Recap: febbraio 2022

Febbraio è stato un mese densissimo di pubblicazioni importanti per la musica pop-rock. Abbiamo recensito le nuove uscite di artisti del calibro di Beach House, Mitski e Animal Collective. In più, abbiamo il magnifico secondo CD dei Black Country, New Road e il ritorno di Saba, dei Big Thief e di Cate Le Bon. Come tralasciare poi il nuovo CD dei veterani Spoon e il quarto LP degli Alt-J? Buona lettura!

Black Country, New Road, “Ants From Up There”

ants from up there

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Voto finale: 9.

Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

Dragon New Warm Mountain I Believe In You

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici anche dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

Voto finale: 9.

Beach House, “Once Twice Melody”

once twice melody

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande disco in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

Voto finale: 8.

Mitski, “Laurel Hell”

laurel hell

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour che la vedrà supportare la superstar Harry Styles, quindi il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

Voto finale: 8.

Animal Collective, “Time Skiffs”

time skiffs

Il dodicesimo disco di inediti degli Animal Collective segue il debole “Tangerine Reef” (2018) e l’EP “Bridge To Quiet” del 2020 ed è il primo dai tempi di “Merriweather Post Pavilion” (2009) che è stato composto dal quartetto originale, vale a dire Noah Lennox (Panda Bear), David Portner (Avey Tare), Brian Weitz (Geologist) e Josh Dibb (Deakin). I risultati si vedono: il gruppo pare rigenerato rispetto alle ultime prove, le melodie sono strane ma dolci e tendenti più al pop che allo sperimentalismo, per un risultato finale davvero soddisfacente.

Siamo non lontani dai territori calcati nel periodo più florido degli Animal Collective, quello a cavallo degli anni ’00, contraddistinti da CD immortali come “Feels” (2005), “Strawberry Jam” (2007) e il già citato “Merriweather Post Pavilion”: pop psichedelico, testi impressionisti piuttosto che calati nella realtà, lunghe suite strumentali che esplodono in ritornelli accattivanti… non sarà un ritorno all’imprevedibilità dei loro tempi migliori, ma gli Animal Collective sembrano tornati davvero a buoni livelli.

Il CD si articola in nove canzoni, per una durata complessiva di 47 minuti, alternati tra canzoni più compatte (Dragon Slayer) ed altre che sembrano delle lunghe jam session in studio (Cherokee), con risultati in generale apprezzabili. I migliori pezzi sono Prester John e Strung With Everything, mentre sotto la media Passer-by.

In generale, come già accennato, “Time Skiffs” è il più convincente album degli Animal Collective da tredici anni a questa parte. Che questo lavoro segni un nuovo inizio per la band non è scontato; allo stesso tempo, però, godiamoci questo LP, in tutta la sua (apparente) semplicità.

Voto finale: 7,5.

Spoon, “Lucifer On The Sofa”

lucifer on the sofa

Ne sono successe di cose dall’ultimo album di studio degli Spoon, “Hot Thoughts” del 2017: il gruppo texano ha pubblicato un greatest hits, “Everything Hits At Once: The Best Of Spoon”, nel 2019; il bassista Rob Pope ha lasciato la band ed è stato rimpiazzato da Ben Trokan; ultimo ma non per importanza, una pandemia ha colpito il mondo ed ha anche influenzato il modo di registrare questo “Lucifer On The Sofa”.

Insomma, il CD si presentava come un tagliando sull’efficacia della formula che ha fatto degli Spoon uno dei complessi indie rock più affidabili su piazza: canzoni minimaliste, ritornelli pop ma non troppo, testi tendenti al claustrofobico, durata ragionevole dei lavori. Se “Hot Thoughts” aveva flirtato con elettronica e funk, questo LP invece torna alla radici rock del gruppo, ad esempio a “Transference” (2010).

Aiutati da produttori rinomati come Dave Fridmann (già con loro nei precedenti due CD), Mark Rankin (Adele, Iggy Pop), Justin Raisen (Kim Gordon, Yves Tumor) e addirittura Jack Antonoff (collaboratore delle popstar Lorde e Lana Del Rey tra le altre), gli Spoon hanno prodotto un decimo disco di qualità: compatto, veloce, con highlights notevoli come Wild e The Devil & Mister Jones. Inferiore alla media solamente Feels Alright.

Liricamente, il diavolo evocato nel titolo appare in varie canzoni, come la title track e The Devil & Mister Jones; altrove abbiamo riferimenti all’amore (Satellite) e a Dio (Astral Jacket), ma il tono generale del lavoro, come già accennato, è malinconico e minaccioso, anche se in modo sottile.

In generale, “Lucifer On The Sofa” non raggiunge la creatività mostrata in dischi del passato come “Ga Ga Ga Ga Ga” (2007) e “They Want My Soul” (2014), ma resta un altro capitolo degno di nota in una discografia immacolata.

Voto finale: 7,5.

Cate Le Bon, “Pompeii”

pompeii

Il sesto album della cantautrice gallese raffina il sound già introdotto in “Reward” del 2019, l’album che la fece scoprire a molti. Il mix insolito di pop, psichedelia e soft rock conferma la versatilità di Cate e migliora ad ogni ascolto, pur non brillando per ritmi trascinanti o canzoni da Top 40 di Billboard.

Stabilitasi da qualche anno nel deserto del Mojave, in California, Le Bon ha scritto durante il periodo più duro della pandemia canzoni simili a quelle del suo recente passato, ma “Pompeii” pare un album molto più coeso rispetto a “Reward”: nota di merito alla presenza della Nostra, che àncora tutte le canzoni ed evita derive psichedeliche o troppo barocche. Menzione poi per la copertina, che la ritrae vestita da suora: il ritratto è stato prodotto dall’amico Tim Presley (White Fence), suo compagno nella band DRINKS.

Le canzoni di “Pompeii” procedono lente, meditative: nessuna è trascinante come ci aspetteremmo da un brano pop, tuttavia i nove pezzi che compongono il CD scorrono via serenamente. Vi sono quelli più psichedelici come Running Away e French Boys, così come quelli più accessibili come l’ottima Moderation e Harbour; ma nessuno suona fuori posto. Solo Cry Me Old Trouble e French Boys sono inferiori alla media.

Testualmente, restano impressi alcuni versi declamati da Cate Le Bon nel corso dei 43 minuti di durata del disco: ad esempio, nella title track Pompeii abbiamo “Every fear that I have, I send it to Pompeii”, che suona come un mandare a quel paese le paure che la trattengono. In Harbour, abbiamo una frase tanto potente quanto misteriosa: “What you said was nice… When you said my heart broke a century”. In Moderation, invece, compare la sua indole ribelle: “Moderation: I can’t stand it”.

“Pompeii” è in conclusione un buon LP, che svela dettagli interessanti ad ogni ascolto. Cate Le Bon si conferma cantautrice di qualità nel reame art pop, sulla scorta del successo riscosso l’anno scorso da artisti come The Weather Station e Cassandra Jenkins. La aspettiamo alla prova del prossimo CD, fiduciosi che la qualità sarà ancora una volta apprezzabile.

Voto finale: 7,5.

Saba, “Few Good Things”

Few Good Things

“Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat” cantava Saba in “CARE FOR ME” del 2018, il bellissimo album che precede “Few Good Things” nella discografia del Nostro. Se il tono del precedente lavoro era malinconico, a tratti disperato a causa della tragica sorte del cugino Walter, in “Few Good Things” Saba passa ad un’estetica più accessibile, che a volte tocca la trap (Survivor’s Guilt) e spesso il neo-soul. I risultati sono meno strabilianti, ma il CD non rappresenta una battuta d’arresto: semplicemente, pare un disco di transizione.

“Few Good Things” rispetto a “CARE FOR ME” accoglie un maggior numero di ospiti: tra i più rappresentativi abbiamo G Herbo (in Survivor’s Guilt) e Smino (Still). I brani scorrono bene, non vi sono cambi di ritmo radicali, circostanza che aiuta la coesione complessiva del lavoro. Allo stesso tempo, mancano i versi travolgenti e la potenza di alcune melodie che trovavamo in “CARE FOR ME”. Ad esempio, Stop That è debole. Al contrario, 2012 e la title track, che chiudono brillantemente il CD, sono davvero riuscite.

I migliori versi riguardano la sensazione che Saba prova nel vedersi ricco e nel riflettere sulle sue umili origini, spesso avvertendo un contrasto insanabile e una sorta di senso di colpa. Abbiamo ad esempio: “I still get nostalgic driving past houses my family lost” (Free Samples) e “Need a million after taxes, I might spend the shit on fashion… Sit all day and I play Madden” (One Way Or Every N***a With A Budget). Altrove invece emergono i suoi problemi personali: “I’m dying from asphyxiation from the weight of the world while in the waiting room I’m waiting for the birth of my girl” (Soldier).

In generale, “Few Good Things”, come da titolo, contiene alcune cose davvero buone; tuttavia, la qualità complessiva è inferiore rispetto a “CARE FOR ME”. Troviamo che Saba renda meglio quando può rappare su basi più raccolte rispetto a quelle trap, ma allo stesso tempo la versatilità è una qualità da coltivare. Lo aspettiamo al prossimo CD, probabilmente la prova della verità per il rapper originario di Chicago.

Voto finale: 7.

Alt-J, “The Dream”

the dream

Pubblicato ben cinque anni dopo “Relaxer” (2017), il quarto album dei britannici Alt-J scrive una pagina interlocutoria in una carriera che sta prendendo una china pericolosa. Salutati, ai tempi del magnifico esordio “An Awesome Wave” (2012), come i salvatori del rock inglese, gli Alt-J non sono mai riusciti a replicare quei risultati; “The Dream” è il loro album più lento e meditativo, con solo alcuni momenti davvero buoni.

