I 50 migliori album del 2022 (50-26)

Il 2022 è stato davvero un anno ricco di buona musica. Abbiamo avuto prove di forza da parte di artisti che sono nel gotha del pop (Beyoncé, Taylor Swift, The Weeknd), altri autori e band avevano così tante cose da dire che hanno pubblicato più di un CD (Jack White, Nas, King Gizzard & The Lizard Wizard)… Altri ancora invece hanno preferito pubblicare album doppi che riassumono in modo impeccabile la loro estetica (Big Thief, Beach House). Infine, abbiamo visto emergere artisti di grande talento (Jockstrap, Chat Pile) e altri hanno confermato quanto di buono si dice da loro da anni (Arctic Monkeys, The 1975, Charli XCX).

Insomma, è proprio arrivato il momento di riassumere in due puntate, come di consueto, i 50 migliori album dell’anno. Buona lettura!

50) Nas, “Magic” / “King’s Disease III”

(HIP HOP)

Arrivato la Vigilia di Natale 2021 sui servizi di streaming e sugli scaffali dei negozi di musica, “Magic” lo trova in buona forma, non lontano dai suoi migliori momenti.

Nas è un nome sempre controverso nel mondo hip hop: capace di capolavori come “Illmatic” (1994) così come di flop colossali come “Nastradamus” (1999), negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sorta di sua rinascita artistica, soprattutto a partire da “King’s Disease” (2020). Assistito ancora da Hit-Boy e con ospiti di spessore come A$AP Rocky e DJ Premier, entrambi in Wave Gods, i 29 minuti di durata del CD passano facilmente e aiutano il replay value. L’essere retro nelle sonorità è solo un fattore tra tanti, per alcuni anzi potrebbe anche essere un valore aggiunto.

Liricamente, Nas si conferma rapper capace di scrivere versi feroci (“I’m tellin’ it like it is, you gotta deal with the consequence”, in Speechless) e nostalgico (in Dedicated cita il film Carlito’s Way e Mike Tyson, icone degli anni ‘90), arrogante (“Only thing undefeated is time, the second is the internet, number three is this rhyme”, sempre in Speechless) e dubbioso della capacità di mantenere la fedeltà per molto tempo (“One girl for the rest of your life, is that realistic?”, chiede retoricamente in Wu For The Children). I brani migliori sono Dedicated e Speechless, sotto la media invece The Truth.

In generale, “Magic” conferma una volta in più che, quando Nas è concentrato e senza grilli per la testa, è capace di produrre CD davvero riusciti. Questo, purtroppo per lui e la sua eredità artistica, non è sempre stato il caso, soprattutto nella parte centrale della sua carriera.

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

49) Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

(ROCK)

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

48) Steve Lacy, “Gemini Rights”

(R&B – SOUL)

Il secondo album vero e proprio a firma Steve Lacy (anche parte del collettivo The Internet) è un ottimo CD di neo-soul e R&B. Nulla di innovativo su questi fronti, sia chiaro, ma Lacy si dimostra in grado di brillare anche da solista, dopo fruttuose collaborazioni in passato con Vampire Weekend e Solange Knowles, tra gli altri.

L’esordio “Apollo XXI” (2019) non era un cattivo LP, piuttosto mancava di cura nei particolari e, pertanto, era stato schifato dai critici più pignoli. “Gemini Rights”, da questo punto di vista, è un netto miglioramento, dovuto anche al fatto che questa volta Steve ha registrato il lavoro in uno studio vero e proprio e non, come in passato, attraverso il proprio cellulare o laptop.

La prima parte di “Gemini Rights” è formata da possibili hit: da Mercury a Bad Habit, passando per Buttons, abbiamo alcune tra le più belle canzoni a firma Steve Lacy. Nella parte centrale invece il lavoro perde vigore: ad esempio, il falsetto di Amber era ampiamente evitabile. Buona invece Sunshine, grazie anche alla collaborazione di Foushée.

Anche liricamente il Nostro dimostra una maturità nel parlare dei propri sentimenti che in passato non avevamo colto. Molto del CD ruota accanto ad una rottura sentimentale recentemente patita da Lacy: ad esempio, in Static canta “If you had to stunt your shining for your lover, dump that fucker”, mentre Mercury contiene il seguente verso: “Oh, I know myself, my skin, rolling stones don’t crawl back in”. Helmet possiede il momento più evocativo dell’intero CD: “I tried to play pretend (oh-oh), tried not to see the end (ah-ah), but I couldn’t see you the way you saw me. Now I can feel the waste on me”.

In conclusione, “Gemini Rights” è un buonissimo LP estivo: canzoni leggere, a metà tra soul e R&B, con tocchi funk, che sono ascoltabili tanto in spiaggia quanto nelle feste tra amici. Nulla di radicale, insomma, ma Steve Lacy ha finalmente dato sfoggio del suo talento. Tuttavia, siamo convinti che possa fare ancora meglio: aspettiamo con trepidazione il suo prossimo lavoro.

47) Let’s Eat Grandma, “Two Ribbons”

(POP)

Giunte al terzo album, le due cantautrici inglesi Jenny Hollingworth e Rosa Walton, in arte Let’s Eat Grandma, mantengono lo stile pop alternativo che contraddistingueva “I’m All Ears” (2018), l’album che aveva messo la band sulla bocca di molti. Non tutto funziona a meraviglia, ma la maturità con cui Hollingworth e Walton affrontano temi difficili come la morte prematura di una persona cara e le prime crepe nella loro amicizia ne fa consigliare l’ascolto.

Il primo fatto che balza all’occhio è la concisione del CD: dieci brani, di cui due intermezzi, per 38 minuti complessivi, potrebbero essere considerati da molti fan delle Let’s Eat Grandma non abbastanza, dopo ben quattro anni di assenza. Tuttavia, la coesione del lavoro e la bellezza di pezzi come Hall Of Mirrors e la frizzante Happy New Year sono punti a favore di “Two Ribbons”.

Dicevamo che il lavoro affronta tematiche delicate: Jenny Hollingworth ha visto morire il giovanissimo fidanzato a causa di una rara forma di tumore. Inoltre, Jenny e Rosa si sono progressivamente allontanate durante il tour a supporto del precedente CD “I’m All Ears” e hanno composto le canzoni individualmente per la prima volta nella loro carriera. Non parliamo quindi di un “ordinary pain”, come viene cantato amaramente in Insect Loop; altrove abbiamo immagini di pioggia che cade mentre si è in sala d’attesa all’aeroporto (Hall Of Mirrors) e viaggi lunghi ed epici, coronati dalla spiacevole sensazione di non stare bene con il compagno di viaggio (Sunday).

In conclusione, “Two Ribbons” è un CD importante nella carriera delle Let’s Eat Grandma: Jenny Hollingworth e Rosa Walton sono ormai mature, ma hanno passato delle tragedie che le hanno radicalmente cambiate, tanto da mettere a rischio il futuro della band. Vedremo i prossimi anni dove le condurranno; di certo questo non è un cattivo lavoro. Forse è inferiore a “I’m All Ears”, ma il talento di Jenny e Rosa è indiscutibile.

46) ROSALÍA, “MOTOMAMI”

(POP)

Il terzo disco della cantante spagnola amplia notevolmente i suoi orizzonti: art pop, hip hop… ormai nulla è estraneo all’estetica di ROSALÍA. “MOTOMAMI” non è un album immacolato, ma contiene alcuni dei pezzi più futuristi ascoltati negli ultimi anni.

