Recap: maggio 2023

Maggio è ormai finito. Un mese interlocutorio, con relativamente poche pubblicazioni di valore, che ha visto le nuove uscite di billy woods & Kenny Segal. Abbiamo poi i nuovi lavori di Paul Simon e Kesha, oltre all’esordio del duo KAYTRAMINÉ, formato da KAYTRANADA e Aminé. Buona lettura!

billy woods & Kenny Segal, “Maps”

maps

Il nuovo album collaborativo tra il rapper billy woods e il produttore Kenny Segal segue “Hiding Places” (2019) e si inserisce nelle estetiche dei due in maniera efficace: beat jazzati e sperimentali, testi duri ed evocativi. Aiutati da ospiti di spessore della scena rap sperimentale (Danny Brown, Quelle Chris ed E L U C I D tra gli altri), woods e Segal hanno pubblicato uno dei migliori CD rap del 2023.

La struttura di “Maps” può risultare frammentata, abbiamo infatti diverse canzoni sotto i due minuti, ma vi sono degli highlights innegabili, da Year Zero (con un grande Danny Brown) a Babylon By Bus, che rendono l’ascolto del CD consigliato per tutti gli amanti dell’hip hop versante East Coast. Gli episodi meno riusciti sono invece Kenwood Speakers e Bad Dreams Are Only Dreams.

Come autore dei testi, billy woods si conferma abilissimo, soprattutto a enunciare in pochi versi concetti duri da accettare: “Delivery fee is ooof” (Rapper Weed), anche se riferito ad una “merce” diversa dal solito, rappresenta un pensiero comune. “I already knew the options was lose-lose. Baby, that’s nothing new… That just make it easier to choose” (The Layover) è invece un riassunto efficace dell’intera filosofia di vita di woods.

Dal canto suo, Segal è molto abile a creare un’atmosfera old style, in cui sample svariati, da Feeling Good a pezzi al sassofono, sono mescolati con tastiere scure, malinconiche. Non parliamo di una rivoluzione nel mondo hip hop, The Alchemist e Madlib sono maestri in questo, ma Segal non ha nulla da invidiare a questi maestri in “Maps”.

In conclusione, “Maps” è un buonissimo CD: billy woods e Kenny Segal si confermano coppia affiatata. Ad oggi, il CD è candidato ad essere eletto miglior lavoro hip hop dell’anno.

Voto finale: 8.

Kesha, “Gag Order”

gag order

Il quinto album della popstar americana è una sorpresa: laddove fino a “High Road” (2020) avevamo canzoni trascinanti, perfette per una festa a forte base alcolica, Kesha lascia decisamente più spazio all’elettronica e allo sperimentalismo, aiutata da collaboratori di tutto rispetto (Rick Rubin, Hudson Mohawke e Kurt Vile tra i più rappresentativi). Siamo di fronte al suo album meno commerciale e più riuscito musicalmente, ma sono le liriche a colpire nel profondo.

Sono decisamente lontani i tempi di Tik Tok, ma anche il country-pop di “Rainbow” (2017) non rientra nello spettro musicale di “Gag Order”: cantautorato (Living In My Head, Happy) ed elettronica (Eat The Acid, The Drama) la fanno da padrone. Il pop si riaffaccia solo nel ritornello di Only Love Can Save Us Now, vero highlight del disco: Kesha è ormai una persona matura, che ha processato molti traumi e subito molte sconfitte, giudiziarie e no.

In effetti, a farla da padrone nei testi sono riferimenti, velati o meno, agli abusi subiti a suo dire dal produttore Dr. Luke in passato, per cui i giudici lo hanno assolto (e anzi lui ha presentato un esposto per diffamazione ai danni di Kesha). È difficile analizzare la vicenda in modo imparziale, certo è che Kesha si sente tremendamente male: “There’s so many things I said that I wish I left unsaid” (Happy), “The bitch I was, she dead, her grave desecrated” (Only Love Can Save Us Now) e “You don’t wanna be changed like it changed me” (Eat The Acid) sono alcuni tra i più potenti versi del CD. Quello più deciso e forse controverso è però il seguente: “Don’t fucking call me a fighter”, tratto da Fine Line. Kesha è chiaramente stanca di lottare per qualcosa che sente di meritare, ma per cui pubblico e giustizia sono quantomeno incerti.

In conclusione, “Gag Order” è un LP cupo, che ha poco o nulla del pop solare e scatenato della prima Kesha. Questo non è per forza un difetto, come accennato, anzi dimostra la maturità della Nostra. Le auguriamo in ogni caso di trovare serenità, che è completamente assente in “Gag Order”.

Voto finale: 7,5.

Paul Simon, “Seven Psalms”

seven psalms

Il nuovo CD di Paul Simon è una sorta di testamento per le prossime generazioni di cantautori: chitarra acustica, voce e solo occasionalmente suoni esterni rendono l’ascolto di “Seven Psalms” un’esperienza molto intima, a tratti condita da testi surreali, ma con sempre un chiaro substrato religioso.

Dopo aver assistito negli anni scorsi agli addii di David Bowie e Leonard Cohen sotto forma di grandi CD, viene il dubbio che “Seven Psalms” rappresenti quello che “Blackstar” ha rappresentato per il Duca Bianco e “You Want It Darker” per il secondo. I versi di Simon sono spesso di stampo religioso, ma in altri momenti lo sentiamo pensare alla sua vita passata: “I lived a life of pleasant sorrows, until the real deal came”. Spesso le invocazioni a Dio assumono quasi un aspetto surreale ed ironico: “The COVID virus is the Lord… The Lord is my engineer, the Lord is my record producer”. Uno dei più versi più visionari è il seguente: “My hand’s steady, my mind’s still clear… I hear the ghost songs I own”.

I 33 minuti di durata di “Seven Psalms” e il fatto che Simon è stato determinato a farne una sola suite, pur se divisa in sette movimenti, fanno sì che il CD suoni molto coeso. Certo, udire Paul Simon tornare a suonare come agli esordi dei Simon & Garfunkel produce un effetto nostalgia notevole, che piacerà ai più maturi dei suoi fan. Tuttavia, non si possono ignorare i numerosi messaggi di addio di uno dei maggiori cantautori degli ultimi 60 anni. Se fosse così, “Seven Psalms” sarebbe un più che degno addio alle scene e, chissà, alla vita.

Voto finale: 7,5.

KAYTRAMINÉ, “KAYTRAMINÉ”

Kaytramine

L’esordio del duo formato dal produttore KAYTRANADA e dal rapper Aminé è un tipico CD estivo: allegro, ballabile e con testi che non richiedono interpretazioni eccessivamente complesse. Anzi, spesso il comparto testuale è proprio quello più carente, con accenni spinti al sesso che dopo un po’ diventano monotone. Tuttavia, i due artisti si dimostrano affiatati e, aiutati da ospiti di spessore (tra cui contiamo Pharrell Williams e Snoop Dogg), producono un CD di buona fattura.

I beat di chiaro stampo elettronico di KAYTRANADA si sposano benissimo col flow fintamente monotono di Aminé, con buoni risultati soprattutto in Who He Iz. Il primo vero highlight è 4EVA, con Pharrell Williams, il quale dona il suo tocco magico ad un pezzo già di qualità. Buona anche letstalkaboutit, con Freddie Gibbs. Invece inferiori alla media STFU3 e Ugh Ugh, che rendono la parte centrale del CD pesante. Apprezzabile, infine, la chiusura di K&A.

I 33 minuti di durata per fortuna aiutano ad evitare l’effetto riempitivo che troppo spesso caratterizza i lavori hip hop; tuttavia, alcuni contenuti testuali sono censurabili o, per lo meno, alla lunga noiosi: “Just popped an X bitch I feel like I’m Malcolm” (Who He Iz) e “Two girls suckin’ dick, I had my own Verzuz” (letstalkaboutit) ne sono due esempi.

In conclusione, “KAYTRAMINÉ” è un LP agile, simpatico e inoffensivo: perfetto per i party estivi sulle spiagge di tutto il mondo. Solo, non chiedetegli di cambiare la vostra vita o di rivoluzionare la scena musicale.

Voto finale: 7.

Recap: aprile 2023

Aprile è terminato. Un mese di buona musica, che ha visto le nuove uscite dei Wednesday, dei The National, dei Metallica e di Feist. Abbiamo inoltre i nuovi EP a firma Angel Olsen e Beach House. Infine, spazio a Jessie Ware, Indigo De Souza e Daughter. Buona lettura!

Jessie Ware, “That! Feels Good!”

that feels good

Il quinto disco della cantautrice inglese prosegue il fortunato filone incominciato nel 2020 con “What’s Your Pleasure?”, migliorando ulteriormente alcuni aspetti e creando, in conclusione, un quasi perfetto album di disco music. Nostalgico? Forse, ma è innegabile l’appeal che la bellissima voce di Jessie e la perfetta produzione hanno anche sull’ascoltatore più casuale.

L’atteggiamento da novella Donna Summer, anche nel tono vocale, dona molto all’estetica di Jessie Ware, una delle artiste che ha contribuito al revival della disco negli ultimi anni, assieme alle superstar Dua Lipa (“Future Nostalgia” del 2020) e Beyoncé (“RENAISSANCE” del 2022). “That! Feels Good” in questo senso non è un disco innovativo, ma perfeziona tutto quello che già di buono c’era in “What’s Your Pleasure?”: la produzione, affidata a James Ford e Stuart Price, è immacolata. Abbiamo anche una traccia paragonabile alla superlativa Spotlight del CD precedente: Begin Again è trascinante allo stesso modo, pressoché intoccabile.

I migliori pezzi di “That! Feels Good!” sono non a caso i singoli di lancio Free Yourself, Pearls e Begin Again. Molto buone anche la più romantica Hello Love e la title track, mentre sotto l’altissima media del CD sono solamente Beautiful People e Shake The Bottle.

Anche liricamente abbiamo versi importanti, che risuonano con molti: la title track declama il manifesto dell’intero LP, “Freedom is a sound, and pleasure is a right”. “I wake up in the morning and I ask myself, ‘What am I doing on this planet?’” (Beautiful People) è invece la descrizione di una sensazione che tutti abbiamo provato, prima o poi.

In poche parole, “That! Feels Good” è uno dei migliori CD pop del 2023 fino ad ora. Tanti potenziali successi, grande coesione, durata ragionevole lo rendono uno dei veri candidati alla top 10 di A-Rock. Jessie Ware si conferma grande cantautrice e nella parte migliore di una carriera ormai lanciatissima.

Voto finale: 8,5.

Wednesday, “Rat Saw God”

rat saw god

Il terzo album dei Wednesday vede la band americana ancora vogliosa di sperimentare con generi tanto diversi come rock, shoegaze e country, con risultati spesso interessanti. In generale, il mondo indie continua a sfornare album rilevanti in questi ultimi tempi, spesso con artiste al comando: basti pensare a Phoebe Bridgers, Mitski, Lucy Dacus e gli Alvvays, tra gli altri.

