica: “She took him to the courthouse and somehow he got off… Then I saw him laughing with his lawyer in the parking lot”.

In conclusione, Sarah Teitelbaum pare incapace di cantare canzoni con un lieto fine, fatto che rende l’ascolto di “Blondshell” a tratti deprimente. Allo stesso tempo, il rock alternativo che permea buona parte del CD suona fuori tempo rispetto all’attuale panorama musicale, dominato da trap e pop, ma molto coerente e ispirato. Blondshell ha un futuro radioso davanti a sé, scommettiamo?

Voto finale: 7,5.

Rising: Yaegi

yaeji

Yaeji.

La rubrica di A-Rock che mantiene alta l’attenzione sulle nuove promesse della scena musicale quest’oggi propone l’esordio su CD di Yaeji, musicista americana di origine coreana. Buona lettura!

Yaeji, “With A Hammer”

with a hammer

Il nome di Yaeji non suonerà completamente nuovo agli osservatori più attenti della scena elettronica. La giovane artista, classe 1993, ha già all’attivo due EP e un mixtape: il suo genere è un interessante ibrido di house e pop, che la rende allo stesso tempo sperimentale e accessibile.

Il CD è stato concepito in un momento complesso per Yaeji: lei stessa ha confessato di aver riversato nel lavoro ricordi d’infanzia a lungo soppressi, analisi delle ragioni alla base del movimento Black Lives Matter e sentimenti di alienazione. “With A Hammer”, già dal titolo e dalla copertina, suona infatti euforico e malinconico, opprimente e invitante.

“With A Hammer” arriva tre anni dopo “WHAT WE DREW” (2020), il mixtape che aveva definitivamente lanciato la carriera della Nostra. I risultati non sono sempre perfetti, ma Yaeji si conferma nome da tenere d’occhio, capace di inserire pezzi ambient (1 Thing To Smash) in una ricetta già consolidata. I migliori brani sono la trascinante Michin e For Granted, mentre sotto la media sono I’ll Remember For Me, I’ll Remember For You e Submerge FM.

In conclusione, “With A Hammer” è un buon LP di musica elettronica, capace di mescolare momenti collegabili a diversi generi (house, ambient e glitch) in maniera coerente. Certo, non tutto è perfetto, ma la base su cui costruire altri momenti di qualità in futuro c’è.

Voto finale: 7,5.

Rising: Shygirl

Nella nuova puntata della rubrica di A-Rock che si occupa degli artisti emergenti ci occupiamo di Shygirl, una giovane produttrice inglese che sta influenzando fortemente la scena elettronica d’Oltremanica.

Shygirl, “Nymph”

Nymph

In un 2022 sempre più affollato di uscite rilevanti, mancava giusto un esordio di musica elettronica ben fatto. Blane Muise (vero nome di Shygirl) è riuscita nella missione: partendo dalle solide basi dell’EP “ALIAS” (2020) ha costruito un CD pieno di tracce ballabili, ma anche influenzate da hip hop (Shlut) e pop (Firefly).

A colpire maggiormente sono due cose: la capacità di Shygirl di creare un prodotto variegato ma allo stesso tempo coerente; e percepire tante influenze diverse (Jamie xx, Arca…) senza però suonare derivativa.

“Nymph” contiene degli innegabili highlight, soprattutto tra le tracce più oscure e meno commerciali: Woe e Come For Me sono un’ottima doppietta, che apre benissimo il lavoro. Sotto media invece la troppo breve Missin U e Nike, ma non intaccano eccessivamente un CD comunque ben costruito.

Liricamente, pur essendo un album di musica prevalentemente elettronica, “Nymph” conferma il candore di Shygirl nel parlare della propria vita privata e dei propri desideri: “Is it so bad to just like to be touched?” chiede in maniera fintamente innocente in Shlut. Altrove abbiamo poi storie di sesso, come evocato nel titolo di Coochie (A Bedtime Story), che contribuiscono a rendere il disco molto sensuale e pronto a sfondare nelle discoteche di mezzo mondo.

