I 50 migliori album del 2020 (25-1)

Eccoci arrivati alla seconda (e più prestigiosa) puntata della lista dei 50 migliori CD del 2020. Ieri, nel capitolo precedente, abbiamo visto pezzi da 90 come Bruce Springsteen, Dua Lipa e Harry Styles; chi avrà vinto il titolo di miglior album dell’anno? Buona lettura!

25) Adrianne Lenker, “songs” / “instrumentals”

(FOLK – ROCK)

La prolificità e la consistenza dimostrate nel corso degli ultimi anni da Adrianne Lenker hanno dell’incredibile: tra 2016 e 2020 abbiamo ben sette dischi (!) in cui lei collabora o si espone in prima persona, quattro con i Big Thief (di cui due nel 2019) e tre a suo nome, di cui due nell’infausto 2020. Infausto non solo per il Coronavirus: Adrianne infatti ha anche subito la rottura col suo partner di lunga data, tanto da sentirsi in dovere di rifugiarsi in una cabina in Massachusetts (un po’ à la Bon Iver) e comporre la coppia di lavori “songs” e “instrumentals”.

Sebbene quindi i due possano apparire divisi, in realtà vanno intesi come un unico lungo LP: una prima parte contenente canzoni vere e proprie, con Adrianne e la sua chitarra in primo piano, e una seconda composta da due lunghe suite strumentali, quasi ambient a tratti. I quasi 90 minuti tuttavia non pesano e fanno capire quanto dotata sia la cantautrice americana, uno dei volti più riconoscibili e meritevoli del panorama indie, sia sul versante rock che su quello folk.

“songs” è un album nato nella sofferenza, come abbiamo intuito e come Adrianne ribadisce in varie liriche del CD; tuttavia la sensazione che ne deriva ascoltandolo è di calma e serenità, grazie a pezzi efficaci come l’incantevole anything e not a lot, just forever. Non demeritano nemmeno ingydar e dragon eyes, mentre è un po’ monotona forwards beckon rebound.

Liricamente, dicevamo, il CD contiene frasi davvero espressive, con cui Lenker dichiara tutto il rammarico per la storia finita dopo sei anni di fidanzamento: “Tell me lies, wanna see your eyes. Is it a crime to say I still need you?” (two reverse), “Your dearest fantasy is to grow a baby in me” (not a lot, just forever), “Oh emptiness! Tell me ’bout your nature, maybe I’ve been getting you wrong” (zombie girl). Come detto, però, tutta questa malinconia non intacca il carattere del lavoro, che la Nostra mantiene su binari simili al primo Bon Iver e alla Joni Mitchell degli esordi.

“instrumentals” è la coda tanto misteriosa quanto affascinante di “songs”: formato da soli due pezzi molto estesi, music for indigo e mostly chimes, ha comunque una durata di 37 minuti e una capacità di evocare luoghi e sensazioni non banale. Se la prima almeno presenta la chitarra in primo piano, mostly chimes è invece un pezzo ambient puro e semplice, che pare voler fare scomparire del tutto la figura di Adrianne Lenker, riuscendoci peraltro in pieno.

Accostare Joni Mitchell così come Leonard Cohen e Bob Dylan a Lenker inizia a non essere un affronto; nulla di male, anzi. Adrianne, sia da frontwoman dei Big Thief che solista, ha trovato una sua preziosa dimensione, fatta di canzoni raffinate, semplici ma mai scontate e testi fantastici. “songs” e “instrumentals” sono la dimostrazione ulteriore che siamo di fronte ad un talento straordinario, che merita ogni riconoscimento.

24) Phoebe Bridgers, “Punisher”

(ROCK – FOLK)

Nel mondo del folk Phoebe Bridgers è conosciuta come un talento cristallino, capace di trovare una propria dimensione sia come artista in proprio (fin dal suo esordio “Stranger In The Alps” del 2017) che come collaboratrice, sia nelle boygenius (assieme a Lucy Dacus e Julien Baker) che nei Better Oblivion Community Centre (con Conor Oberst).

Tutto questo sottolinea la grande prolificità della Nostra: fra 2017 e 2020 ha infatti collaborato attivamente a quattro fra dischi ed EP, producendo inoltre i lavori più recenti di Blake Mills e Christian Lee Hutson. L’iperattività di Phoebe non è tuttavia mai andata a scapito della qualità: evolvendo progressivamente rispetto al timido esordio, la Bridgers ha infatti costruito un proprio universo, fatto di candida sincerità e melodie avvolgenti, sbocciando pienamente in “Punisher”.

La breve DVD Menu vale da introduzione alla prima vera perla del CD, quella Garden Song non a caso scelta come singolo di lancio, gran pezzo folk. Segue a ruota la seconda meraviglia, Kyoto: un brano indie rock degno dei migliori Deerhunter, impreziosito dalla delicata voce di Phoebe. La cantautrice statunitense decide poi di rallentare i ritmi, tornando alla lentezza di “Stranger In The Alps”, per poi accelerare di nuovo nell’ottima Chinese Satellite.

La seconda parte di “Punisher” mantiene questa struttura a due facce, creando un LP variegato ma mai troppo slegato. Le liriche, poi, fungono da perfetto complemento: il candore di Phoebe Bridgers è cosa nota, qui si arricchisce di dediche al defunto maestro Elliott Smith (la title track) e riferimenti più o meno velati e ironici alla fine del mondo (“Yeah, I guess the end is here” canta in I Know The End, che chiude epicamente il CD).

“Punisher” è quindi un CD tutto da gustare, in cui Phoebe Bridgers mette in mostra tutto il suo talento, aiutata anche dalla collaborazione degli storici amici boygenius e Conor Oberst e mostrando una maturità compositiva che pare pienamente raggiunta.

23) Neil Young, “Homegrown”

(FOLK – ROCK)

Il 19 giugno 2020 resterà impresso nella memoria degli amanti del rock classico per lungo tempo: quel giorno sono infatti usciti i nuovi dischi di due leggende come Bob Dylan e Neil Young. “Homegrown” è in realtà uno dei tanti “dischi perduti” del cantautore canadese: registrato originariamente nel 1974, poi scartato in favore del più tenebroso “Tonight’s The Night” (1975), il CD è un’ottima dimostrazione che, negli anni ’70 del XX secolo, gli scarti di Young sarebbero stati oro per il 90% dei suoi colleghi musicisti.

Il lavoro riprende il familiare folk-rock del Nostro, con delicati intarsi di country e addirittura una parte spoken word (Florida). Le canzoni sono brevi, addirittura Mexico non arriva a 2 minuti, come del resto il disco che dura a malapena 35 minuti. Questo da un lato favorisce l’ascolto, dall’altro ci fa desiderare di più, data l’efficacia della maggior parte dei brani.

La title track, con la sua chitarra in evidenza, è una perla e probabilmente uno dei brani più belli del Neil Young post 2000. Da menzionare anche la più mossa Vacancy. Ma nulla in realtà è superfluo, creando un’atmosfera rilassata malgrado a volte le liriche siano piuttosto tetre.

Ad esempio, Florida narra la storia immaginaria di Young che salva un bambino dopo un incidente mortale per i genitori del bimbo; invece White Lines contiene la criptica lirica “That old white line is a friend of mine”, riferimento forse alla cocaina? È chiaro che il cantautore si mette a nudo, fatto evidenziato anche dalla delicata Try, in cui Neil canta “Darlin’, the door is open to my heart, and I’ve been hoping that you won’t be the one to struggle with the key”, chiaro riferimento alla storia d’amore appena terminata con l’attrice Carrie Snodgress.

“Homegrown” è un CD imperdibile non solo per i collezionisti e per i fans duri e puri di Neil Young; è un lavoro consigliato a tutti gli amanti della musica rock, passata e presente. Anche più di “Hitchhiker” (2017), altro LP perduto da tempo di Neil Young recentemente riemerso, è una testimonianza del talento immenso di uno dei più grandi cantautori degli ultimi 50 anni.

22) Moodymann, “TAKEN AWAY”

(ELETTRONICA)

Il nono disco di Moodymann, leggenda della scena house americana, è un’altra aggiunta di valore ad una discografia sempre più ragguardevole. “TAKEN AWAY” arriva solo un anno dopo “SINNER” e anch’esso non è stato inizialmente condiviso sulle principali piattaforme di streaming (mentre “SINNER” è da qualche mese disponibile, “TAKEN AWAY” tuttora non lo è), ma solo sul profilo Bandcamp dell’artista. Scelta inconsueta per molti, non per Kenny Dixon Jr. (questo il vero nome di Moodymann), DJ sempre misterioso, tornato sulle scene nel 2014 dopo dieci anni di strana assenza.

“TAKEN AWAY” non è un titolo casuale: Moodymann infatti l’anno passato è stato vittima di una violenza a cui ormai siamo abituati da parte della polizia americana, che l’ha portato in cella e minacciato con le pistole puntate a seguito di “comportamenti sospetti”. L’episodio ha legittimamente scosso Dixon, che intitolando il nuovo lavoro “TAKEN AWAY” (ovvero “portato via”) e scegliendo basi meno funky del solito, a volte davvero cupe, ha impresso un tono decisamente più cupo del solito al CD.

Ne sentiamo echi in alcune parti testuali, ad esempio in Let Me In Moodymann canta “You’ve never been a good soul to anyone, especially me”; in Slow Down avvertiamo improvvisamente delle sirene di polizia arrivare minacciose, per poi dissolversi. Le sirene tornano anche nella title track, allegra ma allo stesso tempo pervasa da una malinconia, quasi un senso di inquietudine che rende “TAKEN AWAY” il disco più cupo a firma Moodymann.

Kenny Dixon Jr. si conferma una volta di più maestro dell’elettronica, capace di scrivere canzoni profonde ma mai monotone e anzi con alto replay value, prova ne siano le affascinanti Let Me Show You Love e Taken Away. Unica nota stonata è I’m Already Hi, ma il bilancio dell’album resta positivo. “TAKEN AWAY” è uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno, un risultato non scontato per un musicista che fa ballare le folle da ormai tre decadi.

21) Lianne La Havas, “Lianne La Havas”

(POP – SOUL – R&B)

Il terzo album della fascinosa cantante inglese è il suo lavoro più sicuro e convincente. Fin dal titolo il taglio è decisamente personale: “Lianne La Havas” è infatti un CD che tratta temi molto intimi per la Nostra, soprattutto la separazione dal suo partner di Los Angeles (esemplare Please Don’t Make Me Cry). Tuttavia, le melodie non disegnano paesaggi desolati: Lianne infatti mantiene un delicato equilibrio fra soul, R&B e folk che rende il disco imperdibile per gli amanti della musica più rasserenante ma non per questo “leggerina”.

Il lavoro arriva ben cinque anni dopo il precedente “Blood”, un periodo di tempo in cui molti pubblicano due/tre CD di inediti: Lianne ha deciso di riflettere attentamente sulla mossa successiva al CD che l’aveva definitivamente consacrata, tanto da metterla nell’orbita di un certo Prince, che era rimasto affascinato dalla sua bravura alla chitarra e dalla bella voce di Lianne. “Lianne La Havas” prosegue il percorso intrapreso, ma lo aggiorna con melodie più raccolte (trova spazio anche un’efficace cover di Weird Fishes dei Radiohead).

Nessun brano è davvero inefficace, solo il breve Out Of Your Mind (Interlude) è superfluo e rovina parzialmente il ritmo e la coesione del disco. Spiccano invece Paper Thin e la complessa Sour Flower, che riportano alla mente i migliori momenti di “A Seat At The Table” (2016) di Solange Knowles, la sorellina di Beyoncé, solo con minore attenzione alla politica e maggiore introspezione.

Lianne La Havas era un nome chiacchierato nella scena pop inglese; accanto alla bella voce e al fascino personale, infatti, la cantautrice sa sfoderare canzoni subito accattivanti e che migliorano ad ogni ascolto. “Lianne La Havas” è il compimento di un percorso di crescita personale sempre più intrigante, che ci fa sperare di aver trovato una grande interprete nel mondo soul/R&B.

20) The Microphones, “Microphones In 2020”

(FOLK)

Il nuovo disco di Phil Elverum resuscita l’alias che lo lanciò ormai più di venti anni fa: i The Microphones, in realtà sempre un progetto solista come il successivo Mount Eerie. “Microphones In 2020” è il ritorno più che benvenuto di uno dei progetti più amati dell’indie anni ’00: Phil analizza nell’unica lunga canzone (oltre 45 minuti!) molta parte della sua vita, soprattutto la sua gioventù, anche se non mancano riferimenti più recenti ai tragici eventi che l’hanno colpito negli scorsi anni.

Elverum si conferma musicista di grande talento: la traccia si regge infatti su degli accordi di chitarra acustica molto semplici, solo occasionalmente intervengono altri strumenti come il basso e la chitarra elettrica. Nondimeno, non ci sono momenti persi o monotoni, forse solamente la lunga intro poteva essere accorciata. Pertanto, possiamo dire che “Microphones In 2020” certamente non rovina l’eredità del progetto, anzi l’arricchisce di un capitolo inaspettato ma non superfluo.

L’aspetto lirico, come spesso nei CD a firma Phil Elverum, è fondamentale. Laddove i lavori più recenti del cantautore americano si concentrano su dettagli della vita quotidiana, spesso drammatici a seguito della morte della moglie Geneviève Castrée nel 2016, i The Microphones avevano sempre posto lo sguardo sulla natura, addirittura sul cosmo. In un certo senso “Microphones In 2020” fonde queste due estetiche, con Phil che rievoca episodi lontani nel tempo ma anche alcuni accaduti pochi anni fa, non disdegnando però le domande “generali” sul senso della vita.

Di seguito ecco alcuni dei momenti più delicati o, alternativamente, inquisitori: “Conceptual emptiness was cool to talk about back before I knew my way around these hospitals” è un amaro rimando al periodo più drammatico della vita di Elverum; “Every song I’ve ever sung is about the same thing: standing on the ground looking around, basically” è invece un’analisi onesta della sua estetica; “We’d go up on the roof at night and actually contemplate the moon… My friends and I trying to blow each others’ minds just lying there gazing, young and ridiculous” è infine un’immagine felice presa dalla sua gioventù. Il verso più bello è tuttavia contenuto nella parte finale del componimento, quasi un manifesto poetico: “I’m still standing in the weather looking for meaning in the giant meaningless days of love and loss repeatedly waterfalling down and the sun relentlessly rises still”.

In conclusione, per tutti i fans dei The Microphones il lavoro è imperdibile: pur essendo composto da un’unica lunga traccia, infatti, “Microphones In 2020” è un’ulteriore dimostrazione delle qualità di Phil Elverum, un autore per cui prolificità e bellezza vanno di pari passo. Non sono molti quelli di cui possiamo dire lo stesso.

19) Taylor Swift, “folklore” / “evermore”

(FOLK – POP)

Il nuovo doppio CD della popstar statunitense è una svolta radicale in una carriera sempre più interessante. Taylor Swift, la fidanzatina d’America, partita dal country e arrivata al pop da stadio, svolta verso il folk à la Bon Iver, con tocchi di Lana Del Rey e Phoebe Bridgers che non pensavamo potessero adattarsi all’estetica tutta lustrini messa in evidenza in “reputation” (2017) e “Lover” (2019).

“folklore” arriva solo un anno dopo “Lover” e senza alcuna campagna di marketing da parte di Taylor: decisamente insolito per una delle stelle più brillanti della scena pop. Altra mossa sorprendente è la collaborazione con alcuni capisaldi dell’indie, autori del calibro di Bon Iver e Aaron Dessner (The National). I risultati non piaceranno ai fans più pop di Taylor, ma ampliano notevolmente la palette sonora della cantautrice e le faranno guadagnare il rispetto anche del pubblico più “esigente”.

Non tutto è perfetto in “folklore”, va detto: le 16 canzoni alla lunga diventano ripetitive e alcune (come seven) sono puro riempitivo. Ecco, se avessimo di fronte un lavoro da 12 pezzi e 50 minuti saremmo senza dubbio di fronte al CD perfetto di Taylor Swift. Così invece il verdetto è sospeso: ci sarà chi preferirà il country-pop di “Red” (2012), chi la definitiva svolta mainstream di “1989” (2014), ma senza dubbio parleremo di “folklore” ancora per anni a venire.

Liricamente, in passato il centro di più o meno tutte le canzoni di Taylor era stato… sé stessa. Adesso invece la sua fantasia ha piena libertà: in the last great american dinasty si cita Rebekah Harkness e la dinastia dei Rockefeller, monopolisti del settore petrolifero nei primi anni del XX secolo. betty invece narra, dalla parte del maschio, la storia d’amore fra James e Betty, con il primo che ha tradito la seconda ma è sicuro di poterla riconquistare. Va notato che Betty era presente anche in cardigan, fra le migliori canzoni del CD.

Altri highlights sono la delicata mirrorball e august, mentre verso il finale, come già accennato, le melodie cominciano ad essere ripetitive. Ne sono esempi illicit affairs e invisible string.

In generale, però, il lavoro brilla grazie all’abbraccio totale che Swift fa dell’estetica indie di Bon Iver e Dessner; il famoso produttore Jack Antonoff, contrariamente al passato, ha infatti spazio solo marginalmente. “folklore” quindi ci fa riflettere su un mondo alternativo, in cui Taylor avrebbe continuato nel percorso country-folk solo occasionalmente pop e sarebbe diventata la stella crossover perfetta. La carriera della Nostra è stata invece contraddistinta da un clamoroso successo, tutto sommato meritato; e se però “folklore” fosse il suo CD più riuscito? Il dibattito è aperto.

La sfida viene incredibilmente lanciata solo alcuni mesi dopo da Taylor stessa: “evermore” è infatti il titolo del secondo CD del 2020 della popstar. Le atmosfere sono molto simili a “folklore”, il nuovo lavoro dal canto suo contiene forse melodie più pop e direttamente accessibili (si sentano la deliziosa willow e long story short).

Le 15 canzoni che compongono “evermore” sono coese fra loro, non ci sono veri passi falsi, forse solo cowboy like me è inferiore alla media, ma i risultati sono ancora una volta eccellenti. Se consideriamo che questo è il terzo album di Taylor Swift nel corso di soli 18 mesi, capiamo che siamo di fronte ad un periodo di creatività incredibile, paragonabile (sperando di evitare scomuniche dai fan più accaniti) al David Bowie del 1977 e al Prince del 1987.

Chiudiamo la nostra analisi con il parco ospiti di “evermore”: accanto a Vernon e Dessner, già dimostratisi ottimi collaboratori in “folklore”, abbiamo anche Matt Berninger e le HAIM, rispettivamente nella raccolta coney island e nella quasi country no body, no crime.

Questi due CD non solo sono ad oggi la vetta della produzione di Taylor Swift, sono anche una rivoluzione nelle tecniche di marketing: in passato i dischi venivano lanciati da lunghe campagne marketing, interviste e singoli. Il fatto che entrambi invece siano giunti al numero 1 delle charts di molti Paesi senza alcun battage pubblicitario fa capire che, in tempi di Covid, anche la musica è stata sfidata nelle sue convinzioni più radicate.

18) The Strokes, “The New Abnormal”

(ROCK)

Il primo album in sette anni (!) degli Strokes, non contando il brevissimo EP “Future Present Past” del 2016, è il più convincente CD del celebre gruppo newyorkese dall’ormai lontano “Room On Fire” (2003). Gli Strokes sembrano infatti nuovamente motivati come ai bei tempi, dopo una decade 2010-2019 davvero travagliata.

Julian Casablancas e soci paiono davvero divertirsi nel corso delle nove tracce di “The New Abnormal”: al solito indie rock smaliziato (Bad Decisions) si affiancano canzoni dove la batteria di Fabrizio Moretti è addirittura assente (At The Door), oltre a brani molto anni ’80, pieni di synth e in salsa new wave (Brooklyn Bridge To Chorus, Eternal Summer). Sono evidenti le influenze sperimentate ultimamente da Casablancas nel suo progetto parallelo, i Voidz, ma tutti e cinque gli appartenenti agli Strokes sembrano motivati a tornare ai loro livelli migliori, da troppo tempo lontani.

L’ambizione del lavoro è evidente da vari fattori: la copertina di Basquiat è un deciso cambiamento rispetto al passato minimale in fatto di cover del gruppo; la tracklist compatta nel numero ma non nella struttura delle canzoni (che spesso superano i 5 minuti); il falsetto di Casablancas ancora più presente che in passato… in più aggiungiamo dei singoli di lancio (specialmente Bad Decisions) davvero intriganti. Mettiamo Rick Rubin alla produzione e il quadro è ancora più eccitante.

Già probabilmente lo sapevamo, ma “The New Abnormal” ne è un’ulteriore dimostrazione: quando i ragazzi sono davvero concentrati sanno produrre CD sempre interessanti. Così era, ovviamente, per il classico “Is This It” (2001) e per “Room On Fire”, ma anche il controverso “Angles” (2011) aveva momenti di indubbia grandezza (Under Cover Of Darkness su tutti). Solo in “Comedown Machine” (2013) gli Strokes erano davvero sembrati allo stremo.

“The New Abnormal” potrebbe essere l’inizio della rinascita della band così come la lettera d’addio ai fans vecchi e nuovi; in ogni caso godiamoci il miglior LP del complesso statunitense negli ultimi 15 anni, pieno di novità e sorprendentemente coeso malgrado la varietà di suoni rinvenibili nel corso del CD. Complimenti, Casablancas e soci: non pensavamo di dire “che gran disco degli Strokes!” in questi anni bui per la band, ma una bella sorpresa in tempi di Coronavirus del resto era necessaria.

17) Soccer Mommy, “color theory”

(ROCK)

Il secondo album della cantautrice originaria di Nashville Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, è un ottimo passo avanti in una discografia che era cominciata col botto. “Clean” (2018) infatti aveva colpito pubblico e critica (aveva anche fatto parte di una rubrica Rising di A-Rock) per la sua disarmante sincerità e per testi sempre diretti, in cui Sophie addirittura immaginava di mangiare i propri ex partner (Cool) e in cui declamava fiera “I don’t wanna be your fucking dog” (Your Dog).

Il percorso intrapreso nel precedente lavoro, un indie rock intervallato da brani più lenti, non viene abbandonato in “color theory”; piuttosto notiamo una crescita nella composizione e, allo stesso tempo, la perdita di quell’effetto sorpresa che aveva reso “Clean” così toccante. Il lavoro non è malvagio, anzi sono più gli alti dei bassi, ma la prossima volta sarà lecito attendersi più sperimentalismo da Sophie.

Il CD inizia molto bene: bloodstream è un ottimo pezzo indie rock, capace di una progressione potente che fa culminare il brano nel bellissimo finale. Invece royal screw up è più debole e sa di già sentito. Molto belle poi crawling in my skin e la breve up the walls. Colpisce poi un aspetto nella struttura complessiva del disco: molte canzoni superano i 4 minuti, addirittura yellow is the color of her eyes arriva a 7, testimonianza di una creatività mai doma.

Il tema dominante del lavoro è, già dal titolo, come i colori possono essere collegati alle sensazioni che tutti noi proviamo. Soccer Mommy presenta tre colori per tre corrispondenti emozioni: blu=depressione, giallo=dolore, grigio=mortalità. “color theory” vaga fra queste tre percezioni dell’animo non perdendo mai il filo della narrazione e delineando il profilo di una narratrice depressa, conscia che la vita è caratterizzata da momenti belli e altri brutti, ma merita di essere vissuta fino in fondo. Ne sono esempi “I am the problem for me, now and always” (royal screw up) e “Standing in the living room talking as you’re staring at your phone… it’s a cold I’ve known” (nightswimming).

“color theory” è il lavoro più maturo a firma Soccer Mommy, un nome ormai riconosciuto nel mondo indie e sinonimo di qualità e testi candidi. Sophie Allison ha già compiuto passi da gigante nella sua maturazione come artista e come donna, manca solo un ultimo step per comporre quello che potrebbe essere il suo LP definitivo.

16) Gorillaz, “Song Machine, Season One: Strange Timez”

(POP – ELETTRONICA – HIP HOP)

I Gorillaz sono la creatura più eccentrica nello sterminato canzoniere di Damon Albarn, già noto come frontman dei Blur e dei The Good, The Bad & The Queen, oltre che apprezzato solista. Mescolando hip hop, elettronica e pop, i Gorillaz sono entrati nel cuore del pubblico grazie a singoli perfetti come Clint Eastwood, Feel Good Inc. e On Melancholy Hill. Non sempre però, considerando gli album nella loro interezza, la band animata aveva mantenuto le attese: “The Fall” (2010), “Humanz” (2017) e “The Now Now” (2018) ad esempio sono CD controversi anche per i fans più accaniti. Non sempre quindi abbiamo perle come “Demon Days” (2005) e “Plastic Beach” (2010).