I Wednesday in effetti si inseriscono in un filone molto prolifico, ma nessuno ad oggi suona come loro: certo, abbiamo elementi dei già menzionati Alvvays (Hot Rotten Grass Smell), così come del grunge anni ’90 (Quarry). Tuttavia, un pezzo epico e proteiforme come Bull Believer è indizio di un talento fuori dal comune. Buone anche la più classicamente indie Chosen To Deserve e Quarry, mentre sotto la media resta Got Shocked, un po’ scontata.

Il CD vale come una sorta di percorso di crescita per la band capitanata da Karly Hartzman: vengono evocati i luoghi della sua infanzia: “We always started by telling our best stories first… Now that it’s been awhile I’ll get around to tellin’ you all my worst”, da Chosen To Deserve, è uno dei manifesti del lavoro. Nella stessa canzone troviamo poi un verso davvero malinconico: “Now all the drugs are gettin kinda boring to me, now everywhere is loneliness and it’s in everything”.

In conclusione, “Rat Saw God” è un gradevole CD indie rock. I Wednesday si confermano ambiziosi e pronti al grande salto: vedremo il futuro dove li condurrà, per il momento godiamoci uno dei migliori LP rock del 2023.

Voto finale: 8.

Indigo De Souza, “All Of This Will End”

all of this will end

Il terzo CD della giovane cantante indie statunitense aggiunge ulteriori livelli di lettura ad un’artista considerata, non a torto, tra le più promettenti della sua generazione. All’indie rock che caratterizzava “I Love My Mom” (2018) ed “Any Shape You Take” (2021) si aggiungono momenti quasi country (Younger & Dumber), che rendono questo lavoro davvero interessante.

Uno degli aspetti interessanti di “All Of This Will End” è che la seconda parte è migliore della prima: un fatto insolito, che dimostra la volontà di De Souza di dare modo all’ascoltatore di apprezzare ogni aspetto del CD, senza presumere nulla. Esemplari in questo caso Not My Body e Younger & Dumber, che chiudono magistralmente “All Of This Will End”, mentre la traccia più debole, Losing, è la terza della tracklist.

Liricamente, si conferma l’innata abilità di Indigo De Souza di indagare sul proprio passato per trarne lezioni di vita: “You came to hurt me in all the right places… Made me somebody” canta orgogliosa in Younger & Dumber. Altrove troviamo riferimenti ad una relazione finita male, in cui però lei prova a perdonare il partner: “I’d like to think you got a good heart and your dad was just an asshole growing up” (You Can Be Mean). Il verso più efficace, sempre su questo tema, è però contenuto in Time Back: “You fucked me up”.

In conclusione, un LP che contiene pezzi riusciti come You Can Be Mean, Smog e Younger & Dumber non può che essere, almeno in parte, riuscito. Non tutto è perfetto in “All Of This Will End”, soprattutto la prima sezione come già accennato, ma Indigo De Souza si conferma cantautrice di assoluto rilievo. Chissà che ancora non debba pubblicare il suo capolavoro…

Voto finale: 8.

Daughter, “Stereo Mind Game”

stereo mind game

Il terzo album della band inglese arriva ben sette anni dopo il precedente “Not To Disappear” (2016), tanto che avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD di inediti da parte dei Daughter.

“Stereo Mind Game” continua il percorso dei precedenti lavori degli inglesi: un indie rock pensieroso, con influenze dream pop. Nulla di trascendentale, ma le liriche spesso di alto livello rendono complessivamente il CD un buon prodotto.

Abbiamo chiare similitudini con Florence + The Machine (Dandelion, Be On Your Way), così come con Vampire Weekend (Swim Back) e Beach House (To Rage, Neptune). Ciò non toglie meriti ai Daughter, capaci di creare un LP coeso e molto efficace nei suoi momenti migliori: Be On Your Way e Swim Back sono davvero convincenti. Invece inutili la troppo breve ed eterea Intro e (Missed Calls).

Dicevamo che i testi di “Stereo Mind Game” sono rilevanti in molti frangenti: “I could stop if I want, I just don’t want to yet” (Party) è più che un manifesto. Junkmail contiene invece due versi significativi, per quanto pessimisti e rassegnati: “You can’t edit the scenery to view it better” e “Should I pay for viewing your faint lookalike?”.

In conclusione, “Stereo Mind Game” conferma il talento del gruppo inglese e il carisma della cantante Elena Tonra: l’unica pecca è che, quando sembrano pronti per spiccare il volo, i Daughter non riescono a compiere l’ultimo passo. Il CD resta comunque valido e merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

The National, “First Two Pages Of Frankenstein”

First Two Pages of Frankenstein

Il nono album della band statunitense è il loro lavoro più raccolto e malinconico: per una band che ha fatto proprio della nostalgia e dei toni grigi uno dei suoi tratti caratteristici, il rischio di sfociare nella noia era alto. Aiutati anche da ospiti di spessore (Phoebe Bridgers, Taylor Swift e Sufjan Stevens), però, i The National portano a casa un discreto risultato, anche se non paragonabile ai momenti migliori del gruppo.

Il CD ha un retroterra drammatico: il leader Matt Berninger ha sofferto di depressione e blocco dello scrittore durante il periodo pandemico e ne è guarito solo grazie all’aiuto della famiglia e degli amici. “First Two Pages Of Frankenstein” è perciò il risultato di un processo doloroso, ma necessario per far continuare a vivere i The National. Prova ne sono i toni molto sommessi del lavoro: solo Tropic Morning News ed Eucalyptus hanno una ritmica paragonabile ai migliori brani del gruppo. Invece episodi come Ice Machines e Send For Me sono fin troppo deprimenti e rendono il lavoro a tratti noioso.

Liricamente, abbiamo una delle migliori prove del gruppo: “If you’re ever sitting at the airport and you don’t wanna leave, don’t even know what you’re there for… Send for me” (Send For Me) rappresenta perfettamente il mood complessivo del disco. “But would your life be so bad if you knew every single thought I had?” (This Isn’t Helping) è un verso misterioso, ma pone una domanda forse senza risposta per molti di noi. Infine, “You were so funny then”, presa da Grease In Your Hair, è una frase che tutti abbiamo pensato di vecchi amici o partner, con cui abbiamo chiuso.

In conclusione, “First Two Pages Of Frankenstein” non è un LP perfetto, soprattutto se paragonato a “Boxer” (2007), “High Violet” (2010) e “Trouble Will Find Me” (2013). Allo stesso tempo, i The National si confermano incapaci di scrivere brutti CD: speriamo solo che la prossima volta trovino maggiore voglia di sperimentare.

Voto finale: 7,5.

Angel Olsen, “Forever Means”

forever means

La cantautrice americana Angel Olsen ritorna con un EP di sole quattro canzoni pochi mesi dopo “Big Time” (2022), il CD che aveva fatto scoprire la sua passione per il country e alcuni aspetti privati che ben pochi conoscevano (la morte dei suoi genitori nello spazio di poche settimane, il suo coming out).

Le quattro melodie sono a prima vista dei residui delle sessioni di registrazione che hanno portato a “Big Time” e compongono un interessante quadretto, dato che riportano alla mente i lavori precedenti di Angel Olsen. Ad esempio, la title track e Nothing’s Free ricordano rispettivamente le atmosfere rarefatte di “Half Way Home” (2012) e “Burn Your Fire For No Witness” (2014), mentre la conclusiva Holding On è la traccia più rock del lotto e rimanda all’indie rock di “MY WOMAN” del 2016. L’unico brano che è interamente assimilabile a “Big Time” è Time Bandits, il più debole dei quattro peraltro.

In conclusione, Angel Olsen conferma il suo feeling con il formato EP, contando che già nel 2021 ne aveva pubblicato uno, seppur di fattura completamente diversa: “Aisles” conteneva infatti cinque cover di successi anni ’80. “Forever Means” non è nulla di rivoluzionario, ma passare 16 minuti ascoltandone i brani è un passatempo più che accettabile.

Voto finale: 7.

Feist, “Multitudes”

multitudes

Il sesto album di Leslie Feist, che vanta una fiorente carriera solista ma è anche un membro fondamentale dei Broken Social Scene, è il suo lavoro più cantautorale: molte canzoni somigliano a Leonard Cohen o Joni Mitchell. Allo stesso tempo, i momenti più movimentati ci ricordano perché lei sia una delle autrici indie rock più celebrate del terzo millennio.

Composto prevalentemente durante i lockdown del 2020-2021, “Multitudes” è un CD influenzato dal Covid-19 pubblicato in ritardo rispetto ad altri album “pandemici”: in effetti, il folk e la calma di pezzi come Forever Before e The Redwing sono lontani dal solito mood di Feist, non sbagliati ma alla lunga forse un po’ monotoni.

I pezzi più trascinanti sono quelli più riusciti: l’iniziale In Lightning e Borrow Trouble ne sono chiari esempi. Anche liricamente vale lo stesso: molti pezzi contengono testi tranquillizzanti e idealizzati, ma a colpire davvero sono i seguenti drammatici versi, tratti da Become The Earth: “Some people have gone, and the people who stayed will eventually go in a matter of days”.

In conclusione, “Multitudes” difficilmente si affermerà come il miglior LP a firma Feist: “The Reminder” del 2007, in questo senso, è inarrivabile. Allo stesso tempo, la calma e la pazienza mostrate durante tutta la carriera dalla Nostra hanno trovato modo di esprimersi magari diversamente dal passato, ma non per forza in maniera errata.

Voto finale: 7.

Beach House, “Become”

become

Il nuovo lavoro della band formata da Victoria Legrand e Alex Scally è una sorta di quinto capitolo del doppio CD del 2022 “Once Twice Melody”. Nulla di rivelatorio o differente rispetto ai “soliti” Beach House, solo cinque canzoni gradevoli e che non sembrano proprio degli scarti rispetto alle 18 che hanno poi formato il disco originale.

Se i due avessero agganciato queste cinque canzoni alle quattro parti di cui si compone “Once Twice Melody”, avremmo potuto benissimo pensare ad una edizione deluxe del CD. In generale, abbiamo canzoni più raccolte (Devil’s Pool) così come altre più movimentate, sulla falsa riga di Superstar (Black Magic, American Daughter). Nessuna è fuori luogo, nessuna spicca palesemente sulle altre; la qualità media resta comunque soddisfacente.

Dobbiamo quindi prendere “Become” come nulla più di una pausa tra un LP di nuovi brani e l’altro. La cosa che più sorprende è che, in fin dei conti, Legrand e Scally suonano lo stesso genere ormai da quasi venti anni: malgrado ciò, il loro dream pop con inserti di shoegaze e psichedelia è sempre capace di far provare miriadi di sensazioni ai loro ascoltatori. “Become” si aggiunge, in conclusione, ad una produzione sempre simile, ma mai uguale a sé stessa.

Voto finale: 7.

Metallica, “72 Seasons”

72 seasons

Il dodicesimo album dei Metallica, contando anche quello collaborativo con Lou Reed (lo sfortunato “Lulu” del 2011), arriva ben sette anni dopo “Hardwired… To Self-Destruct” (2016) e rappresenta un altro lavoro infarcito di canzoni che ti aspetteresti da un gruppo leggendario del metal. Nulla di innovativo quindi, ma certamente Lars Ulrich e compagni si sono divertiti a suonare le tracce del disco e alcuni riff sono indimenticabili fin dal primo ascolto.