In realtà le prime due canzoni del lotto sono tra le migliori della produzione recente degli Alt-J: Bane è una tipica “slow burner”, mentre il singolo U&ME è più accattivante e quasi rievoca Breezeblocks. Il resto del CD vaga tra pezzi lenti, a volte troppo (Get Better), e altri invece più vivi ma non sempre centrati (Hard Drive Gold). Alla fine, restano solo un pugno di brani davvero riusciti: oltre a Bane e U&ME, abbiamo anche The Actor. Non male anche le due canzoni col titolo “americano”, Chicago e Philadelphia.

Liricamente, va detto, il lavoro ha spesso il merito di trattare temi delicati in modo molto aperto ed evocativo: “I still pretend you’re only out of sight in another room, smiling at your phone” canta sconsolato Joe Newman in Get Better parlando di una persona cara da poco scomparsa. Altrove il tono è più scherzoso: Bane è un’ode alla Coca Cola, mentre Hard Drive Gold tratta il tema delle criptovalute e i relativi rischi.

In generale, tuttavia, “The Dream” non suona propriamente come il sogno evocato dal titolo: piuttosto, come una lunga playlist di pezzi propedeutici al sonno. Di per sé, non è necessariamente un problema, però la qualità di alcune melodie è discutibile e abbassa la media. Peccato, perché da tre ragazzi che all’esordio hanno vinto il Mercury Prize ci aspettiamo sempre grandi cose. Sarà per la prossima, speriamo.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

Cosa ci eravamo persi?

Come già negli anni precedenti, A-Rock ha dato il massimo per recensire quanti più CD possibili nei mesi passati. Tuttavia, inevitabilmente abbiamo tralasciato dischi che, col tempo, si sono rivelati davvero interessanti; è il caso ad esempio degli ultimi lavori di Jessie Ware, Cloud Nothings e Blake Mills. In più abbiamo un breve EP a firma Animal Collective e l’ennesima incarnazione di Ty Segall, questa volta nei Wasted Shirt, ma anche i ritorni di Moodymann, Dirty Projectors e Jeff Rosenstock. Ma andiamo con ordine.

Jessie Ware, “What’s Your Pleasure?”

jessie ware

Il ritorno della cantautrice inglese è un romantico rimando agli anni ’70-’80 del secolo scorso, in cui la dance di Donna Summer e il funk di Prince trionfavano sulla pista da ballo e in classifica. “What’s Your Pleasure?” è un disco davvero interessante, coeso e mai ridondante, in cui Jessie mette in mostra il suo talento e contribuisce a riportare la disco al centro dell’attenzione, sulla scia del clamoroso successo ottenuto da Dua Lipa con “Future Nostalgia”. Col prezioso supporto alla produzione di James Ford (già collaboratore di Arctic Monkeys e Foals fra gli altri), i risultati sono davvero imperdibili.

Fin dall’inizio capiamo che “What’s Your Pleasure?” è un disco che ritorna a “Devotion” (2012), l’esordio che aveva fatto conoscere Jessie Ware al mondo: atmosfere sexy e ballabili, retrò ma mai scopiazzate dai giganti del genere. Spotlight è il brano migliore del disco e potrebbe andare avanti ben oltre i cinque minuti della sua durata. Ottima poi la title track; da menzionare poi Ooh La La, che riporta alla memoria il funk di Sly & The Family Stone e il Prince degli esordi.

Se dobbiamo trovare una pecca al CD è a volte la similitudine fra una canzone e l’altra, ad esempio Step Into My Life è una ripetizione delle atmosfere ballabili già assaporate per la durata del lavoro, ma insomma i risultati complessivi sono davvero gradevoli.

Jessie Ware aveva esplorato il proprio lato più pop e intimista nei suoi ultimi LP, soprattutto “Glasshouse” del 2017; questo album da un lato è un ritorno al mondo ottimista e discotecaro degli anni ‘70-‘80, senza dubbio, ma la britannica riesce a non suonare scontata e il CD renderà l’estate migliore (o almeno più sopportabile) per tutti noi.

Voto finale: 8.

Moodymann, “TAKEN AWAY”

taken away

Il nono disco di Moodymann, leggenda della scena house americana, è un’altra aggiunta di valore ad una discografia sempre più ragguardevole. “TAKEN AWAY” arriva solo un anno dopo “SINNER” e anch’esso non è stato inizialmente condiviso sulle principali piattaforme di streaming (mentre “SINNER” è da qualche mese disponibile, “TAKEN AWAY” tuttora non lo è), ma solo sul profilo Bandcamp dell’artista. Scelta inconsueta per molti, non per Kenny Dixon Jr. (questo il vero nome di Moodymann), DJ sempre misterioso, tornato sulle scene nel 2014 dopo dieci anni di strana assenza.

“TAKEN AWAY” non è un titolo casuale: Moodymann infatti l’anno passato è stato vittima di una violenza a cui ormai siamo abituati da parte della polizia americana, che l’ha portato in cella e minacciato con le pistole puntate a seguito di “comportamenti sospetti”. L’episodio ha legittimamente scosso Dixon, che intitolando il nuovo lavoro “TAKEN AWAY” (ovvero “portato via”) e scegliendo basi meno funky del solito, a volte davvero cupe, ha impresso un tono decisamente più malinconico del solito al CD.

Ne sentiamo echi in alcune parti testuali, ad esempio in Let Me In Moodymann canta “You’ve never been a good soul to anyone, especially me”; in Slow Down avvertiamo improvvisamente delle sirene di polizia arrivare minacciose, per poi dissolversi. Le sirene tornano anche nella title track, allegra ma allo stesso tempo pervasa da una malinconia, quasi un senso di inquietudine che rende “TAKEN AWAY” il disco più cupo a firma Moodymann.

Kenny Dixon Jr. si conferma una volta di più maestro dell’elettronica, capace di scrivere canzoni profonde ma mai monotone e anzi con alto replay value, prova ne siano le affascinanti Let Me Show You Love e Taken Away. Unica nota stonata è I’m Already Hi, ma il bilancio dell’album resta positivo. “TAKEN AWAY” è uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno, un risultato non scontato per un musicista che fa ballare le folle da ormai tre decadi.

Voto finale: 8.

Jeff Rosenstock, “NO DREAM”

no dream

Il nuovo album di Jeff Rosenstock, il quarto della sua carriera solista, continua il percorso intrapreso con “WORRY.” (2016) e “POST-” (2018): un punk a volte virato verso il pop, modello Blink-182, che altre volte invece ritorna alle radici hardcore dell’estetica di Jeff. I testi profetici, sempre arrabbiati ma mai rassegnati, ne hanno fatto un artista davvero imprescindibile per gli amanti del punk-rock.

“NO DREAM” mantiene alta la bandiera di Rosenstock attraverso canzoni imprevedibili, capaci di cambiare ritmo più volte nei tre minuti canonici di durata e di trovare ispirazione anche nello ska e nel metal (si senta la durissima title track). Rispetto a “POST-” mancano i coretti accattivanti, che lasciano spazio a canzoni più dure ma mai fini a sé stesse. I migliori pezzi sono Leave It In The Sun e Ohio Tpke, ma in generale i 40 minuti di “NO DREAM” passano bene e fanno venir voglia di premere nuovamente il tasto play. Evitabile solamente il breve intermezzo Monday At The Beach.

Testualmente, poi, Jeff mantiene la fama di liricista schietto, pessimista ma non rassegnato alla sconfitta contro una destra politica e un capitalismo che lui vede come intrinsecamente corrotti. In NO TIME domanda “Did you turn into a person that you really want to be?”, più una domanda posta a sé stesso che al pubblico. Scram! è ancora più esplicita e polemica contro una certa sinistra: “I’ve been told most my life, ‘Try and see the other side’ by people who have never tried to see the other side” è una denuncia contro i radical chic di ogni paese. Insomma, Rosenstock non risparmia nessuno, addossando le colpe della pessima condizione in cui il pianeta è ridotto in parti più o meno uguali ad entrambe le fazioni.

Non siamo quindi di fronte a nulla di innovativo per il mondo punk, questo è evidente, ma le 13 canzoni del CD sono una gradevole aggiunta ad una discografia sempre più interessante.

Voto finale: 7,5.

Blake Mills, “Mutable Set”

Mutable Set

Il produttore e cantautore americano Blake Mills ha avuto un 2020 davvero trionfale. Accanto a collaborazioni di alto livello in CD altrui (Bob Dylan, Fiona Apple, Perfume Genius), “Mutable Set” è il terzo disco solista di Mills e prosegue nel percorso intrapreso con il precedente “Neigh Ho” (2014) e con l’EP “Look” del 2018. Il folk del Nostro è scarno, semplice ma mai scontato, grazie alla sua abilità alla chitarra.

Il lavoro è composto da 11 canzoni per 52 minuti di durata: l’estetica di Mills ricorda molto l’Elliott Smith di “Either/Or” (1997), ma anche Sufjan Stevens e Mount Eerie. Non quindi un LP trascinante, piuttosto un lavoro tramite cui rasserenare l’animo. I pezzi migliori sono Money Is The True God e Vanishing Twin, mentre sono troppo monotone Summer All Over e Farsickness.

In generale, come già ricordato, Blake Mills sarà uno dei pochi per cui il 2020, almeno artisticamente, verrà ricordato positivamente. Le collaborazioni con giganti del rock e volti del pop d’avanguardia, oltre a un disco in solitaria di successo, ne hanno decisamente aumentato la notorietà; vedremo in futuro come il cantautore californiano cavalcherà questa improvvisa fama.

Voto finale: 7,5.

Animal Collective, “Bridge To Quiet”

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Fra le tante band che hanno deciso di regalare ai fans dei momenti di serenità durante la pandemia non potevano mancare gli Animal Collective. La band americana ha infatti condiviso il breve EP “Bridge To Quiet”, quattro canzoni per un totale di 34 minuti di musica: le sonorità si distanziano dall’ultimo album del gruppo, quel “Tangerine Reef” (2018) che aveva fatto storcere il naso a molti adepti della prima ora a causa delle sonorità fin troppo lente e monotone.