Un’altra particolarità dei Gorillaz, più o meno amata, è quella di infarcire i loro dischi con grandi ospiti, spesso in quantità eccessiva: basti pensare che in “Humanz” avevamo Vince Staples, Mavis Staples, Popcaan, Danny Brown, Kali Uchis e Pusha T, solo per citarne alcuni! Non sempre era quindi rintracciabile un tratto comune fra personaggi tanto distanti musicalmente. Beh, questo non è il caso di “Song Machine, Season One: Strange Timez”.

I Gorillaz peraltro ampliano ancora di più la lista di collaboratori in questo bel lavoro, aggiungendo Elton John, Robert Smith (The Cure), Beck, St. Vincent, slowthai e Kano, fra gli altri. Insomma, il gotha del mondo hip hop, pop e rock; nella edizione deluxe contiamo fra gli altri anche JPEGMAFIA, Skepta e il compianto Tony Allen. La cosa che colpisce però è la coesione del lavoro, capace di muoversi in equilibrio fra hip hop e pop senza mai deragliare, con singoli riusciti e l’intrinseca stranezza dei Gorillaz a fare da collante.

Il progetto “Song Machine” pareva partito come una serie di EP, contenenti pezzi azzeccati accanto a brevi intermezzi, e pareva improbabile che Albarn & co. decidessero di compilare un album intero di singoli che già da mesi erano stati pubblicati. Invece la scelta si è rivelata felice: gli highlights Strange Timez e Momentary Bliss stanno benissimo accanto alla ballata The Pink Phantom (con un grande Elton John) e a The Valley Of The Pagans, che ospita un Beck in ottima forma.

In generale, “Song Machine, Season One: Strange Timez” è probabilmente il CD più solido dei Gorillaz dai tempi di “Plastic Beach”: Damon Albarn ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento ed eclettismo, creando un prodotto che piacerà a molti, divertente e mai prevedibile. È proprio quello che ci vuole, in un 2020 quanto mai desolante.

15) Special Interest, “The Passion Of”

(PUNK – ELETTRONICA)

Il quartetto americano, formato rispettivamente da Alli Logout (voce), Maria Elena (chitarra), Nathan Cassiani (basso) e Ruth Mascelli (batteria e tastiere), al secondo album dopo “Spiraling” (2018) ha trovato la formula vincente. Mescolando abilmente musica industrial, elettronica e punk, gli Special Interest hanno creato un ibrido incredibile che richiama sì la no wave anni ’80, ma aggiornata ai giorni nostri grazie alle tematiche attuali affrontate nei testi degli undici pezzi che compongono “The Passion Of”.

Dopo la breve intro Drama, il CD decolla subito grazie all’energia di Disco III (erede di Disco e Disco II contenute in “Spiraling”): un concentrato del miglior punk, con inserti techno potenti e tremendamente efficaci. Il vero manifesto della band tuttavia è l’ottima All Tomorrow’s Carry: uno dei migliori pezzi dell’anno, grazie alla potente voce di Alli Logout e a una base ritmica efficacissima. Il disco, come già detto, contiene anche melodie puramente elettroniche, prova ne sia Passion, che pare di Four Tet.

Questa fusione fra ritmi danzerecci e punk feroce fa di “The Passion Of” un album veramente unico, che fa capire come il rock largamente inteso non sia morto, con il punk soprattutto particolarmente vivo (basti ricordare le molte band nate negli ultimi anni sia in Europa che in America). I pezzi migliori sono la già menzionata All Tomorrow’s Carry e Street Pulse Beat, ma nessuno è fuori posto, tanto che i 29 minuti del CD scorrono benissimo e il lavoro ha un altissimo replay value.

Anche liricamente “The Passion Of” è molto esplicito: Logout e co. non si fanno remore a denunciare le storture della società moderna, soprattutto a danno dei più deboli (ad esempio omosessuali e persone di colore). In Homogenized Milk Alli Logout urla “What happens when there’s nothing left to gentrify and genocide is on your side?”; All Tomorrow’s Carry è ancora più apocalittica, “I watch the city crumble, arise from the rubble” cantano gli Special Interest. Infine, abbiamo il vero proclama politico del gruppo: la chiusura del lavoro, With Love, contiene i seguenti versi: “Navigate degradation on a day to day basis, no sleep through the night… Our fathers in cages under heavy surveillance… With passion aroused we call for tomorrow the people take all”.

È la rivoluzione che gli Special Interest vogliono; un cambiamento radicale delle condizioni socioeconomiche degli Stati moderni, basati secondo loro su sopraffazione e violenza. “The Passion Of” è la perfetta colonna sonora di tutto questo: arrabbiata ma mai disperata, energica ma non dissennata. Il punk si conferma quindi genere più vivo che mai e gli Special Interest sono uno dei nomi più interessanti della scena statunitense.

14) Yves Tumor, “Heaven To A Tortured Mind”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il musicista di origine americana Yves Tumor, ora di base a Torino, è giunto al quarto album di inediti circondato dall’ammirazione di una larga fetta della critica più influente. Capace di mescolare abilmente ambient, musica sperimentale e rock in dischi via via più accessibili, Sean Bowie (questo il vero nome di Yves Tumor) era atteso al varco: sarebbe stato capace di allargare i propri orizzonti e, magari, anche il proprio pubblico, senza perdere la legittimità e integrità guadagnate nel passato recente?

La risposta è un sonoro sì. Pur non rinunciando alla parte più d’avanguardia della propria estetica, Yves riesce infatti a virare verso un rock con richiami agli anni ’80 (Kerosene!, a cui collabora la cantante R&B Diana Taylor) e al noise (Medicine Burn). I pezzi “commerciabili” non mancano, si senta la delicata nenia Strawberry Privilege a riguardo, a dimostrazione che Sean Bowie (dal cognome altamente evocativo) non rinuncia a piacere al grande pubblico quando ne ha la possibilità.

Rispetto al precedente “Safe In The Hands Of love” (2018), il CD è più focalizzato su un solo genere: se da un lato questo regala più coesione, dall’altro spiacerà agli amanti dei lavori più spericolati dell’artista statunitense. Spiccano particolarmente l’iniziale Gospel For A New Century e Super Stars, che avrebbero potuto essere composte da Prince o da Moses Sumney. I 12 brani (per 36 minuti) scorrono sempre bene, senza cadute di qualità, a testimonianza di un LP davvero riuscito.

In conclusione, “Heaven To A Tortured Mind” è ad oggi il disco più compiuto di Yves Tumor, un artista tanto misterioso quanto talentuoso. E se tuttavia, malgrado l’innegabile bellezza, questo lavoro non fosse ancora il manifesto definitivo di Sean Bowie? Lo scopriremo col tempo, per ora accontentiamoci di uno dei migliori lavori di rock sperimentale della nuova decade.

13) Run The Jewels, “RTJ4”

(HIP HOP)

“You so numb you watch the cops choke out a man like me until my voice goes from a shriek to whisper ‘I can’t breathe’ and you sit there in the house on couch and watch it on TV”. Basterebbe questo devastante verso, contenuto in walking in the snow, per fare di “RTJ4” un CD fondamentale del 2020. El-P e Killer Mike hanno infatti pubblicato il loro quarto lavoro come Run The Jewels nel più adatto dei momenti; del resto, però, chi avrebbe pensato che questo verso, dedicato a Eric Garner, altro caso tragico di razzismo in America, sarebbe stata la colonna sonora delle rivolte scoppiate a seguito del brutale assassinio di George Floyd?

Il duo rap più famoso d’America del resto si è fatto una reputazione per saper anticipare i tempi tramite versi sempre affilatissimi, come accadeva nei precedenti LP tutti intitolati “Run The Jewels” e poi con numeri progressivi, à la Led Zeppelin insomma. I tre CD erano stati le colonne sonore perfette per tempi difficili caratterizzati dalla crisi economica (“Run The Jewels” del 2013 e “Run The Jewels 2” del 2014) e dall’elezione di Donald Trump (“Run The Jewels 3” del 2016).

Oltre a grandi qualità liriche, tuttavia, i RTJ sono anche apprezzati per la loro innata qualità di fondere omaggi più o meno espliciti all’hip hop anni ’90 con ospiti sempre azzeccati che rendono i loro lavori sempre attuali. Ad esempio, in questo “RTJ4” El-P e Killer Mike hanno ingaggiato Josh Homme, Zack De La Rocha e Pharrell Williams: il gotha dell’hard rock e del pop, in poche parole. I risultati sono davvero strabilianti, tanto che il disco potrebbe essere il migliore della già ottima produzione dei Run The Jewels.

Già dall’inizio intuiamo che la rabbia dei RTJ non si è per nulla attenuata: yankee and the brave (ep. 4) contiene una base durissima e ottimi versi sia da parte di Killer Mike che di El-P. Lo stesso vale per la potente holy calamafuck e JU$T. Quando invece i ritmi rallentano il disco perde vigore, questo è il caso ad esempio di goonies v.s. ET. Nondimeno, “RTJ4” come già accennato resta un LP valido, per alcuni addirittura il più riuscito del duo.

I Run The Jewels si confermano al top della carriera, malgrado stiamo parlando di due rapper ormai nell’età matura (hanno entrambi 45 anni) e con una lunga carriera alle spalle. Killer Mike ed El-P potranno avere ormai superato la giovane età, ma la loro capacità di rappresentare i più deboli, specialmente in tempi così complicati, è fondamentale. Basti sentirsi la conclusiva canzone a few words for the firing squad (radiation), in cui i RTJ denunciano i mali della società in modo più efficace di pressoché tutti i politici (i buoni soppressi dai cattivi, la verità manipolata dalle fake news, le differenze di trattamento che dipendono solo dalla razza delle persone…). Bentornati, Run The Jewels.

12) Destroyer, “Have We Met”

(ROCK)

Il tredicesimo album del veterano del soft rock Dan Bejar, in arte Destroyer, è uno dei lavori più compiuti a suo nome. Se da sempre il marchio Destroyer è sinonimo di canzoni affascinanti e raffinate, con “Have We Met” Bejar continua il suo percorso nel mondo synth-pop in maniera impeccabile.

La decade 2010-2019 aveva visto Destroyer creare lavori sempre più lontani dalle sue radici folk-rock per portarsi verso lidi più raffinati, ispirati ai Roxy Music e al mondo synth degli anni ’80 (Sade su tutti). “Kaputt” (2011) era stato il picco creativo del periodo, ancora oggi annoverato fra i dischi migliori dello scorso decennio. Bejar aveva in seguito proseguito in quel percorso con i riusciti “Poison Season” (2015) e “ken” (2017), ma con ritorni inevitabilmente minori, anche commercialmente parlando.

“Have We Met” senza dubbio non è in linea coi tempi, dominati da trap e hip hop, ma soddisferà gli amanti del soft rock più nostalgico e del progetto Destroyer: pezzi come Crimson Tide, The Raven e The Man In Black’s Blues sono fin da subito standout del CD. Solo la ballata The Television Music Supervisor è fuori contesto e abbassa la media di “Have We Met”.

Proprio questa canzone però ha anche il testo più poetico forse dell’intera produzione di Dan Bejar: un produttore musicale, orami sul letto di morte, riflette sulla propria vita e sui rimorsi che ha ancora dentro di sé, lasciando però la scena irrisolta tanto che l’ultimo verso è “I can’t believe…”. Che il musicista sia spirato?

Altrove troviamo messaggi quasi politici, fatto inusuale per un CD dei Destroyer: “Just look at the world around you… actually no, don’t look!”, contenuta in The Raven, è l’esempio più chiaro. In The Man In Black’s Blues abbiamo un ritorno del Bejar più astratto: “When you’re looking for Nothing and you find Nothing, it is more beautiful than anything you ever knew”.

In conclusione, “Have We Met” è il miglior LP del progetto Destroyer dal 2011 ad oggi e conferma Dan Bejar come voce irrinunciabile del panorama rock.

11) Porridge Radio, “Every Bad”

(ROCK)

Il secondo album dei Porridge Radio è un riuscito amalgama di punk e indie rock, reso ancora più interessante dalla prova vocale a 360 gradi di Dana Margolin, capace di urli quasi heavy metal e sussurri da ballata pop che ne denotano l’elasticità canora.

Il primo LP del complesso inglese era passato quasi inosservato; la mutazione avvenuta fra “Rice, Pasta And Other Fillers” (2016) e “Every Bad” è notevole. Se prima le sonorità ispiratrici erano più virate verso l’indie pop, adesso i Porridge Radio sono diventati una rock band a tutti gli effetti. Il gruppo si va ad aggiungere ad una scena britannica davvero rigogliosa: IDLES, Shame, black midi e Fontaines D.C. sono i nomi più noti di una riscossa rock causata probabilmente, fra le altre cose, da una profonda insoddisfazione per la situazione corrente del Regno Unito e dell’Irlanda in questi ultimi anni.

L’inizio del CD ricorda quasi i Deerhunter: quando la Margolin in Born Confused ripete come un mantra “Thank you for leaving me, thank you for making me happy” per un minuto intero quasi ci torna alla mente Nothing Ever Happened. Altrove troviamo influenze più punk, dagli IDLES al Nick Cave delle origini, che creano un impasto sonoro denso ma mai fine a sé stesso.

È difficile trovare difetti in un album così ben sequenziato, lungo al punto giusto (11 brani per 41 minuti) e con continui cambi di ritmo, che lo rendono sempre imprevedibile. I pezzi migliori sono Born Confused e la più raccolta Pop Song, leggermente sotto la media (molto alta) del lavoro invece Nephews e Circling.

Abbiamo già accennato alle liriche dei Porridge Radio: in molte canzoni troviamo riferimenti personali, spesso desolati (“I’m bored to death” e “What is going on with me?” in Born Confused) e altre volte violenti (“And sometimes I am just a child, writing letters to myself, wishing out loud you were dead… and then taking it back” in Sweet). Infine però la band pare trovare pace in Lilac: “I don’t want to get bitter, I want us to get better, I want us to be kinder to ourselves and to each other”.

Questo messaggio di speranza è la degna chiusura di un CD davvero riuscito, l’ennesima bella scoperta del rock inglese. I Porridge Radio, come si dice sempre o quasi, non hanno rivoluzionato la musica; nondimeno ascoltando il disco non si può non sperare che, anche in questi tempi difficili, finisca come hanno detto loro: che tutti diventiamo migliori e più gentili con gli altri.

10) Protomartyr, “Ultimate Success Today”

(PUNK)

Il quinto CD della band punk originaria di Detroit arriva tre anni dopo “Relatives In Descent” e a due dall’intrigante EP “Consolation”. La crescita del gruppo guidato da Joe Casey è impressionante: laddove i lavori precedenti erano notevoli soprattutto dal punto di vista lirico, con Casey capace di descrivere i mali peggiori del capitalismo in maniera cruda ma mai disperata, con “Ultimate Success Today” siamo di fronte al miglior lavoro della loro discografia musicalmente.

Mentre i CD del gruppo erano spesso fin troppo elaborati e alla lunga perdevano mordente, infatti, il nuovo LP è un concentrato del miglior post-punk: ritmi aggressivi, testi arrabbiati e una sezione di fiati che arricchisce ulteriormente l’esperienza. I risultati finali ricordano i Joy Division, a tratti i The Fall: insomma il meglio del movimento nato nei tardi anni ’70.

Fin dai primi due brani, i bellissimi Day Without End e Processed By The Boys, abbiamo ben chiari i tratti dominanti del lavoro; ma il resto delle dieci tracce che compongono “Ultimate Success Today” non è da meno. Spiccano soprattutto June 21 e Worm In Heaven, mentre è un po’ sotto la media Bridge & Crown.

Liricamente inoltre, come già accennato, il disco è molto profondo: Joe Casey si chiede in Processed By The Boys se l’Apocalisse sarà “a foreign disease washed upon the beach” oppure verrà da rivolte per strada. Nel pezzo conclusivo, la devastante Worm In Heaven, Casey rimpiange il suo passato: “Remember me, how I lived. I was frightened, always frightened” per poi proclamare “I wish you well, I do. May you find peace in this world; and when it’s over dissolve without pain”.

I Protomartyr hanno ormai una fanbase leale e in crescita, ma pochi avrebbero previsto questa evoluzione per una band sì impegnata, ma anche spesso imperfetta musicalmente. “Ultimate Success Today” è, in poche parole, uno dei migliori album punk dell’anno.

9) A.A.L. (Against All Logic), “2017-2019”

(ELETTRONICA)

Uno dei tanti alias del celebre musicista cileno Nicolas Jaar ci fa capire, ancora una volta, che siamo di fronte ad un talento unico nel circuito della musica elettronica mondiale. Unendo i suoi istinti più sperimentali con la sua solita attenzione alla melodia, Jaar con questo LP sembra anticipare musica sempre più visionaria.

Il CD non ricalca in realtà le atmosfere house dell’illustre predecessore: Jaar infatti introduce elementi industrial nel sound del suo progetto, creando un prodotto meno caldo ma non meno intrigante. L’inizio di Fantasy è in effetti diverso dalle canzoni house di “2012-2017”, ma la canzone entra sottopelle con facilità. Idem per la seguente If Loving You Is Wrong, più accogliente. Una novità rilevante e benvenuta è la brevità del lavoro: 9 canzoni per 45 minuti sono decisamente più digeribili dei 66 minuti di “2012-2017”.

In poche parole, Nicolas Jaar si conferma punto fermo della scena elettronica mondiale: dall’elettronica minimal, quasi ambient di “Space Is Only Noise” (2011) passando per il progetto “Darkside” (2013) con Dave Harrington, caratterizzato da atmosfere più rock, arrivando fino a “Sirens” (2016) e i due CD di A.A.L. (Against All Logic), il musicista cileno non ha mai fallito un appuntamento.

8) The 1975, “Notes On A Conditional Form”

(ELETTRONICA – POP – ROCK)

Analizzare imparzialmente un nuovo album dei The 1975, il gruppo inglese capitanato dal vulcanico Matty Healy, è sempre più difficile. Il nuovo album infatti, “Notes On A Conditional Form”, è la somma di tutto ciò per cui sono amati e di quello per cui l’esercito dei loro haters è così nutrito: 22 canzoni (!), 80 minuti di durata complessiva (!!), generi che vanno dalla classica al punk, passando per country ed elettronica (!!!)… Insomma, il CD più divisivo mai prodotto dalla band fino ad oggi.

Il periodo antecedente all’uscita del lungo lavoro è stato influenzato da numerosi rinvii, basti pensare che inizialmente il CD doveva arrivare nel maggio 2019. Successive pianificazioni avevano proposto ottobre 2019, poi febbraio 2020, aprile 2020 e infine il 22 maggio, data in cui “Notes On A Conditional Form” è finalmente stato pubblicato. Come sempre inoltre numerosi i single estratti, ben otto dei 22 pezzi complessivi sono infatti stati prescelti. Insomma, un processo decisamente frastagliato.

“Notes On A Conditional Form” conclude l’era della “Music For Cars”, che Matty Healy e compagni hanno detto comprendere i loro primi CD ed EP fino appunto a quest’ultimo. Per questo e mille altri motivi il disco era attesissimo da pubblico e critica: anticipato da singoli di successo come Me & You Together Song e If You’re Too Shy (Let Me Know), oltre al fatto di contenere ospiti di spessore (da Phoebe Bridgers a FKA Twigs), il lavoro pareva destinato a riscuotere consensi unanimi.

Non è così, per una ragione ben precisa: i The 1975 questa volta hanno davvero corso rischi inauditi. Piazzare vicino nella tracklist il punk potente di People con The End (Music For Cars), che pare estratta da una colonna sonora di Ennio Morricone, così come un brano quantomeno bizzarro come Shiny Collarbone con la brillante If You’re Too Shy (Let Me Know), sono scelte sconsiderate per qualunque artista. Con i The 1975 del resto vale l’assunto che passare da un genere al suo opposto nello spazio di due canzoni sia lecito, anzi incentivato; mentre però nel precedente “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) il complesso britannico aveva trovato un’unità tematica e stilistica miracolosa, tanto da essere premiato come album dell’anno da A-Rock, in “Notes On A Conditional Form” i The 1975 non riescono nell’impresa. Ed è davvero un peccato, perché il CD contiene alcune delle canzoni più belle e toccanti mai composte da quel genio folle che è Matty Healy.

Tuttavia, ad A-Rock siamo convinti che “Notes On A Conditional Form” volesse raggiungere proprio questo scopo: dividere. I The 1975 hanno infatti il merito di fare esattamente quello che passa loro per la testa, senza preoccuparsi delle reazioni del pubblico distratto e della critica. Del resto, i loro passati successi (da Chocolate a Sex, passando per Somebody Else, She’s American, The Sound e Love It If We Made It) sono incentrate su un sound pop-rock anni ’80 tanto suadente quanto aggiornato ai giorni nostri, tale da far chiedere: ma perché non realizzano un disco di 10-12 canzoni ispirato a Duran Duran e Cure, così da conquistare anche i critici più severi e il pubblico più conservatore? Domande legittime, a cui la band ha risposto con questo LP: a loro semplicemente non interessa (ancora) ritirarsi in lidi conosciuti, la voglia di Healy e compagni di esplorare nuovi territori musicali in ogni nuovo lavoro è intatta otto anni dopo l’esordio.

È così che passiamo da pezzi già classici come People, If You’re Too Shy (Let Me Know) e Me & You Together Song a esperimenti non riusciti come Roadkill (un pezzo country decisamente moscio) e Shiny Collarbone (che vorrebbe evocare Burial ma ne pare una brutta fotocopia). Altri bei brani sono l’irresistibile Frail State Of Mind e la delicata The Birthday Party; da non sottovalutare anche la trascinante I Think There’s Something You Should Know e la conclusiva Guys, dal testo indimenticabile. Invece i brevi intervalli di Bagsy Not In Net e The End (Music For Cars) sono quantomeno mal posizionati nella tracklist.

Liricamente, come sempre Healy non risparmia frasi ad effetto: cominciando fin dall’apertura di The 1975, affidata a Greta Thunberg, il CD manifesta propositi di alto livello, ulteriormente suffragati dalla successiva People, che invita i giovani a svegliarsi (il ritornello “Wake up! Wake up! Wake up!” è già nella testa di tutti). Altrove abbiamo una dedica super romantica dedicata da Healy agli altri membri dei The 1975 (Guys) così come una critica dell’atteggiamento americano verso l’omosessualità (Jesus Christ 2005 God Bless America) e la paura della pandemia (“Go outside? Seems unlikely” in Frail State Of Mind).

Il CD, si sarà intuito, richiede molteplici ascolti prima di essere apprezzato (o odiato) con un’opinione chiara e indiscutibile. “Notes On A Conditional Form” è un album sospeso già nel titolo: la scaletta pare fatta apposta per essere controversa oppure per essere interpretata più come una playlist che un vero e proprio disco. I risultati, come già accennato, non sono univoci, ma i The 1975 denotano una tale etica del lavoro e un tanto sorprendente desiderio di sperimentare che non ci può non far riflettere. Se “A Brief Inquiry Into Online Relationships” era dai fan adoranti considerato il loro “OK Computer”, questo LP non è sicuramente il loro “Kid A”. “Notes On A Conditional Form” pare anzi un modo per chiudere un’epoca e fare piazza pulita, lasciando spazio in futuro per ulteriori esperimenti. Che il loro “Kid A” sia solo stato posticipato? Non ci resta che attendere, fiduciosi che Matty Healy e compagni non hanno terminato la voglia di stupirci.

7) The Weeknd, “After Hours”

(POP – R&B)

Il quarto album ufficiale di The Weeknd, non contando quindi i tre formidabili mixtape del 2011 e il breve EP “My Dear Melancholy,” del 2018, è uno dei suoi CD più compiuti. Riuscendo infatti a legare l’estetica pop scoperta recentemente con le origini dark del progetto The Weeknd, Abel Tesfaye riesce a creare un prodotto variegato ma coeso e ben sequenziato, grazie anche ai produttori eccellenti che lo affiancano nel corso del disco.