La giovane artista si era fatta conoscere con “EL MAL QUERER”, nel 2018: un CD che aveva catapultato ROSALÍA nell’Olimpo pop, con una radicale innovazione della musica spagnola più classica, quella con base flamenco, che l’aveva fatta amare tanto dal pubblico quanto dalla critica, prova ne sia il successo di MALAMENTE. “MOTOMAMI” è una creatura diversa: più sperimentale, meno coeso, ma non meno ammaliante. Le 16 canzoni che compongono il CD vanno dal minuto scarso di durata (la title track) ad oltre quattro minuti; affrontano temi leggeri con ironia (CHICKEN TERIYAKI, HENTAI) così come i problemi che la fama ha portato sulla psiche di ROSALÍA (LA FAMA, con The Weeknd).

Le canzoni migliori sono anche le più imprevedibili: SAOKO, BULERÍAS e G3 N15 sono pezzi davvero mozzafiato. Menzione poi per la magnifica voce della Nostra, valore aggiunto lungo l’intero LP. Inferiori sono invece gli intermezzi di breve durata, che alla lunga tolgono linfa al lavoro: MOTOMAMI e Abcdefg ne sono chiari esempi. In generale, la varietà di stili può risultare alienante, ma una domanda ci viene spontanea: quante possono passare indifferentemente dal reggaeton all’hip hop al pop senza perdere un briciolo della loro qualità compositiva?

In generale, “MOTOMAMI” conferma tutto il bene che si diceva di ROSALÍA: ambizioso, basato su temi ed esperienze non facili da assimilare ma capace di slanci pop da Top 40 di Billboard. È un CD perfetto? No, però il futuro della musica pop passa anche da qui.

45) Alex G, “God Save The Animals”

(ROCK)

Il decimo disco di inediti di Alex Giannascoli, tornato a chiamarsi Alex G dopo la breve parentesi col nickname (Sandy) Alex G, prosegue nel solco tracciato dai suoi CD più recenti, vale a dire “Rocket” (2017) e “House Of Sugar” (2019): un indie rock eccentrico, spesso virato sul folk à la Animal Collective (S.D.O.S). I risultati forse non raggiungono le vette dei suoi migliori lavori, ma “God Save The Animals” resta un buon disco indie.

Il titolo del CD può far pensare ad un inno ambientalista, forse contenente riferimenti al sacro. In realtà, come Alex ci ha abituato, “God Save The Animals” ha solo in parte gli animali e la natura al centro del palcoscenico. Troviamo infatti riferimenti più personali, ad esempio in Cross The Sea (“You can believe in me”) e in Ain’t It Easy (“Now you sit with me, I keep you safe”).

Le canzoni, dal canto loro, sono infarcite, spesso anche eccessivamente, di autotune: Alex Giannascoli non si era mai distinto per un uso di questo strumento, ma nel corso di “God Save The Animals” l’autotune diventa la maggiore innovazione nella palette sonora utilizzata dal Nostro. Si ascoltino ad esempio Cross The Sea e la danzereccia No Bitterness. I migliori pezzi sono Runner e Ain’t It Easy, mentre sotto la media restano S.D.O.S e Headroom Piano.

In conclusione, “God Save The Animals” conferma la fama di autore misterioso guadagnata da Alex G lungo una carriera accidentata e prolifica: i testi rimangono criptici, le melodie sguazzano nell’indie per poi virare improvvisamente verso folk ed elettronica… insomma, il lavoro non brilla per coerenza, ma prosegue con successo una carriera sempre più interessante.

44) Sorry, “Anywhere But Here”

(ROCK)

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

43) Pusha T, “It’s Almost Dry”

(HIP HOP)

Il quarto album solista di Pusha T non aggiunge nulla ad un’estetica ormai ben conosciuta: rime dure, basi potenti, testi molto gangsta rap, ospiti scelti con cura. “It’s Almost Dry”, in questo senso, può essere una delusione per coloro che cercano un disco rap avventuroso e sperimentale; ma, del resto, chi ascolta King Push con queste idee in testa al giorno d’oggi?

Il CD segue “Daytona” (2018), da molti riconosciuto come il miglior lavoro a firma Pusha T dai tempi dei Clipse, il duo formato col fratello No Malice con cui si è fatto conoscere nei primi anni ’00. Le sette canzoni, prodotte da Kanye West, erano tanto dure quanto irresistibili; in questo “It’s Almost Dry” è più variegato, potendo contare anche sulla collaborazione di Pharrell Williams, JAY-Z e Kid Cudi tra gli altri, oltre all’amico Kanye.

I risultati, pur leggermente inferiori, sono comunque buoni e paragonabili a “Daytona”, specialmente nei momenti migliori: ad esempio la doppietta iniziale formata da Brambleton e Let The Smokers Shine The Coupes, così come Diet Coke e Neck & Wrist, sono tracce di ottima fattura. Invece inferiori alla media Rock N Roll e Scrape It Off, ma complessivamente i 35 minuti di “It’s Almost Dry” scorrono bene e il CD mostra una coesione e una compattezza non facili da trovare in molti lavori hip hop recenti.

Liricamente, prima accennavamo al fatto che Pusha T sa essere tanto sincero quanto feroce nelle sue canzoni: molti ricorderanno il suo diss con Drake, concluso con la stratosferica The Story Of Adidon. Ebbene, in “It’s Almost Dry” il bersaglio del Nostro è l’ex manager dei Clipse, Anthony Gonzalez, che è stato condannato a otto anni in carcere per aver gestito un cartello della droga da 20 milioni di dollari. In un’intervista del 2020 Gonzalez dichiarò: “il 95% dei brani dei Clipse parlavano della mia vita”. A tal proposito, il verso più potente è racchiuso in Let The Smokers Shine The Coupes: “If I never sold dope for you, then you’re 95 percent of who?”.

In generale, pertanto, “It’s Almost Dry” è un buon CD hip hop vecchio stampo. Il 44enne Pusha T dimostra ancora una volta la propria, pregiata stoffa: non staremo parlando del suo miglior lavoro, ma certamente questo disco merita almeno un ascolto.

42) Earl Sweatshirt, “SICK!”

(HIP HOP)

Il nuovo CD del rapper più misterioso uscito da quella covata di ragazzi prodigi che era la Odd Future apre un nuovo, interessante capitolo nella sua già brillante carriera. Se “Some Rap Songs” (2018) rappresentava il compimento di quel rap jazzato e astratto che aveva contraddistinto la produzione della sua gioventù, “SICK!” è quasi trap nel suo incedere.

Due eventi hanno grande peso nell’economia del lavoro: la pandemia in cui siamo coinvolti da ormai quasi tre anni e la recente nascita del primo figlio di Earl. Se “Feet Of Clay”, il breve EP del 2019, era la chiusura ideale del ciclo di “Some Rap Songs”, il Nostro ha rivelato che prima di pubblicare “SICK!” aveva in mente di dare alla luce un LP di ben 19 canzoni, che però suonavano troppo ottimiste e sono state scartate in favore dei beat più sghembi e jazzati di questo lavoro.

Decisione probabilmente corretta: Sweatshirt dà il meglio sulla breve distanza, come già dimostrato in passato. I 24 minuti del CD scorrono bene, anche grazie a ospiti di spessore come Armand Hammer, il duo formato dai rapper ELUCID e billy woods (presenti in Tabula Rasa), Zelooperz (Vision) e The Alchemist (Lye). I pezzi migliori sono 2010 e Tabula Rasa, leggermente sotto la media la troppo breve Old Friend. Da sottolineare infine la melodia alla base della sognante Vision.