Il vero problema del CD è l’eccessiva lunghezza complessiva e quella di alcune specifiche melodie: eccettuata Lux Aeterna, peraltro una delle migliori, tutte superano i quattro minuti e la conclusiva Inamorata, la più lunga mai composta dai Metallica, arriva addirittura ad 11! In tutto abbiamo dodici pezzi per 77 minuti complessivi; Sleepwalk My Life Away e If Darkness Had A Son, ad esempio, sarebbero potute benissimo durare la metà.

In generale, va detto, il ritmo rilassato con cui i Nostri producono nuova musica (un disco ogni 5-7 anni) li aiuta evidentemente a trovare la giusta ispirazione, immortalata da 72 Seasons e Lux Aeterna. Buona anche Screaming Suicide. Invece inferiori alla media Sleepwalk My Life Away e Crown Of Barbed Wire.

“72 Seasons” non farà cambiare idea a nessuno: i fan di lunga data converranno che i bei tempi andati di capolavori come “Ride The Lightning” (1984) e “Master Of Puppets” (1986) non torneranno più, ma questo LP non intacca un’eredità magari incostante, ma in recupero. Gli scettici ovviamente resteranno tali. Ad A-Rock non possiamo dirci totalmente soddisfatti, ma le buone intenzioni del gruppo americano sono evidenti e il giudizio non può che essere, almeno parzialmente, positivo.

Voto finale: 6,5.

Recap: marzo 2023

Marzo è terminato. Un mese ricco di buona musica, in cui A-Rock ha dedicato la propria attenzione ai nuovi lavori di Kali Uchis, M83 e Lana Del Rey. Inoltre, spazio al terzo CD di Slowthai e Fever Ray, così come agli esordi del duo JPEGMAFIA & Danny Brown e delle boygenius. Infine, marzo ha visto la pubblicazione del secondo CD dei 100 gecs e il ritorno di Yves Tumor e dei Depeche Mode. Buona lettura!

Slowthai, “UGLY”

Il terzo album del rapper britannico era stato identificato da molti come il momento della verità per Tyron Frampton: dopo l’ottimo esordio “Nothing Great About Britain” (2019) e l’interlocutorio “TYRON” (2021), “UGLY” poteva rappresentare una trappola per la carriera di Slowthai. Nulla di tutto ciò: il CD è ben costruito e la potenza di alcuni brani lo porta all’ottimo livello del primo suo lavoro, forse anche a migliori risultati.

Slowthai ha da sempre flirtato con il punk e il rock, soprattutto nei suoi brani più sfrenati: Doorman ne è l’esempio più riuscito. “UGLY” recupera quella crudezza che era stata messa da parte in “TYRON”: evidente questa scelta nella doppietta iniziale formata da Yum e Selfish, due tra i migliori episodi del CD. Abbiamo successivamente anche brani più raccolti, come Never Again, che servono come momenti di pausa.

Menzioniamo poi il parco ospiti di “UGLY”, davvero di ottimo livello: Fontaines D.C., Shygirl e Taylor Skye dei Jockstrap fanno capolino ed arricchiscono ulteriormente la ricetta alla base del lavoro. I migliori pezzi sono Yum e Selfish, come già accennato; ma buona anche Never Again. Invece sotto la media Wotz Funny. I risultati, in ogni caso, restano notevoli e fanno di Slowthai una figura di riferimento nella scena rap d’Oltremanica.

Questa leadership si deve anche ad una figura pubblica senza compromessi: Slowthai è colui che ha esibito la testa amputata di un manichino raffigurante Boris Johnson durante i Mercury Prize del 2019. Testualmente, questa onestà estrema si riflette nelle liriche di “UGLY”: Yum contiene riferimenti a varie posizioni sessuali, per poi esplodere in “More coke, more weed… One drinks never enough, excuse me while I self-destruct”. Altrove emergono invece i suoi sentimenti verso ciò che c’è di più prezioso nella sua vita: “I’m thankful for the life that I lead, I kiss my son before I put him to sleep” (Selfish). L’irrequietudine però riemerge prepotente nella title track: “The moment the world stands still, you are not in control”.

“UGLY” è un album davvero riuscito, sotto tutti i punti di vista: musicalmente, Slowthai testa i limiti del rap, allargandone gli orizzonti verso punk e rock alternativo. Liricamente, siamo di fronte ad un uomo depresso ma realizzato, pessimista ma consapevole di essere privilegiato: Tyron Frampton si conferma unico, nel bene come, a volte, nel male. “UGLY” è il suo LP più riuscito e, ad oggi, è il miglior CD hip hop del 2023.

Voto finale: 8,5.

Yves Tumor, “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”

Il lunghissimo titolo del nuovo album di Yves Tumor non tragga in inganno: non siamo di fronte ad un CD pretenzioso o eccessivamente prolisso. Anzi, vale il contrario: i 37 minuti di durata ne fanno un prodotto accessibile ai più, contando che la maggior parte delle canzoni è ispirata da post-punk e rock alternativo, con tocchi di psichedelia. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Yves Tumor, ormai otto anni fa, pubblicava “Serpent Music” (2015), concentrato di musica elettronica e noise.

Dal punto di vista testuale, il lavoro conferma la fama di artista misterioso di Sean Bowie (questo il vero nome di Yves Tumor): molto spesso contano più le sensazioni evocate che le parole. Abbiamo delle affermazioni di principio come “You’re still a friend of mine” (Lovely Sewer) così come considerazioni più poetiche (“Stare straight into the morning star, with lips just like red flower petals”, da Meteora Blues).

“Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” musicalmente riparte da dove “Heaven To A Tortured Mind” (2020) aveva lasciato: rock gotico, misterioso ma invitante. Yves Tumor, nato in Tennessee ma ormai da anni di base a Torino, ha pubblicato un altro LP di ottima qualità: lo shoegaze di Meteora Blues e la trascinante Heaven Surround Us Like Hood sono gli highlight immediati. Da non sottovalutare poi Operator e God Is A Circle. Unico brano superfluo è la strumentale Purified By The Fire.

Nulla in realtà suona fuori posto, tanto che “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” potrebbe addirittura essere il migliore lavoro a firma Yves Tumor. Il rock sporco e sensuale degli ultimi suoi lavori si addice decisamente bene all’estetica del Nostro, a cui ormai manca solo una vera hit per diventare una figura rispettata non solo dalla critica e dal pubblico più ricercato, ma anche dal mainstream.

Voto finale: 8,5.

Depeche Mode, “Memento Mori”

Il quindicesimo (!) album dei Depeche Mode ha rischiato di non vedere mai la luce: durante le registrazioni del lavoro uno dei tre componenti del gruppo, Andy Fletcher, è morto improvvisamente nella sua casa di Londra, lasciando Dave Gahan e Martin Gore da soli. Sarebbero stati in grado di produrre un CD tale da tenere alta la bandiera dei Depeche Mode?

La risposta è un sonoro sì. “Memento Mori” è uno dei migliori album di questo millennio per il gruppo britannico: brani oscuri come My Cosmos Is Mine si mescolano benissimo con hit dal sapore anni ’80 (Ghosts Again, Wagging Tongue) e ballate più simili ai Depeche Mode recenti (Soul With Me). Se anche questo fosse l’ultimo lavoro a firma Gahan & Gore, non potremmo dirci insoddisfatti.

Wagging Tongue, la seconda collaborazione diretta di sempre tra i due Depeche Mode superstiti, mette Gore e Gahan in bella mostra: il primo con una produzione sontuosa, il secondo con la sua sempre ricca voce in primo piano, in ottima forma. Altro highlight è il singolo Ghosts Again, che ricorda alcune tra le hit migliori del gruppo (People Are People e Never Let Me Down Again). Delude solo Caroline’s Monkey, troppo prevedibile.

Chi si aspettasse riferimenti testuali alla morte dell’amico Andy Fletcher resterà deluso; tuttavia, contiamo una canzone dedicata ad un altro grande artista recentemente scomparso, Mark Lanegan (Wagging Tongue). Altrove troviamo dimostrazioni di fragilità travestiti da proclami da macho (“Don’t stare at my soul, I swear it is fine”, My Cosmos Is Mine).

“Memento Mori”, date le circostanze in cui è stato concepito, è un titolo profetico. Inoltre, siamo di fronte all’album più elettronico e dark dei Depeche Mode dai tempi di “Playing The Angel” (2005): è un caso che sia anche il più riuscito degli ultimi 20 anni? Chapeau in ogni caso a Martin Gore e Dave Gahan, capaci di tenere alto il nome del gruppo synthpop, forse, più importante di sempre.

Voto finale: 8.

boygenius, “The Record”

Il supergruppo tutto al femminile formato dalle star dell’indie Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker ha finalmente pubblicato il suo LP d’esordio, dopo l’omonimo EP di grande successo del 2018. Uscito proprio l’ultimo giorno di marzo, “The Record” non è l’instant classic che alcune riviste d’Oltreoceano vogliono farci credere, ma senza dubbio è un CD riuscito e, nelle parti migliori, irresistibile.

Le tre artiste sono molto amiche anche nella vita fuori dal palcoscenico e questa vicinanza traspare nel corso del lavoro: gli spazi sono equamente distribuiti, così che Phoebe, Lucy e Julien possono ciascuna brillare. Alcuni brani godono di questo spirito collaborativo: $20 e Satanist sono highlight innegabili. Buone anche True Blue e Not Strong Enough. Invece sotto la media l’iniziale Without You Without Them e Revolution 0, entrambe senza mordente.

Liricamente, le tre boygenius si confermano maestre nello spiegare a cuore aperto i problemi che la generazione dei millennials si trova ad affrontare in questi anni di crescita e raggiungimento dell’età adulta: “I’m 27 and I don’t know who I am” canta sconsolata Bridgers in Emily I’m Sorry. Altro verso significativo è contenuto in Without You Without Them: “I’ll give everything I’ve got… Please take what I can give”. Infine, in Satanist troviamo addirittura un proclama rivoluzionario: “Will you be an anarchist with me? Sleep in cars and kill the bourgeoisie”.

In conclusione, “The Record” è un buon lavoro indie rock, in cui le estetiche di Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker trovano reciprocamente un perfetto complemento. Siamo di fronte a tre artiste che faranno parlare di loro ancora a lungo e il marchio boygenius è più vivo che mai: cosa chiedere di più ad un disco rock nel 2023?

Voto finale: 8.

Kali Uchis, “Red Moon In Venus”

Il terzo album della cantante di origine colombiana è un concentrato del miglior R&B: sensuale, creativo e sempre curato nei minimi particolari. Kali Uchis continua così una carriera di grande successo, sia di pubblico che di critica: dopo il felice esordio “Isolation” (2018) e il buon seguito “Sin Miedo (Del Amor Y Otros Demonios) ∞” (2020), “Red Moon In Venus” allarga ancora gli orizzonti della Nostra verso psichedelia e soul.