I singoli offerti al pubblico per lanciare “After Hours” erano accattivanti: Blinding Lights è un’istantanea hit, così come la quasi trap Heartless; invece la title track richiama chiaramente le atmosfere oscure di “House Of Balloons” (2011). Si era intuito quindi che il CD sarebbe stato versatile, ma pochi forse avevano immaginato un LP così perfettamente in equilibrio fra le due anime dell’artista canadese: quella edonistica di The Weeknd e quella tormentata di Abel.

Citavamo prima i collaboratori presenti in “After Hours”: sebbene il CD non contenga featuring, alla produzione troviamo pezzi da 90 come Kevin Parker dei Tame Impala, Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), Metro Boomin e Max Martin. Ognuno aggiunge la propria vena hip hop, R&B oppure elettronica, per creare un CD davvero dall’alto replay value.

Anche testualmente “After Hours” mostra passi avanti; se fino a “Starboy” (2016) The Weeknd era un cantante associato a notti insonni passate in discoteca e, spesso, al consumo di droga e al sesso sfrenato, raggiunti ormai i 30 anni Abel Tesfaye è diventato uomo, fragile come tutti: in Too Late lo sentiamo cantare “It’s way too late to save our souls, baby. It’s way too late, we’re on our own”, mentre in Faith emergono addirittura istinti suicidi: “But if I OD, I want you to OD right beside me. I want you to follow right behind me, I want you to hold me while I’m smiling, while I’m dying”.

In conclusione, un disco capace di passare senza problemi dal synthpop anni ’80 di Blinding Lights alla trap leggera di Heartless, passando per le atmosfere R&B di After Hours e il sax sontuoso di In Your Eyes, merita senza dubbio un voto alto. E se questo fosse addirittura il miglior LP mai creato da Abel Tesfaye in arte The Weeknd? Chapeau in ogni caso.

6) Tame Impala, “The Slow Rush”

(POP – ELETTRONICA – ROCK)

Cinque anni. Tanto è passato dal favoloso “Currents”, il disco che ha fatto scoprire i Tame Impala al grande pubblico, tanto da far sì che Rihanna realizzasse una cover di New Person, Same Old Mistakes. In questi cinque anni tuttavia il leader del gruppo Kevin Parker non è stato con le mani in mano: ha lavorato con giganti del pop come Beyoncé e Mark Ronson, ma anche con nomi meno noti come ZHU e Theophilus London.

Se c’è stato un tratto comune in queste collaborazioni è stato l’amore per il pop: che viri verso l’R&B o si tratti di pop divistico come Gaga, Parker ha iniettato nel sound psichedelico dei Tame Impala elementi differenti dal passato. Se la svolta era già presente in “Currents”, “The Slow Rush” prende elementi da disco, R&B e funk per fonderli in un amalgama tremendamente affascinante, in questo confermando il perfezionismo di Parker nel voler creare sempre il miglior prodotto dato il materiale a disposizione.

Materiale che, a tutta prima, non pareva trascendentale. Sia Patience (poi addirittura escluso dalla tracklist finale) che Borderline, i singoli del ritorno sulle scene del gruppo australiano, erano focalizzati su terreni quasi yacht rock: ritmi rilassati, tematiche futili e ben poco del vecchio sound Tame Impala. Insomma, non eravamo preoccupati, ma neanche eccitati dalla svolta. Parker ha probabilmente capito di dover cambiare qualcosa e, nel corso del 2019, ha completamente rimasterizzato il CD, rendendolo più dinamico e remixando Borderline, abbreviandone la durata e accelerandone il ritmo.

Musicalmente, in questo modo, il lavoro potrebbe essere la definitiva entrata dei Tame Impala nell’Olimpo del pop: pezzi accessibili come Lost In Yesterday e It Might Be Time si alternano ad altri epici come Posthumous Forgiveness e One More Hour, in un insieme coeso e mai privo di invenzioni deliziose per gli ascoltatori più attenti.

Elettronica e rock, elementi caratterizzanti di “Currents”, si mescolano con R&B, funk, disco e soul, per fare di “The Slow Rush” il CD più eclettico della band. I pezzi davvero imperdibili sono l’iniziale One More Year e la già citata Posthumous Forgiveness, dedicata da Parker al padre defunto e con cui non ha mai potuto riappacificarsi di persona (da qui il titolo). Ma vanno menzionati anche Lost In Yesterday, Breathe Deeper e la conclusiva One More Hour, che chiude degnamente il lavoro. Unico momento un po’ fuori fuoco è il synth insistente di Is It True.

Testualmente, se agli esordi Parker trattava principalmente la sua situazione di genio incompreso (esemplari i titoli dei due primi LP dei Tame Impala, “Innerspeaker” e “Lonerism”), mentre in “Currents” emergeva l’amarezza di una storia d’amore chiusa troppo presto, “The Slow Rush” affronta un tema ineluttabile come lo scorrere inesorabile del tempo. Il leader del gruppo australiano vive questa condizione in modo ambivalente: se da un lato si augura di passare ancora del tempo con le persone care (One More Year), dall’altro fa interpretare alla moglie la versione di sé stessa di otto anni prima, per capire se il futuro da lei immaginato si sia realizzato o meno (Tomorrow’s Dust).

In generale, un’attesa di cinque anni dalla scena musicale richiedeva che il progetto Tame Impala mantenesse le promesse e le speranze dei fans, soprattutto dopo due album clamorosi come “Lonerism” (2012) e “Currents” (2015). Missione compiuta, grazie ad una creatività infinita e un’attenzione al dettaglio unica.

5) Fontaines D.C., “A Hero’s Death”

(PUNK – ROCK)

Il secondo CD, attesissimo, della band post-punk irlandese è un pugno allo stomaco. Se l’esordio “Dogrel” aveva colpito nel segno pressoché con tutti, tanto che noi di A-Rock lo avevamo recensito nella nostra rubrica Rising e posizionato nella top 10 della lista dei migliori album del 2019, “A Hero’s Death” è un seguito ancora più cupo e disperato.

“Dogrel” mescolava infatti testi pessimisti sul futuro di Dublino (la città natale del gruppo) con canzoni quasi romantiche; “A Hero’s Death” pare il terzo CD dei Joy Division tanto la sensazione di spaesamento e tragicità viene trasmesso in ogni canzone. I Fontaines D.C., tuttavia, riescono a intessere un LP coeso e con melodie quasi accessibili, candidandosi a simbolo della scena punk d’Oltremanica (con una concorrenza comunque nutrita, in cui menzioniamo IDLES e Shame fra gli altri).

Va detto, però, che il gruppo irlandese, capitanato dall’indomito Grian Chatten, non si limita a ispirarsi alle glorie del passato: accanto infatti ai Joy Division troviamo sì riferimenti a Radiohead e The Fall, ma con liriche calate sull’oggi, critiche del capitalismo e della società moderna, fatta di sopraffazione e incapacità di pensare al futuro e concentrata su un eterno presente. Ne sono simbolo i durissimi testi di Televised Mind e Living In America, ma anche le ripetizioni ossessive di “I don’t belong to anyone” (I Don’t Belong) o “Life ain’t always empty” (la title track).

Le canzoni che colpiscono di più, dopo l’inizio davvero disperato di I Don’t Belong, sono la delicata Oh Such A Spring e Televised Mind; da non sottovalutare anche You Said. Ma nessuna canzone è fuori posto (solo Sunny leggermente inferiore alla media), tanto da fare di “A Hero’s Death” un disco coeso ma non ripetitivo, malinconico ma non completamente disperato.

Se qualcuno temeva la “sindrome da secondo album” per i Fontaines D.C., beh i timori sono stati spazzati via da “A Hero’s Death”: un lavoro che traccia un solco chiaro nel mondo punk e influenzerà probabilmente anche nei prossimi anni le giovani band desiderose di esprimere il loro dissenso per il mondo così come lo conosciamo usando batteria, basso e chitarra, urlando al mondo la propria contrarietà.

4) Bob Dylan, “Rough And Rowdy Ways”

(ROCK)

Bob Dylan, leggenda vivente del folk e del rock, a quasi 80 anni potrebbe essere in pensione già da tempo, a godersi il meritato riposo dopo 60 anni (!) di attività e milioni di dischi venduti. Invece il Bardo, con “Rough And Rowdy Ways”, prosegue un’intensa attività che lo vede preso sia dalla pubblicazione dei mitici bootleg legati alla sua attività nel XX secolo (siamo giunti al volume numero 15), sia dalla reinterpretazione degli standard americani (ultimo CD a questo proposito è “Fallen Angels” del 2016) sia, non ultima, la produzione di brani nuovi di zecca, di cui avevamo perso le tracce da “Tempest” (2012).

Questa lunga pausa aveva fatto temere che il cantautore nato Robert Zimmerman avesse appeso gli scarpini al chiodo, preferendo dedicarsi alle attività precedentemente enunciate, comunque rilevanti e abbondanti. “Rough And Rowdy Ways” è una sorpresa per più di un motivo dunque; non ultimo che, con il singolo di lancio Murder Most Foul, Bob Dylan ha raggiunto la prima posizione della classifica Billboard per la prima volta in carriera (!!). Una circostanza che fa capire quanto ancora il pubblico lo ami e quanto la sua musica sia importante in questi tempi incerti, in cui c’è bisogno di punti di riferimento in ogni campo.

Murder Most Foul è anche il brano più lungo della sua sterminata produzione: 17 minuti dedicati alla controcultura e all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, ancora oggi una ferita aperta nella storia americana. Il fatto che in questa epica melodia Dylan non parli per enigmi o aforismi, come invece era la regola in passato, denota un’altra caratteristica del CD: liricamente è il disco più diretto della produzione recente di Bob Dylan, forse fin dagli esordi.

Non pensiate, però, che il Dylan impressionista sia stato del tutto soppiantato: in My Own Version Of You il Nostro canta di dissotterrare tombe per liberare i personaggi dentro rinchiusi, ponendo loro domande del tipo “Is there a light at the end of the tunnel?” e non ottenendo risposte in cambio. Altrove il tono si fa canzonatorio: in Black Rider lo si sente proclamare “The size of your cock will get you nowhere” e in False Prophet afferma perentorio “I’m the last of the best, you can bury the rest”. Questi versi giocosi sono in effetti fra i pochi a strappare un sorriso in un lavoro che ha la morte come tema principale: “Today and tomorrow and yesterday, too the flowers are dying like all things do” è una delle prime liriche che sentiamo in I Contain Multitudes, apertura del CD.

La musica di “Rough And Rowdy Ways” spazia dal folk al rock, passando per il blues; terreni ben noti al Nostro, ma interpretati come già accennato in maniera tale da svelare piuttosto che accennare, fatto insolito per Bob Dylan. I pezzi che restano impressi fin dal primo ascolto sono Murder Most Foul e I Contain Multitudes, mentre è un po’ troppo lenta Mother Of Muses.

È difficilissimo, forse impossibile stilare una classifica dei CD più belli a firma Bob Dylan: ognuno probabilmente ha il suo preferito, dipendendo il giudizio dal puro gusto personale come dal momento in cui si stila la classifica. Tuttavia, vi sono dei capisaldi che nessuno può ignorare: “Highway 61 Revisited” (1965), “Blonde On Blonde” (1966) e “Blood On The Tracks” (1975) hanno fatto la storia della musica. Il fatto che “Rough And Rowdy Ways” possa anche solo essere avvicinato a questi capolavori è sintomo che, se non parliamo di un LP perfetto, di certo Dylan c’è andato davvero vicino. Se contiamo che questo è il suo 39° (!!!) album di inediti, siamo di fronte a un genio. Chapeau, Bob.

3) Perfume Genius, “Set My Heart On Fire Immediately”

(POP – ROCK)

Il quinto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un altro passo in avanti in una crescita che pare inarrestabile. Partito da un pop da camera molto timido, quasi solo pianoforte e voce, Perfume Genius si è aperto col tempo a generi come glam rock e art pop, raggiungendo vette altissime in “No Shape” (2017) e in questo “Set My Heart On Fire Immediately”, ad oggi il suo miglior CD.

La copertina farebbe pensare ad un disco minimale, in cui Hadreas si mette a nudo; è però anche vero che nei precedenti lavori non erano mancate introspezione e confessioni dolorose, basti pensare a “Too Bright” (2014). In realtà il lavoro è molto profondo e richiede diversi ascolti per essere apprezzato pienamente in tutta la sua bellezza. Alternando toni dimessi con pezzi decisamente intensi, infatti, Perfume Genius ha prodotto un lavoro complesso ma non per questo disprezzabile.

Infatti, la delicatezza di Just A Touch abbinata al rock quasi shoegaze di Describe fanno di “Set My Heart On Fire Immediately” un LP variegato come mai nella discografia di Hadreas, con risultati spesso sconvolgenti. I testi come sempre toccanti aggiungono ulteriore spessore al lavoro: On The Floor riguarda un sogno erotico che pare tanto reale da far dire al Nostro “I’m trying, but still I close my eyes… The dreaming bringing his face to mind”. In Describe parla della malattia di Crohn che lo perseguita ormai da tempo, mentre in Your Body Changes Everything emerge la sua fragilità: “Give me your weight, I’m solid. Hold me up, I’m falling down”. Infine, la produzione affidata a Blake Mills, che ha lavorato in passato anche con Laura Marling e Fiona Apple, corona un disco sontuoso.

In conclusione, Mike Hadreas pare aver raggiunto la piena maturità artistica. È un piacere sentirlo destreggiarsi così agilmente fra generi tanto diversi e con risultati quasi sempre ottimi. Perfume Genius è un progetto entrato a tutti gli effetti nell’Olimpo del pop.

2) Fleet Foxes, “Shore”

(FOLK)

Il quarto album dei Fleet Foxes, probabilmente la più osannata band folk degli scorsi quindici anni, è un trionfo. “Shore” prende le parti migliori di ogni disco precedente del gruppo per creare un CD coeso e brillante, che dà sollievo in questi tempi così difficili a causa del Coronavirus. Robin Pecknold ha infatti sfruttato questi mesi di reclusione per portare a compimento un lavoro che lui stesso aveva decretato ormai fuori gioco e i risultati, ancora una volta, gli danno ragione.

La storia dei Fleet Foxes non è stata tutta rose e fiori: se il primo disco “Fleet Foxes” (2008) era stato un immediato successo e il secondo “Helplessness Blues” (2011) un erede ambizioso, l’abbandono del batterista Josh Tillman (poi divenuto celebre col nome d’arte di Father John Misty) aveva portato il progetto ad un punto morto, superato solo sei anni dopo con il maestoso “Crack-Up”, eletto miglior album del 2017 da A-Rock. È pertanto sorprendente che “Shore” arrivi solo tre anni dopo, senza alcuna campagna di lancio e nessun singolo. Il lavoro, va detto, beneficia di questo trattamento: l’effetto sorpresa è garantito e la coesione del CD non richiede pezzi di lancio per far risaltare il resto del disco.

“Shore” è un disco molto personale: Pecknold ha composto la totalità delle canzoni praticamente in assoluta solitudine a causa del lockdown, cercando di trasporre nei brani le sensazioni contrastanti che ne derivano. Da un lato abbiamo la tristezza per gli amici musicisti e gli idoli di gioventù che se ne vanno (da John Prine a Richard Swift, passando per Elliott Smith e David Berman), che in canzoni come la pur godibile Sunblind è in evidenza. Abbiamo però, dall’altro, la vita: la cosa più preziosa di ogni uomo, che fa esclamare “Oh devil walk by. I never want to die” in Quiet Air / Gioia.

Nei 15 brani del CD non ci sono veri punti deboli: magari in alcuni episodi i Fleet Foxes tendono a ripetere con meno successo la ricetta del passato (si senta Thymia), ma in generale il livello medio dei brani è altissimo: Sunblind, Can I Believe You e Jara sono capolavori fatti e finiti, fra le migliori melodie mai composte da Pecknold e compagni. Da non trascurare anche Cradling Mother, Cradling Woman.

I Fleet Foxes sono ormai un gruppo riconosciuto a livello mondiale, un pilastro dell’indie folk; le armonie vocali che rendono anche il loro pezzo più convenzionale imperdibile non si sono mai rassegnate al passare del tempo, tanto che “Shore” pare un logico erede di “Fleet Foxes”. Non fossero passati dodici anni potremmo scommettere che ne siano trascorsi solo due. Questo, che potrebbe rivelarsi un limite, in realtà è il vero punto di forza della band: raffinamento, piuttosto che rivoluzione, è la parola d’ordine di Robin Pecknold. Finché i risultati saranno tanto magnifici quanto “Shore” i Fleet Foxes potranno continuare a godere della stima di critica e pubblico; non si vede perché tutto ciò non possa continuare in eterno.

1) Fiona Apple, “Fetch The Bolt Cutters”

(ROCK)

Il nuovo, attesissimo album della cantautrice Fiona Apple segue di ben otto anni il magnifico “The Idler Wheel”, ma non è la prima volta che Fiona fa attendere lungamente i suoi fans. Basti pensare che fra “The Idler Wheel” e il precedente “Extraordinary Machine” (2005) erano passati sette anni! Insomma, l’artista americana ama fare le cose perbene, prova ne sia la venerazione che i critici e il pubblico hanno per lei, che la rendono una figura popolare malgrado la vita ritirata e le rare apparizioni pubbliche.

“Fetch The Bolt Cutters” (letteralmente “vai a prendere le cesoie”) è un album rivoluzionario, tanto che ci sentiamo di dire serenamente che, nell’ambito pop-rock, raramente si era sentito un CD tanto dissonante quanto attraente. Mescolando percussioni sempre potenti con l’abilità al pianoforte e canora che tutti le riconosciamo, Fiona Apple narra storie tanto tragiche quanto a tratti ironiche, creando un prodotto certo non facile ma irrinunciabile per gli amanti della musica più ricercata e d’avanguardia.

Come già accennato, questa caratteristica ambizione in “Fetch The Bolt Cutters” non è fine a sé stessa: anzi, Fiona (basti sentire Ladies e Cosmonauts) non rinuncia a creare melodie armoniose, che cercano un pubblico ampio. Invece pezzi più arditi come la title track e Shameika rappresentano un biglietto da visita per la parte più visionaria dell’estetica della cantautrice.

Una parte fondamentale di “Fetch The Bolt Cutters” è rappresentata dai testi: Fiona infatti mescola dettagli veramente tragici (“You raped me in the same bed your daughter was born in” canta in For Her) con altre parti più leggere, tanto da sentirla cantare in Relay “I resent you for presenting your life like a fucking propaganda brochure”, oppure “There’s a dress in the closet, don’t get rid of it, you look good in it. I didn’t fit in it, it was never mine… it belonged to the ex-wife of another ex of mine” (in Ladies). Pura poesia, peraltro cantata magnificamente dalla Apple, capace di assumere tonalità angeliche oppure più dure a seconda della circostanza.

Il disco, pur complesso, è quindi il lavoro veramente irrinunciabile del 2020: mescolando pianoforte, art pop e momenti quasi sperimentali, Fiona Apple in “Fetch The Bolt Cutters” continua nella sua esplorazione musicale, ampliando un’estetica che già aveva flirtato in passato col jazz e il rock alternativo. Potremmo trovare molti artisti, donne e uomini, accostabili per un motivo o per un altro alla Nostra: Kate Bush, Joni Mitchell, Leonard Cohen, St. Vincent e la premiata ditta John Lennon/Yoko Ono sicuramente sono fra questi. La verità, però, è che nessuno suona come Fiona Apple, nel passato e nel presente della musica leggera. Per chi possiamo dire lo stesso?

È quindi la talentuosa cantautrice americana ad aggiudicarsi la palma di miglior CD del 2020. Siete d’accordo o avreste premiato altri lavori? Commentate pure! Stay tuned però: fra pochi giorni pubblicheremo l’articolo sui CD più attesi del 2021!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (100-1)

Siamo alla seconda e ultima puntata delle 200 migliori canzoni degli anni ’10; quella più calda, dove si decreterà la migliore della decade secondo A-Rock. Frank Ocean, Arctic Monkeys, Bon Iver, Lana Del Rey… i big sono tutti presenti: chi avrà vinto la palma di miglior pezzo degli anni 2010-2019? Buona lettura!

100) The War On Drugs, An Ocean In Between The Waves (2014)

99) Neon Indian, Slumlord (2015)

98) Car Seat Headrest, Nervous Young Inhumans (2018)

97) Darkside, Paper Trails (2013)

96) Mac DeMarco, Ode To Viceroy (2012)

95) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Round And Round (2010)

94) A.A.L. (Against All Logic), This Old House Is All I Have (2018)

93) Grizzly Bear, Speak In Rounds (2012)

92) Real Estate, All The Same (2011)

91) Neon Indian, Annie (2015)

90) Alt-J, Breezeblocks (2012)

89) Car Seat Headrest, Fill In The Blank (2016)

88) Sia, Chandelier (2014)

87) The National, Graceless (2013)

86) Earl Sweatshirt feat. Vince Staples and Casey Veggies, Hive (2013)

85) Sufjan Stevens, Impossible Soul (2010)

84) Queens Of The Stone Age, My God Is The Sun (2013)

83) Adele, Rolling In The Deep (2011)

82) Icona Pop feat. Charli XCX, I Love It (2012)

81) Coldplay, Orphans (2019)

80) Broken Social Scene, World Sick (2010)

79) Beach House, Norway (2010)

78) Radiohead, Lift (2017)

77) Lorde, Royals (2013)

76) Cloud Nothings, Wasted Days (2012)

75) Justin Timberlake feat. JAY-Z, Suit & Tie (2013)

74) Kendrick Lamar, DNA. (2017)

73) Sufjan Stevens, Should Have Known Better (2015)

72) Nick Cave & The Bad Seeds feat. Else Torp, Distant Sky (2016)

71) Kings Of Leon, Pyro (2010)

70) Mac DeMarco, My Kind Of Woman (2012)

69) The 1975, It’s Not Living (If It’s Not With You) (2018)

68) Deerhunter, Memory Boy (2010)

67) The 1975, Sex (2013)

66) The Weeknd feat. Daft Punk, Starboy (2016)

65) Darkside, Golden Arrow (2013)

64) Coldplay, Paradise (2011)

63) Travis Scott feat. Drake, SICKO MODE (2018)

62) Justin Timberlake, Mirrors (2013)

61) Lorde, Green Light (2017)

60) Drake feat. Majid Jordan, Hold On, We’re Going Home (2015)

59) Earl Sweatshirt, Mantra (2015)

58) Blood Orange feat. A$AP Rocky and Project Pat, Chewing Gum (2018)

57) Gorillaz feat. Little Dragon, Empire Ants (2010)

56) LCD Soundsystem, call the police (2017)

55) King Krule, Czech One (2017)

54) The War On Drugs, Red Eyes (2014)

53) Vampire Weekend, Step (2013)

52) Daft Punk feat. Pharrell Williams, Get Lucky (2013)

51) Lana Del Rey, Mariners Apartment Complex (2019)

50) Kendrick Lamar, Sing To Me, I’m Dying Of Thirst (2012)

49) Sufjan Stevens, Fourth Of July (2015)

48) Gorillaz, On Melancholy Hill (2010)

47) Arctic Monkeys, Arabella (2013)

46) Drake, Over My Dead Body (2011)

45) Girls, Carolina (2010)

44) Fleet Foxes, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar (2017)

43) Arctic Monkeys, R U Mine? (2013)

42) Drake, Nice For What (2018)

41) Flume feat. JPEGMAFIA, How To Build A Relationship (2019)

40) Vince Staples, Lift Me Up (2015)

39) Frank Ocean, Ivy (2016)

38) Billie Eilish, bad guy (2019)

37) Jamie xx feat. Romy, Loud Places (2015)

36) Tame Impala, Elephant (2012)

35) Beach House, Myth (2012)

34) Bon Iver, Sh’Diah (2019)

33) Drake, Hotline Bling (2016)

32) Grimes, Oblivion (2012)

31) The National, Sorrow (2010)

30) St. Vincent, Champagne Year (2011)

29) Drake, Marvin’s Room (2011)

28) Frank Ocean, Nikes (2016)

27) Kanye West, I Am A God (2013)

26) Fleet Foxes, Third Of May / Ōdaigahara (2017)

25) The War On Drugs, Strangest Thing (2017)

24) Florence + The Machine, Shake It Out (2011)

23) King Krule, Dum Surfer (2017)

22) David Bowie, Lazarus (2016)

21) Bon Iver, Perth (2011)

20) Vampire Weekend, Hannah Hunt (2013)

19) The 1975, Love It If We Made It (2018)

18) Grimes, Realiti (2015)

17) Deerhunter, Helicopter (2010)

16) Tame Impala, Eventually (2015)

15) Frank Ocean, Thinkin Bout You (2012)

14) Tame Impala, Feels Like We Only Go Backwards (2012)

13) Arcade Fire, We Exist (2013)

12) Lana Del Rey, Venice Beach (2019)

11) Beach House, Dive (2018)

10) Robyn, Dancing On My Own (2010)

9) Kendrick Lamar, Alright (2015)

8) Bon Iver, Holocene (2011)

7) Kanye West, POWER (2010)

6) M83, Midnight City (2011)

5) Arcade Fire, Reflektor (2013)

4) FKA twigs, cellophane (2019)

3) Frank Ocean, Pyramids (2012)

2) Kanye West feat. Pusha T, Runaway (2010)

1) Tame Impala, Let It Happen (2015)

La nostra lunga cavalcata è finita: Let It Happen dei Tame Impala è meritatamente il più bel pezzo degli anni ’10 secondo A-Rock. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con le nostre scelte? Non esitate a lasciare commenti!