Rain In Cups, la prima traccia dell’EP, è infatti sì serena, ma non ferma: Avey Tare riesce a trasmettere sensazioni anche con un testo quanto mai criptico, grazie ad una base di tastiere che ricorda i lavori degli anni ’00 degli AC. La successiva Piggy Knows (che già dal titolo si preannuncia molto particolare) pare presa dalle sessioni che hanno portato a “Feels” (2005) e a “Strawberry Jam” (2007), tanto è psichedelica e rasserenante allo stesso tempo. Il terzo pezzo, Sux-Bier Passage, è il più misterioso del lotto, con le sue tastiere oscure e la quasi totale assenza di liriche. Infine abbiamo Bridge To Quiet, la title track che chiude il lavoro e in cui la presenza di Noah Lennox (più noto come Panda Bear) torna a farsi sentire negli Animal Collective dopo alcuni anni di assenza.

L’EP certo non è il lavoro migliore del gruppo, che conta in passato un capolavoro come “Merriweather Post Pavilion” (2009), tuttavia è un ritorno alle sonorità che più stanno a cuore ai fans: strambe ma mai troppo sperimentali, ardite ma anche accessibili. Insomma, finalmente un buon lavoro a firma Animal Collective.

Voto finale: 7.

Cloud Nothings, “The Black Hole Understands”

cloud nothings

Il nuovo CD dei Cloud Nothings, band punk-rock americana, è stato realizzato praticamente senza marketing o pubblicità di alcun tipo, addirittura pubblicandolo solamente sul profilo Bandcamp del gruppo. Una mossa à la Taylor Swift verrebbe da dire, naturalmente senza le pretese di vendite e successo della cantautrice. Tuttavia, “The Black Hole Understands” non è un esperimento fine a sé stesso: i Cloud Nothings cercano un approccio meno massimalista rispetto al precedente disco “Last Building Burning” (2018), rinunciando alla durezza di pezzi come On An Edge e privilegiando invece pezzi più melodici, sulla falsariga di “Life Without Sound” (2017).

La svolta nel sound della band potrebbe anche essere stata causata dalla volontà di Dylan Baldi, leader dei Cloud Nothings, di registrare un CD più accogliente come regalo al proprio pubblico in tempi di Covid-19: incidere dieci canzoni in remoto, comunicando col resto della band solo via mail, non deve essere stato facile. Nondimeno pezzi come l’iniziale Story That I Live e An Average World sono fra i migliori del gruppo, orecchiabili ma non scontati nella loro sensibilità pop. Da notare anche il primo brano interamente strumentale dei Cloud Nothings, Tall Gray Structure. Invece deludono le più prevedibili A Silent Reaction e Right On The Edge.

Liricamente, i Cloud Nothings si confermano nichilisti convinti, come già enunciato nel vero manifesto della loro estetica, Wasted Days: in An Average World Baldi si chiede “What is the purpose of anything more?”, in Story That I Live proclama desolato “This ain’t the ending I had wanted”… Solo in Right On The Edge Dylan canta quasi sollevato “Ordinary people living out their lives”, più un augurio per il futuro che lo stato delle cose.

In generale, Baldi & co. paiono avere perso lo smalto dei giorni migliori, quello che aveva reso “Attack On Memory” (2012) e “Here And Nowhere Else” (2014) dei CD imperdibili per gli amanti del punk-rock. “The Black Hole Understands” è un’aggiunta apprezzabile alla loro discografia, ma è molto improbabile che anche uno dei fans del gruppo americano lo annoveri fra i preferiti della produzione dei Cloud Nothings. Questo, va detto, anche per merito (o colpa) del resto degli LP della band, davvero di alto livello.

Voto finale: 7.

Dirty Projectors, “Windows Open” / “Flight Tower”

La band capitanata da David Longstreth, ormai giunta al terzo decennio di attività, ha in piano di pubblicare cinque EP in un solo anno.

“Windows Open”, il primo della serie, ritorna alle origini del progetto: un indie folk gentile e semplice, solo che non canta il leader David Longstreth, lasciando spazio a dolci voci femminili. Da poco il gruppo americano ha accolto altri tre membri, vale a dire Maia Friedman, Felicia Douglass e Kristin Slipp, quindi tre donne che saranno di aiuto a Longstreth vocalmente e daranno maggiore varietà alle composizioni.

Le quattro canzoni dell’EP passano via serene e senza scosse, allo stesso tempo un vantaggio ma anche un punto debole per una band sempre imprevedibile (a volte anche troppo) come i Dirty Projectors. Molto carina Overlord, ma nessuna è fuori posto; allo stesso tempo i soli dieci minuti di durata del disco ci fanno bramare per qualcosa di più sostanzioso.

“Flight Tower”, il secondo EP del 2020 a firma Dirty Projectors finora, mantiene l’attenzione al pop data recentemente dal gruppo, guardando contemporaneamente all’R&B, specialmente in “Lamp Lit Prose” (2018), lasciando da parte l’ermetismo e la cupezza di “Dirty Projectors” (2017).

La brevissima durata del lavoro (solo quattro pezzi per poco più di dieci minuti) costituisce anche in questo caso un vantaggio, dato che consente un’assimilazione istantanea, ma allo stesso tempo ci farebbe propendere per un progetto più compiuto. Spicca soprattutto l’iniziale Inner World, in generale le canzoni si integrano bene l’una con l’altra.

In conclusione, “Flight Tower” è un gradevole EP da parte di una band ormai celeberrima nel mondo indie rock. La nuova direzione potrà non piacere agli amanti della parte più rock del gruppo, ad esempio di “Swing Lo Magellan” (2012), ma dimostra che Longstreth e co. hanno ancora qualcosa da dare alla musica contemporanea. Accoppiato a “Windows Open”, i risultati sono rispettabili, non certo trascendentali.

Voto finale: 6,5.

Wasted Shirt, “Fungus II”

wasted shirt

Il prolifico garage rocker californiano Ty Segall ha già flirtato in passato con altri generi, dal punk (“Slaughterhouse” del 2012) al folk (“Sleeper” del 2013) passando per la psichedelia (“Hair” del 2012 insieme a White Fence). Wasted Shirt è l’ennesimo progetto del Nostro, questa volta concentrato sul versante più duro del rock, non a caso affiancato da Brian Chippendale dei Lightning Bolt, duo noise rock.

Il risultato di questa collaborazione è lo strano “Fungus II”, un ibrido fra gli istinti più estremi di Ty e l’usuale caos dei Lightning Bolt: canzoni abrasive, dure e mal digeribili al primo ascolto, piene di riff potenti e con la batteria in primo piano. Diciamo che entrambi si lasciano andare con gusto, producendo anche un brano prog come la conclusiva Four Strangers Enter The Cement At Dusk. L’output non è sempre riuscito, però senza dubbio piacerà agli amanti del rock più sperimentale e del metal. Convince in generale più la seconda parte rispetto all’inizio, quando il rumore pare a volte fine sé stesso.

Ty Segall è un artista dai mille volti, come già accennato; questo è per certi versi un vantaggio, dato che consente ai suoi fans di restare sempre sorpresi dai suoi numerosi CD, siano essi di inediti, cover o live. Dall’altro lato, però, produrre due/tre dischi all’anno non gli ha mai permesso di pubblicare un lavoro ragionato e quindi incontestabilmente bello, malgrado i buoni non manchino, da “Manipulator” (2014) a “Freedom’s Goblin” (2018) passando per “Ty Segall” (2017). “Fungus II” rientra pertanto nell’ambito delle occasioni perse: alcune buone tracce ci sono (ad esempio Harsho), ma in generale Wasted Shirt pare un esperimento più che un progetto destinato a durare.

Voto finale: 6,5.

Recap: agosto 2018

L’estate è agli sgoccioli, ma noi di A-Rock non ci perdiamo d’animo. Agosto è stato peraltro un mese ricco di ottima musica. Il recap di questo mese vede le recensioni dei nuovi dischi dei rapper Travis Scott e Denzel Curry; il ritorno di Blood Orange e degli Animal Collective; e i nuovi CD della cantante rock Mitski e degli Interpol. Buona lettura!

Blood Orange, “Negro Swan”

negro swan

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero (anzi, negro) per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate, soprattutto negli Stati Uniti di Donald Trump. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family). Bello allo stesso tempo il fatto di affidarli alle testimonianze di persone vittime di discriminazioni, ad esempio l’attivista per i diritti LGBT Janet Mock. Infine, da sottolineare la lista di ospiti presenti in “Negro Swan”: abbiamo star come A$AP Rocky e Puff Daddy, ma anche figure meno note come il membro del collettivo The Internet Steve Lacy o il membro dei Chairlift Caroline Polachek. Insomma, una completa libertà artistica e una concezione della musica come comunità di imperfetti, al contrario di molte popstar del nostro tempo. Potrà piacere o meno, ma la visione artistica di Dev Hynes è chiara e coerente.

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano. Non sono molti i cantanti di questo livello: probabilmente Kendrick Lamar e Frank Ocean ne fanno parte, ma pochi altri sono accostabili a questi giganti contemporanei. Ebbene, Dev Hynes, per la prima volta, può a buon diritto essere ammesso in questo “club esclusivo”.

Voto finale: 8,5.

Denzel Curry, “TA13OO”

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Il terzo disco del giovane rapper Denzel Curry può essere considerato il vero manifesto di quel genere che, un po’ spregiativamente, viene chiamato SoundCloud rap. Si tratta di un genere emerso sulla piattaforma SoundCloud e che vede fra i suoi principali esponenti JPEGMAFIA, lo stesso Curry e il defunto XXXTentacion: abbiamo una fusione fra il rap morbido di Drake e atmosfere più dark, quasi gotiche, tipiche dell’hip hop dei decenni passati.