Il singolo di lancio, I Wish You Roses, è una delle canzoni più belle a firma Kali Uchis; ma abbiamo anche altre perle. Non possiamo infatti tralasciare Moonlight e Blue; sono inferiori alla media solo Fantasy e l’inutile In My Garden, lunga appena 25 secondi. Tuttavia, i risultati complessivi sono ottimi: il CD suona coeso, nessun brano è fuori posto e la voce di Uchis è sempre al top.

Il CD suona organicamente sia nella musica che nei testi: al centro del disco troviamo l’amore, in tutte le sue forme, da quello più materiale (Hasta Cuando) a quello più apparentemente inscalfibile (“Wanna spoil me in every way… It’s Valentine’s like every day”, da Endlessly), passando per le rotture sentimentali (“When you’re all alone, you’ll know you were wrong”, canta Kali in Moral Conscience). Da questo punto di vista, I Wish You Roses contiene il verso che sintetizza l’intero LP: “With pretty flowers can come the bee sting… But I wish you love”.

In conclusione, “Red Moon In Venus” è il miglior R&B del 2023 finora: Kali Uchis si conferma popstar di grande talento, pronta a scrivere pagine sempre più rilevanti per la musica moderna.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA & Danny Brown, “Scaring The Hoes”

Il primo album collaborativo dei due rapper iconoclasti per eccellenza è un esperimento estremo, dati i canoni dell’hip hop moderno: industrial, punk e noise creano delle basi imprevedibili, su cui i due declamano versi spesso polemici verso l’industria discografica o i loro pari. Non stiamo chiaramente parlando di un CD per tutti, ma è da provare se si ama l’hip hop più sperimentale.

A guidare è chiaramente JPEGMAFIA, che si prende anche gli oneri della produzione; quest’ultima in un certo senso, a seconda dell’ascoltatore, può rivelarsi un punto di forza o di debolezza dell’intero lavoro. Le basi sono sempre in primo piano, spesso a danno delle voci dei Nostri; ciò è inusuale soprattutto per Brown, nei cui CD solisti spesso abbiamo la sua tonalità nasale in grande rilievo.

Tuttavia, nei suoi momenti migliori “Scaring The Hoes” fornisce molti spunti di attenzione: i due singoli di lancio, Lean Beef Patty e la title track, sono tra le migliori tracce del lotto. Buona anche Garbage Pale Kids, con base davvero potente. Di difficile comprensione invece Fentanyl Tester, ma se non altro resta coerente col mood folle del CD.

È frequente rintracciare nel corso di “Scaring The Hoes” invettive contro l’industria discografica: ne è un esempio questo verso, preso da Steppa Pig: “It’s like I’ve been workin’ for crumbs, now I’m feelin’ free as my speech”. In Lean Beef Patty oggetto dei versi di JPEGMAFIA e Danny Brown è Elon Musk, in particolare la sua controversa gestione di Twitter. Abbiamo poi due brani che citano esplicitamente altri rapper di successo negli Stati Uniti: Run The Jewels e Jack Harlow Combo Meal.

In conclusione, siamo di fronte ad uno dei dischi più stralunati dell’ultimo periodo; ma del resto cosa potevamo aspettarci da due menti vulcaniche come JPEGMAFIA e Danny Brown? “Scaring The Hoes” non è un LP perfetto, ma i suoi momenti più memorabili lo rendono un’esperienza musicale davvero unica.

Voto finale: 8.

Lana Del Rey, “Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd”

Il nono album della cantautrice americana è al tempo stesso una rivisitazione delle sue passate incarnazioni e uno sguardo al futuro. Tra brani che suonano indubbiamente Lana Del Rey (la title track, Fingertips) ed esperimenti arditi (A&W, Taco Truck x VB), siamo di fronte ad un CD lunghissimo (77 minuti), complesso e a volte prolisso; ancora una volta, però, Lana porta a casa la pagnotta e apre nuovi, interessanti percorsi artistici.

Nuovamente coadiuvata dal fidatissimo Jack Antonoff alla produzione (che compare anche col nome d’arte Bleachers in Margaret), Lana si apre a molte influenze esterne: Father John Misty, Jon Batiste e Tommy Genesis tra gli altri. Abbiamo alcune tra le migliori canzoni mai scritte dalla Nostra: A&W ha tre movimenti all’interno dei suoi sette minuti, The Grants (dedicato alla sua famiglia) è classicamente Del Rey, la conclusiva Taco Truck x VB addirittura remixa Venice Bitch.

Abbiamo poi episodi più sognanti, come Fingertips e Margaret, che fanno tornare con la mente ad “Honeymoon” (2015). Tra i brani che purtroppo vanno oltre c’è Judah Smith Interlude, in cui il pastore di fiducia di Lana declama un’omelia energica quanto fuori luogo nel computo generale del CD. Anche Kintsugi, pur raffinata, è troppo prolissa nei suoi sei minuti abbondanti.

Liricamente, in un album così abbondante di spunti, occorre fare una selezione accurata: The Grants, come già accennato, è dedicata alla sua famiglia. Compaiono riferimenti a parenti anche in Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing, in cui viene evocate la figura del nonno quasi come se fosse un guardiano che, dal cielo, protegga il padre di Lana. Peppers, invece, menziona i Red Hot Chili Peppers come figura di riferimento per Lana, mentre Fingertips pone domande che, prima o poi, influenzano tutti: “Will the baby be all right? Will I have one of mine? Can I handle it even if I do?”.

“Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd” è un LP complesso, che richiede più ascolti per essere analizzato con cognizione di causa. Non siamo di fronte al miglior lavoro a firma Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019) resta inarrivabile, ma l’abbondante creatività e ambizione di Lana fanno pensare che il suo serbatoio sia ancora pieno di belle canzoni.

Voto finale: 8.

M83, “Fantasy”

Quattro anni dopo “DSVII”, il complesso francese trapiantato a Los Angeles e capitanato da Anthony Gonzalez ritorna sui terreni preferiti: un pop magniloquente, molto anni ’80, a tratti eccessivo, ma capace di trasmettere forti sensazioni anche in mancanza di testi apprezzabili. Non saremo ai superbi livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011), il capolavoro degli M83, contenente hit come Midnight City e Reunion, ma “Fantasy” è senza dubbio un passo avanti rispetto alle ultime versioni della band.

La preparazione al CD era stata particolare: dapprima Oceans Niagara pubblicata come singolo di lancio, poi la decisione di pubblicare l’intera prima facciata di “Fantasy” come EP… quasi un modo di “spoilerare” i fan! Le speranze di essere di fronte ad un buon disco erano comunque intatte, come del resto viene confermato dal CD esteso. Certo, i 66 minuti a volte sono superflui (Radar, Far, Gone, Deceiver), ma pezzi come Amnesia e Us And The Rest sono notevoli e ci fanno tornare alla memoria i migliori momenti di “Before The Dawn Heals Us” (2005). Da non sottovalutare anche Earth To Sea.

Non si ascolta un LP degli M83 per il contenuto lirico, questo è risaputo, ma va detto che in “Fantasy” Gonzalez è più presente del solito: “Do you miss the day of human revolution… Television, what a good way to learn about us, and the heirs of our land” (Dismemberment Bureau) sono i versi più significativi. Altrove abbiamo invece assurdi riferimenti fantascientifici: “Hello freak! Can you see the sky ladder by the limbo café leading to the green ray?” (Us And The Rest).

In conclusione, “Fantasy” è il miglior CD a firma M83 dai tempi di “Hurry Up, We’re Dreaming”: è stato messo da parte il pop zuccheroso e vuoto di “Junk” (2016), così come l’ambient di “DSVII”, per creare un prodotto magari nostalgico e autoreferenziale, ma non per questo sbagliato.

Voto finale: 7,5.

100 gecs, “10,000 gecs”

Il secondo CD del duo più stralunato d’America cambia radicalmente le carte in tavola per i 100 gecs: se nell’esordio “1000 gecs” (2019) eravamo di fronte ad un mix spericolato di pop e musica elettronica, sperimentale certo ma in un certo qual modo accessibile, “10,000 gecs” vira decisamente verso rock, punk e ska, con accenni di metal. Servono ripetuti ascolti per farsi un’idea coerente, ma la domanda se siamo di fronte a due geni o a due truffatori è più viva che mai.

La pubblicazione di “10,000 gecs” è stata influenzata da numerosi ritardi: il CD doveva originariamente uscire nella primavera del 2022, poi a causa di ripensamenti e posticipi vari siamo arrivati al 2023. Dylan Brady e Laura Les, ovvero i 100 gecs, hanno in effetti dato spazio a tutto il repertorio del punk rock anni ’00: basti sentire Dumbest Girl Alive e Hollywood Baby, due highlight del disco. In altri episodi (757) tornano i 100 gecs degli esordi, mentre Billy Knows Jamie flirta col metal e I Got My Tooth Removed è puro ska. Frog On The Floor, infine, pare una canzoncina dello Zecchino d’Oro in salsa pop punk.

Anche liricamente siamo di fronte a testi ambivalenti: da un lato versi volutamente provocatori (“I’m smarter than I look, I’m the dumbest girl alive”), dall’altro riferimenti da presunti intellettuali (“I’m dumb and hypocritical, I’m taking things too literal when it was hypothetical”, da 757). The Most Wanted Person In The United States contiene il seguente quadretto: “I got Anthony Kiedis suckin’ on my penis”.

L’ambizione e l’approccio “vale tutto” di Brady e Les può piacere o meno, ma è un qualcosa di assolutamente inconcepibile nella musica moderna che due disadattati che producono canzoni così incomprensibili ai più siano arrivati a tale livello di successo. Merito di TikTok e in generale dello streaming, che ha reso disponibile pressoché tutta la musica mai prodotta al mondo intero.

La domanda iniziale resta tuttavia valida: siamo di fronte a due pazzi geniali, oppure a due prodotti del nostro tempo, tanto effimeri che spariranno nel giro di qualche anno? Ai posteri l’ardua sentenza; possiamo dire che “10,000 gecs” è un album assurdo, divertente, esagerato, pretenzioso… tutto vero, ma dopo tanti ascolti ad A-Rock non lo abbiamo ancora inquadrato a pieno.

Voto finale: 7,5.

Fever Ray, “Radical Romantics”

Il terzo album del progetto Fever Ray, ovvero Karin Drejer, metà dei The Knife (l’altra era rappresentata dal fratello Olof), è un altro passo in avanti in una discografia sempre più sperimentale ed ambiziosa. Il tema principale, come si può intuire dal titolo, è l’amore: ma un tipo di amore allo stesso tempo carnale e freddo, pop e misterioso, alieno e umano. Non tutto gira a meraviglia, ma Fever Ray si conferma unica.

Il CD segue “Plunge” (2017), in cui Drejer aveva dato sfogo alle sue pulsioni più techno: prova ne sia IDK About You. In generale, “Radical Romantics” è definibile quasi come pop, non fosse che Fever Ray ogni volta sabota le proprie canzoni attraverso improvvise sterzate o suoni dissonanti: in Shiver, ad esempio, uno dei pezzi forti del lavoro, abbiamo un suono quasi di zanzara in sottofondo. In New Utensils, allo stesso modo, percepiamo voci del tutto aliene in sottofondo. Si sente l’influenza della produzione del fratello Olof, che sembra anticipare una reunion dei The Knife.