I migliori album del decennio 2010-2019 (100-51)

Nel secondo capitolo della nostra lista dei migliori 200 CD della decade 2010-2019 attraversiamo le posizioni che vanno dalla 100 alla 51. Abbiamo già incontrato artisti rilevanti nella puntata precedente, ma le sorprese non sono finite. Buona lettura!

100) Shame, “Songs Of Praise” (2018)

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. L’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Iceage e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

99) Joanna Newsom, “Have One On Me” (2010)

(FOLK)

Il terzo album della cantautrice americana Joanna Newsom è una goduria per gli amanti della musica folk più pura. Grazie a melodie sempre cangianti, canzoni complesse mai però fini a sé stesse e l’abilità con l’arpa della Nostra, anche un triplo album (!) come “Have One On Me” è perfettamente digeribile.

Questa è infatti la prima caratteristica che colpisce del lavoro: la sua gigantesca ambizione. Pubblicare un album triplo della durata superiore ai 120 minuti, quando invece si sarebbero potuti produrre tre album distinti di ottima qualità nello spazio di 5-10 anni, è una mossa rischiosa ma dal rendimento alto, nel caso di Joanna. Se si aggiunge che lei stessa si rifiuta tutt’oggi di mettere a disposizione la sua discografia sui servizi streaming, capiamo che non è neppure dovuta alla massimizzazione dei ricavi, quanto piuttosto al solo e semplice amore per la musica e i suoi fans.

Chiaramente, in un CD tanto complesso, non tutto può essere perfetto, ma gli alti sono davvero strabilianti: la lunghissima title track, Good Intentions Paving Company e Baby Birch sono highlights assoluti. “Have One On Me” non è mai pesante, tanto da apparire anzi come il lavoro più essenziale a firma Joanna Newsom, addirittura migliore di “Ys” (2006).

98) Queens Of The Stone Age, “…Like Clockwork” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei veterani dell’hard rock li trovava a un bivio fondamentale: a ben sei anni da “Era Vulgaris” (2007), l’album forse più discusso tra fans e critici nella produzione della band, i Queens Of The Stone Age avrebbero ritrovato lo smalto perduto?

La risposta è sicuramente affermativa. “…Like Clockwork” infatti rispecchia fedelmente il titolo, girando per la maggior parte del tempo come un orologio svizzero, grazie a pezzi duri come My God Is The Sun e a brani più melodici come I Appear Missing. Questo è anche il CD più ricco di ospiti del gruppo: Dave Grohl, Elton John, Alex Turner e Mark Lanegan sono fra i più illustri, ma notiamo anche il recupero del precedente bassista Nick Oliveri, che era stato cacciato nell’ormai lontano 2004.

In poche parole, con “…Like Clockwork” i Queens Of The Stone Age ritrovarono un motivo per la propria esistenza, considerando inoltre un panorama musicale che tende a mettere da parte il rock per fare spazio a hip hop e trap. Josh Homme e compagni avrebbero poi proseguito il percorso di questo LP con il successivo “Villains” (2017), meno riuscito di “…Like Clockwork” ma con altrettanto successo di pubblico.

97) Chance The Rapper, “Coloring Book” (2016)

(HIP HOP – GOSPEL)

Il terzo mixtape del talentuoso Chance The Rapper è probabilmente il suo miglior lavoro fino ad ora. Dopo il bel lavoro “Acid Rap” del 2013, Chance era atteso al varco, ma “Coloring Book” non delude le attese di critica e pubblico.

Il forte afflato religioso che pervade tutto l’album, infatti, aggiunge al consueto hip hop dell’artista un tocco gospel che affascina ancora di più l’ascoltatore. I pezzi davvero da ricordare sono No Problem, Summer Friends e Same Drugs (una piccola Pyramids). Nessuno dei 14 brani del resto è davvero fuori posto: i più deboli sono la collaborazione con Future (Smoke Break) e Mixtape, ma per il resto la qualità è davvero altissima.

Possiamo senza dubbio premiare “Coloring Book” col titolo di miglior CD di musica hip hop-gospel del 2016. Forse della decade, considerato la scarsa fortuna incontrata da questo strano ibrido fra generi apparentemente agli antipodi negli anni seguenti.

96) Kanye West, “The Life Of Pablo” (2016)

(HIP HOP)

Si può criticare Kanye West per mille motivi: eccessivo egocentrismo, megalomania, arroganza… Insomma, la più grande superstar dell’hip hop non ha un carattere facile.

Musicalmente, però, niente da dire: senza di lui mancherebbe gran parte della musica rap moderna. “The Life Of Pablo” conferma la classe di Kanye: brani potenti e bellissimi come Famous, Real Friends, la perla gospel Ultralight Beam e Waves sono tra i migliori dell’anno. Da sottolineare poi il parco ospiti sterminato: Chance The Rapper, Frank Ocean, Kendrick Lamar, The Weeknd…

Insomma, un ensemble da sogno. Top 100 pienamente meritata. Soprassediamo sulle ultime vicende che hanno colpito Yeezy: i gossip passano, la musica resta. “The Life Of Pablo” è anche l’ultimo LP davvero all’altezza della fama e del talento di Kanye, che negli anni successivi si è perso fra polemiche politiche quantomeno controverse e scelte artistiche discutibili (si veda la conversione improvvisa e il rintanarsi nella musica gospel).

95) Hot Chip, “One Life Stand” (2010)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il quarto album dei britannici Hot Chip li trova pronti a spiccare il volo. Grazie a singoli di successo come Ready For The Floor e Boy From School, gli Hot Chip si erano ritagliati la reputazione di band di punta della scena electropop d’Oltremanica.

“One Life Stand” è il compimento di anni di studio e riflessione, grazie ai quali il gruppo raggiunge il picco delle proprie capacità. Brani lunghi ma accessibili come Thieves In The Night e la title track ancora oggi, dieci anni dopo la pubblicazione, sono i pezzi pregiati del disco; da non sottovalutare la più raccolta Brothers. Il tutto viene aiutato dalla chimica fra i due cantanti, Alexis Taylor e Joe Goddard. È probabile che atti come i Tame Impala e gli Arcade Fire, alla lontana, siano stati influenzati recentemente dalla band britannica.

In conclusione, gli Hot Chip in “One Life Stand” hanno prodotto il loro LP più compiuto e coeso, segno di una carriera in costante crescita, curata nei minimi dettagli e capace di dare un degno seguito a questo pregevole lavoro con il successivo “In Our Heads” (2012).

94) Sufjan Stevens, “The Age Of Adz” (2010)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il sesto album vero e proprio di Sufjan Stevens trova il grande cantautore americano a un bivio: meglio continuare nella consolidata formula che ne ha decretato la fortuna (ballate folk delicate e creative, con la sua voce angelica a fare da collante) oppure tentare qualcosa di nuovo e rinfrescante?

Non sapendo né leggere né scrivere Sufjan ha optato per una via di mezzo tanto intrigante quanto potenzialmente rischiosa: mescolare bellissimi pezzi folk come Futile Devices a derive elettroniche come la title track e Too Much. I risultati, pur non perfetti come nel successivo “Carrie & Lowell” (2015), hanno consentito a Stevens di ampliare notevolmente la propria palette sonora, aprendo la strada alla successiva sperimentazione di “Aporia” (2020).

Non sarebbe un CD a firma Sufjan Stevens senza qualche stranezza: innanzitutto la durata, che raggiunge i 75 minuti distribuiti su 14 pezzi, di cui uno (la conclusiva Impossible Soul) raggiunge i 25 minuti ed è divisa in cinque suite, mescolando insieme folk, elettronica e musica puramente sperimentale. Tanta creatività insieme spesso non è raggiunta da un artista nel corso di un’intera carriera… ma dato che stiamo parlando di Sufjan Stevens lo stupore è relativo.

“The Age Of Adz” è dunque un LP non facile, ma che premia gli ascoltatori pazienti con brani potenti e mai scontati. Il fatto che sia solo il terzo/quarto CD come qualità complessiva a firma Sufjan Stevens fa capire la grandezza del personaggio.

93) The National, “I Am Easy To Find” (2019)

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

92) Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” (2015)

(ROCK)

Il titolo sembra anticipare un album prolisso e pretenzioso; beh, nessuna impressione può essere più sbagliata. Courtney Barnett è una delle esordienti indie rock più interessanti del decennio: la giovane cantante australiana ritorna a inizio XXI secolo, età dell’oro dell’indie, quando nacquero band come Strokes e Franz Ferdinand.

Le prime due canzoni Elevator Operator e Pedestrian At Best sono manifesti delle intenzioni della Barnett; Small Poppies addirittura ricorda i Led Zeppelin. Il suo suono riesce però a contaminarsi anche con White Stripes e il pop à la Robbie Williams, ottenendo risultati spesso straordinari: la conclusiva Boxing Day Blues ne è un valido esempio.

L’immediatezza di “Sometimes I Sit And Think…” è paragonabile a “Vampire Weekend” e “Teen Dream” (tanto per citare due band come Vampire Weekend e Beach House che di immediatezza se ne intendono). Chiaramente il CD di per sé non sarà un capolavoro di sperimentalismo o arditezza stilistica, ma la musica deve anche essere svago, giusto? Quindi: grazie Courtney per aver riaperto (anche se per poco più di 35 minuti) l’armadio dei nostri ricordi, quando sembrava che l’indie dovesse soppiantare il mainstream.

91) My Bloody Valentine, “m b v” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 aspettarsi un nuovo album a firma My Bloody Valentine pareva un sogno destinato a non essere mai realizzato. “Loveless” (1991) era stato il picco dello shoegaze e Kevin Shields e compagni non erano stati in grado di dargli un seguito in 22 anni, fra falsi annunci e tentativi abortiti in studio.

Il fatto che, non solo il CD sia finalmente arrivato ma sia anche bello, anzi bellissimo, è quasi un miracolo. I My Bloody Valentine non si limitano a ricalcare il successo del secolo scorso riprendendo a menadito tutti i particolari che li hanno resi unici: voci androgine e mixate in scarsa evidenza, chitarre piene di riverbero, bassi e batteria inesistenti… No, nel terzo finale del lavoro arrivano anche a cercare nuove soluzioni, vicine alla musica sperimentale (si senta ad esempio Wonder 2).

È vero tuttavia che i pezzi migliori sono comunque più vicini allo shoegaze: da Only Tomorrow a Who Sees You, passando per She Found Now, la band irlandese si conferma maestra del genere. Kevin Shields ha ancora una volta dimostrato tutta la sua abilità, creando un lavoro nostalgico ma mai scontato. Forse non raggiungerà le vette di “Loveless”, ma questo “m b v” è un degno erede. Speriamo solamente che per il quarto LP del gruppo non si debbano attendere altri 22 anni.

90) Disclosure, “Settle” (2013)

(ELETTRONICA)

All’esordio, i fratelli Guy e Howard Lawrence fanno già il pieno, sia di critiche positive che di vendite. “Settle” è infatti uno dei migliori album di musica dance del 2013, abilissimo nel mescolare la house anni ’80 con i ritmi più moderni.

Notevoli anche le collaborazioni: abbiamo infatti tra gli altri Sam Smith, Mary J. Blige, AlunaGeorge… Insomma, pezzi da 90 della musica contemporanea. Tra i migliori brani abbiamo la celeberrima Latch, la trascinante When A Fire Starts To Burn, Voices e la più intima Help Me Lose My Mind.

In poche parole, un ottimo inizio per Guy e Howard Lawrence, solo parzialmente confermato dai seguenti “Caracal” (2015) e il breve EP del 2016 “Moog For Love”.

89) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (2011)

(ROCK – FOLK)

“Smoke Ring For My Halo” è il CD che ha fatto conoscere ad un pubblico più ampio Kurt Vile, ex War On The Drugs ed eroe degli slacker mondiali, ovvero uno di quei personaggi spesso al bordo della strada che paiono osservare disinteressati l’ambiente circostante ma poi, quasi pigramente, fanno osservazioni assolutamente fuori dal comune.

Il CD è una brillante collezione di canzoni folk-rock, nel solco tracciato da Bob Dylan, Neil Young e Tom Petty, tuttavia aggiornato abbastanza da essere attuale ancora oggi. È forse il disco più coeso e meno prolisso di Kurt, anche se non ha la smisurata ambizione del successore “Wakin On A Pretty Daze” (2013).

Tuttavia, canzoni riuscite come Puppet To The Man e Ghost Town, senza scordarci la delicata Baby’s Arms e Jesus Fever, rendono davvero speciale questo disco, uno dei migliori lavori del decennio 2010-2019 proprio per questa sua incredibile qualità: suonare antico e contemporaneo allo stesso tempo.

88) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017” (2018)

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

87) Foals, “Holy Fire” (2013)

(ROCK)

Tutti attendevano al varco i Foals: la tensione rischiava di divorarli. Invece, i cinque ragazzi se ne uscirono nel 2013 con un album ancora più bello di “Total Life Forever” (2010), svoltando verso un rock più carico, quasi hard rock in certi tratti.

Ne sono simboli due delle canzoni migliori del CD: Prelude e Inhaler (quest’ultima trascinante nel ritornello) sono come gemelli siamesi, una senza l’altra non esisterebbe, ma proprio per questo acquistano fascino. Non male il funk à la Hot Chip di My Number, così come il quasi shoegaze della conclusiva Moon.

Insomma, un lavoro vario e ben riuscito, che conferma il talento dei Foals e il loro appeal sul pubblico, fatto ulteriormente validato dal successivo “What Went Down” (2015). Uno dei migliori album rock dell’anno e della decade.

86) Run The Jewels, “Run The Jewels 3” (2017)

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora.

Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima.

Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

85) Waxahatchee, “Out In The Storm” (2017)

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsene una prima idea.

L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile. Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo. Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

84) Wilco, “The Whole Love” (2011)

(ROCK)

I Wilco sono fin dalla nascita uno dei gruppi rock più avvincenti della nostra epoca. Flirtando spesso con country e folk, il complesso americano ci ha regalato nel corso della loro carriera capolavori maestosi come “Summerteeth” (1999) e “Yankee Hotel Foxtrot” (2001).

“The Whole Love” potrebbe parere a primo acchito un tipico album di mezz’età di una band ormai soddisfatta della propria posizione nello scacchiere musicale e non più interessata a prendere rischi. Beh, se pensate questo non conoscete bene i Wilco: la loro qualità migliore è sempre stata infatti quella di brillare nei momenti apparentemente di maggiore sicurezza, che per altre band avrebbero segnato l’inizio della fine.

Jeff Tweedy e compagni con “The Whole Love” hanno infatti probabilmente creato il terzo miglior album di una carriera sempre più stellata. Pezzi ambiziosi come Art Of Almost e la conclusiva One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend) sono clamorosi nella loro difficoltà ma perfettamente compiuti. Lo stesso vale per la più semplice ma deliziosa I Might.

In conclusione, i Wilco hanno confermato ancora una volta di possedere un talento sconfinato, fonte primaria di una carriera ormai trentennale e con successi pienamente meritati.

83) Death Grips, “The Money Store” (2012)

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il primo album del duo hip hop noto come Death Grips fa seguito al mixtape “Exmilitary” del 2011 e ne è una logica continuazione. Partiamo da una premessa: come possono però convivere efficacemente rap, punk e noise in un album di 13 brani per 41 minuti? Questo è il mistero più affascinante di “The Money Store”.

MC Ride e Zach Hill, rispettivamente cantante e polistrumentista del gruppo, non hanno mai più raggiunto questo miracoloso equilibrio, ma “The Money Store” resta un reperto unico. Il CD è infatti altamente repellente, pieno di rabbia, rime insensate e suoni che all’orecchio suonano come un martello pneumatico… ma forse proprio oggi, per tutti questi motivi, suona più vitale che mai?

Non è ben chiaro verso chi sia diretta la rabbia dei Death Grips, probabilmente è più un volgersi verso la pura anarchia (il duo intitolerà non a caso un lavoro nel 2015 “The Powers That B”). L’altra cosa davvero incredibile di “The Money Store” è il successo di pubblico che ha riscosso: malgrado la già accennata totale assenza di brani commerciali, pezzi come I’ve Seen Footage e Get Got hanno ottimi numeri nei servizi di streaming. Con merito, viene da dire: entrambi hanno un implicito fascino, fatto di suoni discordanti ma equilibrati, così come The Fever (Aye Aye).

“The Money Store” è uno dei dischi più influenti e allo stesso tempo più irripetibile della moderna storia del rap. Mescolando industrial, rap e musica puramente sperimentale i Death Grips hanno prodotto a loro modo un capolavoro, destinato a far parlare di sé ancora per molti anni.

82) Solange, “A Seat At The Table” (2016)

(R&B – SOUL)

Il 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. Si pensi, oltre a questo “A Seat At The Table”, a “Formation” di Beyoncé e a “Freetwon Sound” di Blood Orange.

La sorella minore di Bey, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul e rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael Jackson e Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait.

La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Queen Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat.

In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

81) Godspeed You! Black Emeperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (2012)

(ROCK – SPERIMENTALE)

I Godspeed You! Black Emperor sono da sempre riconosciuti come gli artisti pionieri del post-rock, quel genere che mescola rock e musica sperimentale, con punte di metal, per creare spesso brani monumentali che, per l’appunto, hanno perso qualsiasi cosa le rendesse rock per diventare qualcosa di diverso, più epico e decisamente meno commerciale.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” segna il ritorno della band ben dieci anni dopo l’ultimo disco, “Yanqui U.X.O.” (2002). Il lavoro è composto da quattro canzoni, con una struttura a specchio. Prima uno decisamente articolato (con durata superiore ai 20 minuti!), poi uno più semplice, che funge da ristoro dopo due corse sfrenate. Se la prima metà è decisamente cupa, nella seconda i Godspeed You! Black Emperor cercano ritmi meno devastanti, prova ne siano i 20 minuti di We Drift Like Worried Fire, opposti alla durezza e drammaticità di Mladic. I due intermezzi Their Helicopters Sing e Strung Like Lights At Thee Printemps Erable accompagnano poi l’ascoltatore in territori più elettronici, quasi sperimentali.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” si caratterizza così per essere il disco più intenso del collettivo canadese, già noto ai fans per CD mai facili al primo ascolto. La carriera della band prosegue tutt’ora, con l’ultimo lavoro Luciferian Towers che risale al 2017, a testimonianza di un complesso più vivo che mai.

80) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs” (2018)

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è da sempre la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare. Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Nel 2018 sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione.

79) LCD Soundsystem, “American Dream” (2017)

(ELETTRONICA – ROCK)

Gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, l’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

“American Dream” è un trionfo. L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco. Il tono del brano è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a David Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

78) Tame Impala, “Innespeaker” (2010)

(ROCK)

L’esordio dei Tame Impala segna quello che sarà il loro percorso successivo: un sound che richiama molto i grandi artisti psichedelici di fine anni ’60-primi anni ’70, oltre a Flaming Lips e Beatles.

Parker condisce il tutto con la sua bella voce, molto simile a John Lennon. Gli highlights sono numerosi: ricordiamo in particolare It Is Not Meant To Be, Solitude Is Bliss (il tema della solitudine ritorna molto spesso nei testi dei Tame Impala) e Alter Ego. Bella anche la strumentale Jeremy’s Storm.

Insomma, un grande album d’esordio per la band australiana; ma ancora il meglio doveva venire, basti pensare a “Lonerism” (2012) o al rivoluzionario “Currents” (2015).

77) Bon Iver, “i,i” (2019)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa. La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

76) Mac DeMarco, “Salad Days” (2014)

(ROCK)

Il secondo album vero e proprio del cantautore canadese Mac DeMarco è la definitiva affermazione dopo il già interessante “2” del 2012. “Salad Days” mantiene la stessa stranezza di fondo, creata da atmosfere sempre ovattate, titoli e testi spesso nonsense (basti pensare a “Salad Days”) e canzoni tanto semplici quanto irresistibili, su tutte le riuscitissime Blue Boy e Brother.

Tuttavia, non bisogna prendere Mac per un sempliciotto: in sole 11 canzoni e 34 minuti è infatti riuscito a creare il suo miglior CD, pieno anche di riferimenti testuali attuali (si veda Treat Her Better, contro la violenza sulle donne). Si hanno poi anche aperture alla psichedelia, in Chamber Of Reflection specialmente.

Insomma, una miniera d’oro per gli amanti dell’indie rock più scanzonato ma allo stesso tempo attento al mondo che ci circonda. Mac non sarà il miglior cantautore della sua generazione, ma a volte anche del semplice buonumore è il benvenuto, no?

75) Nick Cave & The Bad Seeds, “Push The Sky Away” (2013)

(ROCK)

Il quindicesimo album di Nick Cave, come spesso affiancato dai fidati Bad Seeds, è stato il primo seguito all’avventura dei Grinderman, che l’aveva visto mettere da parte il progetto primario per alcuni anni a inizio decade.

“Push The Sky Away” prosegue idealmente la traiettoria intrapresa nei bellissimi lavori “The Boatman’s Call” (1997) e “No More Shall We part” (2001), vale a dire un Nick Cave decisamente più tranquillo rispetto allo scatenato frontman degli anni ’80. Abbiamo quindi atmosfere decisamente rilassate, quasi ambient, solo a tratti reminiscenti dei Bad Seeds di qualche anno prima (Jubilee Street ad esempio è magnifica in questo senso). Anche liricamente, mentre prima Nick parlava spesso di episodi biblici o assassini spietati (si ricordi la celebre Red Right Hand), adesso fanno capolino argomenti più mondani, dal bosone di Higgs (Higgs Boson Blues) a Hannah Montana (!!), in Mermaids, a Wikipedia.

Nick Cave inaugurò con “Push The Sky Away” la trilogia di CD sperimentali continuata poi con il devastante “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), questi ultimi influenzati anche dalla morte del figlio del Nostro. Insomma, certamente non album leggeri, ma capaci di connettersi come mai prima ai fans del gruppo e giustamente osannati dalla critica di settore.

74) Beyoncé, “Lemonade” (2016)

(POP – R&B)

Il CD della vendetta per la più splendente star femminile della musica nera contemporanea. Grazie anche ad ospiti di assoluto livello (James Blake, Jack White, Kendrick Lamar tra gli altri), Bey convoglia tutta la rabbia contro il marito Jay-Z in “Lemonade”, con brani riusciti come Hold Up, Don’t Hurt Yourself e 6 Inch (con The Weeknd) come highlights.

Beyoncé ha così composto il migliore album di una carriera già brillante: “Lemonade” è un esempio di come la musica possa diventare un’arma potentissima contro la discriminazione femminile e a favore della parità tra i sessi. Menzione particolare poi per lo spettacolare “visual album” che accompagna “Lemonade”: una collezione che raccoglie i video di ogni canzone contenuta nel CD.

In poche parole: una delle opere più ambiziose degli ultimi anni, che senza dubbio risuonerà anche in futuro come un capolavoro pop di altissimo livello, sia musicale che artistico (nel senso più ampio del termine).

73) Mitski, “Be The Cowboy” (2018)

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album.

72) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (2012)

(PUNK – ROCK)

Il secondo album degli statunitensi Cloud Nothings, capitanati dall’indomito Dylan Baldi, è arrivato come un fulmine a ciel sereno nella scena indie d’Oltremanica. Prodotto dal leggendario Steve Albini (storico collaboratore dei Nirvana), “Attack On Memory” suona in effetti come un disco grunge: duro, con voce di Baldi in primo piano, liriche disperanti e batteria rutilante.