In conclusione, “Nymph” presenta sulla scena una futura protagonista della musica elettronica. Molti critici avevano già messo gli occhi su Blane Muise, ma immaginarla capace di creare un LP così coeso e ben strutturato non era scontato. Shygirl si candida ad essere un nome importante della musica del futuro.

Voto finale: 7,5.

Rising: Courting

Courting

I Courting.

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. La nostra attenzione oggi è per i Courting, band originaria di Liverpool che suona un indie rock molto ibrido, con forti influenze post-punk.

Courting, “Guitar Music”

Guitar Music

Rileggendo i profili della presente rubrica, molti sono dedicati alla debordante scena indie/punk inglese: Fontaines D.C., black midi, shame, Black Country, New Road… i Courting logicamente sono in parte riconducibili ad alcune di queste band, tuttavia hanno cercato di suonare più strani ed originali, riuscendoci per buona parte dei 32 minuti di “Guitar Music”.

Il CD inizia infatti con una distesa di white noise, su cui Cosplay / Twin Cities si dispiega: siamo quasi in territorio glitch pop. In Loaded invece il frontman Sean Murphy-O’Neill affronta una strofa addirittura con l’autotune. Altrove abbiamo momenti più tipicamente rock, come la riuscita Tennis e la trascinante Famous. Menzione, infine, per il britpop di Jumper, degno dei Blur, e la lunga cavalcata di Uncanny Valley Forever. Resta un po’ fuori contesto proprio Cosplay / Twin Cities, dimenticabile anche Crass (Redux). Possiamo dire che, rispetto all’EP di esordio “Grand National” (2021), in “Guitar Music” abbiamo un suono più vario, ma proprio per questo anche più inconsistente.

In generale, “Guitar Music” è sicuramente “musica per chitarra”, come da titolo, tuttavia intesa in senso lato. Sia chiaro, non siamo di fronte ad un album rivoluzionario, ma i Courting senza dubbio cercano di rendere più originale una miscela sonora che sta diventando forse un tantino troppo frequentata Oltremanica. Quando avranno capito con precisione che direzione dare alla loro estetica, saremo probabilmente davanti ad un altro ottimo complesso punk rock britannico.

Voto finale: 7,5.

Rising: Jockstrap

Jockstrap

I Jockstrap.

Il nuovo articolo della rubrica Rising si occupa dell’esordio dei Jockstrap, nuovo fenomeno della scena pop britannica più alternativa, che fondono pop, elettronica e sperimentalismo in un insieme davvero unico.

Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

I love you Jennifer B

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva già fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

Voto finale: 8,5.

Rising: Chat Pile

chat pile

I Chat Pile.

L’esordio della band originaria degli Stati Uniti era degno di una puntata delle rubrica Rising, che ad A-Rock rappresenta una sorta di “tagliando” per la qualità di un giovane artista. Ma andiamo con ordine e analizziamo “God’s Country”, uno dei più brutali album rock del 2022.

Chat Pile, “God’s Country”

god's country

I Chat Pile sono un quartetto statunitense, proveniente da uno degli Stati americani più desolati, l’Oklahoma. Tratti peculiari: terra di minatori, città abbandonate, gravi disuguaglianze… insomma, un incubo, secondo quanto descritto dalla band.

“God’s Country” è un CD potente: metal, noise rock e punk si mescolano in molte tracce, grazie ad una base strumentale sempre efficace ed aggressiva e alla voce di Raygun Busch, a volte cupissima e altre espressiva come quella del miglior Trent Reznor.