Molto ambiziosamente, Denzel conia una sorta di nuovo linguaggio nel dare i titoli ai brani dell’album: la B diventa 13, le S sono Z ecc. Noi riportiamo i titoli “trascritti”, altrimenti la comprensione sarebbe a volte difficoltosa. Inoltre, “TA13OO” è diviso in tre parti, chiamate da Curry luce, area grigia e oscurità. L’intento è rappresentare i diversi aspetti del suo animo, sia mediante le basi dei pezzi che attraverso i testi.

L’inizio, non casualmente, è molto sereno e rilassato: sia TABOO che BLACK BALLOONS sono brani molto à la Drake, con aspetti di Travis Scott in evidenza. Andando avanti nel disco, emergono come già accennato precedentemente brani con atmosfere decisamente più opprimenti, che si rifanno al Kanye West di “Yeezus”: ad esempio, in SUMO e SUPER SAYAN SUPERMAN troviamo basi trap potenti ed efficacissime, che richiamano i migliori Migos. Il finale è, coerentemente, rappresentato da pezzi trap decisamente carichi: sia VENGEANCE che BLACK METAL TERRORIST sono infatti caratterizzati da basi ossessive e voci demoniache, che rendono le canzoni difficili ma tremendamente affascinanti.

Anche liricamente il CD non affronta tematiche semplici: l’apertura di TABOO è per certi versi scioccante, con Curry che dettaglia la sua relazione con una ragazza vittima di terribili abusi nella sua infanzia. In BLACK BALLOONS sono contenuti riferimenti espliciti alla morte e al suicidio come soluzione per risolvere i problemi che affliggono Denzel. Ritroviamo, oltre a basi anni ’90 in certi tratti del disco, anche temi afferenti a quel periodo: in SUMO il rapper afferma di avere “tasche piene di soldi e grosse come un lottatore di sumo”. Da sottolineare infine la capacità del giovane statunitense di passare da registri più melodici a versi letteralmente urlati, segno che anche vocalmente siamo di fronte a un talento notevole. Sentirsi SIRENS e VENGEANCE per un confronto.

In generale, dunque, Curry ha creato un mondo difficile da abbandonare, malgrado le atmosfere e i testi siano talvolta molto inospitali. Non è un merito da poco, in un anno che per il rap ha visto mietere nuovi successi ma una qualità media scadente.

Voto finale: 8,5.

Mitski, “Be The Cowboy”

be the cowboy

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

Liricamente, Mitski sembra dedicare questo lavoro all’amore, presente in ogni sua forma: ad esempio, in Remember My Name canta “I gave too much of my heart tonight. Can you come to where I’m staying and make some extra love that I can save ’till to tomorrow’s show?”, oppure in Lonesome Love “Nobody butters me up like you, and nobody fucks me like me”. Testi espliciti e senza peli sulla lingua, insomma. Tuttavia, essi non risultano mai fuori luogo e anzi aumentano l’attenzione dell’ascoltatore anche per le canzoni più leggere.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album. Siamo in trepidante attesa di vedere se questo è il picco delle sue capacità oppure il meglio deve ancora venire.

Voto finale: 8,5.

Travis Scott, “ASTROWORLD”

astroworld

Il terzo album del rapper statunitense Travis Scott ha scatenato una quantità di hype sorprendente nel mercato musicale. Non è tuttavia un evento del tutto inatteso: accanto alla crescente fanbase di Travis, occorre nominare le numerose collaborazioni presenti nel disco. Basti dire che “ASTROWORLD” conta collaborazioni di Frank Ocean, Stevie Wonder, Tame Impala, Kid Cudi, Drake, Migos, The Weeknd e Pharrell Williams: praticamente tutto il gotha del mondo hip hop, R&B, pop e rock. Travis gioca non casualmente il ruolo di collante fra tutte queste numerose influenze, cercando di non essere sempre oscurato dagli illustri ospiti e con l’intento di creare un CD coeso.

Il bello è che, per la prima volta in carriera, Scott riesce pienamente nel suo intento: “ASTROWORLD” è il primo vero LP riuscito del giovane rapper. L’inizio è convincente: STARGAZING è un ottimo mix fra trap e hip hop classico, con Travis privo di ospiti ingombranti che può dare un saggio delle sue qualità. Ottima poi SICKO MODE, che conta la convincente collaborazione di Drake. Meno riuscita CAROUSEL, malgrado la presenza di Frank Ocean.

Anche nella seconda parte del lungo CD (17 brani per 59 minuti) non mancano gli highlights: ottime R.I.P. SCREW e il duo di brevi canzoni NC-17 e ASTROTHUNDER. Del resto, però, SKELETONS convince meno, tuttavia non intacca il risultato complessivo di “ASTROWORLD”, che si conferma anche dopo svariati ascolti un LP ricco di dettagli ricercati e mai banale. COFFEE BEAN, ad esempio, migliora ad ogni ascolto.

Liricamente, Scott a volte dimostra immaturità con liriche volgari e inutilmente allusive (ad esempio canta “If you take your girl out, do you expect sex? If she take her titties out, do you expect checks?” in SKELETONS), ma in altre parti affronta tematiche non banali, come la paternità inattesa e la difficile relazione con Kylie Jenner (in COFFIE BEAN sentiamo Travis dire “Your family told you I’m a bad move. Plus, I’m already a black dude”).

Insomma, la maturazione di Scott procede bene: malgrado le accuse spesso rivoltegli di copiare spudoratamente gli altri rapper (su tutti si nota una forte influenza di Kanye West), il giovane rapper procede per la sua strada; e il successo di pubblico pare premiare questo suo atteggiamento. Sebbene non stiamo parlando di un disco perfetto, “ASTROWORLD” dimostra tutta l’abilità di Travis Scott di circondarsi di collaboratori di valore e produttori capaci di evocare sempre atmosfere diverse, fattori che rendono il CD imprescindibile per gli amanti della trap e, in generale, della black music.

Voto finale: 7,5.

Interpol, “Marauder”

marauder

Il sesto album degli Interpol, celebre band rock originaria di New York, percorre molti dei sentieri preferiti da Paul Banks e compagni, ma riesce a mantenere gli Interpol sui binari giusti, senza rimasticare i brani di successi come “Turn On The Bright Lights” (2002) o “Antics” (2004).

L’inizio è decisamente convincente: sia If You Really Love Nothing che The Rover sono ottimi pezzi tipicamente Interpol, che sarebbero stati benissimo nei migliori dischi del gruppo. Aiuta probabilmente la presenza, per la prima volta nella ventennale storia della band, di un produttore esterno: abbiamo infatti a condurre le danze Dave Fridmann, che ha collaborato in passato con MGMT, Tame Impala e Spoon fra gli altri. Convincono meno brani troppo scontati come Complications e i due Interlude, ma anche in questi casi gli Interpol riescono a non deragliare, così che “Marauder” risulta un CD gradevole, anche con ascolti numerosi. Anzi, pezzi come Flight Of Fancy e Surveillance acquistano rilevanza ad ogni ascolto.

In conclusione, non possiamo certo pretendere che un complesso che ha calcato più o meno gli stessi territori a metà fra indie rock e post punk nel corso di cinque album di successo si rinnovi radicalmente al sesto. Nondimeno, il fatto di porre in copertina Elliot Richardson, il procuratore generale che si dimise a seguito della richiesta di Richard Nixon di licenziare il magistrato che indagava sullo scandalo Watergate, presenta un preciso messaggio politico, benvenuto in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo. Una dimostrazione di maturità da elogiare in un gruppo finalmente consapevole della sua posizione nel panorama musicale e dell’importanza che questi messaggi possono avere. Bentornati, Interpol.

Voto finale: 7,5.

Animal Collective, “Tangerine Reef”

tangerine reef

“Tangerine Reef” è l’undicesimo album degli Animal Collective, veterani del mondo indie e grandi innovatori all’inizio del XXI secolo, con all’attivo capolavori come “Merriweather Post Pavilion” (2009) e un’instancabile voglia di sperimentare. Non ci scordiamo infatti che, nel corso dei primi album, gli AC suonavano una musica folk molto hippie e ardita, per poi evolversi verso sonorità elettroniche, fino ad arrivare all’ambient e ai ritmi soffusi di questo CD.

Il disco viene accompagnato da un lungometraggio del duo Coral Morphologic, impegnato a diffondere consapevolezza riguardo ai danni ambientali causati dal surriscaldamento terrestre e dall’inquinamento, specialmente sulla barriera corallina. Non è quindi un caso che molti titoli dei brani in scaletta si riferiscano a questo preoccupante fenomeno: abbiamo infatti per esempio Coral By Numbers, Coral Realization e Lundtsten Coral. È pertanto indispensabile accompagnare all’ascolto dell’album il film girato dai Coral Morphologic.

In effetti, il disco non rientra a pieno titolo nella parte alta della produzione del collettivo animale: le sonorità possono risultare troppo lente e, data l’assenza (momentanea auspicabilmente) di Panda Bear, che incarna l’anima più pop e melodica degli AC, non sempre le canzoni fanno presa sull’ascoltatore. Inoltre, i testi dei brani non sempre sono intellegibili, a dimostrazione che la musica non è la parte più importante del progetto “Tangerine Reef”.

E pensare che la partenza non sarebbe male: Hair Cutter è un buon brano ambient, in cui la voce di Avey Tare è a proprio agio. Peccato che poi arrivino brani dalle sonorità molto cupe, che ben si adattano al mood del progetto audiovisuale, ma che non sono sempre a fuoco, come avviene in Coral Understanding e Airpipe (To A New Transition). Probabilmente non è un caso che Hip Sponge, una delle tracce più ritmate, sia anche fra le più gradevoli.