La prima metà è più riuscita della seconda, in cui purtroppo risalta nel modo sbagliato la conclusiva Bottom Of The Ocean: sette minuti di suoni fini a sé stessi, che lasciano l’amaro in bocca all’ascoltatore. Peccato, perché il CD contiene comunque buoni pezzi come la già menzionata Shiver, What They Call Us e Kandy.

Testualmente, come accennavamo, Fever Ray affronta il più classico dei temi pop, l’amore, da varie angolazioni: abbiamo annunci quasi pubblicitari (“Looking for a person with a special kind of smile”, da Looking For A Ghost), così come riferimenti alla discriminazione verso le persone omosessuali (“Did you hear what they call us?”, da What They Call Us). Vi sono però sparsi anche riferimenti al bullismo (“This is for Zacharias, who bullied my kid in high school… There’s no room for you and we know where you live!”, in Even It Out).

In generale, “Radical Romantics” non è il più bel lavoro a firma Fever Ray: questo posto spetta probabilmente all’eponimo esordio del 2009. Tuttavia, con questo disco Karin Drejer si è probabilmente liberata di molti fantasmi ed è pronta ad esplorare altri territori. Non ci resta che aspettare, con pazienza, il suo nuovo LP.

Voto finale: 7,5.

Rising: Model/Actriz

model actriz

I Model/Actriz.

Primo appuntamento del 2023 con la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. Quest’oggi ci focalizziamo sui Model/Actriz, gruppo americano che con l’esordio “Dogsbody” ci ha introdotti al loro mondo, duro e claustrofobico, ma da cui è difficile uscire una volta entrati.

Model/Actriz, “Dogsbody”

dogsbody

I Model/Actriz sono un quartetto originario di Brooklyn, attivi in realtà dal lontano 2016, ma “Dogsbody” è il loro primo CD; ed è una ventata di freschezza nella scena rock americana e non solo. Industrial, noise, elettronica e numerose altre influenze si mescolano, facendo della band un ibrido difficile da inquadrare: LCD Soundsystem, Talking Heads e Nine Inch Nails sono ispirazioni, ma nessuno suona esattamente come i Model/Actriz.

L’inizio del lavoro, in questo senso, è emblematico: Donkey Show è un assalto sonoro, una canzone davvero abrasiva e trascinante. Mosquito è invece quasi dance nel suo incedere, anche se poi la batteria tonante di Ruben Radlauer entra in scena con prepotenza. La suite Crossing GuardSlate è il momento migliore del CD, con la seconda che si inserisce direttamente nello spazio lasciato dalla prima, anche testualmente: Crossing Guard finisce con i versi “Oh it feels like, oh it feels like…”, per lasciare spazio a Slate, le cui prime parole sono “…Like pressure”.

Il disco contiene anche due momenti quasi delicati, Divers e Sun In, che sembrano preludere ad un futuro diverso per i Model/Actriz. Va detto che, come già accennato, i momenti migliori sono quelli più tosti musicalmente parlando: l’energia e la passione del gruppo sono davvero ammirevoli, così come da elogiare è la loro qualità di strumentisti. Dal canto suo, il cantante Cole Haden è trascinante, pur limitandosi spesso a declamare versi piuttosto che a cantarli.

In conclusione, “Dogsbody” è il miglior esordio del 2023 al momento nel mondo rock: i Model/Actriz hanno affinato negli anni una loro estetica, particolare e non accogliente verso l’ascoltatore medio, ma non per questo disprezzabile. Al contrario: il CD è candidato ad entrare nella top 10 dei migliori LP del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Recap: gennaio 2023

Gennaio è quasi terminato. Un mese ricco di nuove pubblicazioni e in cui A-Rock, come di consueto, ha analizzato anche delle uscite rilevanti pubblicate nel corso di dicembre 2022. Tra di esse contiamo i nuovi CD di MIKE, Little Simz, Stormzy e SZA. Abbiamo poi recensito il nuovo, brevissimo EP a firma PinkPantheress e i nuovi dischi dei Måneskin, di Mac DeMarco e dei The Murder Capital.

Little Simz, “NO THANK YOU”

no thank you

Annunciato e pubblicato nell’arco di una settimana, “NO THANK YOU” può sembrare semplicemente un CD che chiude un periodo trionfale per Little Simz. “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) l’ha resa una superstar e le ha fatto guadagnare il rispetto della critica, tanto che anche noi di A-Rock abbiamo eletto il CD come migliore di quell’anno. “NO THANK YOU”, tuttavia, non va sottovalutato.

Musicalmente, questo disco è un diretto discendente di “Sometimes I Might Be Introvert”, soprattutto in canzoni come Silhouette e X; allo stesso tempo, una traccia come Gorilla fa intravedere lati diversi di Little Simz, più sbarazzini. Insomma, abbiamo di fronte un CD variegato, ma breve al punto giusto (50 minuti) da non essere eccessivamente sovraccarico. Merito anche della produzione di Inflo, già leader dei SAULT, che dà al lavoro un tocco neo-soul non banale.

Liricamente, se in precedenza l’avevamo sentita trattare temi complessi come il rapporto col padre e con l’eredità degli artisti di colore, “NO THANK YOU” denuncia i mali dell’industria discografica: “You don’t even recognize who it is that you’re becoming, they don’t give a shit” (Heart On Fire) e “They don’t care if your mental is on the brink of something dark” (Angel) ne sono chiari esempi.

Le migliori canzoni di “NO THANK YOU” sono la magnifica Silhouette, che ha un azzeccatissimo cambio di base a metà pezzo; l’iniziale Angel, che apre egregiamente il lavoro; e Heart On Fire. Invece, inferiore alla media è solo la troppo breve Sideways.

In conclusione, “NO THANK YOU” si inserisce senza problemi in un’eredità artistica sempre più rilevante: Little Simz è ormai il simbolo del rap UK al femminile e una delle artiste più rilevanti di quest’epoca.

Voto finale: 8.

The Murder Capital, “Gigi’s Recovery”

gigi's recovery

Il secondo album della band post-punk irlandese continua a costruire su quanto di buono era contenuto in “When I Have Fears” (2019), provando allo stesso tempo ad ampliare il range sonoro dei The Murder Capital. I risultati sono ancora una volta buonissimi e ci fanno sperare di aver trovato un altro grande gruppo della nidiata magica d’Oltremanica, che ha portato alla luce talenti come IDLES, shame e Fontaines D.C., giusto per citarne alcuni esponenti.

Non tutto è punk o comunque assimilabile a questo genere in “Gigi’s Recovery”: The Murder Capital, infatti, diventa sinonimo di art rock (A Thousand Lives) e addirittura influenze elettroniche (The Stars Will Leave Their Stage). Va aggiunto, a onor del vero, che molte delle canzoni più riuscite sono di matrice punk, Crying e Return My Head su tutte.

Liricamente, il CD si impone come uno dei più profondi di questi primi momenti del 2023: James McGovern e compagni intraprendono in “Gigi’s Recovery” un viaggio alla scoperta di loro stessi, tra ammissioni di impotenza (“Strange feeling I’m dealing with, I can’t admit it – I’m losing grip”, in Existence) e domande esistenziali (“Is this our way to escape? Our way through the gates we built? Is this our end?”, da Crying). In Exist, infine, McGovern trova pace: “I’ll stay committed, I’ll make it stick. This morning I took ownership – to stay forever in my own skin”.

In conclusione, “Gigi’s Recovery” è un LP non facile, ma che regala piacevoli sorprese ad ogni ascolto. The Murder Capital è, indubbiamente, un nome sempre più importante nel panorama punk-rock europeo.

Voto finale: 8.

SZA, “SOS”

sos

Il secondo album di SZA arriva ben cinque anni dopo “CTRL”, che l’aveva fatta conoscere al pubblico di massa e, secondo molti, aveva fatto emergere una nuova grande promessa per l’R&B. Questa lunga attesa è stata in realtà riempita da numerosi singoli, molti dei quali hanno trovato spazio in “SOS”. Ma il prodotto finale è all’altezza delle tante speranze che avevamo riposto in lei?

Malgrado una lunghezza che può apparire eccessiva (23 pezzi per 68 minuti complessivi), buona parte di “SOS” è davvero ben fatta. Pezzi come Kill Bill, Blind e Good Old Days sono irresistibili; purtroppo, altri episodi sono inferiori alla media (SOS, Smoking On My Ex Pack, Conceited), ma non pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo. Menzione, infine, per gli ospiti di SZA: abbiamo protagonisti del rap (Don Toliver, Travis Scott) così come dell’indie rock (Phoebe Bridgers).

SZA si conferma quindi musicista di talento; anche i testi, nei loro momenti migliori, sono davvero iconici. “I might kill my ex… Not the best idea”, da Kill Bill, ne è un chiaro esempio. Snooze invece contiene il seguente verso: “How you threatening to leave and I’m the main one crying?”. Infine in Forgiveless, che vanta la collaborazione del defunto Ol’ Dirty Bastard (Wu-Tang Clan), SZA dichiara: “I’m too profound to go back and forth with no average dork”.

Ripetuti ascolti fanno emergere le melodie più riuscite, che avrebbero facilmente composto un CD imperdibile. Pur essendo sovraccarico di canzoni spesso simili le une alle altre, anche in questa forma “SOS” è una forte dichiarazione di intenti: speriamo che la minaccia di SZA di aver pubblicato il suo ultimo lavoro sia esagerata.

Voto finale: 7,5.

MIKE, “Beware Of The Monkey”

Beware of the Monkey

Il nuovo lavoro del rapper newyorkese mantiene i tratti più salienti della sua estetica, ma allo stesso tempo suona quasi euforico rispetto a passati CD come “tears of joy” (2019) e “Weight Of The World” (2020). L’evoluzione artistica di MIKE è lenta, ma costante.

Già nel precedente “Disco” (2021) avevamo intravisto un lato diverso di MIKE, più sereno e meno tormentato dalla perdita dei propri cari e dalla depressione. “Beware Of The Monkey” prosegue in questo percorso di uscita dal tunnel, soprattutto in pezzi come Nuthin I Can Do Is Wrng e No Curse Lifted (rivers of love). Allo stesso tempo, come già accennato, troviamo melodie dove il MIKE delle origini torna alla ribalta, ad esempio What Do I Do? e Swoosh 23.

Liricamente, troviamo momenti di puro flex, in cui il Nostro si vanta della propria abilità (“This my only chance left, to prove to y’all, I’m the best rapper in the fuckin’ world”, As 4 Me), così come momenti di maggiore fragilità (“Dread and blasphemy, sitting ’laxed in my apartment where these raps put me”, Tapestry). In Stop Worry!, aiutato da Sister Nancy, onora la memoria della madre.

In generale, il rap sperimentale e jazzato tipico di MIKE non ha ancora mostrato la corda: grazie a piccoli ma costanti cambiamenti l’ancora giovane newyorkese ha mantenuto un’altissima qualità media. “Beware Of The Monkey”, in questo senso, non intacca assolutamente un’eredità sempre più rilevante.

Voto finale: 7,5.