Se un tempo Earl era un maestro delle canzoni potenti, con testi scarni e ironia a piene mani, in “SICK!” notiamo una figura più matura emergere dalle sue canzoni. Le considerazioni sul suo passato sono presenti un po’ ovunque, ma non con la voglia di sfida e rivincita che caratterizzava la sua gioventù. Da notare, a chiusura di Fire In The Hole, queste parole, originariamente pronunciate dal grande Fela Kuti: “As far as Africa is concerned, music cannot be for enjoyment. Music has to be for revolution. Music is the weapon”. In 2010 abbiamo acute considerazioni sulla sua infanzia così come sul futuro prossimo (“We got us a fire to rekindle”), mentre in Old Friend sembra un soldato in guerra: “I came from out the thicket smiling… Link up for some feasible methods to free yourself”.

Earl Sweatshirt si conferma nome imprescindibile per la scena hip hop più sperimentale: le sue canzoni fulminanti ma non trascurate sono piccoli miracoli di ottimo artigianato. Pur non essendo il suo miglior lavoro, “SICK!” apre nuove prospettive in una carriera già piuttosto peculiare.

41) Arcade Fire, “WE”

(ROCK)

Registrato durante la pandemia ed erede del più controverso CD della loro produzione, gli Arcade Fire con “WE” hanno voluto riprendersi l’appellativo di “band migliore del mondo”, che fino al 2017 era spesso associato al loro nome. Ci sono riusciti? Senza dubbio il lavoro è decisamente migliore di “Everything Now” (2017), ma non raggiunge la perfezione di “Funeral” (2004), il fulminante esordio del complesso canadese.

Il CD è diviso in due parti: la prima, “I”, è focalizzata sull’isolamento a cui il Covid ci ha costretto nel corso degli ultimi anni; la seconda, “WE”, che dà il titolo al lavoro, ci riporta invece a sensazioni migliori, di comunità, che purtroppo sono state spesso perdute negli ultimi tempi. Gli Arcade Fire hanno sempre mirato a sentimenti universali, che si trattasse del dramma di perdere i propri cari (“Funeral”) oppure di ripercorrere la propria infanzia di ragazzi di periferia (“The Suburbs” del 2010): anche questa volta, come vediamo, mirano molto in alto.

Bersaglio centrato? Solo in parte. Musicalmente, i canadesi provano a tornare all’indie rock pieno di pathos dei loro esordi, abbandonando i ritmi caraibici e disco visti in “Reflektor” (2013) e il pop da classifica di “Everything Now”. Effetto nostalgia assicurato, ma quando si hanno canzoni belle come Age Of Anxiety I e The Lightning II tutto funziona. Ottima pure la più raccolta Unconditional Love I (Lookout Kid). Delude invece End Of The Empire IV (Sagittarius A*). In generale, la divisione del disco in suite formate da due o più componenti aiuta la coesione complessiva: a parte l’inutile Prelude e la conclusiva title track, infatti, abbiamo Age Of Anxiety, End Of The Empire, The Lightning e Unconditional Love.

Ospitando Peter Gabriel in Unconditional II (Race And Religion) e aiutati dal produttore Nigel Godrich (storico collaboratore dei Radiohead), Win Butler e Régine Chassagne hanno pubblicato un LP gradevole, che nei suoi momenti migliori è inattaccabile. Considerando la recente dipartita dalla band del fratello di Win Butler, Will, e le alte aspettative poste in “WE” dopo il flop di “Everything Now”, probabilmente siamo di fronte al miglior risultato possibile. Sicuramente, negli Arcade Fire è rimasta ancora la voglia di creare quel forte sentimento di comunità col loro pubblico che ne contraddistingue da sempre la carriera; in tempi così grami, non è una brutta cosa.

40) Jenny Hval, “Classic Objects”

(POP)

Il CD dell’artista norvegese rappresenta una gradita novità nella sua estetica. Conosciuta un tempo per le sue composizioni ermetiche, spesso indecifrabili, Jenny Hval si è via via aperta ad influenze art pop, sulla scia di Björk e Kate Bush. Se il precedente LP a suo nome “The Practice Of Love” (2019) aveva solo accennato questa nuova direzione, “Classic Objects” la porta a compimento e si afferma come uno dei migliori lavori pop dell’anno.

Le otto tracce dell’album superano tutte i quattro minuti di lunghezza, eccetto Freedom, peraltro il pezzo più debole del lotto. Non per questo, però, i 42 minuti di “Classic Objects” sono monotoni: anzi, pezzi come American Coffee e Cemetery Of Splendour sarebbero brani eccellenti per qualsiasi artista. La vocalità di Jenny, poi, è parte integrante del successo del lavoro.

In generale, liricamente assistiamo invece ad una conferma dei temi cari alla norvegese: la carnalità e l’importanza della sostanza sulla forma (“And I am holding a disco flashlight, it is meant to make the audience feel like multitudes of colors that belong to nobody in particular, that they share between their bodies”, il bel verso di Year Of Love), la ricerca sulla propria condizione interiore (“Who is she who faces her fears?” si chiede in American Coffee), la sensazione di solitudine, drammaticamente accentuata dal Covid (“I am an abandoned project”, proclama sconsolata in Jupiter).

Se la prima uscita del progetto Lost Girls, che la Nostra condivide con Håvard Volden, “Menneskekollektivet” del 2021, aveva fatto pensare al ritorno della Jenny Hval più sperimentale, “Classic Objects” rappresenta in realtà un notevole passo avanti nella carriera della cantautrice norvegese in direzione di una crescente accessibilità. Ad oggi, è il suo miglior lavoro.

39) Charli XCX, “CRASH”

(POP)

“CRASH” viene dopo “how i’m feeling now” (2020), l’album inciso da Charli XCX durante il lockdown pandemico, che ne aveva fatto intravedere il lato più intimo, nascosto in passato dalle melodie pop che ne contraddistinguono l’estetica. “CRASH” è un CD decisamente più ballabile, il primo puramente pop della cantautrice inglese, che è da sempre portavoce dell’hyperpop. I risultati sono generalmente ottimi e fanno presagire un futuro radioso per la Nostra.

I singoli che hanno anticipato la pubblicazione dell’LP hanno dato fin da subito l’idea di una svolta per Charlotte Aitchison: Good Ones è un inno pop pieno di rimpianti per le passate storie d’amore vissute dall’inglese, New Shapes conta sulla collaborazione di Christine And The Queens e Caroline Polachek (ex Chairlift) ed è un highlight immediato del disco. Abbiamo poi Beg For You, in cui Charli duetta con Rina Sawayama, e la più raccolta Every Rule (prodotta da A.G. Cook e Daniel Lopatin), unica vera ballata di “CRASH”. Altrove nel disco abbiamo un ritorno al passato, ad esempio in Constant Repeat (bubblegum bass al suo meglio) e Yuck, quest’ultima non molto convincente.

Se qualcuno pensava che la conclusione dell’accordo stretto in giovane età con la Atlantic spingesse Charli a “sabotare” questo ultimo lavoro, date le parole  dure rivolte dalla Nostra in più occasioni per alcuni atteggiamenti dei manager dell’etichetta vissuti come un abuso nei suoi confronti, il presentimento si è rivelato decisamente sbagliato: il CD è variegato il giusto da non sembrare derivativo, la cura nello scegliere gli ospiti è al solito massima e la qualità media delle canzoni è invidiabile.

“CRASH” ha però un difetto: il livello medio delle composizioni peggiora verso la fine del lavoro (esemplare la prevedibile Used To Know Me), rendendo il risultato leggermente poco bilanciato. Tuttavia, in generale siamo di fronte ad un buonissimo lavoro pop, capace di rievocare gli anni ’80 così come di dare sfogo agli impulsi più sperimentali di Charli XCX. È il suo miglior lavoro? Difficile dirlo, sicuramente merita più di un ascolto.