Abbiamo poi canzoni che parlano di macellerie, ma forse accennano anche alle stragi compiute con sempre maggiore frequenza (Slaughterhouse); inni di protesta contro i crescenti problemi ad avere una casa propria (Why); Pamela, infine, tratta di un padre che, nell’illusione di poter tornare con la moglie, ammazza il proprio figlio. Menzione da questo punto di vista per alcuni versi contenuti nelle tracce che compongono “God’s Country”: “All the blood, all the blood… And the fuckin’ sound, man” (Slaughterhouse); “Broken faces and jamming fingers and goddamn dust in my eyes for the rest of my life” (The Mask); e infine “It’s the sound of a fuckin’ gun, it’s the sound of your world collapsing” (Anywhere).

Insomma, un LP non per deboli di cuore, sia musicalmente che liricamente. I Chat Pile, del resto, non vogliono scrivere canzoni commerciali, malgrado pezzi come Anywhere e Pamela siano, tutto sommato, appetibili anche ad un pubblico non di nicchia. Lo scopo della band, come dichiarato in varie interviste, è in realtà quello di catturare l’ansia e la paura di vedere il mondo che si autodistrugge, a causa dell’attività umana. Menzione, infine, per la folle cavalcata finale di grimace_smoking_weed_jpeg; meno comprensibile, invece, il momento intimista di I Don’t Care If I Burn.

L’estate 2022 è stata, in effetti, un periodo tragico sotto vari punti di vista, non ultimo quello ambientale, che ha fatto capire una volta per tutte i danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla nostra vita di tutti i giorni. “God’s Country”, pur essendo un titolo molto americano, in realtà è riferibile a molti Paesi: i Chat Pile, pur con un sound ancora da raffinare e una rabbia che terrà lontano il pubblico più mainstream, lo hanno capito e hanno composto una colonna sonora terribile, ma proprio per questo azzeccata.

Voto finale: 8.

Rising: Grace Ives & Ethel Cain & Ravyn Lenae

Ritorna, dopo qualche mese di assenza, la rubrica di A-Rock dedicata ai cantanti emergenti. Quest’oggi dedichiamo la nostra attenzione a ben tre figure. Abbiamo Grace Ives, una giovane artista americana che suona un interessante connubio di pop e sonorità elettroniche. Inoltre, recensiremo l’esordio di Ethel Cain, promessa del dream pop. Infine, spazio al primo CD di Ravyn Lenae, portavoce di un R&B sperimentale e imprevedibile. Buona lettura!

Ravyn Lenae, “HYPNOS”

hypnos

L’esordio della giovane cantautrice statunitense arriva dopo numerosi EP preparatori, pubblicati tra 2016 e 2018. Proprio quando sembrava che l’attesa di un suo CD vero e proprio dovesse rimanere per sempre insoluta, ecco comparire “HYPNOS”: un lavoro che mescola R&B anni ’90, neo-soul e tracce più contemporanee, con l’aiuto di artisti come Steve Lacy (Skin Tight) e Smino (3D), oltre alla produzione di Kaytranada (Xtasy).

Parliamo di una ragazza ancora giovanissima, di appena 23 anni, con alle spalle già sei anni di carriera. Ravyn Lenae era infatti un nome da tempo sui taccuini dei critici più esperti di musica black: dotata di un falsetto notevole e di una creatività al tempo stesso ambiziosa e ben ancorata alle radici del genere R&B, Ravyn pareva destinata a diventare una star. “HYPNOS” è ad ogni modo uno dei migliori LP R&B del 2022 fino ad ora e di certo renderà Ravyn Lenae un nome sempre più popolare.

Le influenze a cui Ravyn attinge sono in realtà abbastanza percepibili: Solange Knowles, SZA, Brandy così come il D’Angelo degli anni ’90 sono tutti artisti che vengono alla mente ascoltando “HYPNOS”. Tuttavia, Lenae è brava a sperimentare quel tanto che basta per non suonare eccessivamente derivativa. Prova ne siano Skin Tight e Wish, veri highlight del disco. Buone anche Venom e Inside Out. Inferiori alla media invece Deep In The World e Light Me Up.