Stormzy, “This Is What I Mean”

This Is What I Mean

Per la seconda volta in carriera Stormzy ha pubblicato una raccolta di inediti nel periodo di non eleggibilità per la lista dei migliori 50 album dell’anno di A-Rock: pertanto, dopo “Heavy Is The Head”, pubblicato a dicembre 2019, abbiamo questo “This Is What I Mean”, un CD decisamente più intimo e R&B rispetto al passato, in cui Stormzy mostra la sua parte più suadente e meno rap.

Il rapper inglese in realtà sembrava aver anticipato un album vecchia maniera con la stratosferica Mel Made Me Do It, che vantava la collaborazione niente meno che di José Mourinho! Invece in “This Is What I Mean” questa canzone non è stata inclusa e il Nostro ha privilegiato melodie più dolci, si sentano ad esempio Please e Hide & Seek. Non tutto gira a meraviglia, ma nei suoi momenti migliori (Fire + Water, la title track) Stormzy dimostra tutto il suo talento.

Liricamente, abbiamo riferimenti a Dio (Holy Spirit) così come una dimostrazione di solidarietà verso Meghan Markle (Please), accanto a riferimenti più materiali (una sua vecchia disputa col collega Wiley in My Presidents Are Black, il sesso in Need You).

Insomma, non avessimo brani eccessivamente lenti come Holy Spirit, saremmo di fronte forse al miglior album a firma Stormzy. Nondimeno, “This Is What I Mean” è un buon CD, che tiene alto il nome del Nostro e rende evidente la sua duttilità. È possibile che il prossimo sia l’album della verità per Stormzy: vedremo se riuscirà a consegnare quel capolavoro che pare avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

PinkPantheress, “Take Me Home”

Take Me Home

PinkPantheress si conferma una delle figure più originali nel panorama musicale odierno: le tre canzoni di questo EP ammontano complessivamente a meno di otto minuti. Vi sono canzoni che hanno fatto la storia della musica, da Runaway di Kanye West a Blackstar di David Bowie, che da sole hanno una durata maggiore: tuttavia, PinkPantheress è diventata famosa proprio grazie alla sua estrema concisione.

Basti dire che il suo album d’esordio, “to hell with it” del 2021, durava appena 18 minuti, ma molte sue canzoni (della durata media di un minuto e mezzo) erano divenute virali su TikTok, trasformando la giovane inglese in una celebrità. “Take Me Home” riparte da dove PinkPantheress aveva lasciato, anche se contiamo una melodia di ben tre minuti e venti.

La prima canzone della scaletta, Boy’s A Liar, prodotta da Mura Masa, riparte precisamente dai tratti salienti di “to hell with it”: ritmi veloci, pop ballabile e leggerino, basso potente. Do You Miss Me? è invece più danzereccia, non a caso vantando la produzione di Kaytranada. Abbiamo infine la title track, la più complessa del lotto, con tanto di finale in salsa trap: questa è la traccia che segnala una crescita reale di PinkPantheress e ci rende davvero interessati al prossimo suo album vero e proprio.

“Take Me Home” non è quindi un EP eccessivamente ambizioso: va inteso probabilmente come uno stop and go in attesa del secondo CD della Nostra. Nel frattempo, godiamoci questi otto minuti di discreta musica pop.

Voto finale: 7.

Måneskin, “RUSH!”

rush

Il terzo CD dei Måneskin, il primo dopo aver trovato la fama planetaria, è pieno di difetti, ma in qualche modo porta a casa la pagnotta. Peccato, perché a tratti i ragazzi riescono a produrre pezzi davvero di qualità, ma la tracklist eccessivamente carica e qualche scelta discutibile intaccano il risultato complessivo.

Ad esempio: aver piazzato alcuni dei singoli recenti da loro pubblicati in fondo alla scaletta sembra una mossa puramente votata a massimizzare gli streaming, ma rendono il CD eccessivamente lungo (quasi 53 minuti) e non aggiungono nulla al risultato finale. BLA BLA BLA è una delle peggiori canzoni rock degli ultimi anni e ferma l’inizio promettente di “RUSH!”, KOOL KIDS scimmiotta incomprensibilmente il post-punk britannico.

Dall’altro lato, abbiamo alcuni pezzi indubbiamente riusciti: la doppietta iniziale OWN MY MINDGOSSIP (quest’ultima con Tom Morello) sprigiona adrenalina, LA FINE è un ottimo pezzo rock, GASOLINE migliora ad ogni ascolto, non male le ballate IL DONO DELLA VITA e IF NOT FOR YOU. In generale, come già ricordato, il CD pecca nella costruzione della scaletta: errore che potrà senza dubbio essere corretto nei futuri lavori della band.

Liricamente, invece, i Nostri riescono a piazzare alcuni versi ben assestati: “You’re not iconic, you are just like them all, don’t act like you don’t know” (da GOSSIP) sembra rivolto tanto a loro stessi quanto a chi nell’industria musicale dubita di loro. In FEEL i Måneskin rievocano la “cocaina sul tavolo”, il presunto scandalo che ha rischiato di oscurare la loro vittoria all’Eurovision Song Contest del 2021. Infine, MARK CHAPMAN rievoca la figura dell’assassino di John Lennon e in GASOLINE Damiano David chiede: “How are you sleeping at night? How do you close both your eyes? Living with all of those lives on your hands?”, rivolto a Vladimir Putin e alle conseguenze della tragica invasione dell’Ucraina.

In conclusione, “RUSH!” non cancella i dubbi che molti avranno sui Måneskin, un fenomeno secondo loro costruito dai media piuttosto che basato su reali meriti artistici. Noi ad A-Rock vogliamo dare ancora una chance ai ragazzi romani: il prossimo LP sarà la prova della verità per il gruppo. Per il momento Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan potranno continuare a godersi gli altissimi numeri di streaming che “RUSH!” sicuramente regalerà loro.

Voto finale: 6.

Mac DeMarco, “Five Easy Hot Dogs”

five easy hot dogs

Il nuovo CD del cantautore canadese è composto da soli pezzi strumentali. Sebbene rappresenti un gradito cambio di passo in un’estetica che cominciava a farsi ripetitiva, nessuna delle melodie cattura davvero l’attenzione dell’ascoltatore, rendendo “Five Easy Hot Dogs” più adatto come musica di accompagnamento ad altre attività, che sia studiare o lavorare.

Mac ha deciso di comporre “Five Easy Hot Dogs” durante un lungo viaggio in America e Canada, tanto che le canzoni prendono i nomi dalle località in cui sono state composte. Alcune sono state composte nella medesima città: abbiamo infatti tre Vancouver, due Portland… DeMarco conferma il suo talento per gli arrangiamenti semplici, ma non per questo scontati; allo stesso tempo, la mancanza della parte cantata si fa sentire, soprattutto verso la fine del lavoro.

Nessuna delle 14 canzoni in scaletta, come detto, si distingue nettamente dalle altre, rendendo “Five Easy Hot Dogs” un CD gradevole e coerente, ma davvero leggero e poco memorabile. È davvero questo il destino di un cantautore una volta visto come uno dei migliori della sua generazione, che ha composto in passato CD interessanti come “2” (2012) e “Salad Days” (2014)?

Voto finale: 6.

Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 5 album più deludenti del 2022

Il 2022 ci ha regalato molti ottimi dischi, ma anche alcuni che meritano di essere menzionati per la loro mediocrità. Come di consueto, A-Rock inizia il suo recap di fine anno partendo dai più deludenti album dell’anno: in questa edizione abbiamo lavori di superstar come Drake e Kanye West, così come di band rock stagionate ma finora abbastanza affidabili come Muse e Kasabian. Infine, spazio all’ultimo CD dei Bloc Party. Buona lettura!

Bloc Party, “Alpha Games”

alpha games

I Bloc Party mancavano dalle scene da ben sei anni: al 2016 risale infatti “Hymns”, il disco che all’epoca definimmo come un deciso cambio di passo, ma nella direzione sbagliata. Mischiando gospel con melodie elettroniche, il CD era un fiasco su più o meno tutta la linea, facendo rimpiangere non solo i tempi del fondamentale “Silent Alarm” (2005), ma anche di “A Weekend In The City” (2007).

“Alpha Games” ritorna alle sonorità indie rock che hanno fatto la fortuna del gruppo britannico, un po’ quanto tentato da “Four” (2012): anche in questa occasione, tuttavia, l’energia dei tempi migliori non è presente nella maggior parte dei brani. Abbiamo momenti interessanti come l’iniziale Day Drinker, in cui il cantato di Kele Okereke rasenta l’hip hop, oppure la buona Traps. Accanto a questi troviamo però Rough Justice e By Any Means Necessary, che sembrano b-side dei tempi d’oro del gruppo. Peccato poi che Callum Is A Snake, con potente base punk, duri solo due minuti.

Il maggior problema di “Alpha Games” è che pare estratto da un anno a caso tra il 2001 e il 2007: i Bloc Party, malgrado i cambi di formazione avvenuti nel corso degli anni, che hanno portato Gordon Moakes (basso) e Matt Tong (batteria) ad essere rimpiazzati, con perdite, da Justin Harris e Louise Bartle, sono tornati alla fine alle sonorità delle origini, ovviamente con minor impatto e ispirazione.

Pur rappresentando quindi un progresso rispetto ad “Hymns”, “Alpha Games” resta un lavoro mediocre, in cui i Bloc Party si aggrappano a quello che sanno fare meglio (un indie rock sbarazzino e ballabile) con disperazione, forse sapendo che mai torneranno alla miracolosa creatività che ha reso “Silent Alarm” un disco fondamentale degli anni ’00.

Drake, “Honestly, Nevermind”

honestly nevermind

Il primo disco pubblicato nel 2022 dalla popstar canadese tenta di cambiare le carte in tavola di un’estetica da troppo tempo bloccata sui binari ben noti del pop-rap, con parziali inflessioni trap. I risultati? Non buoni purtroppo, segno di un Drake tremendamente affaticato.

Una cosa colpisce subito di “Honestly, Nevermind”: è come se Drake avesse provato a ricreare Passionfruit per 14 volte e 52 minuti di durata complessiva. L’esito di questo esperimento non è soddisfacente, ma se non altro denota un Drake voglioso di tornare protagonista anche sul lato creativo.

Se fino a “Certified Lover Boy” (2021) avevamo dei CD a firma Drake sovraccarichi, lunghi ma pieni di ospiti di spessore e sample spesso irresistibili, “Honestly, Nevermind” va molto all’essenziale, un po’ come “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015). Il fatto, poi, che ormai per lui rappare sia più un passatempo che la principale caratteristica della sua estetica rende quei pochi brani carichi di rime, come Sticky, degli eventi.

La cosa che più sorprende in negativo di questo LP, che lo distingue dal passato della produzione del Nostro, è che sono poche le canzoni davvero memorabili: “Honestly, Nevermind” pare più una playlist da ascoltare di sottofondo in spiaggia che un insieme articolato e coerente. Se “More Life” (2017) almeno era un prodotto vivo e creativamente notevole nei suoi momenti migliori, questo CD invece suona per lo più piatto.

La parte più interessante del disco è quella centrale, in particolare il duo formato da Sticky e Massive, che sposano bene rap e house. Da menzionare poi la collaborazione con 21 Savage, Jimmy Cooks, che chiude il lavoro. Invece molto deboli Falling Back, Liability e Calling My Name.