In generale, dunque, come già avevamo intuito dal deludente “Painting With” (2016), gli Animal Collective sembrano aver esaurito la vena creativa che tanto ha dato alla musica moderna, specialmente agli amanti della psichedelia e delle sonorità più bucoliche. Se non si può non elogiare l’impegno per tematiche cruciali come il cambiamento climatico in atto e le sue potenzialmente tragiche conseguenze per gli esseri umani, è pur vero che “Tangerine Reef” è uno dei meno riusciti LP della produzione del collettivo animale. Speriamo di sbagliarci, ma pare che, musicalmente, l’era degli AC sia conclusa.

Voto finale: 6.

I 50 migliori album del 2016 (50-26)

Un anno di grande musica è finito. Abbiamo analizzato grandi lavori da parte di artisti emergenti (come Anderson .Paak), veterani che ci hanno lasciato con capolavori indimenticabili (David Bowie e Leonard Cohen), graditi ritorni di artisti che sembravano “in letargo” (su tutti Bon Iver). Vediamo dunque la prima parte della lista dei 50 migliori CD del 2016, dalla 50° alla 26° posizione. Per quanto riguarda il resto della classifica, ci vediamo tra pochi giorni. Menzione per l’EP “Future Present Past” degli Strokes, che non è entrato nella lista a causa delle sole tre canzoni presenti, ma che contemporaneamente delinea un futuro roseo per la band newyorkese. I tre brani presenti, infatti, partendo da Oblivius (la migliore) e finendo con Threat Of Joy, passando per la quasi punk Drag Queen, hanno tutti una loro funzione all’interno del breve EP. Attendiamo conferme l’anno prossimo, quando sembra che uscirà il nuovo LP vero e proprio.

50) Animal Collective, “Painting With”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il Collettivo Animale è ormai giunto al decimo lavoro: un momento della carriera propizio per cadute e fiaschi di ogni genere. Ebbene, niente di ciò vale per gli Animal Collective: la loro eccentricità continua ad affascinare e, anzi, “Painting With” migliora il precedente “Centipede Hz” (2012), che era per contro troppo sovraccarico di influenze per piacere davvero. “Painting With” si caratterizza per canzoni più brevi rispetto a molte, alcune davvero meravigliose, della band di Baltimora: in questo senso, la mancanza di Deakin (uno dei membri fondatori) si fa sentire. Nessuna Banshee Beat o Brother Sport, tanto per intendersi; al contrario, abbiamo 12 pezzi diretti e veloci, nessuno davvero brutto (ma neanche capolavori, a dire la verità). Infatti non sono male FloriDada e Golden Gal, che si rifanno alle atmosfere di “Merriweather Post Pavilion” (2009), miglior CD della carriera degli AC; meno riuscita Lying In The Grass, troppo elettronica. In generale, colpisce la voglia di sperimentare ancora del terzetto americano, con Panda Bear e Avey Tare (nomi d’arte di Noah Lennox e Dave Portner) ancora sugli scudi, creativamente parlando. Non il miglior LP dell’anno, ma di certo godibile e interessante: al decimo CD potevamo sperare di meglio?

49) Green Day, “Revolution Radio”

(ROCK – PUNK)

A quattro anni dalla controversa trilogia di “¡Uno!”, “¡Dos!” e “¡Tré!” e dopo varie sventure che hanno perseguitato i membri della band, tra cui il cantante Billie Joe Armstrong in rehab e il tumore, per fortuna vinto, che ha colpito la moglie del bassista Mike Dirnt, i Green Day sono finalmente tornati a produrre musica. La domanda può sorgere spontanea: l’ultimo grande CD del gruppo punk californiano risale al 2004 (l’ormai classico “American Idiot”), c’è ancora senso per i Green Day di esistere nel 2016? Ebbene, i risultati di “Revolution Radio” non raggiungono le vette di “Dookie” o del già citato “American Idiot”, ma lo spirito combattivo e l’impegno civile dei Green Day elevano il voto finale. Accanto a brani un po’ confusi come Forever Now, abbiamo infatti buoni highlights come Somewhere New (che richiama gli Who) e Outlaws; apprezzabile anche il singolo Still Breathing. Più prevedibile l’altro singolo, Bang Bang, che però ha dalla sua un testo molto bello; la conclusiva Ordinary World è molto simile a Good Riddance, una delle più amate canzoni del repertorio di Armstrong & co., ma non ha la stessa delicata bellezza. Insomma, niente di che, ma, rispondendo alla domanda iniziale, possiamo dire che i Green Day, anche nel 2016, hanno ancora un senso.

48) Elysia Crampton, “Elysia Crampton Presents: Demon City”

(SPERIMENTALE)

Il secondo lavoro della giovane artista di origine boliviana richiama fortemente le sonorità di Arca e Oneohtrix Point Never, due dei più visionari ed acclamati autori di musica sperimentale dei nostri anni. “Elysia Crampton Presents: Demon City”, tuttavia, ha anche un forte connotato politico: il CD è dedicato alla figura di Bartolina Sisa, figura fondamentale della guerra d’indipendenza boliviana e a cui è intitolata, dal 1983, la Giornata Internazionale delle Donne Indigene. Il brano più ardito fra i 7 che compongono l’album, After Woman For Bartolina Sisa, è un chiaro rimando a tutto ciò. Musicalmente parlando, Elysia Crampton e Anna Meredith si sono affermate nel 2016 come due voci femminili molto importanti per la scena sperimentale: anche Elysia, infatti, utilizza sonorità e ritmi molto diversi, mescolando ambient, dance e musica tribale per creare un ensemble difficile da ascoltare, senza parti vocali e che sfida l’ascoltatore a resistere fino alla fine. I coraggiosi che lo faranno avranno come ricompensa un lavoro davvero riuscito e diversificato, con canzoni più cupe (come Irreducible Horizon) e altre più luminose (belle Esposas 2013 e Red Eyez). La scarsa durata, meno di 35 minuti, non tragga in inganno: di materiale da analizzare ce n’è più che abbastanza.

47) Justice, “Woman”

(ELETTRONICA)

Al terzo album, i francesi Justice abbracciano definitivamente il pop. I precedenti sforzi, vale a dire il riuscitissimo “†” (2007) e il trascurabile “Audio, Video, Disco” (2011), avevano lasciato una strana impressione: il duo francese sapeva che direzione prendere da grande oppure no? Concentrandosi sul fulminante esordio, i veri Justice sono quelli di D.A.N.C.E. o di The Waters Of Nazareth? Sembra proprio che la risposta sia rappresentata dalla prima alternativa. “Woman”, infatti, fa risaltare soprattutto il lato pop del gruppo, mescolando sapientemente Daft Punk ed Air, ossia i maestri dell’elettronica francese. I migliori brani sono Alakazam !, Stop e Fire; meno coinvolgente la parte iniziale del disco, ma i risultati sono comunque gradevoli. Niente di sensazionale, ma senza dubbio 10 canzoni ballabili e orecchiabili; nessuna nuova D.A.N.C.E., ma almeno 3-4 brani da aggiungere ai migliori della produzione di Xavier de Rosnay e Gaspard Augé.

46) Weezer, “Weezer (The White Album)”

(ROCK)

Continua la saga degli album omonimi dei Weezer, uno dei gruppi veterani del rock made in USA. Questo è infatti l’undicesimo album di inediti della band: possiamo dire che, anche grazie a “Everything Will Be Alright At The End” (2014), la crisi creativa che ha colpito Rivers Cuomo e co. negli anni 2000 è cessata. Il loro “album bianco” è infatti un gradevole insieme di pezzi che richiamano i ridenti anni ’60 dei Beach Boys e l’irriverenza dell’indie rock anni ’00 del XXI secolo. I migliori sono California Kids, L.A. Girlz e Jacked Up. Nessun nuovo “Pinkerton”, dal nome dell’album migliore dei Weezer, ma certo un lavoro divertente e ben fatto. Bentornati, Weezer.

45) Viola Beach, “Viola Beach”

(ROCK)

13 febbraio 2016: la macchina dove viaggiava la giovane band inglese nota col nome di Viola Beach ha un terribile incidente mentre i quattro membri e il manager Craig Tarry sono in Svezia per promuovere il disco noto oggi come “Viola Beach”. Tutti e cinque rimangono uccisi sul colpo. Addirittura la Premier League si ferma un minuto per tributare un applauso alla promessa non mantenuta della scena musicale inglese. Il disco, di per sé, è una dimostrazione del talento ancora in nuce dei Viola Beach: si tratta di 9 canzoni veloci, ballabili e immediate, che rimandano a Phoenix, Kooks e Franz Ferdinand. Dunque, più che far pensare alla tragedia, il CD è un trionfo della gioia di vivere e della spensieratezza. Spiccano in particolare Swings And Waterslides, Go Outside e Boys That Sing, di cui i Coldplay hanno realizzato una cover durante il loro concerto al festival di Glastonbury; ma nessuna è davvero fuori posto. Insomma, un album postumo che non suona come posticcio o cinicamente votato a fare soldi sulla morte dei giovani membri della band è già un ottimo risultato; il fatto che sia anche gradevole chiude meritoriamente la breve carriera dei Viola Beach.

44) Rihanna, “ANTI”

(POP – R&B)

Rihanna, con “ANTI”, è già all’ottavo album di inediti: una carriera da veterana, che farebbe pensare che ormai il meglio dell’artista caraibica sia già stato espresso. Tuttavia, Rihanna con “ANTI” sembra essere definitivamente maturata: nessuna canzonetta (eccettuata la pessima Work con Drake) e anzi melodie molto più ricercate. Addirittura troviamo in “ANTI” una cover di New Person, Same Old Mistakes dei Tame Impala (con titolo Same Ol’ Mistakes), peraltro venuta bene. Brani solidi ne contiamo almeno altri due, vale a dire la iniziale Consideration e Kiss Better, entrambi molto R&B e più “cupi” della solita Rihanna. In poche parole, “ANTI” è il suo migliore LP: speriamo che RiRi abbia definitivamente imboccato la strada della buona musica.