Se un appunto si può fare in generale al lavoro, è sulla lunghezza: la tracklist composta da 16 canzoni, di cui tre inferiori ai due minuti, diventa alla lunga ripetitiva. Tuttavia, come già accennato, Ravyn Lenae si conferma nome su cui puntare per il futuro del pop più sofisticato: assieme a “Three Dimensions Deep” di Amber Mark, abbiamo il migliore esordio del 2022 di musica R&B.

Voto finale: 7,5.

Grace Ives, “Janky Star”

janky star

“Janky Star” non è in realtà il vero e proprio esordio di Grace Ives; tuttavia, il suo primo lavoro “2nd” (2019) era passato senza sostanzialmente lasciare traccia. Il sound di Grace, pur già accennato in “2nd”, trova il pieno compimento in questo album, a pieno titolo uno dei “mini CD” più gradevoli del 2022. Nulla di trascendentale, ma alcuni momenti del lavoro sono davvero buoni.

In soli 27 minuti, Grace riesce a toccare un altissimo numero di generi: hyperpop (Loose), pop à la Kero Kero Bonito (Isn’t It Lovely), rock (Shelly)… A volte il profluvio di generi può risultare eccessivo, ma i dieci brani che compongono “Janky Star” mettono in mostra un range notevole e una buona versatilità canora. I migliori brani sono Angel Of Business e Loose, mentre sotto media risultano Back in LA e Win Win. Da menzionare infine la sinuosa Lazy Day, quasi R&B nel suo incedere.

In conclusione, “Janky Star” fa di Grace Ives un nome da tenere d’occhio nello scenario del pop alternativo. Chiaro, non parliamo di Billie Eilish, ma questo lavoro mette in mostra un talento cristallino, che deve solo essere addomesticato nei suoi tratti più eccentrici per produrre un lavoro davvero indimenticabile.

Voto finale: 7.

Ethel Cain, “Preacher’s Daughter”

preacher's daughter

Ethel Cain si era fatta conoscere nel corso del 2021 grazie all’EP “Inbred”, in cui trovavano spazio momenti propriamente pop (Michelle Pfeiffer) accanto ad altri decisamente più oscuri. In generale, le premesse per un buon esordio erano ben presenti; “Preacher’s Daughter” calca la mano su questa estetica un po’ Lana Del Rey (si ascolti Family Tree (Intro) a riguardo), un po’ Taylor Swift (American Teenager), trovando nei suoi momenti migliori dei grandi brani. La lunghezza del CD gioca alla lunga contro Ethel, ma il talento dimostrato è indubitabile.

I 76 minuti di “Preacher’s Daughter”, conditi da numerosi brani di durata superiore ai sei minuti, possono in effetti rappresentare un ostacolo molto probante per l’ascoltatore casuale (Thoroughfare arriva addirittura a nove); tuttavia, ripetute sessioni premiano il pubblico più paziente, grazie a pezzi riusciti come American Teenager e Hard Times. Invece, A House In Nebraska e Gibson Girl sono composizioni eccessivamente lunghe e monotone per impressionare positivamente.

Il titolo del lavoro e molte liriche fanno riferimento all’infanzia di Hayden Silas Anhedönia: colei che sarebbe diventata artisticamente Ethel Cain è stata infatti cresciuta in una severa comunità Battista nel sud degli Stati Uniti. Western Nights, ad esempio, immagina una fuga di Cain e del suo innamorato intrapreso per dimenticare i passati traumi familiari. In generale, pare di assistere ad una tragedia teatrale, in cui Ethel Cain è la protagonista destinata al fallimento: non è un caso che la Nostra avesse inizialmente concepito il lavoro come un epico lavoro della durata di due ore.

In conclusione, l’eccessiva ambizione ha, in certi tratti del disco, giocato contro i pur buoni risultati complessivi di “Preacher’s Daughter”. Ethel Cain resta un nome da tenere d’occhio nella scene dream pop americana: una volta che avrà affinato alcune eccentricità e deciso quale direzione prendere tra divenire una possibile popstar e intraprendere la strada più sperimentale, probabilmente avremo il suo manifesto artistico definitivo.