38) Taylor Swift, “Midnights”

(POP)

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

37) Denzel Curry, “Melt My Eyez, See Your Future”

(HIP HOP)

Il nuovo album del rapper americano è un altro tassello di valore in una carriera sempre più interessante. Dopo un 2020 molto impegnativo, che lo ha visto pubblicare ben due mixtape, nel 2021 Curry ha pubblicato un album di remix. In generale, possiamo dire che Denzel Curry ha cambiato parzialmente il proprio stile in “Melt My Eyez, See Your Future”: meno aggressività, più attenzione alla melodia e all’introspezione. I risultati, pur diversi dal solito Denzel, sono comunque buoni.

“Melt My Eyez, See Your Future” è il successore di “ZUU” (2019), il lavoro che aveva ampliato la platea di fan del Nostro ma aveva anche rappresentato un parziale arretramento, in termini di qualità, rispetto al magnifico “TA13OO” (2018), ad oggi il suo miglior LP. Questo disco si avvicina più al lato pop del mondo hip hop, con esempi di valore come Walkin e Melt Session #1. Altrove troviamo anche brani più simili al “vecchio” Denzel Curry, come Zatoichi e Ain’t No Way, ma paradossalmente con rendimenti inferiori rispetto al passato.

Menzione poi per il parco ospiti di questo CD: “Melt My Eyez, See Your Future” è un divertimento puro per gli amanti della black music, sia della nuova generazione (slowthai, Rico Nasty, 6LACK, JID) che di quella precedente (T-Pain, Robert Glasper). I brani migliori del lotto sono le già citate Walkin e Melt Session #1, ma buona anche Angelz. Invece inferiori X-Wing e la troppo breve The Smell Of Death.

Denzel Curry è sempre stato attento anche all’aspetto testuale, dato particolare visibile nelle tracce più oscure di “TA1300” ma non solo. In “Melt My Eyez, See Your Future”, come prevedibile, l’influenza dei due anni pandemici si fa sentire: “Watching people dying got me being honest” proclama drammaticamente in The Last. Altrove emerge il senso di solitudine che tutti abbiamo percepito, più o meno spesso, in questi ultimi tempi: “Walking with my back to the sun, keep my head to the sky, me against the world, it’s me, myself and I” (Walkin). È un peccato grave, quindi, che in Zatoichi ci sia un verso inutilmente volgare come “Life is short, like a dwarf”, che rovina un po’ il quadro lirico generale.

In conclusione, non siamo di fronte ad un CD perfetto, tuttavia “Melt My Eyez, See Your Future” conferma lo status di Denzel Curry come rapper di rilievo. Senza qualche inciampo sia musicale che lirico saremmo probabilmente di fronte al suo miglior lavoro; tuttavia, anche così abbiamo un LP di assoluto valore.

36) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Omnium Gatherum” / “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”

(ROCK)

Anche nel 2022 i KG&TLW hanno fatto le cose decisamente in grande: cinque CD pubblicati rappresentano un benchmark difficilmente replicabile per qualsiasi altro artista nel panorama musicale. Ad A-Rock abbiamo scelto di privilegiare i due più riusciti: “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”.

“Omnium Gatherum”, il ventesimo album in dieci anni (sì, è proprio così) della band australiana, è, come da titolo, un coacervo di generi disparati: psichedelia (The Dripping Tap, Persistence), metal (Gaia, Predator X), funk (Ambergris), hip hop (Sadie Sorceress, The Grim Reaper)… una vera e propria odissea, che va avanti per ben 80 minuti! I risultati, come prevedibile, non sono sempre all’altezza, ma “Omnium Gatherum” resta un album godibile, il cui minutaggio non influenza eccessivamente il prodotto finale.

L’intera prima facciata del vinile di “Omnium Gatherum” (traducibile dal latino come “il contenitore che raccoglie tutto”) è occupata da The Dripping Tap: un inno ambientalista di stampo psichedelico di ben 18 minuti, in cui tutta la band dà il meglio e che è, a tutti gli effetti, uno dei migliori brani mai scritti dai King Gizzard & The Lizard Wizard. Il CD però, come già detto, non segue la traiettoria tracciata da The Dripping Tap: se è vero che le seguenti, ottime Magenta Mountain e Kepler-22b sono psichedeliche al punto giusto, abbiamo poi un potente pezzo thrash metal come Gaia e, da lì in poi, suona una sorta di liberi tutti per gli australiani.

I brani migliori sono le già citate The Dripping Tap e Magenta Mountain, buone anche Kepler-22b e Presumptuous, mentre deludono The Garden Goblin e Blame It On The Weather. In molte canzoni fanno capolino le istanze ambientaliste tipiche del complesso aussie, ad esempio Evilest Man se la prende con l’australiano che maggiormente inquina il mondo, vale a dire Rupert Murdoch. Invece Ambergris è narrata dalla prospettiva di una balena che preferisce essere arpionata piuttosto che nuotare negli oceani inquinati che la circondano.

D’altro canto, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

In generale, il gruppo australiano ha chiaramente fatto piazza pulita dei propri archivi nel corso del 2022, che resta quindi una summa di quanto i King Gizzard & The Lizard Wizard sanno fare meglio: rock and roll senza freni, sperimentando qualsiasi ritmo e sound di loro gusto. Non staremo parlando di album che hanno fatto la storia della musica come “London Calling” oppure “Sign O’ The Times”, ma “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” restano due dei migliori LP rock del 2022.

35) Yeah Yeah Yeahs, “Cool It Down”

(ROCK)

Il primo CD in nove anni per la storica band newyorkese, una delle più autorevoli ad emergere nei primi anni ’00, è una ventata di aria fresca in una carriera che pareva aver dato il meglio. “Mosquito” (2013), l’ultimo album di inediti prima di “Cool It Down”, è visto infatti da molti come il peggiore della loro produzione; è un piacere che “Cool It Down” riesca dal canto suo a rinverdire i fasti del complesso capeggiato da Karen O.

I due singoli di lancio del lavoro erano del resto davvero invitanti: sia Spitting Off The Edge Of The World (che vanta la collaborazione di Perfume Genius) che Burning sono infatti ottimi pezzi indie rock, il primo reminiscente dei migliori M83 e il secondo invece dell’indie di inizio millennio. Non tutto gira a meraviglia nel CD nel suo complesso, ma i 32 minuti di “Cool It Down” scorrono piacevolmente, rendendolo imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

La prima parte dell’album è pressoché impeccabile: oltre alle già citate Spitting Off The Edge Of The World e Burning, le due tracce Wolf e Fleez, tra le più danzerecce del lotto, fanno il loro lavoro e rendono il CD dinamico e variegato. I problemi cominciano con Different Today, in cui la cantante degli Yeah Yeah Yeahs Karen O si limita a ripetere il titolo senza molto costrutto. Peccato poi per la conclusiva Mars, quasi troncata, che fa terminare il lavoro in modo non soddisfacente.

Questi difetti non sono, tuttavia, dirimenti per il giudizio complessivo su “Cool It Down”. Il CD ristabilisce gli Yeah Yeah Yeahs tra gli alfieri dell’indie rock, dopo anni in cui davamo la band per morta. Karen O e compagni non saranno al top della forma, per esempio ai livelli dell’esordio “Fever To Tell” (2003) o di “It’s Blitz” (2009), però “Cool It Down” è a pieno titolo un buon rientro nella scena musicale.

34) Florence + The Machine, “Dance Fever”

(POP – ROCK)

Il quinto lavoro del progetto Florence + The Machine, “Dance Fever”, è un album pandemico sui generis: non riguarda infatti le conseguenze che il lockdown ha avuto sulla psiche di Florence Welch, o almeno non solo, quanto piuttosto quel senso di liberazione che pervade l’essere umano alla fine di grandi piaghe e tragedie del passato.