L’inizio è scioccante: No Future/No Past è tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, con quella cavalcata finale che evoca il titolo dell’album. Ancora più spiazzante Wasted Days: oltre 8 minuti, con ampia sezione strumentale nella parte centrale e il testo forse più drammatico ma in cui è più facile riconoscersi: “I thought! I would! Be more! Than this!”, ripetuto come un mantra dalla voce straziata di Baldi. Il CD prosegue poi con pezzi più vicini al rock, come Stay Useless, che allentano la pressione nella seconda parte del lavoro.

“Attack On Memory” è l’inizio di una bella storia nel mondo punk-rock, proseguita poi con l’altrettanto potente “Here And Nowhere Else” (2014). I Cloud Nothings, però, non sono mai suonati così spontanei nella loro ancora giovane carriera. Ecco perché “Attack On Memory” mantiene un posto di prestigio fra i migliori album punk del decennio.

71) Real Estate, “Atlas” (2014)

(ROCK)

I Real Estate, giunti al terzo lavoro, raggiungono probabilmente il miglior risultato possibile per il loro dream pop, molto simile in “Atlas” agli Arctic Monkeys di “Suck It And See”, ma con quel tocco di Phoenix (sia nella voce di Martin Courtney che nelle melodie) che arricchisce ulteriormente il range di ritmi dell’album.

“Atlas” si contraddistingue per canzoni graziose e ben fatte (su tutte Had To Hear e Talking Backwards, senza dimenticare la strumentale April’s Song), ma nessuna delle tracce di “Atlas” è fuori fuoco. Un LP praticamente impeccabile, “Atlas” resterà sicuramente un caposaldo dell’indie negli anni a venire.

È un peccato che i Real Estate siano poi stati travolti dallo scandalo legato al loro chitarrista principale Matthew Mondanile (accusato di comportamenti inappropriati da varie donne e costretto a lasciare la band), tanto da non riuscire a replicare fino ad ora i brillanti risultati di “Days” (2011) e “Atlas”. Nulla però ci toglierà mai la possibilità di ascoltare un’altra volta un capolavoro come “Atlas”, tanto semplice quanto riuscito.

70) FKA twigs, “MAGDALENE” (2019)

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD è fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, supporto nella produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

69) James Blake, “James Blake” (2011)

(ELETTRONICA)

Dopo una serie di EP cominciata nel 2009 con “Air & Lack Thereof” e proseguita con “The Bells Sketch EP”, “CMYK EP” e “Klavierwerke EP” (tutti del 2010), la pubblicazione dell’album d’esordio del cantautore inglese James Blake era attesissima.

Attesa ben ripagata dall’eponimo “James Blake”, uno degli album di musica elettronica (ma anche pop e R&B) più influenti della scorsa decade. Potremmo anzi dire che, assieme alla “Trilogy” di The Weeknd, questo disco abbia riscritto le regole dell’R&B alternativo e dell’elettronica più raffinata.

Basi derivanti dal garage di Burial sono infatti mescolate al pianoforte e ad una sensibilità pop che, nei suoi momenti migliori, rende le canzoni di “James Blake” sublimi. Basti sentire per la prima volta The Wilhelm Scream o le due Lindisfarne. Non tutto è perfetto, altrimenti il CD sarebbe facilmente entrato nella top 10 della decade, ma i risultati complessivi sono stupefacenti.

68) Aphex Twin, “Syro” (2014)

(ELETTRONICA)

Lo avevamo dato per spacciato: Aphex Twin sembrava oramai pronto per i libri di storia della musica, descritto come una delle voci più importanti del panorama della musica elettronica, fino però ai primi anni 2000. Invece, uno dei ritorni più graditi del 2014 è senza dubbio quello di Richard D. James, aka Aphex Twin, 13 anni dopo l’ultimo lavoro di studio “Drukqs”.

La qualità della produzione di Aphex è come sempre notevole: un’elettronica raffinata, a volte orecchiabile (come nella introduttiva minipops 67 [120.2]), altre volte più aggressiva (come nella lunga suite XMAS_EVET10 [120] o nella più breve 180 db_[130]). Il colpo da maestro arriva però con la conclusiva aisatsana [102], delicatissima e commovente: solo piano di James e uccellini di sottofondo, che creano un’atmosfera davvero affascinante. Una sensibilità così spiccata in RDJ ci era ignota: chapeau.

67) Sleater-Kinney, “No Cities To Love” (2015)

(PUNK – ROCK)

Le Sleater-Kinney sono state negli anni ’90 una delle band simbolo del movimento punk femminile americano (non a caso chiamato “riot grrl”), assieme alle Hole di Courtney Love. Dopo aver sfornato sei ottimi CD, nel 2006 si erano sciolte, dedicandosi a progetti solisti. Nove anni dopo, l’evento: la reunion. E i risultati sono ancora una volta ottimi.

Le tre ex ragazze rivoltose si scoprono più mature, ma i cavalli di battaglia sono sempre i soliti, dalla critica al capitalismo sfrenato, alla discriminazione verso il sesso femminile, alla lotta alla povertà. Il punk delle origini non si è diluito, anzi: in poco più di 30 minuti le Sleater-Kinney sfornano dieci potenziali hit punk-rock, nessuna delle quali sfigura. Spiccano Price Tag, la title-track e A New Wave, una delle tracce dell’anno.

Insomma, un trionfo: come testimoniano Blur e Sleater-Kinney (ma anche i My Bloody Valentine nel 2013), le reunion a volte riescono ad aggiungere capitoli interessanti a carriere già leggendarie.

66) Vampire Weekend, “Contra” (2010)

(ROCK – POP)

Il rischio dei secondi album di band talentuose ma fondamentalmente “conservatrici” è quello di tentare di ripetere il primo, riuscendoci solo a tratti. Questo è il caso di Strokes, Interpol, Bloc Party e Franz Ferdinand, per citarne alcuni celebri. Ma “Contra”, secondo CD dei Vampire Weekend, non compie questo errore: la band riesce ad ampliare notevolmente il proprio range sonoro, aprendo ad atmosfere alla Paul Simon.

Se infatti l’inizio ricalca l’indie scanzonato di “Vampire Weekend”, il bell’esordio del 2008, con brani veloci e ben fatti come Horchata, White Sky e Holiday, la parte centrale (per esempio con Run o Taxi Cub) ma soprattutto l’ultimo tratto dell’album aprono a sonorità nuove e potenzialmente di radicale cambiamento: basti ascoltare Giving Up The Gun o Diplomat’s Son, lunga addirittura 6 minuti.

In conclusione, i Vampire Weekend, anche se non sempre centrano il bersaglio, restavano ancora una band su cui puntare: possiamo dire una start up, ancora in divenire, ma con una prospettiva a 5 stelle, fatto confermato dal magnifico “Modern Vampires Of The City” (2013).

65) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” (2018)

(ELETTRONICA)

Il titolo dell’album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco. La musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE.

64) Janelle Monáe, “The Electric Lady” (2013)

(R&B – POP)

Il secondo album della talentuosa Janelle Monáe è un altro trionfo. Dopo la sorpresa di “The ArchAndroid” (2010), Janelle non ha per nulla perso lo smalto in questo “The Electric Lady”, in cui torna la figura di Cindy Mayweather e si compongono la quarta e quinta suite dell’ambiziosa opera su questa androide umanizzata.

I temi portanti sono peraltro i medesimi del precedente lavoro: l’amore libero, la voglia di rimuovere quel malessere interno che tutti prima o poi abbiamo… Anche il concept è lo stesso, come già ricordato, supportato da ospiti magnifici come Prince, Miguel, Solange Knowles ed Erykah Badu.

La novità risiede nel semplice fatto di replicare i risultati strabilianti di “The ArchAndroid”, che per molti sarebbe stato un ostacolo troppo grande e una pressione intollerabile. Del resto, però, talenti cristallini e poliedrici come l’artista americana sono rarissimi, così come brani clamorosi come Q.U.E.E.N. ed Electric Lady.

63) Sky Ferreira, “Night Time, My Time” (2013)

(POP – ROCK)

L’esordio (di cui ancora non abbiamo un seguito) di Sky Ferreira è semplicemente un buon album? Sì e no. Senza dubbio le belle canzoni abbondano, da Boys a Nobody Asked Me (If I Was Okay), passando per Heavy Metal Heart e la conclusiva title track; tuttavia, l’impatto che ancora oggi lei e questo LP hanno sul mondo musicale sono immensi.

Sky era infatti apparentemente destinata a diventare una popstar: con all’attivo il brillante singolo Everything Is Embarrassing e l’EP “Ghost” (2012) che vantava la collaborazione di Cass McCombs e Dev Hynes (Blood Orange), tutto pareva apparecchiato per il grande botto. Invece Sky ha abbandonato la via facile, decidendo di rifugiarsi in un CD che affronta temi come l’odio per sé stessi e i problemi d’amore in maniera inusuale, con uno sguardo femminista che ancora oggi ha peso su figure come Charli XCX e le sorelle Haim, approcciando generi disparati come il synthpop, il grunge e il rock alternativo.

“Night Time, My Time” non ha un erede probabilmente anche per questo motivo: replicare un piccolo gioiello come questo lavoro e rischiare di rovinare un’eredità così pesante ha reso la Nostra più insicura e, dato il suo maniacale perfezionismo, “Masochism” non ha ancora visto la luce, diventando una sorta di Sacro Graal: da tutti ricercato ma da nessuno trovato.

62) The War On Drugs, “A Deeper Understanding” (2017)

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala. Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del decennio, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

61) Grimes, “Art Angels” (2015)

(POP – ELETTRONICA)

Claire Boucher, la cantante canadese meglio conosciuta come Grimes, nel 2012 aveva stupito tutti con “Visions”, suo terzo lavoro di studio ma primo ad avere un certo successo, superbo CD che mescolava elettronica e pop in maniera davvero unica. In “Art Angels” Grimes torna alla stessa formula già sperimentata in “Visions”, con minore inventiva ma superiore confidenza nei propri mezzi.

I risultati sono ancora una volta ottimi: brani come la potente SCREAM, la title track e la ottima Venus Fly (a cui ha collaborato Janelle Monáe) sono concepibili solo da un genio della musica moderna come Grimes, molto maturata anche vocalmente. La perla del CD è però World Princess Part II, uno dei migliori pezzi pop dell’anno.

Album per certi versi folle, “Art Angels”, ma nondimeno accattivante e ben fatto: i pochi passi falsi (come California) sembrano confermare che la perfezione non è di questo mondo. Top 100 pienamente meritata per “Art Angels” e per Claire Boucher, una delle poche artiste per cui si possa dire: nessuno suona come lei.

60) Deerhunter, “Fading Frontier” (2015)

(ROCK)

I Deerhunter non sono mai stati apprezzati per le canzoni allegre o il clima gioioso dei loro album. Anzi, molto spesso valeva il contrario: a partire dal secondo lavoro di studio “Cryptograms”(2007) fino a “Monomania” (2013), la loro cifra stilistica era sempre stato un indie rock venato di ambient music e pop, aggressivo e con testi riguardanti temi scottanti come morte, sessualità, guerra…

“Fading Frontier” è perciò una gradita scoperta: un album che cresce ad ogni ascolto, accessibile e decisamente più commerciale rispetto ai citati lavori precedenti. Si ritorna dunque alle melodie dream pop di “Halcyon Digest” (2010), capolavoro del gruppo. Bradford Cox e Lockett Pundt, frontman e chitarrista dei Deerhunter, oltre che menti creative della band, danno sfogo alla loro vena più intimista e serena.

I testi d’altra parte non sono banali nemmeno in “Fading Frontier”: in Take Care “copiano” un titolo ai Beach House e a Drake, ma trattano di storie d’amore finite male; in All The Same narrano le disavventure di un uomo che perde moglie e figli, ma trasforma le proprie debolezze in forza per riemergere. Il brano migliore è però Breaker, primo pezzo con parte canora condivisa fra Cox e Pundt nella produzione dei Deerhunter, che riecheggia Beach House e Real Estate. Bella anche Living My Life, che sembra quasi ispirarsi a Bon Iver. Nessuno dei 9 piccoli gioielli che compongono questo LP può dirsi fuori posto: un altro tassello alla già ottima carriera dei Deerhunter è stato aggiunto.

59) Alt-J, “An Awesome Wave” (2012)

(ROCK)

Una band che agli esordi vince il Mercury Prize non è frequente, ma gli Alt-J di “An Awesome Wave” lo meritano: era da tempo che non si sentiva un disco così innovativo.

Gli Alt- J creano infatti una miscellanea sonora affascinante ed efficace: esclusi infatti la Intro iniziale e i due Interlude, il CD cattura l’attenzione dello spettatore creando un genere fatto di indie pop, rock leggero e una spruzzata di elettronica tremendamente bello nei suoi picchi creativi (Fitzpleasure, Breezeblocks e Something Good sono davvero magnifiche).

Anche nei momenti più intimisti “An Awesome Wave” non delude: sia Taro che Dissolve Me non sfigurano. In poche parole: uno dei migliori CD del 2012 e del decennio.

58) Wolf Alice, “My Love Is Cool” (2015)

(ROCK)

Al primo album di studio, gli inglesi Wolf Alice tirano fuori un album semplicemente splendido, che riesce a mescolare con grande abilità generi fra loro diversi (grunge, alternative rock e pop), grazie anche alle meravigliose voci di Ellie Rowsell e Joff Oddie, che un po’ giocano a fare gli xx e un po’ i My Bloody Valentine.

Non vi sono brani sbagliati o fuori posto: anzi, il terzetto iniziale (Turn To Dust, Bros e Your Loves Whore) è probabilmente il migliore del 2015. Altri pezzi non trascurabili sono Lisbon e la conclusiva The Wonderwhy, che ricordano gli Interpol di “Turn On The Bright Lights”; invece Giant Peach gioca a fare gli Strokes.

Non sarà il nuovo “Loveless” o “Kid A”, ma certamente “My Love Is Cool” resterà anche in futuro come uno dei migliori esordi degli anni ’10 del XXI secolo. Complimenti ai Wolf Alice.

57) Iceage, “You’re Nothing” (2013)

(PUNK)

Il secondo CD dei danesi Iceage è facilmente uno dei più begli album punk del decennio 2010-2019 e, allo stesso tempo, uno dei più feroci. Prendendo spunto dalle scene hardcore e punk del passato, gli Iceage (guidati dal bravo frontman Elias Bender Rønnenfelt) creano un grido punk lungo 28 minuti, una durata relativamente breve per un disco nella nostra epoca, ma lungo abbastanza da comunicare tutto il disagio giovanile presente nel gruppo.

In realtà già l’esordio “New Brigade” (2011) aveva lasciato intravedere la natura selvaggia degli Iceage, tanto che addirittura il loro “padrino” Iggy Pop aveva detto di esserne spaventato. La paura è in effetti quella che emana da “You’re Nothing”: già dal titolo i temi dominanti sono intuibili.

Attraverso canzoni devastanti come Ecstasy e Burning Hand Rønnenfelt e compagni creano un senso di claustrofobia che non se ne va se non alla fine del CD. “You’re Nothing” è forse troppo duro per molti, ma resta (e resterà probabilmente anche in futuro) uno dei migliori dischi punk della decade appena finita.

56) Angel Olsen, “My Woman” (2016)

(ROCK)

Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop-rock contemporaneo.

Se inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock, con “My Woman” il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Allo stesso tempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire.

Il 2016 è stato l’anno in cui, con lei e Courtney Barnett, il rock femminile ha trovato due grandi interpreti. Fatto confermato, per quanto riguarda Olsen, dallo splendido “All Mirrors” del 2019, che ce ne ha fatto scoprire il lato più art pop.

55) Kurt Vile, “Wakin On A Pretty Daze” (2013)

(ROCK)

Il quinto album solista di Kurt Vile trova il Nostro al picco delle proprie capacità. “Wakin On A Pretty Daze” è il CD più accessibile della sua discografia, pieno di momenti davvero paradisiaci per gli amanti del rock vecchio stampo: i 9 minuti di Wakin On A Pretty Day sono clamorosi, così come l’epica chiusura di Goldtone. Nel mezzo abbiamo altre perle, da KV Crimes a Too Hard, che rendono il lavoro davvero imperdibile.

I semi di questo squisito LP erano già stati pianati nel precedente “Smoke Ring For My Halo” (2011), dove Kurt aveva abbandonato il lo-fi dei primi dischi da frontman dopo l’apprendistato nei The War On Drugs per far spazio a un rock infarcito di folk e psichedelia. È però in “Wakin On A Pretty Daze” che il suo stile rilassato ma mai prevedibile sboccia completamente.

Il CD è davvero un piacere, intaccato solamente dall’eccessiva lunghezza (oltre 69 minuti) che però non danneggia i momenti davvero memorabili di un lavoro caposaldo del rock classico ma anche psichedelico del decennio.

54) St. Vincent, “Strange Mercy” (2011)

(ROCK)

Annie Clark, in arte St. Vincent, è una delle artiste davvero fondamentali nel panorama pop-rock degli anni ’10. Il suo stile a metà fra ricercato e scanzonato, con un’estetica a tratti à la David Bowie, la rendono un personaggio che non passa mai inosservato; a ciò aggiungiamo canzoni spesso riuscite e il cocktail diventa esplosivo.

“Strange Mercy”, il terzo album a firma St. Vincent, è il lavoro per molti definitivo della cantante statunitense. Mescolando abilmente la sua voce ammaliante a schitarrate a tratti selvagge e testi mai scontati, la Clark condensa in poco più di 40 minuti molta della storia dell’indie rock.

Da Chloe In The Afternoon a Cruel, passando per Champagne Year e Surgeon, il CD è un trionfo, che denota finalmente tutto il talento del progetto St. Vincent, ulteriormente rifinito nel 2014 nell’eponimo “St. Vincent”.

53) Little Simz, “GREY Area” (2019)

(HIP HOP)

Se spesso i passati lavori di Little Simz erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), in “GREY Area” l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque ed evita di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap della decade.

52) Run The Jewels, “Run The Jewels 2” (2014)

(HIP HOP)

La seconda collaborazione fra i due rapper americani Killer Mike ed El-P è un trionfo per gli amanti del rap più duro. In un compatto formato da 11 brani e 39 minuti, i Run The Jewels confermano un’intesa incredibile e un’abilità vocale e di produttori notevoli, che rendono “Run The Jewels 2” il miglior CD ad oggi del duo.

Il lavoro è quasi nostalgico in certi tratti: la collaborazione con Zach De La Rocha (Rage Against The Machine) e i rimandi a Public Enemy e N.W.A. sono chiari e allo stesso tempo graditi, nondimeno i Run The Jewels non sono semplicemente dei tradizionalisti. Anzi, nel 2014 questo disco era davvero all’avanguardia: le sue denunce della violenza a sfondo razziale della polizia americana e la sfida lanciata agli haters sono temi tuttora attuali.

Soprattutto, a risaltare ancora oggi sono le canzoni: fin dall’apertura feroce di Jeopardy, passando per la durissima Close Your Eyes (And Count To Fuck) e Crown, “Run The Jewels 2” è un LP che non lascia spazio al filler e, a tratti, è quasi troppo da prendere tutto in una volta. Ciò non toglie valore ad un lavoro tanto duro quanto sincero: valori non scontati nel panorama musicale moderno, per certi versi troppo “smielato” specie nel mondo pop.

51) Darkside, “Psychic” (2013)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il progetto Darkside, ossia il nickname della collaborazione fra Nicolas Jaar e il chitarrista/bassista Dave Harrington, ha scritto pagine molto importanti della musica degli anni ’10. Nel breve spazio di tre anni infatti il duo ha pubblicato l’EP di esordio “Darkside” (2010), remixato “Random Access Memories” dei Daft Punk (2013) e dato alla luce il loro per ora unico CD vero e proprio, il brillante “Psychic”.

Jaar è molto conosciuto e stimato per essere uno dei più innovativi artisti di musica elettronica, capace di spiccare sia come produttore, sia come compositore, che si parli di musica ambient, dance oppure sperimentale. Darkside è il lato più rock di Nicolas: i riferimenti a prog rock, funk e space rock (quindi agli anni ’70 e ’80 del XX secolo) sono numerosi, basti sentirsi l’epica Golden Arrow e The Only Shrine I’ve Seen. I pezzi riusciti però non terminano qui: le 8 perle di “Psychic” creano infatti un insieme coeso ma mai ripetitivo, anzi a volte quasi elitario nei riferimenti e nella complessità delle canzoni.

Melodie come la già citata Golden Arrow e Paper Trails rientrano di diritto fra le canzoni più belle della decade e rendono questo “Psychic” imprescindibile per gli amanti della musica ai confini fra rock ed elettronica. Dal canto suo Nicolas Jaar si conferma artista versatile e ormai pronto a spiccare il volo fra i maestri dell’elettronica.

Manca poco ormai per sapere chi è il CD più bello della decade 2010-2019 secondo A-Rock! State sintonizzati, domani il verdetto sarà espresso!

Recap: febbraio 2020

Febbraio è stato un mese davvero ricco di uscite rilevanti. A-Rock non ha lesinato, come del resto è consuetudine, i propri sforzi: recensiremo i nuovi lavori di Grimes, Liam Gallagher, Destroyer, A.A.L. (Against All Logic) e il disco postumo di Mac Miller. In più abbiamo i nuovi CD dei Green Day, di King Krule e di Denzel Curry. Buona lettura!

Destroyer, “Have We Met”

have we met

Il tredicesimo album del veterano del soft rock Dan Bejar, in arte Destroyer, è uno dei lavori più compiuti a suo nome. Se da sempre il marchio Destroyer è sinonimo di canzoni affascinanti e raffinate, con “Have We Met” Bejar continua il suo percorso nel mondo synth-pop in maniera impeccabile, segnando un highlight che è anche il primo album rock davvero riuscito dell’anno.

La decade 2010-2019 aveva visto Destroyer creare lavori sempre più lontani dalle sue radici folk-rock per portarsi verso lidi più raffinati, ispirati ai Roxy Music e al mondo synth degli anni ’80 (Sade su tutti). “Kaputt” (2011) era stato il picco creativo del periodo, ancora oggi annoverato fra i dischi migliori dello scorso decennio. Bejar aveva in seguito proseguito in quel percorso con i riusciti “Poison Season” (2015) e “ken” (2017), ma con ritorni inevitabilmente minori, anche commercialmente parlando.

“Have We Met” senza dubbio non è in linea coi tempi, dominati da trap e hip hop, ma soddisferà gli amanti del soft rock più nostalgico e del progetto Destroyer: pezzi come Crimson Tide, The Raven e The Man In Black’s Blues sono fin da subito standout del CD. Solo la ballata The Television Music Supervisor è fuori contesto e abbassa la media di “Have We Met”.

Proprio questa canzone però ha anche il testo più poetico forse dell’intera produzione di Dan Bejar: un produttore musicale, ormai sul letto di morte, riflette sulla propria vita e sui rimorsi che ha ancora dentro di sé, lasciando però la scena irrisolta tanto che l’ultimo verso è “I can’t believe…”. Che il musicista sia spirato?

Altrove troviamo messaggi quasi politici, fatto inusuale per un CD dei Destroyer: “Just look at the world around you… actually no, don’t look!”, contenuta in The Raven, è l’esempio più chiaro. In The Man In Black’s Blues abbiamo un ritorno del Bejar più astratto: “When you’re looking for Nothing and you find Nothing, it is more beautiful than anything you ever knew”.

In conclusione, “Have We Met” è il miglior LP del progetto Destroyer dal 2011 ad oggi e conferma Dan Bejar come voce irrinunciabile del panorama rock.

Voto finale: 8,5.

A.A.L. (Against All Logic), “Illusions Of Shameless Abundance” / “2017-2019”

Uno dei tanti alias del celebre musicista cileno Nicolas Jaar ci fa capire, ancora una volta, che siamo di fronte ad un talento unico nel circuito della musica elettronica mondiale. Unendo i suoi istinti più sperimentali con ospiti di spessore (FKA Twigs, Lydia Lunch), Jaar con questo doppio appuntamento EP/LP sembra anticipare musica sempre più visionaria.

Il breve lavoro “Illusions Of Shameless Abundance” si compone di sole due tracce: la title track pare un’introduzione, fatta di atmosfere club completamente destrutturate. Invece Alucinao, che vanta la presenza di FKA Twigs, è ben più ambiziosa: ricordando le atmosfere dell’Aphex Twin più discotecaro ma anche Autechre e Skee Mask, la traccia è allo stesso tempo la più danzereccia e la più sperimentale mai partorita da Nicolas Jaar, sotto qualsiasi moniker egli abbia mai usato.