43) Kaytranada, “99.9%”

(R&B – ELETTRONICA)

Il produttore canadese noto come Kaytranada ha pubblicato quest’anno il suo esordio musicale in prima persona: “99.9%” è il titolo di questo album. Mescolando sapientemente R&B e musica elettronica, Kaytranada ha prodotto un CD molto interessante: caratterizzato da ritmi avvolgenti e mai banali, con l’aggiunta di ospiti di assoluto rilievo (AlunaGeorge, Anderson .Paak e Craig David fra gli altri), “99.9%” denota una grande cura dei dettagli e una vena melodica fuori dal comune. Di contro, l’eccessivo numero di canzoni rende difficile a volte creare coesione fra i vari pezzi, ma i risultati sono comunque molto positivi. I pezzi migliori sono Glowed Up, Breakdance Lesson N.1e Together; un po’ troppo lenta Vivid Dreams. Tra gli esordi nel mondo dell’hip hop, questo LP sarà sicuramente ricordato tra i migliori del decennio.

42) Paul Simon, “Stranger To Stranger”

(FOLK)

Il grandissimo Paul Simon, ormai passati i 75 anni e giunto al tredicesimo album solista, dopo la prima parte passata assieme ad Art Garfunkel in uno dei gruppi più osannati degli anni ’60, rinnova radicalmente il proprio sound. Un merito non da poco, ancora più notevole in una persona apparentemente appagata come Simon. Invece la voglia di sperimentare ha avuto ancora la meglio: certo, non siamo dalle parti di “Graceland” (1986), capolavoro della produzione di Simon, ma i risultati sono comunque ottimi. Canzoni veloci ed orecchiabili, produzione sontuosa e voce come sempre gradevole: possiamo chiedere altro? I brani migliori sono Street Angel, la title track (dove si sentono addirittura delle tastiere) e la romantica Proof Of Love, che rimanda al capolavoro The Sound Of Silence; ma nessuna è davvero brutta. In poche parole, 37 minuti spesi ascoltando buona musica, composta da uno dei grandi maestri di questa arte.

41) Bat For Lashes, “The Bride”

(POP)

Natasha Khan (nota musicalmente come Bat For Lashes) si conferma una delle artiste più costanti sulla scena pop mondiale. Giunta al quarto lavoro di inediti, la cantautrice inglese mantiene la vena barocca dei precedenti LP, ma azzarda ancora di più tematicamente. Infatti, “The Bride” racconta la storia di una sposa che, il giorno del matrimonio, vede morire il suo futuro marito in un incidente stradale. Il CD inizia infatti con la gioia della sposa per questo giorno speciale, per poi passare alla paura per i presagi avuti (in Joe’s Dream), alla disperazione e al tentativo di assimilare quanto accaduto. Non tutto è perfetto (la parte centrale dell’album è infatti troppo lenta), ma brani come la già citata Joe’s Dream e la tenera Honeymooning Alone non possono restare indifferenti. “The Bride” rappresenta la trama perfetta per un film e una più che degna colonna sonora: complimenti alla britannica Khan per il coraggio dimostrato.

40) A Tribe Called Quest, “We Got It From Here… Thank You 4 Your Service”

(HIP HOP)

Il sesto (e apparentemente ultimo) CD dei leggendari A Tribe Called Quest ci regala uno dei ritorni meno probabili ma allo stesso tempo più desiderati dagli amanti del rap vecchia maniera. Il collettivo formato da Q-Tip, Jarobi White e Ali Shaheed Muhammad ritorna a produrre nuova musica malgrado la morte qualche mese fa del quarto membro originario, Phife Dawg; e possiamo dire senza patemi che la musica dei ATCQ non è mai stata tanto necessaria. La forte protesta politica che animava il gruppo nella prima parte della carriera non è diminuita, anzi si è fatta ancora più dura: lo testimoniano titoli come The Donald, Enough!! e The Killing Season. I difetti del doppio album (un totale di 16 brani e oltre un’ora di durata) sono comunque ben più che compensati dai pregi: accanto a una parte centrale debole, abbiamo infatti ottime canzoni come The Space Program, We The People (con i bellissimi versi “All you black folks, you must go. All you Mexicans, you must go. And all you poor folks, you must go. Muslims and gays, boy we hate your ways. So all you bad folk, you must go”) e Dis Generation. Buona anche Lost Somebody. Addirittura, si odono dei samples di Elton John e Jack White in Solid Wall Of Sound! In generale, possiamo affermare che “We Got It From Here… Thank You 4 Your Service” non intacca la pesante eredità della band, dimostrando che non sempre con l’età i musicisti (soprattutto i rapper) peggiorano.

39) Whitney, “Light Upon The Lake”

(POP – FOLK)

L’esordio degli statunitensi Whitney, “Light Upon The Lake”, propone un buon connubio tra pop e folk, che farà decisamente felici i fan di Fleet Foxes e Real Estate. La grazia delle composizioni è ammirevole: spiccano in particolare No Woman e il soft rock di The Falls. Non male anche l’ottimista Golden Days. Certo, il CD arriva a malapena a mezz’ora di durata, per un totale di sole 10 canzoni. Niente di trascendentale, insomma, ma un gradevole ascolto sì: diciamo che l’entusiasmo di certe testate per questa band sembra prematuro. “Light Upon The Lake” appare più un (gustoso) antipasto per qualcosa che, auspicabilmente, sarà più strutturato e corposo. Per ora, comunque, possiamo dire tranquillamente che la stoffa sembra esserci.

38) Kendrick Lamar, “Untitled Unmastered”

(HIP HOP)

Nel mondo del pop-rock chiameremmo “Untitled Unmastered” una collezione di b-sides. Kendrick, tuttavia, ci tiene a fare le cose per bene: saranno anche scarti dalle sessions di registrazione dell’ormai classico “To Pimp A Butterfly” (2015), ma la qualità resta davvero alta. Gli 8 brani infatti, pur essendo meno curati, quasi “grezzi” rispetto a quelli migliori di KL, impressionano per potenza e qualità: ricordiamo in particolare Untitled 02 e la numero 05. Insomma, l’attenzione su Kendrick resta sempre altissima e lui sembra davvero incapace di tradirla. Probabilmente è lui il rapper migliore della sua generazione. Anzi, togliete il probabilmente.

37) The Last Shadow Puppets, “Everything You’ve Come To Expect”/”The Dream Synopsis EP”

(ROCK – POP)

I Last Shadow Puppets, in teoria, sarebbero la valvola di sfogo di Alex Turner e Miles Kane nei momenti liberi. Prendete “The Age Of Understatement” (2008), esordio della band: atmosfere anni ’60, brani brevi ed essenziali, nessuno fuori posto o sgradevole (picchi la title track e Standing Next To Me), creati senza particolare impegno, almeno apparentemente. Il nuovo “Everything You’ve Come To Expect” mantiene il medesimo sound degli esordi: un ritmo molto vintage e suadente, ma gli otto anni passati si avvertono; e questa non è necessariamente una critica al prodotto finito. I migliori pezzi sono Aviation, la sognante title track e la conclusiva The Dream Synopsis, davvero romantica. Insomma, non un capolavoro, ma certo 40 minuti passati bene: ecco la funzione dei LSP.

Funzione ulteriormente chiarita nel gradevole EP “The Dream Synopsis”, contenente 6 brani: due reinterpretazioni di canzoni già presenti nel CD pubblicato qualche mese prima (Aviation e The Dream Synopsis) e delle cover di altre canzoni. La migliore interpretazione è la “TLSP-based version” del capolavoro del compianto Leonard Cohen Is This What You Wanted, con un Alex Turner più crooner che mai. Totally Wired ricorda gli AM dei primi due LP; divertente Les Cactus, dove il frontman degli Arctic Monkeys canta in francese (zoppicante). Insomma, un’appendice gradita in un anno da incorniciare per Turner e Kane. Aspettiamo Alex alla prova definitiva con la sua creatura più conosciuta, quegli Arctic Monkeys che con “AM” (2013) hanno conquistato grande seguito anche negli USA.

36) Preoccupations, “Preoccupations”

(PUNK – ROCK)

Teoricamente, i Preoccupations sono già una band esperta, avendo alle spalle già tre album, seppure con due nomi diversi. Dapprima, infatti, abbiamo avuto i due CD dei Women, poi quello a nome Viet Cong del 2015, un pregevole lavoro entrato nella lista dei migliori album dell’anno di A-Rock. Infine ecco questo “Preoccupations”, eponimo del nuovo nome preso dal gruppo canadese. Se il primo cambio di formazione fu dovuto ad un tragico fatto (la morte del membro fondatore Christopher Reimer), questa volta il passaggio da Viet Cong a Preoccupations è un fatto puramente “politico”. La storia però non cambia: la band rimane maestra nel suonare un punk claustrofobico ed efficace nel trattare le tematiche più complesse della vita umana. I titoli delle canzoni lo testimoniano: abbiamo l’iniziale Anxiety, poi Monotony, Degraded e via dicendo. Rispetto al precedente “Viet Cong”, però, il suono si fa più commerciale e quindi più accessibile: se da un lato ciò contribuirà ad ampliare la fanbase del gruppo, dall’altro alcune canzoni non restano impresse come accadeva nelle precedenti incarnazioni del complesso canadese (è questo il caso di Forbidden, troppo breve e poco coinvolgente). Ottima al contrario la lunghissima Memory, che flirta con la ambient music e richiama i Deerhunter delle origini. In poche parole, un buon lavoro punk, che sarà apprezzato dai fan di questo genere come anche da quelli del rock. Per chi si aspetta sperimentalismo o arditezza, meglio passare oltre.