Voto finale: 7.

Rising: SOUL GLO & Wet Leg

Quest’oggi la rubrica Rising parla di due gruppi: uno punk statunitense, i SOUL GLO, che sta riscrivendo le regole del genere attraverso un aggressivo mix che integra hip hop e metal; e un duo indie rock tutto femminile di origine inglese, le Wet Leg. Buona lettura!

SOUL GLO, “Diaspora Problems”

Diaspora Problems

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

Voto finale: 8,5.

Wet Leg, “Wet Leg”

wet leg album

L’esordio del duo originario dell’Isola di Wight è una ventata di novità nello scenario indie rock d’Oltremanica, salutato da recensioni entusiastiche nella madrepatria, forse troppo (spicca il 10/10 di NME), ma anche negli Stati Uniti (8/10 da parte di Rolling Stone, ad esempio). In sintesi: siamo di fronte ad uno dei CD con maggiore hype degli ultimi tempi. I risultati? Soddisfacenti.

“Wet Leg” contiene innumerevoli citazioni di artisti del passato: I Don’t Wanna Go Out contiene esattamente lo stesso riff di The Man Who Sold The World di David Bowie. Abbiamo poi riferimenti ad Arctic Monkeys, The Strokes, Blur, Pavement, addirittura My Bloody Valentine (la quasi shoegaze Valentine)… insomma, ogni fan dell’indie rock più o meno recente troverà pane per i suoi denti. Aggiungiamo dei testi sbarazzini, quando non completamente nonsense, e il quadro sarà completo.

Una cosa è certa: Rhian Teasdale and Hester Chambers, le due giovanissime che formano le Wet Leg, si divertono molto. Sono anche baciate dal successo, forse in parte imprevisto: nel Regno Unito Chaise Longue, uno dei migliori brani del lotto, è una hit fatta e finita. Buone poi Valentine e Loving You, mentre sotto la media Supermarket e Oh No. Menzione, infine, per Too Late Now, che chiude ottimamente il lavoro.

Dicevamo che liricamente il CD lascia a desiderare: legittimo, considerando che parliamo di due ragazze al loro primo lavoro. Tuttavia, rime come “You’re so woke, Diet Coke” (Oh No) sono davvero evitabili. Altrove emerge invece un occhio molto acuto: esemplare Piece Of Shit, in cui le Wet Leg se la prendono con la mascolinità tossica che ancora oggi troppe volte emerge: “I’m such a slut? Alright, whatever helps you sleep at night”. Infine, menzione per un verso molto giovanilistico, ma non per questo banale: “Are you gonna stay young forever? You said yeah—and I just walk away”, contenuto in I Don’t Wanna Go Out.

In conclusione, “Wet Leg” è un esordio che merita almeno un ascolto: la ricetta di Teasdale e Chambers potrà suonare a tratti troppo derivativa, ma l’energia e la spontaneità dei migliori momenti del lavoro fanno intravedere un notevole talento. Vedremo in futuro se le Wet Leg manterranno queste aspettative o meno: di tempo per farlo ne hanno a volontà.

Voto finale: 7,5.

Rising: caroline

Quest’oggi la rubrica Rising si occupa di un complesso inglese, i caroline, che nel loro primo lavoro di studio hanno inscenato un’ottima miscela di post-rock e folk, che ricorda gli Slint e i The Microphones. Buona lettura!

caroline, “caroline”

Caroline-Caroline

L’esordio dell’ottetto inglese (sì, i caroline sono composti da ben otto membri!) è stato lavorato per ben cinque anni: basti dire che i due singoli di lancio, Dark Blue e Good Morning (Red), sono stati composti nel 2017 a seguito delle elezioni inglesi che da poco si erano svolte. Un lavoro così tormentato poteva portare a risultati troppo elaborati, ma questo non è il caso dei caroline: sebbene i Nostri debbano lavorare per migliorare il sequenziamento delle canzoni, complessivamente “caroline” è un buon lavoro.