In conclusione, “Honestly, Nevermind” segna allo stesso tempo un passo avanti e uno indietro per Drake: se da un lato lo vediamo più aperto a sperimentare con generi disparati come house, dance e ritmi africaneggianti, dall’altro la qualità delle canzoni continua a latitare. L’artista capace di comporre LP riusciti come “Take Care” (2011) e “Nothing Was The Same” (2013) tornerà mai a quei livelli?

Kanye West, “Donda 2”

donda 2

Il secondo CD pubblicato da Kanye West in memoria della madre è il peggiore della sua carriera, di gran lunga: se in passato, anche nei momenti più cupi, il rapper statunitense era riuscito a trarre qualcosa di buono dalle sessioni di registrazione (già il primo “Donda” zoppicava molto da questo punto di vista), nel 2022 il suo essere bipolare ha evidentemente avuto la meglio. Basta rileggersi a tal riguardo le sue dichiarazioni sconcertanti sull’ebraismo o sulla storia degli afroamericani.

In “Donda 2” non funziona nulla o quasi: la produzione, un tempo punto di forza in ogni LP a firma Kanye West, è spesso un’aggravante, quasi fossimo di fronte a dei demo e non ad un prodotto finito. Si fa prima a menzionare le buone canzoni di quelle cattive, in una tracklist tanto frammentaria quanto spesso incomprensibile: abbiamo due buone melodie (City Of God e True Love), ma d’altro canto Louie Bags e Get Lost sono pressoché inascoltabili.

Colpisce poi il testo di molte melodie: Ye (come West si fa chiamare ora) utilizza questo disco più come pretesto per attaccare la ex moglie Kim Kardashian e il suo (ex) nuovo fidanzato Pete Davidson piuttosto che per onorare la memoria della madre.

Insomma, c’è davvero poco da salvare: “Donda 2”, presentato come un lavoro rivoluzionario in grado di cambiare la musica grazie alla sua associazione al cosiddetto Stem Player, si è rivelato un flop colossale. Date le sue ultime sparate, Kanye West si è dimostrato un uomo che ha bisogno di aiuto: vedere l’autore di album immortali come “Late Registration” (2005) e “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) in questo stato è davvero triste.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

Recap: novembre 2022

Anche novembre è finito. Un mese molto intenso, l’ultimo che conterà ai fini della redazione della classifica dei 50 migliori CD dell’anno di A-Rock, come di consueto. Recensiamo i nuovi album di Drake & 21 Savage, degli Special Interest e dei Phoenix. Inoltre, spazio a King Gizzard & The Lizard Wizard, Weyes Blood e Bruce Springsteen. Infine, lato hip hop, abbiamo avuto i due album di addio dei BROCKHAMPTON e il ritorno di Nas. Buona lettura!

Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

and in the darkness hearts aglow

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, secondo Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

Voto finale: 8,5.

Special Interest, “Endure”

endure

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

Voto finale: 8.

Nas, “King’s Disease III”

King's Disease III

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” / “Laminated Denim” / “Changes”

A-Rock non ha mai tentato un’impresa simile: recensire tre CD della stessa band, usciti nello stesso mese! Del resto, i King Gizzard & The Lizard Wizard ci hanno abituato fin troppo bene in termini di prolificità, mai però erano arrivati a questi livelli di follia. Ma andiamo con ordine.

Il primo LP (ben 63 minuti), “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

Il secondo album del lotto è “Laminated Denim”: composto di due lunghe suite di esattamente 15 minuti ciascuna (un’idea di simmetria già in parte affrontata dai Nostri in “Quarters!” del 2015), rappresenta un’ideale pausa prima dell’ultimo capitolo della trilogia. Sia The Land Before Timeland che Hypertension non rappresentano grosse innovazioni rispetto all’estetica complessiva degli australiani: krautrock e psichedelia la fanno da padrone.

Complessivamente, “Laminated Denim” è la minore delle tre pubblicazioni, sia nelle intenzioni che nella realizzazione, ma non sfigura.

Il terzo ad ultimo LP della mischia è “Changes”: un lavoro prettamente pop, con tracce di psichedelia che mantengono l’estetica degli aussie sui consueti binari. Ad essere precisi, questo è uno dei loro CD più pop, insieme forse a “Paper Mâché Dream Balloon” (2015): ne sono esempi la lunghissima title track e No Body. Ottima la jazzata Astroturf.

In generale, “Changes” chiude molto gradevolmente una trilogia di buona fattura, in cui i King Gizzard & The Lizard Wizard mostrano il loro lato migliore. Avremo sempre il dubbio che, se si concentrassero su un singolo disco, potrebbero davvero sfornare un capolavoro. Resta tuttavia ammirevole la loro dedizione alla musica, con pochi se non nessun pari al mondo.

Voto finale: 7,5.

BROCKHAMPTON, “The Family” / “TM”

I BROCKHAMPTON sono una delle boy band hip hop più celebri al mondo: la notizia del loro scioglimento ha in effetti provocato varie discussioni sui social e nella critica specializzata. I ragazzi hanno fatto le cose in grande: ben due CD per salutare i loro fan. I risultati, comprensibilmente, non sono ovunque impeccabili, ma Kevin Abstract e co. confermano il loro talento.

“The Family” era l’album ufficialmente annunciato come addio al pubblico del progetto BROCKHAMPTON. Molto spesso in effetti troviamo messaggi agrodolci da parte dei membri del gruppo; l’eccessiva varietà di canzoni può risultare difficile ad assimilare ai primi ascolti, ma parlando di un CD che chiude una fase importante della vita dei BROCKHAMPTON era lecito aspettarsi un mix delle influenze che li hanno definiti.

Troviamo infatti brani soul (All That), hip hop (Take It Back, Basement) e molti che flirtano con svariati altri generi (Big Pussy, ad esempio, inizia quasi come un brano dei black midi più jazz, mentre Any Way You Want Me è puro lounge pop).

La cosa curiosa è che “The Family” suona spesso come un progetto solista di Kevin Abstract, da molti riconosciuto come il più talentuoso della compagnia, ma anche come un’influenza controversa sulla band. Prova ne sono alcuni versi, presi dalla title track: “I don’t feel guilty from wakin’ you up when you sleep, I don’t feel guilty from cuttin’ your verse from this beat, I don’t feel guilty for heat you caught from my tweets”. Altrove troviamo anche “Do we see each other? Hardly. Shit we made together? Godly. Did we sign for too many motherfuckin’ albums? Probably” (Gold Teeth) e “I wasn’t really there for my brothers… Barely present, more focused on bad relationships. It was good for my image, I got lost in it. That’s when I first started drinking, lost my hunger, man” (Brockhampton).

In generale, il CD suona frammentario, contando ben 17 brani per poco più di 35 minuti di durata. Questo è sempre stato il bello e il brutto dei BROCKHAMPTON: prolificità e varietà stilistica a discapito della coesione dei progetti.

La seconda gamba dell’addio dei BROCKHAMPTON è “TM”, un CD più collaborativo rispetto a “The Family” e per questo probabilmente da prendersi come il vero commiato della boy band. Abbiamo pezzi trap (FMG, LISTERINE) accanto ad altri pop (ANIMAL, MAN ON THE MOON) oppure R&B (DUCT TAPE): il polimorfismo dei Nostri è quindi sempre presente.

Liricamente, i temi sono molto simili a quelli affrontati da Abstract in “The Family”: la necessità di abbandonare il progetto BROCKHAMPTON unita alla nostalgia per i bei momenti passati insieme, visti però con uno sguardo più collettivo rispetto al CD fratello.

In conclusione, pur essendo di fronte a due lavori imperfetti, per differenti ragioni, i BROCKHAMPTON lasciano i fan con due opere incompiute, ma non disprezzabili. Vedremo in futuro se, da solisti, i membri della band saranno in grado di risolvere questo problema.

Voto finale: 7.

Phoenix, “Alpha Zulu”

alpha zulu

Il settimo album dei veterani dell’indie pop francese segue di ben cinque anni “Ti Amo” (2017), il loro album “italiano”. Thomas Mars e compagni hanno registrato il CD all’interno del Louvre e la copertina così evocativa è un gentile omaggio al museo; musicalmente, “Alpha Zulu” suona bene ed è certamente divertente. Non parliamo di un lavoro rivoluzionario per l’estetica dei francesi, ma nei suoi momenti migliori il CD riporta a “Wolfgang Amadeus Phoenix” (2009), il capolavoro dei Phoenix.

Il pezzo forte della selezione è senza dubbio Tonight, con la gradita collaborazione di Ezra Koenig dei Vampire Weekend: sembra proprio di tornare ai primi anni ’10, quando Phoenix e Vampire Weekend erano tra i principali protagonisti della scena indie rock mondiale. L’effetto nostalgia prosegue con la pregevole Winter Solstice, che sarebbe stata bene nei primi album del gruppo francese. Invece inferiori alla media Season 2 e All Eyes On Me, fin troppo prevedibili anche per una band “tradizionalista” come i Phoenix. Menzione poi per le più ballabili Alpha Zulu e The Only One, che provano a ringiovanire il pop sofisticato dei Phoenix attraverso ritmi quasi EDM.

“Alpha Zulu” riesce quindi a tenere Thomas Mars e co. sulla bocca di pubblico e critica attraverso 35 minuti di buona musica, divertente e ben costruita. Quello che ci vuole in tempi non semplici, certo; i più severi potrebbero però legittimamente pensare che, parlando di una band attiva da più di vent’anni, sarebbe anche benvenuto un cambio di passo. La risposta dei Phoenix sarebbe probabilmente la seguente: perché cambiare una formula che ancora funziona così bene?

Voto finale: 7.

Drake feat. 21 Savage, “Her Loss”

her loss

Il primo album collaborativo tra Drake e 21 Savage rappresenta un sicuro miglioramento rispetto ai recenti CD del primo. Se “Certified Lover Boy” (2021) e “Honestly, Nevermind” (2022) avevano deluso soprattutto la critica (restando invece intatto il successo commerciale), “Her Loss” trova un Aubrey Graham più a suo agio. Aiutato dal giovane collega, la superstar canadese ha infatti pubblicato il suo miglior lavoro da “Dark Lane Demo Tapes” (2020).

La parte iniziale del CD è davvero convincente: Rich Flex cambia beat almeno tre volte e sia 21 Savage che Drake sono pienamente in controllo della situazione. Buone anche le seguenti Major Distribution e On BS. Va detto che, soprattutto nella parte centrale, abbiamo momenti decisamente meno eccitanti: prova ne siano Hours Of Silence e Treacherous Twins. Menzione invece per Pussy & Millions, con la collaborazione di Travis Scott, e Circo Loco, in cui viene campionata One More Time dei Daft Punk. In generale, si fanno preferire le canzoni pienamente collaborative: quelle a sola firma Drake (Jumbotron Shit Poppin, I Guess It’s Fuck Me) e 21 Savage (3 AM On Glenwood), pur non totalmente disprezzabili, sono business as usual.