L’EP non è chiaramente il piatto forte del 2020 di A.A.L. (Against All Logic), con Jaar che ha già dato alla luce “2017-2019”, erede di quel “2012-2017” che è un capolavoro recente della musica house.

Il CD non ricalca in realtà le atmosfere house dell’illustre predecessore: Jaar infatti introduce elementi industrial nel sound del suo progetto, creando un prodotto meno caldo ma non meno intrigante. L’inizio di Fantasy è in effetti diverso dalle canzoni house di “2012-2017”, ma la canzone entra sottopelle con facilità. Idem per la seguente If Loving You Is Wrong, più accogliente. Una novità rilevante e benvenuta è la brevità del lavoro: 9 canzoni per 45 minuti sono decisamente più digeribili dei 66 minuti di “2012-2017”.

In poche parole, Nicolas Jaar si conferma punto fermo della scena elettronica mondiale: dall’elettronica minimal, quasi ambient di “Space Is Only Noise” (2011) passando per il progetto “Darkside” (2013) con Dave Harrington, caratterizzato da atmosfere più rock, arrivando fino a “Sirens” (2016) e i due CD di A.A.L. (Against All Logic), il musicista cileno non ha mai fallito un appuntamento.

Voto finale: 8.

Grimes, “Miss Anthropocene”

miss anthropocene

Il quinto disco della cantautrice canadese Claire Boucher, in arte Grimes, la trova ad un passaggio fondamentale non solo della propria carriera, ma dell’intera sua vita: fidanzata di Elon Musk, uno dei più noti miliardari del mondo, nonché incinta di otto mesi dell’inventore della Tesla, in che condizione avremmo trovato Grimes in “Miss Anthropocene”?

Il CD arriva a cinque anni dal pluripremiato “Art Angels”, uno dei dischi pop più eccentrici degli ultimi anni, caratterizzato da vocine da bamboline, collaborazioni eccellenti (Janelle Monáe su tutti) e sterzate su generi diversi rispetto al pop etereo e sognante che caratterizzava “Visions” (2012), il primo vero LP di successo a firma Grimes. “Miss Anthropocene” da questo punto di vista continua la sperimentazione, con riferimenti a nu metal, folk ed elettronica da rave che parevano lontane dalla Grimes che avevamo lasciato nel 2015.

Tematicamente, “Miss Anthropocene” già dal titolo ci fa capire il messaggio fondamentale che l’artista canadese vuole trasmettere: il global warming è pericoloso, ci vorrebbe una dea che cadesse sulla Terra per sanare le dispute inutili fra noi umani e salvare il pianeta. We Appreciate Power, primo singolo poi non inserito nella versione ufficiale del disco (ma presente in quella deluxe), presentava addirittura una Intelligenza Artificiale che avrebbe soggiogato l’Uomo per renderlo finalmente in grado di capire le conseguenze delle proprie azioni sul pianeta.

Una visione quindi controversa, che non sarà apprezzata da molti; tuttavia Grimes, ormai personalità pop ben in vista e rispettata da pubblico e critica, ha sempre fatto le cose a modo suo, senza curarsi delle reazioni degli altri. Basti ripensare a Oblivion, in cui cantava senza paura dello stupro subito in giovanissima età, evento che l’ha segnata indelebilmente.

Musicalmente, “Miss Anthropocene” è un trionfo: pur essendo una logica continuazione di “Art Angels”, come già detto, Grimes non lesina con gli esperimenti, cercando di stupire in ogni momento l’ascoltatore durante i circa 40 minuti di durata del disco. Brani come l’iniziale So Heavy I Fell Through The Earth e Darkseid, quasi hip hop, sono highlights immediati; ma anche il singolo Violence e 4ÆM sono notevoli. Leggermente inferiore My Name Is Dark, troppo dura come atmosfere per mescolarsi alla vocetta da cartoon di Claire Boucher.

In generale, tuttavia, Grimes si conferma nome fondamentale della scena pop alternativa del XXI secolo. “Miss Anthropocene” è un’aggiunta di valore a un catalogo ormai di spessore.

Voto finale: 8.

Denzel Curry, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX” / “UNLOCKED”

I due brevi EP pubblicati nel giro di un mese dal rapper di Miami Denzel Curry, astro nascente della scena trap più alternativa, mostrano un artista al top: le basi sono durissime, in questo ricordando “TA13OO” (2018), il CD che fece conoscere Denzel a un pubblico ampio. A ciò aggiungiamo collaborazioni efficaci e abbiamo due fra gli EP più eccitanti degli ultimi anni.

Il primo ad essere pubblicato in ordine temporale, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, è davvero breve: 8 pezzi che arrivano a malapena ai 13 minuti di durata, spesso connessi uno con l’altro tanto che è difficile dire dove uno finisce e il nuovo inizia. A colpire sono specialmente la durissima XX – CHARLIE SHEEN – XX, con la collaborazione di Ghostemane, e la più dolce XX – WELCOME TO THE FUTURE – XX. Nessuna però è scarsa, tanto da creare un disco quasi punk: potente, immediato e breve, che impone ascolti in serie.

Il secondo EP è intitolato (?) “UNTITLED” e vanta la collaborazione di Kenny Beats, da molti riconosciuto come il nuovo Madlib: che Denzel Curry sia il suo Freddie Gibbs? Non siamo di fronte ad un nuovo “Bandana” (2019), ma senza dubbio il CD è riuscito: meno aspro rispetto a “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, mantiene però alto il livello delle basi con inserti jazz che rendono l’insieme imprevedibile. I pezzi migliori sono Take_it_Back_v2 e Track07, poi in generale valgono le considerazioni fatte anche per il precedente lavoro: la brevità rende necessario più di un ascolto per apprezzare appieno i dettagli delle poche ma intricate canzoni.

In poche parole, Denzel Curry è destinato a scrivere pagine importanti dell’hip hop degli anni ’20 del XXI secolo: questi due EP ne sono un’ulteriore dimostrazione.

Voto finale: 7,5.

Liam Gallagher, “Acoustic Sessions”

liam

Il minore dei fratelli Gallagher ha sorpreso i propri fans. Il 31 gennaio ha infatti pubblicato un EP molto prezioso per i numerosi orfani degli Oasis, delle sessioni acustiche dove, armato quasi solo di chitarra, Liam reinterpreta alcuni successi recenti e lontani nel tempo del suo sterminato canzoniere.

I richiami ai maestri del passato, su tutti i Beatles, sono come sempre numerosi, ma Liam riesce a dare nuova linfa a brani ormai classici come Stand By Me e Cast No Shadow, ma anche a pezzi più recenti come Once e Meadow. Colpisce che fra i remix non trovino spazio tracce dell’esordio solista “As You Were” (2017), così come dei Beady Eye, ma tant’è.

Il lavoro è in ogni modo godibile e ci regala una versione non proprio famosa di Liam: quella del cantante intimista, capace di dare profondità alle canzoni con chitarra, voce e solo occasionalmente batteria. Testimonianza ulteriore del suo carisma e del talento vocale del Nostro. “Acoustic Sessions” è quindi un EP imperdibile per tutti i fans dei Gallagher, sia insieme che solisti.

Voto finale: 7,5.

King Krule, “Man Alive!”

man alive

Il terzo album di Archy Marshall a firma King Krule segue di tre anni il bellissimo “The OOZ”, ad oggi il più completo e ambizioso lavoro del musicista inglese. Ricco di canzoni indelebili e liriche profonde quanto drammatiche, “The OOZ” era il manifesto artistico di un giovane che già da anni era nell’occhio del ciclone per quanto riguarda le attese poste su di lui da critica e pubblico.

“Man Alive!” è un CD decisamente più focalizzato ma allo stesso tempo meno visionario di “The OOZ”: mentre quest’ultimo mescolava rock, punk e jazz per creare un ibrido sperimentale ma allo stesso tempo accessibile (basti sentirsi le meravigliose Dum Surfer e Czech One), il nuovo lavoro di Archy è più ruvido e flirta con sonorità care a Tom Waits e Nick Cave.

L’inizio è decisamente mosso: fino al breve intermezzo The Dream King Krule compone canzoni di puro rock and roll, con Stoned Again come highlight. La seconda parte del lavoro è invece più raccolta; influenzato forse anche dalla recente paternità, infatti, Marshall compone quasi canzoni d’amore, non fosse per quegli elementi dissonanti sempre presenti nei pezzi firmati King Krule. Esemplare a questo proposito la chiusura di Please Complete Thee.

Il CD non alienerà sicuramente le simpatie meritoriamente guadagnate da Archy Marshall nel mondo del rock alternativo, tuttavia difficilmente conquisterà nuovi fans. “Man Alive!” pare quasi un album di transizione, curato e affascinante, ma mancante di quel qualcosa che rendeva “The OOZ” così speciale.

Voto finale: 7,5.

Mac Miller, “Circles”

mac

Il CD postumo del rapper Mac Miller, deceduto per overdose l’estate del 2018, è una degna conclusione ad una carriera di discreto successo, interrotta troppo presto e capace di lasciare un’impronta duratura nell’estetica rap contemporanea.

“Circles” in realtà non pare neanche un album propriamente hip hop: Mac infatti canta piuttosto che rappare, eccetto che in poche tracce, in questo somigliando al Tyler, The Creator di “IGOR” (2019). Circles, ad esempio, è una traccia quasi pop, in cui Miller mette in mostra la sua vena più romantica. Anche I Can See è molto meditativa. Più mossa è invece Blue World.

A colpire sono poi, ahimè, le liriche, come sempre in un LP postumo: una particolarmente beffarda suona “To everyone who sell me drugs: don’t mix it with that bullshit, I’m hopin’ not to join the 27 Club”, contenuta in Brand New. Anche altrove notiamo messaggi più o meno impliciti di malinconia: “My god, it go on and on just like a circle, I go back to where I’m from” (So It Goes) e “Sometimes I get lonely, not when I’m alone, but it’s more when I’m standin’ in crowds that I’m feelin’ the most on my own” (Good News).

La buona notizia è che, a differenza delle operazioni di sciacallaggio effettuate dai gestori dell’eredità di XXXTentacion, Mac Miller suona perfettamente sé stesso in “Circles”, che anzi è un CD compiuto, non perfetto ma certo gradevole e una degna conclusione ad una carriera che meritava miglior fortuna.

Voto finale: 7.

Green Day, “Father Of All…”

father

Al tredicesimo album di inediti, i Green Day pubblicano il loro lavoro più stringato, soli 26 minuti di pura energia e molte canzoni sotto i 2 minuti. I risultati deluderanno coloro che si aspettavano un’opera politica sul modello di “American Idiot” (2004), ma il gruppo americano era da tempo che non suonava così divertito e divertente, rendendo “Father Of All…” un CD breve ma intenso e, soprattutto, riuscito.

Va poi ricordato che il disco arriva a 4 anni da “Revolution Radio”, la rinascita dopo la sfortunata trilogia del 2012 composta da “¡Uno!”, “¡Dos!” e “¡Tre!”. Malgrado non fosse un capolavoro, quel lavoro era un ritorno alle origini per i Green Day, forse conservatore ma non malvagio. Invece “Father Of All…” prova a sperimentare, un po’ quello che Billie Joe Armstrong e compagni fecero nei primi anni del nuovo millennio. Ne sono testimonianza Junkies On A High, che pare quasi un pezzo dei Black Keys, e la title track, in cui Armstrong pare imitare Jack White.

I pezzi che spiccano sono proprio Father Of All… e Oh Yeah!, ma in realtà nessuno è fuori fuoco (forse inferiore alla media Take The Money And Crawl). Certo, i Green Day brillanti e irriverenti di “Dookie” (1994) sono ormai scomparsi, ma “Father Of All…” si aggiunge alla loro ormai pesante eredità senza intaccarla.

Voto finale: 7.

I 50 migliori album del 2018 (25-1)

Nella prima parte della lista dei 50 migliori CD del 2018 avevamo incontrato artisti importanti come Pusha-T, Robyn e Travis Scott. Chi sarà stato così bravo da entrare nei migliori 25? Buona lettura!

25) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino”

(ROCK – POP)

Abbiamo aspettato cinque anni (al 2013 risale infatti “AM”). Ancora una volta, Alex Turner e soci hanno radicalmente cambiato pelle, approcciando un pop-rock con inserti blues e jazz che mai ci saremmo aspettati da loro, specialmente dopo un disco a tratti hard rock come “AM” e le esperienze di Turner e del batterista Matt Helders con due mostri sacri del rock pesante come Josh Homme e Iggy Pop.

“Tranquility Base Hotel & Casino” è infarcito di riferimenti culturali; a dirla tutta, è un vero e proprio concept album, composto praticamente in solitudine da Turner nella sua casa di Los Angeles. Egli si immagina che gli umani abbiano ormai colonizzato la Luna e che vi siano stati aperti locali, tra cui appunto il Tranquility Base (sia hotel che casinò) e la sua band suoni proprio in questo locale. Il nome non è casuale: il Tranquility Base era il sito lunare dove l’astronave americana Apollo 11 atterrò nel 1969. I riferimenti a romanzi e film di fantascienza sono poi sparsi lungo le 11 canzoni dell’album: vi è una canzone dedicata al tema (Science Fiction), una che evoca addirittura Batman (la suadente Batphone)… Nell’epica Four Out Of Five, si fa riferimento ad un libro del 1985, “Amusing Ourselves To Death”, in cui pionieristicamente si anticipavano i rischi che l’eccessivo flusso di informazioni, spesso false, può avere sugli uomini.

In effetti, questo è anche il disco più politico degli AM: oltre al riferimento alle fake news, Turner parla del presidente americano Donald Trump definendolo “un wrestler che veste pantaloncini dorati” (Golden Trunks) e degli effetti deleteri che una vita vissuta sui social media ha sulle persone più vulnerabili (She Looks Like Fun). Accanto a tutto questo, arriva anche una stoccata ai critici di professione (forse anche quelli musicali?), in Four Out Of Five.

Insomma, carne al fuoco ne abbiamo davvero moltissima. Ma musicalmente, il CD è riuscito o no? Ad un primo ascolto, le scimmie artiche sembrano aver perso tutto quello che le rendeva speciali: assoli praticamente assenti, la batteria di Helders a malapena percettibile, basso mai in evidenza. Tuttavia, iniziando ad apprezzare anche il contesto in cui Turner ha posto il disco, si inizia a comprendere pienamente i pezzi. Evidenti sono le influenze di “Pet Sounds” dei Beach Boys, ma anche di Leonard Cohen e Serge Gainsbourg, non casualmente alcuni degli artisti più apprezzati da Alex Turner.

I pezzi migliori sono l’iniziale Star Treatment, la spettacolare ballata The Ultracheese e Batphone; meno riuscite Golden Trunks (Helders completamente assente) e la confusa She Looks Like Fun, che evoca Jack White ma non pare completamente a fuoco.

In conclusione, Turner & co. hanno ancora una volta sorpreso i loro fan: chi si aspettava un nuovo “AM” rimarrà completamente deluso, nondimeno va elogiata la capacità degli Arctic Monkeys di riuscire ad ogni LP a cambiare pelle: passando dall’indie allo stoner rock, dal brit pop all’hard rock e ora al lounge pop, hanno mantenuto un livello compositivo altissimo. Averne di gruppi così coraggiosi e talentuosi; potrebbero davvero essere i Blur o, chissà, i Radiohead degli anni a venire.

“I just wanted to be one of the Strokes, now look at the mess you made me make”. Tutto il disco può essere sintetizzato in questo verso, rintracciabile in Star Treatment (titolo evocativo del trattamento riservato allo star system, peraltro). Probabilmente, però, l’allievo (Alex) ha superato il maestro (Julian).

24) Noname, “Room 25”

(HIP HOP – SOUL)

Il primo album vero e proprio di Fatimah Nyeema Warner, in arte Noname, segue il fortunato mixtape “Telefone” del 2016. Già nel precedente lavoro la ventisettenne aveva mostrato qualità non banali, soprattutto per l’innata abilità di fondere fra loro generi come rap, funk e soul. In “Room 25” Noname amplia la propria tavolozza, inglobando elementi di neo-soul degni del miglior D’Angelo e affrontando temi delicati come la scoperta della propria sessualità in maniera sincera, a volte addirittura sfacciata.

“Room 25” si apre con Self, che contiene uno dei versi più riusciti dell’anno: “My pussy teachin’ ninth-grade English. My pussy wrote a thesis on colonialism”. Beh, una dichiarazione d’intenti niente male, condita da un’ironia non comune. I riferimenti alla propria sessualità sono poi sparsi qua e là nel corso del breve ma efficace album, ad esempio in Window Noname canta “I know you never loved me but I fucked you anyway. I guess a bitch likes to gamble”. Tuttavia, le liriche così esplicite (che riportano alla mente “CTRL” di SZA del 2017) non sono la parte migliore dell’album. Infatti la Warner, in soli 35 minuti, condensa circa vent’anni di musica nera: trovando un precario punto d’incontro fra jazz, hip hop e soul, “Room 25” diventa un LP irrinunciabile per gli amanti della black music. Noname è consapevole dei giganti che sta citando, non a caso in Don’t Forget About Me dice “Somebody hit D’Angelo, I think I need him for this one”, nondimeno non si lascia intimorire e forgia un lavoro pregevole nelle sue parti migliori.

Infatti, non è facile a resistere a belle canzoni come Ace (che vanta la collaborazione di Saba, altro rapper emergente) e la dolce Prayer Song. Se vogliamo trovare un difetto al disco è l’eccessiva frammentarietà: la brevità è un pregio, ma molti pezzi non arrivano nemmeno ai canonici tre minuti, fatto che alla lunga può stufare. In generale, però, ripetuti ascolti attenuano questa caratteristica ed anzi esaltano la grande varietà di ritmi e generi affrontati dall’artista.

In conclusione, “Room 25” è un ottimo disco d’esordio per la giovane Noname, che promette di occupare un posto importante nel panorama hip hop degli anni a venire. Il fatto poi che rinunci addirittura a possedere un nome d’arte e non abbia (ancora) alcuna rivalità con le superstar femminili del rap contemporaneo la rendono umile e pronta a sbocciare definitivamente.

23) Father John Misty, “God’s Favourite Customer”

(ROCK)

Joshua Tillman è giunto al quarto CD sotto il nome di Father John Misty, quello che lo ha portato alla celebrità e contemporaneamente a diventare uno dei cantautori indie più discussi anche online, a causa delle sue prese di posizione sempre controverse, ma mai banali. “God’s Favourite Customer” arriva pochi mesi dopo il monumentale “Pure Comedy”, senza dubbio il lavoro più ambizioso di Tillman: il CD era infatti un’analisi di tutti i mali della società contemporanea, fatta su canzoni molto barocche, per una durata complessiva di 74 minuti. Insomma, un lavoro potenzialmente molto divisivo, che tuttavia aveva fatto breccia anche nel pubblico meno ricercato ed era entrato in molte liste dei migliori album del 2017 (compresa la nostra) con pieno merito.

“God’s Favourite Customer” probabilmente avrà la stessa fortuna, ma per motivi opposti: il disco è considerevolmente più breve di “Pure Comedy” e caratterizzato da canzoni meno complesse. Anche liricamente l’album è radicalmente diverso: adesso Tillman affronta i propri demoni personali, lasciando da parte le riflessioni sul mondo esterno. I risultati, come sempre con lui, sono ottimi.

Già le prime due tracce, Hangout At The Gallows e Mr. Tillman, rappresentano appieno questa svolta: ritorno alle ritmiche e sonorità di “Fear Fun”, durata ragionevole e immediato appeal. Il CD proseguirà poi su questa strada, affiancando canzoni più rock (la bella Disappointing Diamonds Are The Rarest Of Them All e We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That)) ad altre più melodiche (Just Dumb Enough To Try e The Songwriter). A coronamento di tutto sta la bella voce di Father John Misty, più calda ed evocativa che mai: basti sentire The Palace, solo voce e piano.

Liricamente, dicevamo, Tillman affronta gli angoli più oscuri della sua psiche, in particolare la paura di perdere l’amata moglie e le pene d’amore che questo provocherebbe. Un’apertura considerevole e sincera, soprattutto considerato che parliamo di un artista noto per il suo ego infinito e la sua sagace ironia piuttosto che per la sua fragilità.

In conclusione, in soli 38 minuti e dieci canzoni, Father John Misty conferma ancora una volta il suo immenso talento: mescolando influenze disparate (da Neil Young a Bob Dylan ai Fleet Foxes, il suo ex gruppo), Joshua Tillman ha prodotto un LP tanto semplice quanto gradevole. Chissà che il picco delle sue capacità non debba ancora essere raggiunto…

22) Jon Hopkins, “Singularity”

(ELETTRONICA)

Il nuovo lavoro del compositore inglese Jon Hopkins, uno dei più stimati nel panorama della musica elettronica, conferma tutte le sue qualità. Mescolando abilmente techno e ambient, “Singularity” è uno dei CD di elettronica più intriganti del 2018, che in generale si è rivelato eccellente per questo tipo di musica,

La partenza è ottima: Singularity è potente e suadente allo stesso tempo, ricordando Aphex Twin nei suoi momenti migliori. Il titolo evoca la vita e, contemporaneamente, la singolarità: ossia quel momento in cui la capacità intellettiva delle macchine supererà la mente umana. Insomma, il disco sembra quasi assumere l’aspetto di un concept album. Fatto ulteriormente confermato dalle altre tracce presenti, dai titoli altamente evocativi, come C O S M, Everything Connected e Feel First Life.

Tecnicamente, come sempre, Jon Hopkins si dimostra un maestro: la produzione e il mixaggio sono magnifici, l’ospitata di Clark in Emerald Rush aggiunge ulteriore profondità alla canzone… Insomma, da questo punto di vista nulla da eccepire. Possono risultare invece troppi e molto densi i 62 minuti dell’album, che infatti per essere pienamente apprezzato richiede almeno 3-4 ascolti. Nondimeno, il premio per questa pazienza è uno degli LP di musica elettronica migliori del decennio.

I pezzi migliori sono la title track, Emerald Rush, Luminous Beings e Recovery, che riporta alla mente le sonorità ambient di Brian Eno. Ma nessuna traccia è veramente deludente, sintomo di un album difficile (alcune canzoni superano i 10 minuti) ma coeso. Giunto al quinto CD di inediti, Hopkins sembra aver trovato la definitiva maturità. Chi pensava che “Immunity” (2013) fosse solo un episodio fortunato dovrà ricredersi.

21) Vince Staples, “FM!”

(HIP HOP)

Il terzo album del talentuoso rapper americano è stato un fulmine a ciel sereno: annunciato il giorno prima della pubblicazione, avvenuta il 2 novembre, solo 22 minuti di durata e un’intensità non scontata per uno che ha dimostrato di trovarsi bene anche con sonorità meno ossessive (soprattutto nel suo capolavoro “Summertime ‘06” del 2015).

Ad aggiungere pepe all’intero progetto è il fatto che Vince rappa solo in otto delle undici tracce che compongono “FM!” (chiaro riferimento alle onde radio, come vedremo in seguito). Tre sono infatti brevi intermezzi dove, prendendosi gioco dell’ascoltatore, Staples annuncia un nuovo CD degli amici Earl Sweatshirt e Tyga. È chiaro l’intento del rapper, che dedica sostanzialmente un intero LP (anche se breve) alla radio e all’importanza che essa ha avuto nella sua infanzia.

Tuttavia, il fine puramente satirico dell’album non deve nascondere il talento immenso messo in mostra nuovamente da Staples, sempre più una voce fondamentale dell’hip hop contemporaneo. Le iniziali Feels Like Summer e Outside! sono infuocate e richiamano le sonorità degli esordi di Vince, infarcendole però anche con l’elettronica che permeava “Big Fish Theory” (2017) e l’EP “Prima Donna” (2016). Nessuna canzone fatta e finita è fuori posto, tanto che gli highlights più arditi (da Outside! a Run The Bands) non sono poi tanto migliori dei brani meno sperimentali, ma non per questo scontati: tutto è congeniale infatti a creare un disco tanto caotico quanto intrigante e mai scontato.