Il titolo prende direttamente spunto dal tarantismo (anche noto come “ballo di San Vito”), un morbo medievale che spingeva le persone a danzare sfrenatamente fino allo sfinimento o, nei casi più estremi, alla morte. Florence dedica quindi questo CD ad una malattia, che però sa quasi di libertà dalle restrizioni imposte dal Covid. Non sempre però le parti migliori del lavoro sono quelle più danzerecce.

“Dance Fever” era stato anticipato da alcuni singoli di grandissima qualità: King, Free e My Love sono tra le migliori canzoni recenti del gruppo inglese, trascinanti al punto giusto e curate nei minimi particolari, anche grazie alla produzione di Jack Antonoff. Solo Heaven Is Here deludeva le attese e rimane anche col CD completo uno dei momenti più deboli del lotto. Buona invece Choreomania, invece evitabile Daffodil.

Anche dal punto di vista testuale Florence e co. si dimostrano pieni di sorprese: abbiamo infatti l’inno femminista King, con il potente verso “I am no mother, I am no bride… I am king”. Altrove invece emergono pensieri più drammatici: “Every song I wrote became an escape rope tied around my neck to pull me up to heaven” (Heaven Is Here). Abbiamo infine il tema dell’amore che fa capolino in Girls Against God: “What a thing to admit, but when someone looks at me with real love, I don’t like it very much”.

In generale, comunque, “Dance Fever” sa di ripartenza per Welch: tanto più che è preceduto da un LP non all’altezza dei precedenti a firma Florence + The Machine come “High As Hope” (2018) e da incertezze su come proseguire il proprio percorso artistico. Potremmo anzi spingerci a dire che sia uno dei migliori dischi pubblicati da Florence Welch, ai livelli dell’ottimo esordio “Lungs” (2009). Peccato solo per alcuni episodi a centro disco che lasciano a desiderare, come Back In Town e la troppo breve Prayer Factory, abbassando la media complessiva, ma i risultati sono comunque più che buoni.

In conclusione, “Dance Fever” è uno dei migliori CD pop rock dell’anno: Florence + The Machine si conferma nome irrinunciabile della scena europea. Parlare così bene di una band con ormai quasi quindici anni di carriera alle spalle vuol dire una cosa sola: il talento è notevole e la voglia di mettersi in gioco, anche liricamente, sempre presente.

33) Father John Misty, “Chloë And The Next 20th Century”

(ROCK – POP)

Il quinto CD di Josh Tillman firmato con il nome d’arte di Father John Misty è una reinvenzione radicale: il cantautore folk-rock sbruffone e logorroico che abbiamo imparato a conoscere e amare (oppure disprezzare) negli scorsi anni in CD come “I Love You, Honeybear” (2015) e “Pure Comedy” (2017) lascia il posto ad un narratore che fa degli anni ’50 il suo riferimento. Siamo in piena atmosfera golden age hollywoodiana: big band, swing e jazz sono i tre generi che, inaspettatamente, spesso affiorano nel corso di “Chloë And The Next 20th Century”, si senta Chloë a riguardo per un assaggio.

Ci eravamo lasciati con “God’s Favourite Customer” (2018), un CD più semplice del passato e pensavamo che la parabola di FJM sarebbe proseguita sulla stessa traiettoria; invece, “Chloë And The Next 20th Century” apre prospettive nuovissime per Tillman. Già il titolo è un tuffo nel passato: cosa intende Tillman con la menzione del ventesimo secolo? In realtà, studiando attentamente i testi e immergendosi nelle atmosfere oniriche del CD, il riferimento è più chiaro. Il futuro, secondo Father John Misty, non esiste; anzi, meglio non pensarci, visto il drammatico momento storico che stiamo vivendo… quasi come se fossimo ancora nel XX secolo, quello delle due guerre mondiali e di svariate altre tragedie.

La Chloë citata spesso nel corso del lavoro è, in fondo, solo uno dei tanti personaggi dissoluti che abitano le undici canzoni che formano “Chloë And The Next 20th Century”: una starlet del mondo cinematografico, il cui partner precedente è tragicamente deceduto. Ben sei morti arrivano nel corso del CD, di cui una, la più toccante, è quella del gatto del narratore, oggetto della bellissima Goodbye Mr Blue.

Se abbiamo highlights come la citata Goodbye Mr Blue, Funny Girl e Q4, non tutto il resto dell’album gira a meraviglia: ad esempio, Kiss Me (I Loved You) e We Could Be Strangers sono inferiori alla media dei componimenti del lavoro. Tuttavia, l’ambizione di Father John Misty, completamente calato in questa nuova surreale atmosfera, rende anche questi momenti in qualche modo memorabili. Menzione, infine, per Olvidado (Otro Momento), il momento bossa nova (!!) che nessuno si aspettava da Josh Tillman.

“Chloë And The Next 20th Century”, in conclusione, è il meno “tillmaniano” degli LP a firma Father John Misty. I risultati non sono perfetti, ma tengono alta la bandiera del cantautorato più ricercato e creano nuovi, inesplorati spazi per la carriera futura di uno dei più talentuosi musicisti americani della sua generazione.

32) Conway The Machine, “God Don’t Make Mistakes”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di Conway The Machine è un concentrato di ottimo gangsta rap. Spesso appoggiato da ospiti di spessore, tra cui ricordiamo Rick Ross, Lil Wayne e T.I., oltre che dalla produzione di The Alchemist, il rapper originario di Buffalo ha prodotto uno dei migliori CD hip hop del 2022.

Il risultato è possibile grazie principalmente a due fattori: basi potenti, spesso con lo sguardo puntato sul passato piuttosto che sulle ultime tendenze musicali; e testi candidi, che aprono prospettive sulle molte tragedie affrontate da Conway nel corso di una vita davvero difficile, caratterizzata da crimine, abuso di droghe e morti di persone a lui vicine.

Prova ne sia Guilty, che contiene il seguente, scioccante verso: “No feeling in my legs, I took a bullet in the head, nigga”; invece Stressed contiene parole più desolate e pessimiste: “Life is ‘bout trials and tribulations and overcomin’ obstacles, but I’m tired of shit I’m facin’”. In generale, Conway si inserisce abilmente in quel filone di rap “revivalista” della scuderia Griselda, fondata dal fratello Westside Gunn, che mantiene alta la bandiera del rap East Coast: i risultati non saranno ovviamente innovativi, ma “God Don’t Make Mistakes” resta un buon CD.

In conclusione, il 2022 è stato un anno interessante per l’hip hop: se nel versante più commerciale abbiamo assistito a grandi successi di pubblico, di qualità non sempre accettabile (Drake, Jack Harlow), il lato più “conscious” ha avuto highlight come il nuovo Kendrick Lamar e Conway The Machine. “God Don’t Make Mistakes” non è un capolavoro, ma brani come Piano Love e John Woo Flick non lasciano indifferenti.

31) Sudan Archives, “Natural Brown Prom Queen”

(R&B – ELETTRONICA)

Il secondo CD dell’artista Brittney Parks, meglio nota col nome d’arte Sudan Archives, è un ottimo esempio di R&B alternativo. Brittney usa infatti basi molto elettroniche, che poco hanno a che spartire col pop, creando un insieme di composizioni coeso e, nei suoi momenti migliori, irresistibile.

La violinista e cantautrice si era fatta conoscere negli anni scorsi grazie ad EP di ottima fattura, come “Sudan Archives” (2017) e “Sink” (2018). L’esordio “Athena” del 2019 non aveva fatto altro che ribadire il grande talento della Nostra. “Natural Brown Prom Queen” rifinisce ulteriormente questo sound: va detto che, in questa nicchia di R&B, nessuna suona come lei.