35) Savages, “Adore Life”

(PUNK – ROCK)

Le ragazzacce del punk inglese sono tornate. Tre anni dopo il fortunato esordio “Silence Yourself”, il gruppo femminile per eccellenza del punk (fatta eccezione per le veterane Sleater-Kinney) tenta di replicare la formula che tanto successo aveva riscosso con “Silence Yourself”: canzoni potenti, ritmo assillante e testi impegnati. Se nel primo LP erano privilegiati temi politici come il femminismo e la discriminazione tra uomini e donne in molti campi della vita, in “Adore Life” il quartetto ci parla a cuore aperto dell’amore e delle conseguenze (positive e negative) che esso ha sull’animo delle persone che ne sono colpite. “Adore Life” regala così anche momenti più raccolti ed intimi: basti pensare a Slowing Down The World o Adore. Sono tuttavia i pezzi più potenti a lasciare il segno: The Answer e Evil, in particolare, hanno una base ritmica inconfondibile e una chitarra quasi shoegazing a tratti. Sad Person è altrettanto notevole, con un assolo alla The Edge che ricorda gli U2 di “The Joshua Tree”. Il percorso di crescita delle quattro Savages continua dunque: se per certi versi era legittimo attendersi qualche novità, d’altra parte “Adore Life” non è assolutamente un album disprezzabile, anzi il contrario. Non ci resta che attendere il prossimo per dare un giudizio definitivo sulle Savages: per ora la promozione arriverebbe a pieni voti.

34) White Lung, “Paradise”

(PUNK)

I canadesi White Lung prediligono gli album molto brevi: basti pensare che il loro quarto lavoro, il pregevole “Paradise”, è il loro CD più lungo, ma non arriva neanche a 30 minuti. Le 10 canzoni che lo compongono sono però fortemente adrenaliniche e riescono ad esprimere i temi che stanno a cuore alla band (femminismo, violenza sulle donne…) in maniera molto efficace. Da sottolineare ottimi pezzi punk come Narcoleptic, Kiss Me When I Bleed e Demented; ma in generale è la coesione del lavoro a colpire. Gli amanti del punk vecchia maniera non possono proprio perdersi “Paradise”.

33) Maxwell, “BlackSUMMERS’night”

(SOUL – R&B – POP)

Con Maxwell dobbiamo rassegnarci: si avrà un CD di nuova musica una volta ogni 5-10 anni, ma possiamo star certi che la qualità sarà invidiabile. Questo “BlackSUMMERS’night” segue l’omonimo “BLACKsummers’night” di ben 7 anni fa: l’ironia del cantante nella scelta dei titoli è evidente, così come del resto la classe e il talento di Maxwell. Questo quinto album di inediti ce lo riconsegna in piena forma: la vena soul non è scomparsa, tuttavia notiamo occasionali incursioni di pop e hip hop nelle ritmiche dei brani. I migliori sono All The Ways Love Can Feel, la nostalgica 1990x (già il titolo dice tutto) e Lost (che addirittura ricorda i Muse di Feeling Good). Notiamo come i due simboli del movimento neo-soul americano degli anni ’90 (Maxwell e D’Angelo) siano recentemente tornati in piena forma: prima D’Angelo con il magnifico “Black Messiah” (2014), ora Maxwell. E l’ispirazione si è mantenuta ad alti livelli, come se il tempo non fosse passato.

32) The Avalanches, “Wildflower”

(ELETTRONICA)

Il loro debutto nell’ormai lontano 2000, “Since I Left You”, fu una incredibile ventata di novità nel mondo dell’elettronica di quegli anni: il gruppo australiano degli Avalanches, infatti, fuse tra di loro infiniti samples (circa 3500 secondo le stime più attendibili) di canzoni di ogni genere (soul, hip hop, pop…) per creare una miscellanea affascinante e ancora oggi bellissima da ascoltare. Questo “Wildflower” poteva essere un flop clamoroso, invece conferma una volta di più la bravura degli Avalanches: nei 21 pezzi che compongono il CD, molti brevissimi e altri più lunghi, spiccano Because I’m Me, la gioiosa Colours e la divertente The Noisy Eater (in cui viene campionata Come Together dei Beatles). Insomma, un ritorno con i fiocchi per una band di cui si erano perse le tracce per troppo tempo.

31) Glass Animals, “How To Be A Human Being”

(SPERIMENTALE)

Il titolo del secondo CD di inediti dei Glass Animals è decisamente impegnativo, così come del resto la loro musica, qua ricca come mai altrove di cambi di ritmo e di sound. Il loro nuovo album infatti predilige uno sperimentalismo radicale, fatto di richiami illustri a Talking Heads e Hot Chip. Già la iniziale Life Itself prepara l’ascoltatore, ma sono da sottolineare anche Season 2 Episode 3 (che prende in giro la mania di guardare continuamente serie tv), The Other Side Of Paradise e Poplar St. Qualcuno rimprovera alla band un eccessivo appiattimento sui grandi esempi che abbiamo citato prima, ma personalmente non so trovare nel panorama musicale odierno un gruppo che suona vintage e contemporaneo alla stessa maniera come i Glass Animals. In generale, “How To Be A Human Being” migliora ad ogni ascolto, facendone un CD fondamentale per chi apprezza la musica più d’avanguardia e sofisticata.

30) Wilco, “Schmilco”

(ROCK – COUNTRY)

Giunti al decimo lavoro, i Wilco, capitanati da un sempre più carismatico Jeff Tweedy, non smettono di stupire. L’anno scorso avevano fatto uscire esclusivamente su Internet “Star Wars”, con una ricezione positiva sia del pubblico sia della critica, soprattutto per la voglia di sperimentare presente nel CD (era stato inserito anche nella lista dei migliori album del 2015 di A-Rock, per quello che conta). Con “Schmilco”, ormai alla doppia cifra di LP di inediti, Tweedy e co. rileggono la storia del country e del rock americani, cercando di collegarsi ai loro maggiori successi, soprattutto al superbo “Yankee Hotel Foxtrot” (2002). Insomma, niente di innovativo (e pensare che “Schmilco” è stato composto nelle stesse sessions di “Star Wars”), ma il mestiere e l’esperienza mantengono altissimo il livello delle canzoni. Da ricordare in particolare Cry All Day, Normal American Kids e If I Ever Was A Child. Menzione finale per la buffissima copertina, che fa il paio con quella del precedente “Star Wars” (che rappresentava un gatto bianco su un divano, quindi del tutto sconnessa dal titolo): invecchiare con ironia si può, anzi si deve. Niente da dire, quindi: è proprio vero che il buon vino migliora col passare degli anni. E i Wilco, beh, sono un vino davvero squisito.

29) Iggy Pop, “Post Pop Depression”

(ROCK)

Per il diciassettesimo (!) album di inediti, Iggy ha radunato il meglio della scena rock mondiale: Matt Helders (batterista degli Arctic Monkeys), Dean Fertita (Queens Of The Stone Age e Dead Weather) e la sontuosa produzione di Josh Homme (QOTSA e Eagles Of Death Metal). Insomma, le premesse per un glorioso album di rock vecchia maniera c’erano tutte; promesse ampiamente mantenute. Al netto di una parte centrale trascurabile, il resto di “Post Pop Depression” è un trionfo per il veterano ex Stooges Iggy Pop: le iniziali Break Into Your Heart e Gardenia sono magnifiche, American Valhalla ricorda “Humbug” (2009) degli Arctic Monkeys, Paraguay è potente ed espressiva. In poche parole, uno dei migliori album della recente produzione di Iggy Pop, che ci fa sperare che la pensione sia ancora lontana. Anche se… A ben pensarci, un “testamento” del livello (altissimo) di “Post Pop Depression” è il sogno di qualsiasi musicista. E testimonia l’importanza, ancora oggi, dell’Iguana per la scena musicale.

28) Parquet Courts, “Human Performance”

(ROCK)

Il quinto album degli americani Parquet Courts è un trionfo per gli amanti dell’indie rock più scanzonato. Le principali influenze sono Velvet Underground, Sonic Youth e Strokes: insomma, il gotha degli ultimi 40 anni di rock. Tutte influenze rinvenibili in bei pezzi come Dust, la title track e la lunghissima One Man No City (dura più di 6 minuti!). Insomma, buoni brani non mancano; a quelli già richiamati aggiungiamo le più romantiche Steady On My Mind e It’s Gonna Happen. In conclusione, niente di avveniristico, ma certamente un LP puramente rock godibile e curato. Da quanto tempo non potevamo dirlo più convintamente? Probabilmente dal fulminante esordio dei Wolf Alice dello scorso anno…

27) Mitski, “Puberty 2”

(ROCK)

La giovane cantante di origine asiatica Mitski, giunta già al quarto LP, si conferma una grande promessa dell’indie rock mondiale. “Puberty 2” è infatti il risultato di un attento mix di generi, in particolare rock, pop ed elettronica. Non ne esce un lavoro confuso, anzi abbiamo uno dei migliori CD rock dell’anno: pezzi come Happy, Your Best American Girl e I Bet On Losing Dogs sono davvero riusciti. Dan The Dancer, infine, ricorda gli Strokes. Non un capolavoro, in poche parole, ma certamente una mezz’ora passata ascoltando buona, anzi buonissima musica. Di conseguenza, questa ventisettesima posizione nella lista dei migliori CD del 2016 è pienamente meritata.

26) Anna Meredith, “Varmints”

(SPERIMENTALE)

L’audace primo album di Anna Meredith, “Varmints”, si compone di 11 tracce ed è capace di affrontare con buona maestria davvero molti generi musicali, anche molto eterogenei tra loro: synth pop, elettronica, jazz e rock tra gli altri. Il rischio di un pot-pourri senza né capo né coda era molto elevato, ma la giovane britannica non cade in questa trappola e anzi sforna un lavoro pregevole sotto molti punti di vista. Meredith è una musicista che proviene dalla BBC Scottish Symphony Orchestra: questo aspetto è senza dubbio importante nella produzione di “Varmints”, in particolare nell’abilità di far convivere strumenti e ritmi molto diversi tra loro. Tuttavia, di musica classica troviamo ben poco in questo LP. L’inizio è fantastico: Nautilus piace sempre di più ad ogni ascolto e Taken è trascinante, anche grazie al bel gioco di voci. Non tutte le altre melodie sono perfette (basti pensare alle deboli Vapours e Honeyed Words), ma il risultato è senza dubbio più che discreto. Da non trascurare poi pezzi come Something Helpful, R-Type e la conclusiva Blackfriars. Insomma, un album di musica sperimentale riuscito ed accattivante come “Varmints” erano anni che non lo sentivamo, probabilmente dal magnifico “Shields” dei Grizzly Bear (2012).