Dal punto di vista testuale, il rapper californiano è da sempre famoso per l’abilità nel descrivere la tragica condizione dei sobborghi (Ramona Park di Long Beach il suo bersaglio preferito). In “FM!” il mirino non è puntato unicamente su sé stesso, malgrado Vince abbia scritto su Intagram che avrebbe dedicato il lavoro al suo primo, vero fan: sé stesso. Vince sputa sentenze tanto dure quanto condivisibili o almeno corroborate dai numerosi episodi di razzismo accaduti recentemente in America. In Feels Like Summer abbiamo il seguente, durissimo verso: “We gonna party ’til the sun or the guns come out”. Altro esempio della sua visione disincantata della vita, già venuta alla luce nelle frasi di “Prima Donna” in cui enunciava le proprie tendenze suicide, è presente in FUN!: “My black is beautiful, but I’ll still shoot at you”.

Insomma, questo album breve/EP che dir si voglia è un’altra aggiunta preziosa ad una discografia sempre più ingombrante. I beat scorrono fluidamente, la produzione è ottima e Vince dimostra una voglia di sperimentare assolutamente rara nel mondo hip hop moderno. Dopo essere partito da sonorità tipiche del rap West Coast (ritmi lenti, basi cupe e liriche drammaticamente realistiche), Staples ha sperimentato con ritmi elettronici e decisamente più tesi nelle prove più recenti. “FM!” riassume tutto in 22 minuti: una missione quasi impossibile, ma riuscita quasi su tutta la linea.

Se questo è il picco delle sue abilità, ben venga; ma sembra proprio che Vince Staples abbia ancora molto da dare alla musica moderna. Che il suo manifesto definitivo debba ancora arrivare?

20) The Voidz, “Virtue”

(ROCK)

Julian Casablancas è tornato con gli ormai fidati Voidz con un CD molto diverso dal precedente sforzo del gruppo, quel “Tyranny” (2014) che mescolava ferocia e sperimentalismo, riff taglienti e canzoni semplicemente folli. Insomma, tutto meno che accessibile. Ebbene, “Virtue” riporta con la mente alle atmosfere del disco solista di Julian del 2008, “Phrazes For The Young”, che mescolava psichedelia e pop.

In particolare, sorprende la capacità del frontman degli Strokes di fondere fra loro tutte le influenze sperimentate negli ultimi 15 anni: dal rock di “A First Of Impression Of Earth” al suo album solista, ma anche il gusto anni ’80 di “Angles” e “Comedown Machine”. Il risultato potrà risultare straniante, a volte incoerente, ma mai prevedibile e sempre molto intrigante.

La prima canzone del CD, Leave It In My Dreams, è fra le migliori mai scritte da Casablancas dopo “Room On Fire”: synths raffinati, prova vocale ottima, base ritmica azzeccata. Idem per QYURRYUS, fra i singoli estratti, non per caso: i rimandi anni ’80 sono evidenti, per esempio ai Talking Heads, ma non invadenti. La prima parte di “Virtue” è quindi davvero convincente, contando su altri buoni pezzi come Permanent High School e ALieNNatioN. Non che la seconda sia da meno, tuttavia lo sperimentalismo a volte può risultare fine a sé stesso (per esempio in Think Before You Drink e Wink). I rimandi al precedente album dei Voidz sono pochi, ma non inutili: la chitarra potente di Pyramid Of Bones e One Of The Ones rende questi pezzi davvero coinvolgenti.

Il bilancio di questa cavalcata attraverso generi tanto diversi è eccellente: pur con alcuni questioni irrisolte (la lunghezza del lavoro soprattutto), i Voidz si confermano una voce davvero unica nel panorama rock contemporaneo. E poi, Julian non sembrava così libero e divertito dal comporre musica da “Room On Fire”; e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

19) Ty Segall, “Freedom’s Goblin”

(ROCK)

L’iperattivo Ty Segall, ragazzo prodigio del rock statunitense, è al decimo album di inediti a suo nome: un traguardo incredibile, considerato che Ty ha soli 31 anni e ha realizzato anche numerosi album collaborativi, greatest hits e CD live. Insomma, un artista davvero instancabile! Ciò, tuttavia, non ha influenzato la qualità dei suoi lavori: LP come “Slaughterhouse” (2012) o l’omonimo “Ty Segall” (2017) sono davvero notevoli.

Questo “Freedom’s Goblin”, il più lungo disco a firma Ty Segall in termini di canzoni e durata (19 pezzi per 72 minuti), è forse anche il suo lavoro più ambizioso; possiamo anzi dire che rappresenta un riassunto di tutto quello che musicalmente Ty ha passato negli ultimi dieci anni. Abbiamo pezzi hard rock (la bellissima Ever1’s A Winner e When Mommy Kills You), altri melodici (Rain e You Say All The Nice Things), alcuni quasi sperimentali (ad esempio Despoiler Of Cadaver, quasi elettronica, e Alta, aperta dal suono di un organo, strumento inusuale per l’artista californiano). Da sottolineare le lunghe She e And, Goodnight, due suite rock che mettono in mostra il talento di Ty, soprattutto come chitarrista. Ty potrebbe davvero essere il Jack White degli anni ’10. In generale, l’eccessivo numero di canzoni può rendere frammentario il disco, specialmente nella parte finale, ma i risultati sono generalmente ottimi.

Ty Segall sembra dunque aver trovato la definitiva maturità, a cavallo fra White Stripes e Led Zeppelin, con inserti melodici che quasi ricordano i Beatles (sentirsi My Lady’s On Fire e Cry Cry Cry per conferma). Il capolavoro definitivo sembra dietro l’angolo: forse una minore iperattività gli consentirebbe di focalizzarsi totalmente su un progetto e tirarne fuori il meglio. Detto questo, averne di artisti capaci di sfornare ogni anno un LP di livello così alto.

18) Jeff Rosenstock, “POST-”

(PUNK – ROCK)

L’artista punk Jeff Rosenstock è al terzo album solista, dopo una carriera molto lunga in alcune band underground statunitensi. I suoi primi due CD, “We Cool?” (2015) e “WORRY.” (2016) erano indizi di quello che sarebbe stato “POST-”, tuttavia non erano riusciti come quest’ultimo lavoro.

Il disco mescola infatti molto abilmente punk, power pop e dream pop (!), creando una miscela esplosiva di Cloud Nothings e Beach House, cosa che può apparire strana, ma in realtà rende il CD davvero imperdibile.

L’inizio è fulminante. USA è un pezzo punk di notevole caratura, lungo e complesso (supera i 7 minuti), ma mai prevedibile o noioso: partenza punk, parte centrale pop e finale trascinante. Va detto che Rosenstock è molto astuto: concentra i brani migliori all’inizio e alla fine del disco. Non per caso, infatti, la conclusiva Let Them Win è bellissima: 11 minuti di invettive contro Trump e i suoi seguaci, a testimoniare l’importanza anche politica dell’album, sopra una base ritmica davvero potente. Il finale con tastiere sognanti è, infine, una degna conclusione per questo fantastico LP.

Molti titoli e testi richiamano l’attualità politica americana: abbiamo per esempio Powerlessness, Beating My Head Against A Wall e TV Stars. Musicalmente, come già detto, il disco alterna brani punk (come la già citata Powerlessness e Yr Throat) ad altri più melodici (ad esempio TV Stars e 9/10), ma l’insieme è abbastanza coerente.

In conclusione, quel che è certo è che il punk ha ancora molto da dire, soprattutto in tempi incerti come questi: Jeff Rosenstock ce lo ha ricordato.

17) Troye Sivan, “Bloom”

(POP)

La nascente pop star australiana Troye Sivan ha pubblicato un lavoro davvero maturo per un ragazzo di appena 23 anni. “Bloom” è infatti un ottimo album pop, capace di suonare fresco malgrado si vedano chiaramente le influenze a cui Troye si ispira (George Michael, Lorde e The 1975 fra gli altri).

Quest’anno abbiamo avuto molti CD con chiari riferimenti alla sessualità dei protagonisti: in tempi di #MeToo e pieni diritti per le persone omosessuali, è perfettamente comprensibile che artisti dalle origini disparate abbiano descritto cosa significhi essere persone omosessuali. Troye Sivan non ha mai nascosto la sua attrazione per altri uomini, ma nel suo secondo album le liriche sono decisamente più mature e le sonorità più coerenti ed efficaci, rendendo “Bloom” un ascolto imprescindibile per gli amanti del pop.

L’inizio è travolgente: sia Seventeen che il singolo My My My! sono ottimi pezzi pop, degni di autori più quotati del giovane Troye. Anche i testi colpiscono: in Seventeen Sivan narra le sue avventure erotiche su Grindr (il Tinder per omosessuali) con uomini più maturi e gli abusi da loro perpetrati. Altrove le liriche sono più delicate: “Got something here to lose that I think you wanna take from me” in Seventeen e “I need you to tell me right before it goes down. Promise me you’ll hold my hand if I get scared now” in Bloom ne sono esempi.

Musicalmente, dicevamo, il CD è un ottimo concentrato del pop del XXI secolo, con inserti di autori del passato come George Michael. La voce di Sivan ricorda molto quella di Matt Healy dei The 1975, mentre la forte presenza del pianoforte in molte melodie (si veda Postcard) fa tornare alla mente il Perfume Genius delle origini. Da sottolineare infine le collaborazioni presenti in “Bloom”: Ariana Grande fa una comparsata in Dance To This, mentre il celebre produttore Ariel Rechtshaid collabora in The Good Side. Un po’ ovvie sono canzoni come Plum e Dance To This, ma sono peccati veniali in un lavoro altrimenti molto efficace.

Insomma, il futuro pare roseo per la giovane star australiana: giusto così, dato il talento dimostrato e la voglia di sperimentare non solo la carriera musicale. Ricordiamo infatti che Sivan è diventato noto come youtuber, per poi passare alla carriera di attore e poi di cantante. Insomma, un personaggio poliedrico e pronto al grande salto nel mondo delle star a tutto tondo. “Bloom” è un ottimo biglietto da visita ed è senza dubbio uno dei migliori album pop dell’anno.

16) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears”

(POP – ELETTRONICA)

Il secondo, attesissimo CD delle giovani inglesi Rosa Walton e Jenny Hollingworth, in arte Let’s Eat Grandma, ha pienamente mantenuto le promesse: aiutate da produttori rinomati come Sophie Xeon e Faris Badwan, le due teenager (!) pubblicano un disco in molti tratti rivoluzionario, che fonde generi disparati come pop, psichedelia ed elettronica in un connubio spesso eccellente.

L’apertura già instrada magistralmente il lavoro: sia Whitewater che Hot Pink (quest’ultima vanta la produzione di Badwan e Xeon) sono stranianti, in particolare la seconda alterna ritmi pop e improvvise aperture industrial, che non per caso ricordano gli ultimi lavori di SOPHIE e Horrors. I brani riusciti non finiscono qui: Falling Into Me è un gioiello pop, che ricorda la miglior Lorde; le lunghissime Donnie Darko e Cool & Collected suggellano il CD. Le uniche pecche sono i due inutili intermezzi Missed Call (1) e The Cat’s Pijamas, ma non intaccano troppo la struttura del lavoro.

I testi affrontano con sagacia la condizione di molti teenager negli anni dei primi amori e della scoperta della propria sessualità: le due giovani artiste in Hot Pink cantano infatti “I’m just an object of disdain to you… I’m only 17, I don’t know what you mean”, il ritornello contiene un riferimento non solo velatamente sessuale: “Hot Pink! Is it mine, is it?”. Sono poi presenti riferimenti macabri, non inattesi da un gruppo che incita a mangiare un parente, in Falling Into Me: “I paved the backstreets with the mist of my brain. I crossed the gap between the platform and train”.

In conclusione, se il debutto “I, Gemini” del 2016 suonava inevitabilmente ingenuo in certi tratti e le voci della Walton e della Hollingworth ancora acerbe, “I’m All Ears” segna il primo vero LP degno di nota a firma Let’s Eat Grandma. Speriamo che sia solo l’inizio di una carriera di successo: le premesse sembrano esserci tutte.

15) Saba, “CARE FOR ME”

(HIP HOP)

Il rapper di Chicago, giunto alla sua quinta esperienza in studio e al secondo album vero e proprio, ha finalmente trovato la consacrazione. Saba, nato Tahj Malik Chandler, era conosciuto, fino a pochi anni fa, più come collaboratore di Chance The Rapper che come solista, tuttavia negli ultimi due anni ha trovato una propria dimensione, che potrebbe notevolmente ampliarsi dopo la pubblicazione di un CD bello come “CARE FOR ME”.

Le scritte tutte maiuscole farebbero pensare a “DAMN.” di Kendrick Lamar, tuttavia le influenze che sentiamo in questo disco sono più rivolte a “Summertime ‘06” di Vince Staples e all’amico Chance The Rapper: dunque, un rap infarcito di gospel, con basi calme, quasi contemplative. I risultati, come già accennato, sono ottimi: “CARE FOR ME” scorre benissimo, senza frizioni fra i brani, per una durata che in termini di canzoni (10) e minutaggio (42 minuti) è finalmente in linea con il recente passato, senza sovraccaricare il disco di troppe canzoni, come alcuni colleghi di Saba fanno (Drake, Migos ecc).

Come sempre in un album hip hop, i testi sono una parte cruciale nel valutare un LP: Saba descrive il processo di accettazione della morte prematura del cugino Walter, ucciso l’anno scorso dopo una colluttazione nella metropolitana da un ladro che voleva il suo cappotto. Una morte tragica, per cui Saba ha scritto testi strazianti. Per esempio, in BUSY/SIRENS canta “I’m so alone” e successivamente “Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat”. Il dramma è ancora ben presente, dunque. Colpisce la struttura del CD, che arriva in HEAVEN ALL AROUND ME ad una visione di Walter in Paradiso, che veglia su Saba e i suoi cari. Insomma, la fede ha decisamente aiutato il rapper ad accettare la morte del suo mentore, colui che per primo lo aveva introdotto alla musica.

Altre liriche toccanti sono “They want a barcode on my wrist to auction off the kids that don’t fit their description of a utopia” in LIFE e “We got in the car, but we didn’t know where to drive to. Fuck it, wherever you are my nigga, we’ll come and find you” in PROM/KING, penultimo brano della tracklist, dove notiamo un’accettazione definitiva della morte di Walter.

Musicalmente, i pezzi che più restano impressi sono BUSY/SIRENS, SMILE e la dura LIFE; notevole anche FIGHTER. Meno bella LOGOUT, ma i risultati restano sorprendenti. Saba, infatti, pur parlando di temi strettamente personali, riesce a trasmettere messaggi universali: il suo viaggio può infatti essere intrapreso da chiunque abbia perso una persona amata, un po’ quello che Mount Eerie ha fatto in “A Crow Looked At Me” e “Now Only”. Sono questi LP che rendono speciali anche le canzoni più semplici, no?

14) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017”

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

L’unico problema di “2012-2017” può risultare nell’eccessiva lunghezza: in effetti, 67 minuti di musica elettronica da club/discoteca e canzoni che superano facilmente i 5 minuti possono essere ostacoli non banali per gli ascoltatori casuali, ma non fatevi spaventare. A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

13) Young Fathers, “Cocoa Sugar”

(HIP HOP)

Il terzo album del trio scozzese è il compimento di un percorso che li ha visti costantemente migliorare, gli Young Fathers sono infatti a tutti gli effetti tra i maggiori innovatori nel mondo hip hop. Le loro basi mescolano sapientemente rock, pop, soul e ritmi africani, creando brani a volte caotici, ma nella maggior parte dei casi sorprendenti e mai banali. Ne sono esempio, nel nuovo CD “Cocoa Sugar”, In My View e See How.

Anche i testi degli Young Fathers non sono innocui: già il titolo del disco, “Cocoa Sugar”, anticipa un tema portante, la contrapposizione fra bianchi e neri purtroppo ancora centrale nella società. Tuttavia, non possiamo parlare di rap politico: gli Young Fathers spesso accennano solamente a tutto ciò, non volendo soverchiare l’ascoltatore con messaggi troppo forti. Molto diversi da un Kendrick Lamar, tanto per capirsi. Liriche potenti ne abbiamo comunque: da “don’t turn my brown eyes blue, I’m nothing like you” a “I’m not here to drown you, I’m only here to clean you”.

I risultati complessivi sono ottimi: “Cocoa Sugar” è uno dei migliori album rap non solo dell’anno, ma della decade. Accanto ai già citati See How e In My View, abbiamo altri pezzi molto efficaci: da Tremolo a Toy, passando per la base industrial di Turn (quasi à la Nine Inch Nails) e i paesaggi pastorali di Lord, che quasi ricorda i Walkmen più intimisti.

Insomma, come già accennato, gli Young Fathers hanno probabilmente raggiunto il picco creativo nel rap sperimentale che li contraddistingue: come andranno avanti da qui in avanti sarà interessante. Intanto godiamoci questo LP, ennesima conferma di come il rap ormai sia così mainstream da dover contaminarsi con altri generi per diventare sperimentale. Era già successo al rock molti anni fa, quando molti dovettero contaminarlo con elettronica e rap (!) per rinnovarlo. La ruota gira…

12) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs”

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è sempre stato la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy. Fatto in realtà condiviso da molti membri del collettivo, tranne il vulcanico Tyler the Creator. Questo probabilmente è anche dovuto alla sua giovane età: a soli 24 anni Earl ha infatti già alle spalle due dischi e un mixtape osannati da critica e pubblico, con una conseguente pressione per produrre sempre nuova musica di qualità che diventerebbe insostenibile per lui se l’esposizione aumentasse.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare.

Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Proprio quest’anno infatti sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

Shattered Dreams è un inizio strano, non troppo efficace preso singolarmente ma adatto ad introdurre il mood del disco; già in Red Water infatti la perfetta mescolanza fra hip hop e jazz è affascinante come poche volte abbiamo sentito ultimamente. Forse paragonabile in questo a “To Pimp A Butterfly”, il disco di Earl è però presente anche sul lato più sperimentale del rap, simile ai Death Grips ma meno hardcore. Ne sono esempi Cold Summers e Nowhere2go, la traccia più deprimente dell’album, in cui Earl afferma che “I think … I spent my whole life depressed, only thing on my mind was death. Didn’t know if my time was next”.

La seconda parte del disco, pur breve, contiene altrettanti contenuti interessanti: dalla commovente Azucar, in cui Sweatshirt canta “My momma used to say she sees my father in me. I said I was not offended”, alla conclusione raccolta ma carica di pathos di Riot!, “Some Rap Songs” si conferma un CD imperdibile per gli amanti del rap più visionario.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione. Considerato che lui ha iniziato a diventare famoso all’incredibile età di 16 anni (al 2010 risale infatti il suo primo mixtape “Earl”) e ha già alle spalle una corposa discografia, il futuro sembra essere dalla sua parte. Una volta che avrà imparato ad essere così intraprendente per dischi con durata maggiore, il capolavoro sarà fatto e finito.

11) Parquet Courts, “Wide Awake!”

(ROCK)

Giunti ormai al settimo album di studio, considerando anche quelli registrati come Parkay Quarts e quello collaborativo con il DJ italiano Daniele Luppi, i Parquet Courts non intendono interrompere la striscia vincente iniziata con “Light Up Gold” (2012), un mix di irriverenza, indie rock estremamente orecchiabile e testi spesso allegramente nonsense.

La copertina di “Wide Awake!” effettivamente sembra proseguire su questa traiettoria; anche un ascolto del disco conferma questa prima impressione. Il CD inizia subito a mille: Total Football e Violence ricordano le sonorità del precedente lavoro del gruppo, “Human Performance” (2016), mentre Before The Water Gets Too High è più sperimentale, sulla falsa riga di “Sunbathing Animal” (2014). Invece, Mardi Gras Beads è forse il pezzo più melodico mai scritto da Savage & co., ricordando gli Arctic Monkeys di Mardy Bum.

Anche la seconda parte del disco contiene canzoni molto interessanti, che ne fanno ad ora il disco più vario e completo della produzione dei Parquet Courts: Back To Earth è strana ma riuscita, Normalization breve ma coinvolgente. Tolti i due intermezzi NYC Observation e Extinction, insomma, il CD è davvero ottimo, il migliore di una band sempre al passo con la modernità e pronta a cambiare quel tanto da risultare fresca. “Wide Awake!” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli. Bravi, Parquet Courts.

10) Shame, “Songs Of Praise”

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. Donk, troppo breve, è il solo momento sotto la media, ma non rovina l’eccellente CD degli Shame. Anzi, l’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Anche “Songs Of Praise” affronta tematiche rilevanti, come la violenza sulle donne o il menefreghismo dell’Occidente per le sorti della parte più povera del pianeta, senza perdonare nulla, neanche a coloro che solo a parole supportano delle cause giuste: del resto, si chiedono Steen e compagni, se noi per primi non facciamo niente, come possiamo sperare che il mondo migliori?

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Savages e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

9) Mount Eerie, “Now Only”

(FOLK – ROCK)

La storia di Phil Elverum, frontman dei Microphones e successivamente solista col nome di Mount Eerie, è tristemente nota. Nel 2016 sua moglie Geneviève è morta di cancro, lasciando lui e la loro figlioletta a chiedersi il perché di tanta sofferenza a una così giovane età. Elverum ha deciso di affrontare questo tragico lutto facendo quello che sa fare meglio: scrivere canzoni. Mount Eerie non è mai suonato così scarno come negli ultimi due suoi CD, “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only”. È possibile infatti vedere questo disco come una continuazione del precedente, ma contemporaneamente “Now Only” contiene differenti sonorità in alcuni tratti, che lo rendono un capolavoro a sé stante.

La partenza è straziante: Tintin In Tibet narra alcuni frammenti del passato di Phil e Geneviève, per esempio il loro primo incontro, ma si apre e si chiude con le seguenti parole: “I sing to you”. È facile intuire chi sia quel “tu” a cui si rivolge Elverum, non a caso queste canzoni sembrano più un’autoconfessione che un lavoro per piacere al pubblico. Il loro fascino, tuttavia, risiede proprio in questo: essere scritti con uno scopo personale, ma avere una risonanza universale.

Musicalmente parlando, come già accennato, “Now Only” riprende il folk scarno di “A Crow Looked At Me”, tuttavia in alcuni brani riecheggiano chitarre distorte e una lieve base di batteria, che rendono il CD più vicino ai primi lavori dei Microphones rispetto al suo predecessore. I brani migliori sono Tintin In Tibet, Earth (unica traccia con chitarre rock), la title track e Two Paintings By Nikolai Astrup. A colpire, però, sono soprattutto le liriche: nella lunghissima Distortion Elverum recita “the first dead body I ever saw in real life was my great-grandfather’s; the second dead body I ever saw was you, Geneviève, when I watched you turn from alive to dead right here in our house.” Uno dei versi più sinceri e tragici mai cantati. C’è spazio per un’accettazione della morte dell’amata moglie, quasi con sollievo, quando Phil dice “you’re sleeping out in the yard now”.

I fan di Mount Eerie ricorderanno sicuramente l’immagine del corvo presente in “A Crow Looked At Me”, che prendeva le sembianze della moglie agli occhi di Elverum, ancora incapace di accettare la sua perdita; vi è un richiamo in “Now Only”, tanto che l’ultima canzone si intitola proprio Crow, Pt.2. Adesso, però, Elverum canta “I don’t see you anywhere”. Il cantante statunitense sembra finalmente aver capito che Geneviève non tornerà più indietro: meglio vivere la vita che resta e crescere la propria figlia, mantenendo le promesse fatte alla moglie morente. Non c’è messaggio migliore da prendere da questo LP.

8) Mitski, “Be The Cowboy”

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

Liricamente, Mitski sembra dedicare questo lavoro all’amore, presente in ogni sua forma: ad esempio, in Remember My Name canta “I gave too much of my heart tonight. Can you come to where I’m staying and make some extra love that I can save ’till to tomorrow’s show?”, oppure in Lonesome Love “Nobody butters me up like you, and nobody fucks me like me”. Testi espliciti e senza peli sulla lingua, insomma. Tuttavia, essi non risultano mai fuori luogo e anzi aumentano l’attenzione dell’ascoltatore anche per le canzoni più leggere.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album. Siamo in trepidante attesa di vedere se questo è il picco delle sue capacità oppure il meglio deve ancora venire.

7) Denzel Curry, “TA13OO”

(HIP HOP)

Il terzo disco del giovane rapper Denzel Curry può essere considerato il vero manifesto di quel genere che, un po’ spregiativamente, viene chiamato SoundCloud rap. Si tratta di un genere emerso sulla piattaforma SoundCloud e che vede fra i suoi principali esponenti JPEGMAFIA, lo stesso Curry e il defunto XXXTentacion: abbiamo una fusione fra il rap morbido di Drake e atmosfere più dark, quasi gotiche, tipiche dell’hip hop dei decenni passati.