Abbiamo infatti altri artisti, come Kelela e Steve Lacy, entrambi catalogabili come R&B alternativo e dotati di una propria identità, la prima più misteriosa e il secondo invece mainstream; nessuno dei due, tuttavia, suona come Sudan Archives. Merito di una continua voglia di sperimentare, con bassi potenti sempre in evidenza e canzoni polimorfe come OMG BRITT e ChevyS10, che sorprendono anche dopo ripetuti ascolti.

Anche testualmente, “Natural Brown Prom Queen” ricalca alcune tematiche care a Parks: l’empowerment (“I’m not average” ripete ossessivamente in NBPQ (Topless)), polemiche sulle differenze di trattamento tra ragazze nere e bianche (“Sometimes I think that if I was light-skinned then I would get into all the parties, win all the Grammys, make the boys happy”, sempre in NBPQ (Topless)).

Se vogliamo trovare un difetto a “Natural Brown Prom Queen”, è l’eccessiva lunghezza: alcune canzoni, soprattutto verso il finale (Flue, Homesick (Gorgeous & Arrogant)), sono evitabili e non aggiungono nulla al CD. D’altra parte, pezzi come Home Maker e Selfish Soul sono highlight assoluti e rendono questo lavoro imprescindibile per gli amanti della musica nera.

In conclusione, Sudan Archives si conferma artista di grande talento: Brittney Parks è un nome ancora poco noto, ma ha tutte le carte in regola per costruirsi una più che solida fanbase.

30) SAULT, “AIR”

(SPERIMENTALE)

Il sesto album in tre anni del collettivo inglese, oltre a denotare una produttività davvero notevole, amplia drasticamente la loro palette sonora: se nel passato i SAULT erano conosciuti per un solido mix di funk, R&B e soul, con grande attenzione alla storia e cultura black in senso lato nelle loro liriche, “AIR” è un CD puramente strumentale, o quasi.

I SAULT, in effetti, flirtano con la musica classica: il lavoro pare quasi una colonna sonora per un film (ancora?) non prodotto. È un po’ come se i Coldplay componessero un LP hard rock: ok la sperimentazione e l’ambizione, ma i risultati sono accettabili?

La risposta è un convinto sì. Pur suonando davvero sorprendente a chi conosce i SAULT fin dalle loro origini, “AIR” è un bel CD, coraggioso ma non per questo eccessivamente ardito, a tratti davvero magistrale. I migliori pezzi sono Heart e la title track, mentre sotto la media è Solar, un po’ troppo tirata per le lunghe.

In generale, dunque, i SAULT si confermano tanto misteriosi quanto creativamente al top. Il misterioso gruppo inglese, capeggiato dal produttore Inflo, ha creato con “AIR” un lavoro non per tutti, ma che merita sicuramente almeno un ascolto.

29) Chat Pile, “God’s Country”

(METAL – ROCK)

I Chat Pile sono un quartetto statunitense, proveniente da uno degli Stati americani più desolati, l’Oklahoma. Tratti peculiari: terra di minatori, città abbandonate, gravi disuguaglianze… insomma, un incubo, secondo quanto descritto dalla band.

“God’s Country” è un CD potente: metal, noise rock e punk si mescolano in molte tracce, grazie ad una base strumentale sempre efficace ed aggressiva e alla voce di Raygun Busch, a volte cupissima e altre espressiva come quella del miglior Trent Reznor.

Abbiamo poi canzoni che parlano di macellerie, ma forse accennano anche alle stragi compiute con sempre maggiore frequenza (Slaughterhouse); inni di protesta contro i crescenti problemi ad avere una casa propria (Why); Pamela, infine, tratta di un padre che, nell’illusione di poter tornare con la moglie, ammazza il proprio figlio. Menzione da questo punto di vista per alcuni versi contenuti nelle tracce che compongono “God’s Country”: “All the blood, all the blood… And the fuckin’ sound, man” (Slaughterhouse); “Broken faces and jamming fingers and goddamn dust in my eyes for the rest of my life” (The Mask); e infine “It’s the sound of a fuckin’ gun, it’s the sound of your world collapsing” (Anywhere).

Insomma, un LP non per deboli di cuore, sia musicalmente che liricamente. I Chat Pile, del resto, non vogliono scrivere canzoni commerciali, malgrado pezzi come Anywhere e Pamela siano, tutto sommato, appetibili anche ad un pubblico non di nicchia. Lo scopo della band, come dichiarato in varie interviste, è in realtà quello di catturare l’ansia e la paura di vedere il mondo che si autodistrugge, a causa dell’attività umana. Menzione, infine, per la folle cavalcata finale di grimace_smoking_weed_jpeg; meno comprensibile, invece, il momento intimista di I Don’t Care If I Burn.

Il 2022 è stato, in effetti, un anno tragico sotto vari punti di vista, non ultimo quello ambientale, che ha fatto capire una volta per tutte i danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla nostra vita di tutti i giorni. “God’s Country”, pur essendo un titolo molto americano, in realtà è riferibile a molti Paesi: i Chat Pile, pur con un sound ancora da raffinare e una rabbia che terrà lontano il pubblico più mainstream, lo hanno capito e hanno composto una colonna sonora terribile, ma proprio per questo azzeccata.

28) Suede, “Autofiction”

(ROCK)

Il nuovo album dei britannici Suede, band un tempo simbolo del britpop assieme ai più noti Oasis e Blur, è un’iniezione di energia nella loro estetica: post-punk e rock alternativo fanno capolino più di una volta nel corso delle 11 canzoni che compongono “Autofiction”, rendendolo un CD tradizionale per molti, ma innovativo per i Suede. Non male, per un complesso sulla cresta dell’onda da trent’anni.

Il quarto album dopo la reunion del 2013 è uno dei migliori della loro produzione: compatto, con base ritmica in bella vista, la voce di Brett Anderson al meglio… In più mettiamoci melodie vincenti come She Still Leads Me On e 15 Again e abbiamo un quadro più che roseo. L’usuale attenzione all’estetica glam rock è affiancata, come già accennato, da generi più muscolari; sono proprio i brani più britpop, come That Boy On The Stage e Drive Myself Home, ad essere inferiori alla media. Tuttavia, i risultati restano complessivamente buoni.

I Suede si confermano quindi gruppo imprescindibile per la scena rock britannica: Anderson e compagni sono sopravvissuti a molti eventi potenzialmente devastanti nel loro passato, tra cui l’abbandono del primo chitarrista Bernard Butler negli anni ’90 e una prima spaccatura della band nei primi anni ’00. “Autofiction” è un documento di artisti al picco delle proprie capacità: forse non siamo ai livelli di “Suede” (1993) o “Dog Man Star” (1994), ma il CD resta davvero riuscito.

27) The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

(POP – ROCK)

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

26) Beyoncé, “RENAISSANCE”

(POP)

Da dove cominciamo? “RENAISSANCE” segna il ritorno della vera regina del pop degli ultimi 10 anni, se escludiamo il CD collaborativo col marito JAY-Z “Everything Is Love” (2018) e il CD-video live “Homecoming” del 2019. Queen Bey pare decisa a far rinascere in noi la voglia di ballare: il sound del disco è apertamente dance e house, con le consuete inflessioni R&B (PLASTIC OFF THE SOFA) e hip hop, soprattutto in certe basi (CHURCH GIRL).