Recap: febbraio 2016

Anche questo mese le uscite musicali interessanti non sono mancate: come sempre ne ho selezionate tre, che rappresentano il meglio della produzione musicale di febbraio 2016. Abbiamo il ritorno di Kanye West con l’attesissimo “The Life Of Pablo” (ma il titolo non era “Swish”? O forse era “Waves”? Bah), ma non solo. A completare il terzetto abbiamo il decimo album di inediti degli Animal Collective, “Painting With”, e l’EP dei Massive Attack, “Ritual Spirit”.

Kanye West, “The Life Of Pablo”

Con Kanye West non ci sono mezze misure: o si ama o si odia, non tanto il cantante quanto il personaggio. Il suo egocentrismo sfrenato può risultare pesante, ma la qualità della sua produzione è decisamente sopra la media: “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) ha praticamente ridefinito un genere, così come il successivo “Yeezus” (2013) ha rappresentato il primo tentativo di unire hip hop, house e punk.

Con “The Life Of Pablo” le aspettative erano altissime: saprà Kanye mantenere questi livelli o si perderà, tra impegni di moda sempre più frequenti, faide con ex amici (il povero Wiz Khalifa ne sa qualcosa) e presunti debiti per 53 milioni di dollari? Beh, la risposta è semplicemente debordante.

Malgrado a volte affiori confusione e scarsa coesione stilistica, il nuovo Kanye West firma un altro capolavoro: accanto a brani modesti come Feedback, Silver Surfer Intermission, il freestyle I Love Kanye e FML, troviamo infatti capolavori straordinari come Famous, Wolves e Ultralight Beam, il brano più gospel del CD; ma anche Real Friends e Waves sono davvero notevoli.

Insomma, se possiamo serenamente dire che “The Life Of Pablo” non è il miglior LP della discografia di West, possiamo senz’altro affermare che rientra nei primi 10 album hip hop del decennio. Ultima riflessione: dove lo trovate un altro artista che riesce a radunare ospiti come Kendrick Lamar, Rihanna, The Weeknd e Frank Ocean nello stesso CD?

Voto finale: 8,5.

The Life Of Pablo

Animal Collective, “Painting With”

Il Collettivo Animale è ormai giunto al decimo lavoro: un momento della carriera propizio per cadute e fiaschi di ogni genere. Ebbene, niente di ciò vale per gli Animal Collective: la loro eccentricità continua ad affascinare e, anzi, “Painting With” migliora il precedente “Centipede Hz” (2012), che era per contro troppo sovraccarico di influenze per piacere davvero.

“Painting With” si caratterizza per canzoni più brevi rispetto a molte, alcune davvero meravigliose, della band di Baltimora: in questo senso, la mancanza di Deakin (uno dei membri fondatori) si fa sentire. Nessuna Banshee Beat o Brother Sport, tanto per intenderci; al contrario, abbiamo dodici pezzi diretti e veloci, nessuno davvero brutto (ma neanche capolavori, a dire la verità).

Infatti, non sono male FloriDada e Golden Gal, che si rifanno alle atmosfere di “Merriweather Post Pavilion” (2009), miglior CD della carriera degli AC; meno riuscita Lying In The Grass, troppo elettronica. In generale, colpisce la voglia di sperimentare ancora del terzetto americano, con Panda Bear e Avey Tare (nomi d’arte di Noah Lennox e Dave Portner) ancora sugli scudi, creativamente parlando. Non il miglior LP dell’anno, ma di certo godibile e interessante: al decimo CD potevamo sperare di meglio?

Voto finale: 7,5.

Painting With

Massive Attack, “Ritual Spirit”

I Massive Attack sembrano finalmente pronti a tornare con un nuovo album di inediti, sei anni dopo il buon “Heligoland”. Il breve EP “Ritual Spirit”, composto da sole quattro canzoni, marca un altro bello step nella carriera del collettivo di Bristol. Le atmosfere sono sempre coinvolgenti, nessuna delle quattro tracce è fuori contesto (solo Voodoo In My Blood è leggermente più debole delle altre). Colpiscono positivamente Dead Editors, quasi rap nelle strofe e con base molto cupa, e Take It There, che segna il ritorno nella band britannica di Tricky, uno dei pionieri del trip-hop.

Insomma, posto che è solamente un EP, “Ritual Spirit” è apprezzabile sotto ogni punto di vista. Aspettiamo fiduciosi qualcosa di più corposo per vedere se i Massive Attack hanno fatto bene a produrre nuova musica oppure no. Non possiamo che essere fiduciosi.

Voto finale: 7.

Ritual Spirit

Gli album più attesi del 2016

Il 2015 si sta ormai avvicinando alla fine; un anno, musicalmente parlando, davvero pieno di gradite sorprese e conferme, in ogni genere (dal punk all’elettronica, passando per hip hop e rock). Sarà in grado il 2016 di non farci rimpiangere questa annata così trionfale per la musica? Analizziamo insieme gli album più attesi per l’anno prossimo venturo e vediamo quali sono gli artisti che (auspicabilmente) ci regaleranno dei CD di qualità nel 2016.

Ci sono già molti che hanno annunciato la data di uscita del loro prossimo CD: per esempio David Bowie, il quale rilascerà l’attesissimo “Blackstar” in data 8 gennaio; oppure gli statunitensi Animal Collective, gruppo fondamentale per il movimento folk/psichedelico di inizio anni 2000, che pubblicheranno “Painting With” il 19 febbraio. Gennaio tuttavia non si esaurirà nel ritorno del Duca Bianco. Il 22 gennaio sarà infatti il turno dei veterani Suede e di Tricky, ex alfiere dei Massive Attack e ora solista: i titoli sono rispettivamente “Night Thoughts” e “Skilled Mechanics”.

L’indie rock ritroverà poi i Bloc Party (anche se privi di due elementi fondamentali come Matt Tong e Gordon Moakes) il 29 gennaio, mentre il 5 febbraio Sir Elton John ci regalerà un altro lavoro di inediti: una gradita notizia per gli amanti delle ballate strappalacrime!

Senza dubbio però sono altri i cantanti che più allettano la fantasia del pubblico, quelli che “dovrebbero pubblicare qualcosa, ma non si sa mai…”. Il primo nome che viene in mente è quello di Frank Ocean: dopo il bellissimo “Channel Orange” del 2012 ripetersi sarà difficile, ma il talento dimostrato ci fa ben sperare. Altri due grandi interpreti della black music contemporanea che sembrano pronti a regalarci un nuovo LP sono Kanye West e Drake: dopo il capolavoro di Kendrick Lamar di quest’anno,“To Pimp A Butterfly”, la palma di miglior artista hip hop in circolazione è più contesa che mai.

Per quanto riguarda il mondo dell’indie, vi sono molti artisti attesi al varco, ovvero alla prova della maturità o della definitiva consacrazione: parliamo di pezzi da 90 come Arcade Fire, Arctic Monkeys e xx. Tre artisti molto significativi e molto amati dal pubblico: il rischio flop è sempre in agguato, ma ci hanno abituato così bene che mi sentirei di dire che non ci deluderanno neanche questa volta. I Killers sono invece obbligati a riscattarsi dopo “Battle Born”, che si era rivelato essere ben al di sotto delle aspettative: solo un episodio in una carriera fino a quel momento di buona qualità o un segnale che qualcosa si è rotto nella band originaria di Las Vegas?

Capitolo a parte merita Damon Albarn: il poliedrico artista britannico, dopo il lavoro solista del 2014 “Everyday Robots” e il grande ritorno dei Blur di quest’anno con “The Magic Whip”, ha promesso di resuscitare altre due sue creature: i Gorillaz (il cui ultimo lavoro risale al 2011) e i The Good, The Bad & The Queen, che invece hanno all’attivo un solo album, targato 2007. Insomma, si prospetta un 2016 impegnativo per l’ex esponente del britpop, ormai assurto a cantante versatile e dotato in pressoché ogni genere.

Abbiamo infine l’insieme dei “desaparecidos”: gruppi di cui si erano perse le tracce da anni, ma che nel 2016 sembra possano finalmente tornare alla ribalta. I più rappresentativi sono senza dubbio i Radiohead: la band inglese, ormai completamente indipendente da concetti come “genere musicale” o “etichette discografiche”, dopo il misterioso “King Of Limbs” del 2011 è pronta a tornare insieme dopo i numerosi progetti solisti perseguiti dai membri della band (soprattutto Thom Yorke e Jonni Greenwood). Abbiamo poi M83 e Fleet Foxes, anche loro inattivi dal 2011 (se si eccettua il fatto che gli M83 hanno scritto la colonna sonora del film “Oblivion”): speriamo davvero che la elettronica potente degli M83 e il folk dolce dei Fleet Foxes possa tornare agli antichi fasti. Non dimentichiamoci poi di Bon Iver, il progetto del geniale Justin Vernon: la speranza di avere un seguito all’eccellente “Bon Iver, Bon Iver” di quattro anni fa è flebile, ma insomma sperare non costa nulla no?

Insomma, le premesse per avere un ottimo 2016 ci sono tutte: auguriamoci davvero che tutti questi artisti riescano a esaudire questo nostro desiderio e ci regalino momenti di ottima musica. Abbiamo già avuto un mediocre 2014: speriamo che anni così fiacchi musicalmente non si ripetano nell’arco di un decennio!