Molto ambiziosamente, Denzel conia una sorta di nuovo linguaggio nel dare i titoli ai brani dell’album: la B diventa 13, le S sono Z ecc. Noi riportiamo i titoli “trascritti”, altrimenti la comprensione sarebbe a volte difficoltosa. Inoltre, “TA13OO” è diviso in tre parti, chiamate da Curry luce, area grigia e oscurità. L’intento è rappresentare i diversi aspetti del suo animo, sia mediante le basi dei pezzi che attraverso i testi.

L’inizio, non casualmente, è molto sereno e rilassato: sia TABOO che BLACK BALLOONS sono brani molto à la Drake, con aspetti di Travis Scott in evidenza. Andando avanti nel disco, emergono come già accennato precedentemente brani con atmosfere decisamente più opprimenti, che si rifanno al Kanye West di “Yeezus”: ad esempio, in SUMO e SUPER SAYAN SUPERMAN troviamo basi trap potenti ed efficacissime, che richiamano i migliori Migos. Il finale è, coerentemente, rappresentato da pezzi trap decisamente carichi: sia VENGEANCE che BLACK METAL TERRORIST sono infatti caratterizzati da basi ossessive e voci demoniache, che rendono le canzoni difficili ma tremendamente affascinanti.

Anche liricamente il CD non affronta tematiche semplici: l’apertura di TABOO è per certi versi scioccante, con Curry che dettaglia la sua relazione con una ragazza vittima di terribili abusi nella sua infanzia. In BLACK BALLOONS sono contenuti riferimenti espliciti alla morte e al suicidio come soluzione per risolvere i problemi che affliggono Denzel. Ritroviamo, oltre a basi anni ’90 in certi tratti del disco, anche temi afferenti a quel periodo: in SUMO il rapper afferma di avere “tasche piene di soldi e grosse come un lottatore di sumo”. Da sottolineare infine la capacità del giovane statunitense di passare da registri più melodici a versi letteralmente urlati, segno che anche vocalmente siamo di fronte a un talento notevole. Sentirsi SIRENS e VENGEANCE per un confronto.

In generale, dunque, Curry ha creato un mondo difficile da abbandonare, malgrado le atmosfere e i testi siano talvolta molto inospitali. Non è un merito da poco, in un anno che per il rap ha visto mietere nuovi successi ma una qualità media scadente.

6) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”

(ELETTRONICA)

Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegarci la mania recente degli artisti di chiamare i dischi (e a volte loro stessi) con lettere tutte maiuscole: da Kendrick Lamar a Pusha-T ai Carters (cioè Jay-Z e Beyoncé), passando ora per SOPHIE, questa moda sembra diffondersi sempre di più. Detto ciò, il titolo del nuovo album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita ora con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping. Non capita tutti i giorni di trovare un’artista così versatile: viene in mente Bjork e tutti sappiamo che è un paragone molto delicato, di Bjork ne nascono davvero poche.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco.

In conclusione, la musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE. Se il primo lavoro “PRODUCT” era decisamente perfettibile, questo LP resterà probabilmente anche negli anni a venire: mescolare così sapientemente musica sperimentale e accenni di pop da radio (evidenti in Immaterial) non è per nulla facile, farlo con questi eccellenti risultati ancora meno. Aspettiamo con trepidazione il suo prossimo disco, con la speranza che quanto di buono fatto in “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” non venga sprecato.

5) Blood Orange, “Negro Swan”

(R&B)

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero (anzi, negro) per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate, soprattutto negli Stati Uniti di Donald Trump. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family). Bello allo stesso tempo il fatto di affidarli alle testimonianze di persone vittime di discriminazioni, ad esempio l’attivista per i diritti LGBT Janet Mock. Infine, da sottolineare la lista di ospiti presenti in “Negro Swan”: abbiamo star come A$AP Rocky e Puff Daddy, ma anche figure meno note come il membro del collettivo The Internet Steve Lacy o il membro dei Chairlift Caroline Polachek. Insomma, una completa libertà artistica e una concezione della musica come comunità di imperfetti, al contrario di molte popstar del nostro tempo. Potrà piacere o meno, ma la visione artistica di Dev Hynes è chiara e coerente.

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano. Non sono molti i cantanti di questo livello: probabilmente Kendrick Lamar e Frank Ocean ne fanno parte, ma pochi altri sono accostabili a questi giganti contemporanei. Ebbene, Dev Hynes, per la prima volta, può a buon diritto essere ammesso in questo “club esclusivo”.

4) Beach House, “7”

(ROCK – POP)

I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare avanti, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Il numero 7 è molto presente nella simbologia dell’album: “7” è intanto il settimo CD del duo, il loro catalogo è composto da 77 pezzi, il primo singolo è stato pubblicato il 14/02 (1+4+2=7) e il terzo il 03/04… Insomma, tutto sembrava complottare in favore di questo titolo scarno. Tuttavia, come sempre, non si ascolta un CD dei Beach House per i messaggi insiti nelle liriche delle canzoni, quanto piuttosto per le atmosfere che i brani sanno evocare.

Ebbene, possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks e Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band.

Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

In conclusione, i Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: quando si ha talento, cambiare non deve spaventare, anzi può servire a scoprire delle abilità nascoste. Ad esempio, chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

3) Janelle Monáe, “Dirty Computer”

(POP – R&B)

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Se c’era un difetto in “The ArchAndroid” e “The Electric Lady”, era l’eccessivo numero di canzoni e, di rimando, il minutaggio: entrambi superavano l’ora, con 17-18 canzoni, divise in entrambi i casi in due suite. Janelle utilizzava uno pseudonimo, Cindi Mayweather, appunto un androide, attraverso cui narrava metaforicamente le difficoltà dei “diversi”, che si parlasse di razza, sessualità o religione. Insomma, progetti di sfrenata ambizione, riusciti ma non per tutti i palati. Con “Dirty Computer”, invece, l’artista statunitense ha puntato il dito sui propri tormenti interiori, risultando in un LP più semplice ma anche più coeso; in poche parole, un capolavoro.

L’inizio è ottimo: nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock.

Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

Liricamente, basti dire che Janelle ha eletto lo slogan “Let the rumours be true” a simbolo di “Dirty Computer”: diciamo che i gossip relativi alla sua sessualità vengono più volte confermati nel corso del disco. Il breve film tratto dal disco e i video dei singoli avevano già fatto intravedere il coming out: diamo atto che l’artista ha sempre avuto atteggiamenti ambigui, ma questa confessione dimostra coraggio. Insomma, “Dirty Computer” pare più avere lo scopo di esorcizzare i propri demoni che possedere messaggi universali, tuttavia i testi non risultano mai banali o troppo concentrati sull’ego di Janelle.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane, al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, come già detto, un capolavoro fatto e finito. Uno dei più bei CD non solo dell’anno, ma dell’intera decade.

2) Car Seat Headrest, “Twin Fantasy”

(ROCK)

Può un 25enne aver realizzato già 11 album di studio? Sì, se questo giovane risponde al nome di Will Toledo. Il geniale artista statunitense ha già oltrepassato la doppia cifra di CD, contando ovviamente anche i suoi lavori più precoci e acerbi. Tuttavia, “Twin Fantasy” occupa un posto speciale nel cuore di Toledo: questa è infatti la seconda versione dello stesso disco, la prima è stata pubblicata nel 2011 e aveva fatto conoscere a molti il talento di Toledo, allora ancora solista e impossibilitato ad avere una produzione curata a dovere. Ora che lo supporta una band al completo, un lavoro che sembrava solo un diario di un giovane omosessuale diventa uno dei migliori dischi indie rock del decennio.

Fondamentale è infatti il background di “Twin Fantasy”: Toledo narra nel CD le sue disavventure, specialmente alla luce dei turbamenti adolescenziali e della scoperta della propria omosessualità, tanto che molti testi delle 10 canzoni che compongono il disco contengono riferimenti ad amori, sia passati che vissuti al tempo della composizione. Ne sono esempio “most of the time that I use the word ‘you’, well you know that I’m mostly singing about you”; oppure “we were wrecks before we crashed into each other”. Tuttavia, Toledo ha già dimostrato di essere anche ironico nelle sue liriche: ad esempio, in Bodys canta “Is it the chorus yet? No. It’s just a building of the verse, so when the chorus does come it’ll be more rewarding”, circostanza che poi si rivelerà veritiera peraltro.

La bellezza del CD non risiede tuttavia solamente nel concept alla sua base e nei testi: come già accennato, “Twin Fantasy” è uno dei più riusciti LP della decade. Le canzoni grandiose sono numerose: le lunghissime Beach Life-In-Death e Family Prophets (Stars) sono le ancore del disco, i punti ineludibili per chi ama le composizioni rock più ambiziose. Nervous Young Inhumans ricorda i migliori Killers, Bodys ha una base ritmica pazzesca, così come Cute Thing. Risulta difficile trovare un pezzo meno efficace, tutti hanno la perfetta posizione nella tracklist e un significato ben preciso nella narrazione del disco. Magnifica, infine, la contrapposizione High To DeathSober To Death, altro passaggio cruciale per comprendere pienamente il CD e i temi da cui scaturisce. Il risultato è un LP stupefacente, con continui cambi di direzione, spesso all’interno della stessa canzone, imprevedibile ma non per questo frammentato o confusionario. Insomma, un capolavoro fatto e finito.

Possiamo dunque concludere che il talento di Will Toledo è definitivamente sbocciato con la riedizione di “Twin Fantasy”: il giovane cantante ci aveva già mostrato parte delle sue potenzialità in “Teens Of Style” (2015) e “Teens Of Denial” (2016); mai, tuttavia, aveva prodotto un CD così bello.

1) The 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationship”

(ROCK – POP)

Il giovane gruppo inglese aveva anticipato il suo terzo album di inediti con questa serie di singoli: 1) un pezzo indie rock con venature punk, molto affine a Sex, primo grande successo dei The 1975, ma con una chitarra ancora più tagliente (Give Yourself A Try); 2) una canzone che rimandava al rock anni ’80 dei Police e ai pezzi migliori del precedente CD del gruppo, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), chiamata Love It If We Made It; 3) una melodia sfacciatamente pop, degna di Rihanna e Drake (TOOTIMETOOTIMETOOTIME); 4) un simpatico pezzo a metà fra jazz e pop (Sincerity Is Scary); 5) un singolo degno degli Abba, It’s Not Living (If It’s Not With You).

Lasciando da parte i titoli inverosimilmente lunghi di album e singoli, come potevano canzoni così lontane come generi stare insieme in un unico CD? Beh, se a ciò aggiungiamo che i The 1975 nel corso del loro nuovo lavoro hanno anche toccato ambient, elettronica e Soundcloud rap (!!!), la cosa si fa realmente complessa. La cosa che più sorprende (e ammalia) del talentuoso complesso originario di Manchester è che i risultati di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” sono davvero paurosi. I dubbi sulla consistenza e coesione dell’album sono fugati fin dal primo ascolto: i The 1975 hanno generato un CD che resterà nella storia della decade come il disco più millennial mai prodotto. Frammentario ma in qualche modo coeso, vario ma mai fine a sé stesso, profondo e accessibile: “A Brief Inquiry Into Online Relationships” si staglia come un pilastro del rock degli anni ’10, probabilmente l’unico modo per vedere ancora questo genere primeggiare nelle chart.

Alcuni hanno azzardato paragoni con “OK Computer” dei Radiohead, uno dei lavori rock più importanti dell’intera storia della musica. Diciamo che Matt Healy e compagni in quanto ad ambizione non sono secondi a molti, ma i Radiohead sono probabilmente ancora molti gradini sopra i The 1975. Se una similitudine c’è, risiede nel fatto che entrambi i CD affrontano le devastanti conseguenze che Internet può avere sulla vita delle persone. Mentre Thom Yorke & co. ponevano l’attenzione sull’alienazione e sulla voglia di imitazione (esemplari Paranoid Android e Fitter Happier), i The 1975 si concentrano come naturale sui social network e sui problemi propri soprattutto dei più giovani: tossicodipendenza, paura della morte, news frenetiche che confondono più che informare…

Infatti, alla pura bellezza del disco va aggiunto che Matt Healy è diventato un compositore di primo calibro anche a livello testuale: in Give Yourself A Try si rivolge ad una giovane fan del gruppo che si è suicidata a soli 16 anni, chiamando i suoi coetanei a concedersi una chance nella vita (il significato del titolo è proprio questo). Love It If We Made It evidenzia l’assurdità di avere un presidente americano che si vanta di “averla posseduta come una puttana!” e un musicista di colore che lo difende e afferma che i neri hanno quasi voluto la schiavitù (Kanye West)… il tutto mentre le anime migliori se ne vanno per overdose (Lil Peep, amico di Healy e tossicodipendente come lui).

Il filo che però tiene unito il disco è l’uscita dalla dipendenza da eroina da parte di Healy, che in effetti nelle ultime uscite è apparso davvero rigenerato fisicamente. “A Brief Inquiry Into Online Relationships” può in effetti essere anche letto come un percorso di recupero, che termina con l’epica I Always Wanna Die (Sometimes), che ricalca le orme di Oasis e Coldplay per creare la canzone più vitale della discografia dei The 1975. Sebbene infatti il protagonista del brano pensi al suicidio, alla fine afferma “If you can’t survive, just try”.

In tutto questo, non abbiamo ancora parlato musicalmente del disco. “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un CD davvero variegato, come già spiegato in precedenza. L’introduzione The 1975 riflette i cambiamenti radicali avvenuti nel sound della band: ritmi jazzati, autotune che manipola fortemente la voce di Healy e struttura sfilacciata. L’unico pezzo che appare più debole è proprio il singolo TOOTIMETOOTIMETOOTIME, che è fin troppo da discoteca sebbene non del tutto sgradevole. Tuttavia, è un peccato veniale in un album davvero generoso di pezzi grandiosi: It’s Not Living (If It’s Not With You) è una delle canzoni migliori dell’anno, I Always Wanna Die (Sometimes) ricorda i Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”, How To Draw / Petrichor parte come Brian Eno e finisce come l’Aphex Twin più scatenato, con risultati clamorosi. Infine, I Couldn’t Be More In Love è pari alle melodie più dolci di George Michael.

Dicevamo poi che i The 1975 affrontavano il rap più melodico, chiamato Soundcloud rap, tipico di interpreti come Lil Peep e Denzel Curry: I Like America & America Likes Me non sarà il miglior brano del disco, ma ha una carica benvenuta in una seconda parte che conta pezzi acustici come Surrounded By Heads And Bodies e Mine, il secondo pezzo jazz dell’album. Non tralasciamo poi il pezzo più shoegaze, Inside Your Mind (Healy ha sempre detto di amare i My Bloody Valentine); e Be My Mistake, un’incantevole ballata che riporta alla memoria il miglior Nick Drake e Jeff Buckley.

In conclusione, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un LP di non facile lettura e in cui ci si può perdere data la grande quantità di generi affrontati e i testi mai banali. Tuttavia, gli amanti della musica non possono non ammirare il coraggio di Healy e compagni di voler riportare il rock (pur contaminato da mille influenze) in cima alle classifiche. Se questo sia l’unico modo per farlo è discutibile; “A Brief Inquiry Into Online Relationships” però è indubbiamente un miglioramento rispetto ai due precedenti lavori del gruppo, in termini di minutaggio (basti dire che “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” durava 74 minuti mentre questo album “soli” 58) e focus. Avevamo intuito che i The 1975 avessero talento e che “A Brief Inquiry Into Online Relationships” potesse essere importante per il loro futuro, ma pochi potevano prefigurare questi risultati grandiosi. Complimenti, Matty, e complimenti The 1975: il futuro è tutto per voi. Non premiare questo lavoro come il migliore del 2018 sarebbe stato un delitto.

Voi cosa ne pensate? Questa lista vi convince oppure pensate che ad A-Rock abbiamo tralasciato dei CD importanti? Non esitate a commentare!

Cosa ci eravamo persi?

Il 2018 è stato un anno ricco di uscite rilevanti in questi primi mesi. Alcuni ritorni erano annunciati (Drake, Gorillaz, Parquet Courts), altri sono stati sorprendenti (la Yeezy Season di giugno). Alcuni CD, anche di artisti importanti, inevitabilmente non sono stati intercettati dai radar di A-Rock; ecco l’occasione di rimediare. In questo articolo infatti riportiamo le recensioni dei nuovi lavori di Florence + The Machine; A.A.L. (Against All Logic), il nuovo progetto di Nicolas Jaar; e il ritorno dei Death Grips e del collettivo The Internet.

Death Grips, “Year Of The Snitch”

year of the snitch

Il sesto album dei Death Grips, uno dei gruppi più estremi del panorama rap, è davvero incredibile. Il trio originario di Sacramento, infatti, riesce a produrre il suo lavoro più astratto e allo stesso tempo più accessibile. Certo, l’effetto novità è finito un attimo dopo aver ascoltato “The Money Store” del 2012, il loro scioccante album d’esordio, ma questo “Year Of The Snitch” è altrettanto innovativo in termini di generi affrontati. Fondendo spesso generi disparati come rap, rock, metal e techno, i Death Grips mantengono la loro freschezza e la capacità di scioccare l’ascoltatore.

Accanto a brani dal sapore shoegaze, quasi pop come Death Grips Is Online e Linda’s In Custody, abbiamo infatti pezzi decisamente duri come Black Paint e Shitshow, che a tratti sono puro rumore di sottofondo, con le liriche di MC Ride del tutto inintelligibili. I Death Grips scioccano tuttavia anche con le scelte visuali e liriche: la voglia di sconcertare o inorridire il pubblico non è terminata. Basti dire che il titolo del disco richiama la figura di Linda Kasabian, ex sodale di Charles Manson che poi però ha deciso di fare la spia e consegnare la setta (“Snitch” in inglese significa infatti “spia” e il CD è uscito per il compleanno della controversa donna). Il video di Shitshow, invece, è stato bannato da Youtube a causa dei suoi contenuti troppo violenti.

Il bello è che, malgrado questi nemmeno troppo velati tentativi di sabotare la propria carriera, il terzetto mantiene una fanbase leale, anche grazie ad una produzione abbondante ma sempre di qualità, a suo modo. A “Year Of The Snitch” collabora anche il bassista dei Tool Justin Chancellor, non un ospite di poco conto per un gruppo oscuro come i Death Grips, segno che il terzetto è stimato nel mondo della musica alternativa.

I pezzi migliori sono le già citate Black Paint, Linda’s In Custody e Death Grips Is Online; convincono invece molto meno Shitshow e Little Richard, troppo confusionarie. Inutili gli intermezzi Outro e The Horn Section. Ancora una volta, un album dei Death Grips è troppo lungo per essere totalmente convincente (la parte finale perde molto vigore); soprattutto, non è chiaro verso chi o che cosa sia rivolta la rabbia che pervade il gruppo. Il dubbio è che l’anarchia sia proprio la condizione desiderata dai Death Grips, espressa molto chiaramente negli ormai quasi dieci anni di carriera.

In conclusione, una volta di più i Death Grips si confermano gli artisti più divisivi nel panorama hip hop contemporaneo: molti sono legittimamente schifati dall’apparenza e dai messaggi trasmessi dal gruppo. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può non ammirare la completa libertà espressiva presente nei Death Grips: lo spirito pionieristico del gruppo non si è estinto, fatto che, dopo una carriera così estrema, non è per nulla banale.

Voto finale: 8.

A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017”

against all logic

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

L’unico problema di “2012-2017” può risultare nell’eccessiva lunghezza: in effetti, 67 minuti di musica elettronica da club/discoteca e canzoni che superano facilmente i 5 minuti possono essere ostacoli non banali per gli ascoltatori casuali, ma non fatevi spaventare. A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

Voto finale: 8.

The Internet, “Hive Mind”

hive mind

Il collettivo americano The Internet ha pubblicato il suo quarto album di inediti, “Hive Mind”, un anno dopo che la loro leader, Syd (ex Odd Future), aveva dato alla luce il suo primo album solista, “Fin”. Insomma, una iperattività notevole, ma baciata da un talento notevole. Non è un caso che entrambi siano dei picchi di creatività e coesione stilistica: sia da solista che in gruppo la giovane Syd ha dimostrato di essere una più che credibile erede di Prince e Stevie Wonder.

Ma parliamo del CD. “Hive Mind” si compone di 13 tracce molto coese tra loro: questo è anzi un rimprovero che alcuni fanno al disco, accusato in certi tratti di ripetersi. In realtà, questa è una forza di “Hive Mind”, non una debolezza: sentire in rapida successione pezzi funk del livello di Come Together, Roll (Burbank Funk) e Come Over è davvero un piacere, fatto di ritmiche sensuali e voci perfettamente intrecciate.

Se vogliamo trovare un difetto al disco è l’eccessiva lunghezza: diciamo che se la durata fosse 45-50 minuti e le canzoni 10-11 il voto finale sarebbe ancora più alto. Soprattutto la parte centrale può risultare troppo uniforme, con pezzi deboli come Bravo e Look What U Started. Tuttavia, il CD ritorna ai livelli delle prime canzoni con pezzi ambiziosi come la suite Next Time / Humble Pie, che dimostra appieno il talento dei The Internet.

Liricamente, Syd e compagni parlano soprattutto di amore, giovinezza e di come vivere la vita con ottimismo aiuti ad affrontare anche gli ostacoli più duri della vita. Ne sono esempio le seguenti liriche, presenti in Hold On: “Thinking ahead of time, why don’t you spend the night? I know you love me”, forse connessa a “I think she wants to be my girl. At least I hope she does, shit” che Syd canta in Wanna Be (l’omosessualità di quest’ultima era cosa nota dai tempi degli Odd Future).

In conclusione, il disco conferma i The Internet fra i migliori interpreti del funk nel XXI secolo: una volta che il quintetto avrà capito al meglio come creare CD coesi e unitari senza risultare pesanti a causa dei troppi brani in scaletta, avremo probabilmente un capolavoro fatto e finito. Di certo “Hive Mind” è il loro LP migliore e ci fa ben sperare per il loro futuro. Aspettiamo con trepidazione il loro quinto album.

Voto finale: 7,5.

Florence + The Machine, “High As Hope”

high as hope

Florence Welch e la sua band sono stati fin da subito apprezzati da pubblico e critica per la loro capacità di abbinare messaggi non banali con melodie cariche di pathos e strumentazioni barocche, ma mai sovraccariche, con la bella voce della frontwoman a fare da corollario al tutto. “High As Hope”, il quarto album dei Florence + The Machine, mantiene questa formula, cercando di trovare un po’ di cambiamento nella presenza di ospiti di spessore internazionale, da Jamie xx a Kamasi Washington.

La formula vincente del gruppo rimane potente ed efficace nei suoi momenti migliori: ad esempio, l’apertura di June è molto efficace e introduce immediatamente il mood del disco. Bella anche Grace. Tuttavia, per la prima volta nella discografia incontriamo pezzi francamente deludenti e sottotono: Big God è una ballata piano, voce di Florence Welch e strumentazione minimale, ma non carbura mai. Stesso discorso per 100 Years, che assomiglia troppo a una canzone qualsiasi di Adele. Peccato, perché in un CD di 10 brani questi passi falsi si notano di più.

Liricamente, “High As Hope” affronta temi familiari per Florence e compagni: rapporti personali in crisi, i problemi causati dalla fama (“I felt nervous in a way that can’t be named” canta la Welch in Hunger)… Vi è pure un omaggio a Patti Smith in Patricia e un riferimento a problemi di anoressia avuti da Florence Welch in gioventù (“At 17, I started to starve myself”). Insomma, non avremo mai canzoni allegre e spensierate con l’artista inglese, diciamo.

In generale, dunque, questo è un album decisamente più low-profile e accessibile rispetto, ad esempio, a “How Big, How Blue, How Beautiful” del 2015. Allo stesso tempo, la mancanza di reali novità sul piano delle ritmiche affrontate e delle tematiche trattate nei testi delle canzoni fanno ritenere che il prossimo CD potrebbe essere determinante per Florence + The Machine e i suoi numerosi fans: un altro disco sulla stessa falsariga rischierebbe di apparire troppo “conservatore”. Ci attendiamo più novità, cara Florence, nel prossimo LP.

Voto finale: 7.