Sia chiaro: stiamo parlando di un disco pop, ma la tracklist da 16 canzoni e 62 minuti lascia inevitabilmente spazio ad episodi più deboli (ENERGY). In generale, però, resta da ammirare la presenza di Beyoncé: la voce è ai suoi livelli migliori, la produzione immacolata, la varietà di suoni invidiabile. Non tutto gira a meraviglia, ma i risultati di “RENAISSANCE” restano impressionanti.

“Lemonade” aveva del tutto travolto la scena pop nell’ormai lontano 2016: Beyoncé aveva messo in musica il senso di tradimento patito a seguito dei numerosi flirt del marito JAY-Z, con canzoni indimenticabili come Sorry e Don’t Hurt Yourself. Da questo punto di vista, “RENAISSANCE” suona molto più rilassato: i testi spesso sono solamente degli appoggi per delle irresistibili melodie house (BREAK MY SOUL) e funk (VIRGO’S GROOVE).

Se proprio vogliamo trovare un fil rouge, è la celebrazione della black music in ogni sua espressione: dalle collaborazioni con nomi importanti come The-Game e Grace Jones, passando per nomi più oscuri come Kilo Ali e Lidell Townsell. In più, abbiamo la menzione di figure della musica underground come l’artista trans Honey Dijon, che fanno capire l’intenzione di schierarsi a favore di ogni tipo di diversità da parte di Queen Bey, già emersa nei suoi passati LP e in numerose dichiarazioni pubbliche.

I pezzi migliori sono la doppietta VIRGO’S GROOVEMOVE, piazzate a centro disco ma non per questo trascurabili; buone anche PURE/HONEY, CUFF IT e SUMMER RENAISSANCE. Invece sotto la media ENERGY e CHURCH GIRL. Menzione finale per il parco ospiti e collaboratori: oltre alle figure già citate, abbiamo superstar come Drake, Skrillex, JAY-Z e A.G. Cook del collettivo PC Music.

La conclusione? Non stiamo forse parlando del miglior lavoro a firma Beyoncé, ma “RENAISSANCE” conferma tutto il talento della popstar statunitense. Considerando che, in vari post apparsi sui suoi social a seguito della pubblicazione del lavoro, si parla di una trilogia di cui “RENAISSANCE” sarebbe il primo capitolo, la trepidazione per i nuovi lavori della regina del pop moderno è altissima.

Eccoci arrivati alla fine della prima parte dei 50 album più riusciti del 2022: chi si sarà aggiudicato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento ai prossimi giorni.

Recap: maggio 2022

Il mese di maggio 2022 è stato uno dei più impegnativi degli ultimi anni per A-Rock: numerosi album molto attesi da critica e pubblico sono stati pubblicati, spesso nello stesso weekend! Abbiamo infatti i ritorni degli Arcade Fire, di Sharon Van Etten e di Harry Styles… ma non per questo tralasceremo Florence + The Machine, Wilco e The Black Keys. Inoltre, recensiremo il primo album del nuovo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood, The Smile, e il terzo CD dei Rolling Blackouts Coastal Fever. Infine, spazio ai ritorni di Liam Gallagher, Everything Everything e Porridge Radio. Buona lettura!

The Smile, “A Light For Attracting Attention”

a light for attracting attention

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti migliori.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

Voto finale: 8,5.

Everything Everything, “Raw Data Feel”

Raw Data Feel

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

Voto finale: 8.

Arcade Fire, “WE”

we

Registrato durante la pandemia ed erede del più controverso CD della loro produzione, gli Arcade Fire con “WE” hanno voluto riprendersi l’appellativo di “band migliore del mondo”, che fino al 2017 era spesso associato al loro nome. Ci sono riusciti? Senza dubbio il lavoro è decisamente migliore di “Everything Now” (2017), ma non raggiunge la perfezione di “Funeral” (2004), il fulminante esordio del complesso canadese.

Il CD è diviso in due parti: la prima, “I”, è focalizzata sull’isolamento a cui il Covid ci ha costretto nel corso degli ultimi due anni; la seconda, “WE”, che dà il titolo al lavoro, ci riporta invece a sensazioni migliori, di comunità, che purtroppo sono state spesso perdute negli ultimi tempi. Gli Arcade Fire hanno sempre mirato a sentimenti universali, che si trattasse del dramma di perdere i propri cari (“Funeral”) oppure di ripercorrere la propria infanzia di ragazzi di periferia (“The Suburbs” del 2010): anche questa volta, come vediamo, mirano molto in alto.

Bersaglio centrato? Solo in parte. Musicalmente, i canadesi provano a tornare all’indie rock pieno di pathos dei loro esordi, abbandonando i ritmi caraibici e disco visti in “Reflektor” (2013) e il pop da classifica di “Everything Now”. Effetto nostalgia assicurato, ma quando si hanno canzoni belle come Age Of Anxiety I e The Lightning II tutto funziona. Ottima pure la più raccolta Unconditional Love I (Lookout Kid). Delude invece End Of The Empire IV (Sagittarius A*). In generale, la divisione del disco in suite formate da due o più componenti aiuta la coesione complessiva: a parte l’inutile Prelude e la conclusiva title track, infatti, abbiamo Age Of Anxiety, End Of The Empire, The Lightning e Unconditional Love.

Ospitando Peter Gabriel in Unconditional II (Race And Religion) e aiutati dal produttore Nigel Godrich (storico collaboratore dei Radiohead), Win Butler e Régine Chassagne hanno pubblicato un LP gradevole, che nei suoi momenti migliori è inattaccabile. Considerando la recente dipartita dalla band del fratello di Win Butler, Will, e le alte aspettative poste in “WE” dopo il flop di “Everything Now”, probabilmente siamo di fronte al miglior risultato possibile. Sicuramente, negli Arcade Fire è rimasta ancora la voglia di creare quel forte sentimento di comunità col loro pubblico che ne contraddistingue da sempre la carriera; in tempi così grami, non è una brutta cosa.

Voto finale: 8.

Florence + The Machine, “Dance Fever”

dance fever

Il quinto lavoro del progetto Florence + The Machine, “Dance Fever”, è un album pandemico sui generis: non riguarda infatti le conseguenze che il lockdown ha avuto sulla psiche di Florence Welch, o almeno non solo, quanto piuttosto quel senso di liberazione che pervade l’essere umano alla fine di grandi piaghe e tragedie del passato.

Il titolo prende direttamente spunto dal tarantismo (anche noto come “ballo di San Vito”), un morbo medievale che spingeva le persone a danzare sfrenatamente fino allo sfinimento o, nei casi più estremi, alla morte. Florence dedica quindi questo CD ad una malattia, che però sa quasi di libertà dalle restrizioni imposte dal Covid. Non sempre però le parti migliori del lavoro sono quelle più danzerecce.

“Dance Fever” era stato anticipato da alcuni singoli di grandissima qualità: King, Free e My Love sono tra le migliori canzoni recenti del gruppo inglese, trascinanti al punto giusto e curate nei minimi particolari, anche grazie alla produzione di Jack Antonoff. Solo Heaven Is Here deludeva le attese e rimane anche col CD completo uno dei momenti più deboli del lotto. Buona invece Choreomania, invece evitabile Daffodil.

Anche dal punto di vista testuale Florence e co. si dimostrano pieni di sorprese: abbiamo infatti l’inno femminista King, con il potente verso “I am no mother, I am no bride… I am king”. Altrove invece emergono pensieri più drammatici: “Every song I wrote became an escape rope tied around my neck to pull me up to heaven” (Heaven Is Here). Abbiamo infine il tema dell’amore che fa capolino in Girls Against God: “What a thing to admit, but when someone looks at me with real love, I don’t like it very much”.