Inizialmente inquadrabili nello sterminato germinare di band post-punk d’Oltremanica, col tempo i caroline hanno virato verso atmosfere più eteree, a metà tra post-rock e folk, con tocchi di musica puramente sperimentale. I primi due brani della tracklist, gli ottimi e già menzionati Dark Blue e Good Morning (Red), sono il piatto forte del CD: lunghi ma compiuti, calati nella realtà anche odierna con versi come “Can I be happy in this world? We’ll have to change it, it doesn’t suit us”.

Peccato, come già accennato, che poi i caroline abbiano deciso di mettere un interludio dopo ogni brano vero e proprio: una scelta che rompe il ritmo del lavoro e alla lunga risulta noiosa. Contiamo poi che uno di questi, messen #7, è inutile, mentre zilch è fin troppo sperimentale. Insomma, attenersi ad una tracklist più compatta e meno dispersiva è una lezione da seguire per il futuro del gruppo.

Futuro che, va detto, si preannuncia radioso: se nei prossimi anni i caroline saranno in grado di focalizzarsi solo sui pezzi più promettenti e la qualità sarà la stessa dimostrata nei momenti migliori del CD, avremo di fronte davvero un ottimo disco. Per ora godiamoci questo “caroline”, non perfetto ma sicuramente interessante.

Voto finale: 7,5.

Rising: Yung Kayo & Yeule

Quest’oggi nella rubrica Rising affrontiamo due artisti molto interessanti. Da un lato abbiamo Yung Kayo, giovane rapper protegé di Young Thug; dall’altro Yeule, un volto nuovo nel mondo del pop più d’avanguardia. Buona lettura!

Yeule, “Glitch Princess”

Glitch Princess

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

Voto finale: 8.

Yung Kayo, “DFTK”

dftk

Nell’esordio del giovane rapper, originario di Washington e ora stabilitosi a Los Angeles, accade una cosa che non è comune nel mondo hip hop: nei testi non succede nulla o quasi. Certo, nella trap specialmente abbiamo spesso canzoni che sono inni alle case di moda o alla vita da strada, ma Yung Kayo in questo è ancora più radicale: le basi sono sempre vive, spesso imprevedibili, ma liricamente c’è ancora molto da lavorare.

Questo non è per forza un peccato, a patto che si ascolti “DFTK” unicamente per rilassarsi e divertirsi, non per studiare la visione del mondo di Yung Kayo. In alcuni tratti abbiamo liriche toccanti, ad esempio in no sense (“I had to look at my neck, the chain is so heavy it’s holding me down”) e in believer (“We was supposed to link up, it was supposed to be us”), ma i risultati sono complessivamente mediocri.

Il CD, nella sua brevità (appena 35 minuti), si distanzia ulteriormente dal rap moderno, spesso caratterizzato da durate fuori controllo: circostanza che aiuta il replay value ed evita il filler tipico dei lavori più lunghi. I migliori brani sono le potenti YEET e believer, mentre deludono un po’ le prevedibili freak e over.

In generale, l’estetica di Yung Kayo è riconducibile solo in parte a quella del mentore Young Thug: se è vero che la sua trap è caratterizzata da esperimenti vocali non banali, il tono quasi psichedelico di brani come no sense e down (one kount) ci fa accostare il giovane rapper a Playboy Carti, mentre la trap muscolare di YEET e it’s a monday ricorda Denzel Curry.

In conclusione, “DFTK” è un CD interessante, che ci fa intravedere il talento di Yung Kayo, ma che non appare ancora il lavoro definitivo del rapper statunitense. Aspettiamo la sua prossima prova per farci un’idea più approfondita della questione.

Voto finale: 7,5.