Liricamente, sia la copertina che il titolo del disco fanno presagire un lavoro amaro, fatto di invettive contro le numerose figure femminili che hanno tradito la fiducia dei due rapper. La conferma arriva puntuale: chi segue Drake con attenzione sa che questo non è un tema per nulla nuovo nella discografia del canadese, laddove 21 Savage è invece usualmente più focalizzato sulla vita di strada, spesso fatta di immagini crude.

In generale, tuttavia, siamo di fronte ad un buon LP. I 60 minuti di durata, pur con i già accennati inciampi, passano gradevolmente. Che sia un punto di ripartenza, almeno dal punto di vista artistico, per Drake? Dal lato suo, 21 Savage si conferma rapper talentuoso e meritevole del suo crescente successo.

Voto finale: 7.

Bruce Springsteen, “Only The Strong Survive”

only the strong survive

Il nuovo album del Boss è in realtà una raccolta di cover, in cui sono state riviste canzoni originariamente di stampo soul. Al centro del CD vi è la voce di Springsteen, allo stesso tempo consumata ed espressiva come mai prima; non parliamo di un disco fondamentale in una carriera già leggendaria, ma certamente i fan del rocker americano avranno soddisfazione ascoltando “Only The Strong Survive”.

Questa è la seconda raccolta di cover di Bruce, dopo “We Shall Overcome: The Seeger Sessions” (2006) e segue “Letter To You” (2020): le canzoni sono state arrangiate durante il lockdown pandemico nel suo studio col fidato collaboratore Ron Aniello, ma senza la E-Street Band. Se quindi la base ritmica può risultare più soft del solito, allo stesso tempo si ha una maggiore cura per la composizione complessiva e, come già detto, maggiore spazio per la voce del Nostro.

Alcune canzoni risultano prevedibili (The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, When She Was My Girl), ma nei suoi momenti migliori abbiamo un buon disco di Bruce Springsteen: Nightshift e Do I Love You (Indeed I Do) sono buonissime reinterpretazioni.

In generale, un CD di cover rappresenta solitamente un modo per gli artisti di omaggiare i propri riferimenti e ricaricare le batterie in vista di nuovi album di inediti. Se “Western Stars” (2019) e il già menzionato “Letter To You” erano highlight di fine carriera per Springsteen, speriamo che la trilogia di album del Boss post “High Hopes” (2014) si chiuda in maniera soddisfacente nel prossimo futuro.

Voto finale: 6,5.

Recap: ottobre 2022

Dopo un settembre davvero denso, anche ottobre non è stato da meno. Oltre agli Arctic Monkeys, a cui abbiamo dedicato un articolo ad hoc, abbiamo infatti recensito album molto attesi da pubblico e critica, come il terzo album degli Alvvays e il ritorno di Carly Rae Jepsen. Inoltre, sul versante pop spazio a Taylor Swift e The 1975. Abbiamo poi il secondo CD del 2022 dei Red Hot Chili Peppers e il ritorno dei Sorry. Spazio, infine, al ritorno dei Dry Cleaning e al secondo EP del 2022 di Burial. Buona lettura!

Alvvays, “Blue Rev”

blue rev

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

Voto finale: 8,5.

The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

Being Funny In A Foreign Language

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

Voto finale: 8.

Taylor Swift, “Midnights”

midnights

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

Voto finale: 8.

Sorry, “Anywhere But Here”

Anywhere But Here

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

Voto finale: 7,5.

Red Hot Chili Peppers, “Return Of The Dream Canteen”

return of the dream canteen

Il secondo album del 2022 dei RHCP, per un totale di 34 brani pubblicati (!), espande quanto già presentato in “Unlimited Love”: la chitarra di John Frusciante in primo piano in quasi tutte le composizioni, testi assurdi oppure nostalgici, una durata tanto eccessiva (75 minuti) quanto generosa per i propri fan… Insomma, siamo di fronte ad un tipico album dei Red Hot Chili Peppers.

Non si pensi, però, che “Return Of The Dream Canteen” sia composto dagli scarti delle sessioni che hanno portato a “Unlimited Love”: anzi, in molte cose i due CD si equivalgono. Ad esempio, Tippa My Tongue e Eddie, canzone tributo al mitico Eddie Van Halen, sono buonissimi pezzi e sono tra gli highlight non solo del disco, ma della produzione di Anthony Kiedis e co. dal 2006 in avanti.

Date queste premesse, aspettarsi un capolavoro di fine carriera da parte dei Red Hot Chili Peppers sarebbe un azzardo; tuttavia, alcuni momenti resisteranno alla prova del tempo e, probabilmente, saranno dei capisaldi dei concerti dei Nostri. Oltre alle già ricordate Eddie e Tippa My Tongue, non sono per niente male Peace And Love e Reach Out. Invece alcune melodie sanno eccessivamente di già sentito: è questo il caso di Roulette e La La La La La La La La. Interessante poi l’esperimento di Frusciante al sax in My Cigarette.

In conclusione, “Return Of The Dream Canteen” è un altro solido CD a firma Red Hot Chili Peppers: Kiedis, Chad Smith, Flea e il “figliol prodigo” John Frusciante hanno dimostrato ancora una volta la loro capacità di navigare le acque del rock alternativo e del funk con qualità, pur mancando l’inventiva e le scintille che hanno portato “Californication” (1998) a diventare un classico.

Voto finale: 7,5.

Dry Cleaning, “Stumpwork”

stumpwork

Il secondo album dei britannici Dry Cleaning, oltre ad avere una delle cover più strambe degli ultimi tempi, espande quello che era il suono del loro esordio “New Long Leg” (2021), oggetto anche di un profilo Rising del nostro blog per il suo strano mix di post-punk e una voce tanto piatta quanto capace di descrivere la quotidianità con nitidezza.

“Stumpwork” riprende quanto intravisto con “New Long Leg”, cercando però di creare dinamiche diverse, che a volte richiamano addirittura il dream pop (Conservative Hell) e il post-rock (Liberty Log). A colpire, come già anticipato, è il modo in cui la frontwoman Florence Shaw approccia il suo ruolo: voce inespressiva, quasi come si fosse davanti alla voce del Tom Tom o del traduttore. Può piacere o meno, ma è un tratto caratteristico del gruppo, che lo associa a leggende del passato come i Sonic Youth, senza però la loro stessa furia iconoclasta.

Come sempre, i testi sono il pezzo forte dei lavori dei Dry Cleaning: Shaw riesce a farci scordare la durezza degli scorsi due anni parlandoci della sua tartaruga, Gary Ashby, fuggita di casa nell’omonima Gary Ashby. Altrove abbiamo buoni consigli di vita (“For a happy and exciting life… stay interested in the world around you” canta Florence in Icebergs) e più o meno gentili richieste di lasciarla stare mentre gioca al computer (“Just don’t touch my gaming mouse”, Don’t Press Me). Il verso migliore è però contenuto nella notevole No Decent Shoes For Rain: “Oh, you drink wine and go on holiday now? OK! Well, OK, well, OK well” suona contemporaneamente arrabbiato e assurdo.

Oltre alla già menzionata No Decent Shoes For Rain, anche Hot Penny Day e la più raccolta Conservative Hell sono convincenti. Sotto la media invece Gary Ashby e la troppo breve Don’t Press Me.

Il CD può apparire difficile da digerire, soprattutto per i non fan del cosiddetto spoken-word, ossia quel modo di cantare che quasi equivale al tono colloquiale. Tuttavia, diamo atto ai Dry Cleaning di avere una propria identità in un’affollatissima scena post-punk britannica. “Stumpwork”, anche grazie alla produzione del veterano John Parish (in passato collaboratore di PJ Harvey), riesce a convincere anche nei suoi momenti meno ispirati. Non parliamo di un capolavoro, ma sicuramente di un buon LP post-punk.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Streetlands”

streetlands

Non sono stati solo Jack White e i Red Hot Chili Peppers a pubblicare due lavori nel corso del 2022 (lasciamo da parte i King Gizzard & The Lizard Wizard, giunti addirittura a cinque!). Burial, il misterioso musicista inglese, segue “Antidawn” con questo “Streetlands”, secondo EP dell’anno per lui. I risultati restano discreti, ma nulla più: ribadiamo che i suoni ambient sembrano adattarsi meno rispetto al dubstep al Nostro.

L’EP si compone di tre tracce: Hospital Chapel, la title track ed Exokind. La prima è la più breve, arrivando ad otto minuti scarsi; invece, le seguenti melodie superano abbondantemente i dieci minuti. In generale, si conferma l’estetica complessiva del Burial più recente: panorami desertici evocati attraverso il minimo indispensabile, quasi fossimo in una colonna sonora di un film horror. A colpire è, inoltre, la totale assenza di percussioni: il musicista che aveva rivoluzionato la scena elettronica con l’ormai classico “Untrue” (2007) sembra ormai scomparso.

La traccia migliore è Streetlands, mentre è fin troppo monotona, pur essendo la più breve del lotto, Hospital Chapel. Il mood misterioso è quindi garantito dalla coerenza delle tre canzoni tra loro, ma i risultati complessivi sono appena sufficienti.

“Streetlands” conferma un Burial alla ricerca del prossimo step per la sua carriera: abbandonata (almeno apparentemente) la scena dubstep, il produttore britannico sta però faticando a trovare ispirazione nell’ambient. Vedremo se in futuro continuerà su questa strada oppure proverà a ripetere il miracolo più dubstep degli inizi di carriera.

Voto finale: 6,5.

Carly Rae Jepsen, “The Loneliest Time”

the loneliest time

Il nuovo album di Carly Rae Jepsen prosegue il percorso pop intrapreso ormai dieci anni fa, fatto di canzoni frizzanti, tastiere sempre in evidenza e testi spesso sospesi tra amori infranti e il desiderio di evadere dalla realtà. Tuttavia, se da un lato abbiamo alcune canzoni davvero poco ispirate, altre sembrano preludere ad un leggero cambio di estetica, che potrebbe giovare nel medio termine alla canadese.

“The Loneliest Time”, già dal titolo, sembra anticipare un CD più intimo rispetto alla doppietta “Dedicated” (2019) e “Dedicated Side B” (2020); e in effetti il primo singolo scelto da Jepsen per lanciare il lavoro, Western Wind (che vanta la collaborazione di Rostam Batmanglij, ex Vampire Weekend), è quasi cantautorale ed è uno degli highlight del disco. Invece altri episodi sono davvero deboli e forse non è un caso che siano le canzoni che più “suonano” come ci si aspetterebbe da Carly Rae Jepsen: sia Beach House che Joshua Tree sono infatti brani pop vuoti e per nulla interessanti. Altre buone prove sono invece Surrender My Heart e Bends. Citiamo infine la title track, che vanta la collaborazione di Rufus Wainwright.

In conclusione, “The Loneliest Time” non è certo il miglior lavoro dell’autrice della celeberrima Call Me Maybe: quel posto è probabilmente occupato da “E•MO•TION” (2015). Allo stesso tempo, pur essendo probabilmente un album di transizione, il CD contiene alcune tracce di un possibile futuro alternativo rispetto a quello da popstar che tutti conosciamo, che potrebbe contenere un risvolto imprevisto ma roseo per Jepsen.

Voto finale: 6,5.