In generale, comunque, “Dance Fever” sa di ripartenza per Welch: tanto più che è preceduto da un LP non all’altezza dei precedenti a firma Florence + The Machine come “High As Hope” (2018) e da incertezze su come proseguire il proprio percorso artistico. Potremmo anzi spingerci a dire che sia uno dei migliori dischi pubblicati da Florence Welch, ai livelli dell’ottimo esordio “Lungs” (2009). Peccato solo per alcuni episodi a centro disco che lasciano a desiderare, come Back In Town e la troppo breve Prayer Factory, abbassando la media complessiva, ma i risultati sono comunque più che buoni.

In conclusione, “Dance Fever” è uno dei migliori CD pop rock dell’anno: Florence + The Machine si conferma nome irrinunciabile della scena europea. Parlare così bene di una band con ormai quasi quindici anni di carriera alle spalle vuol dire una cosa sola: il talento è notevole e la voglia di mettersi in gioco, anche liricamente, sempre presente.

Voto finale: 8.

Sharon Van Etten, “We’ve Been Going About This All Wrong”

we've been going about this all wrong

Il nuovo album della cantautrice statunitense continua una carriera che sta riscuotendo un successo crescente: se “Remind Me Tomorrow” (2019) aveva presentato una nuova Sharon Van Etten, più pop e con sintetizzatori al massimo volume, “We’ve Been Going About This All Wrong” prosegue su questo percorso, aumentando allo stesso tempo la teatralità delle composizioni.

Il lavoro è stato composto in piena pandemia e, pertanto, risente molto dell’atmosfera generale di quel periodo, che tutti purtroppo ricordiamo. Inoltre, la casa dove Sharon vive assieme al compagno e al figlio è situata molto vicina ai luoghi degli incendi che hanno sconvolto gli Stati Uniti la scorsa estate, tanto da mettere a repentaglio anche lei stessa e la sua famiglia. Testualmente, quindi, siamo di fronte ad un lavoro molto personale, ma non per questo eccessivamente egocentrico.

Musicalmente, dicevamo, il CD in parte prosegue il percorso intrapreso con “Remind Me Tomorrow”, ma allo stesso tempo amplia l’aspetto barocco e teatrale di alcune composizioni. Prova ne sia la parte centrale del lavoro: sia Born che Headspace starebbero benissimo in “All Mirrors” di Angel Olsen. Invece la scarna Darkish rievoca le atmosfere dei primi lavori di Van Etten. Il pezzo più bello del lotto è senza dubbio Mistakes, vera perla pop. Buone anche Darkness Fades e Far Away, mentre sotto la media risulta solamente Home To Me.

In conclusione, i 39 minuti di “We’ve Been Going About This All Wrong” non risultano mai pesanti: la bella voce di Sharon Van Etten rende memorabili anche le melodie più prevedibili. Non tutto gira a meraviglia, ma questo lavoro è una buona aggiunta ad una discografia che, guardando il panorama del moderno indie rock, ha influenzato davvero molti artisti. Alcuni nomi? Phoebe Bridgers, Julien Baker, Snail Mail… In poche parole: Sharon Van Etten ormai è una certezza.

Voto finale: 7,5.

Rolling Blackouts Coastal Fever, “Endless Rooms”

endless rooms

Il terzo album del gruppo australiano li trova ancora a loro agio nel sound che li ha resi popolari: un indie rock sbarazzino, che si rifà agli Smiths così come al jangle pop degli anni ’90, sponda R.E.M.; allo stesso tempo, alcuni brani della tracklist fanno intravedere piccole novità, che sono benvenute dopo due EP e tre LP (pubblicati peraltro in soli sei anni) di buona qualità, ma alla lunga ripetitivi.

“Endless Rooms” inizia con una breve intro strumentale, Pearl Like You, che imposta il mood del disco: estate, serenità, suoni dolci. I successivi due brani, Tidal River e The Way It Shatters, sono tra i migliori della produzione recente della band e, soprattutto il primo, sembra cercare di innovare, almeno parzialmente, l’estetica dei Rolling Blackout Coastal Fever. Anche nella seconda parte dei 45 minuti che compongono “Endless Rooms” abbiamo altri esperimenti: la title track è un brano quasi notturno, molto raccolto. Buone soprattutto Dive Deep e Vanishing Dots; invece, i pezzi più prevedibili, come Open Up Your Window e, sono anche i più deboli del lotto.

La cosa che forse colpirà maggiormente gli ascoltatori è che, malgrado stiamo parlando di un lavoro musicalmente scanzonato, il gruppo australiano non è indifferente a quanto accade intorno a loro, soprattutto sul fronte della protezione dell’ambiente. Ad esempio, in Tidal Wave sentiamo: “Ceiling’s on fire, the train’s leaving the station”, un avvertimento che il cambiamento climatico è tra noi e dobbiamo muoverci per fermarlo. Altrove troviamo riferimenti ai migranti che cercano fortuna via mare: “If you were on the boat, would you turn the other way?” (The Way It Shatters).

In conclusione, “Endless Rooms” non verrà ricordato probabilmente come il miglior CD rock del 2022, tuttavia è un disco benvenuto, soprattutto considerando l’arrivo della bella stagione e il desiderio di relax che porta con sé.

Voto finale: 7,5.

Porridge Radio, “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky”

waterslide diving board ladder to the sky

Il terzo album dei Porridge Radio vede la band inglese capitanata da Dana Margolin cercare di innovare in parte il proprio sound, attraverso l’introduzione di tastiere (esemplare The Rip) affiancate all’estetica indie rock e post-punk che aveva caratterizzato “Every Bad” (2020), il lavoro che li aveva fatti conoscere al grande pubblico.

I Porridge Radio erano anche stati oggetto di un profilo Rising di A-Rock e “Every Bad” era risultato undicesimo tra i 50 migliori dischi del 2020: insomma, l’attesa per “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” era alta. Contando poi che uno dei singoli di lancio del CD era Back To The Radio, un ottimo pezzo indie rock, speravamo che questo lavoro potesse migliorare ulteriormente i risultati già ottimi di “Every Bad”.

Purtroppo, ci eravamo sbagliati: pur essendo infatti un buon lavoro, complessivamente “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” non raggiunge le vette del predecessore. Certo, brani come la già citata Back To The Radio e Birthday Party faranno la fortuna anche live del gruppo, ma altri episodi, decisamente più deboli, come Trying e la ripetitiva U Can Be Happy If You Want To abbassano il voto complessivo del CD.

Continua invece la grande abilità di Margolin e co. di evocare sentimenti di malessere attraverso dei semplici mantra, come già accadeva in Born Confused. In Birthday Party, infatti, Dana Margolin ripete “I don’t wanna be loved” per tutto il ritornello, appena dopo aver proclamato “I want one feeling all the time… I don’t want to feel a thing”. Versi davvero desolanti, che si legano facilmente ad altri che emergono nel corso dell’album: “We sit here together, the same as we’ve always been, laughing and talking but I want to cry to you” (Back To The Radio); “Jealousy, it makes me bad, but nothing makes me quite as sad as you” (Jealousy); “Don’t want my body to be touched… Don’t want to mean anything to you” (Splintered).

In conclusione, non ci troviamo di fronte ad un CD di facile lettura: il rock dei Porridge Radio è tanto trascinante quanto i loro testi sono deprimenti. “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” è un buon erede di “Every Bad”, ma da un gruppo con questo talento ci aspettiamo qualcosa di più. Speriamo che la prossima volta vada meglio.

Voto finale: 7,5.

Harry Styles, “Harry’s House”

harry's house

Il terzo album solista dell’ex One Direction è una parziale svolta nel suo sound: pur prendendo sempre spunto dal passato, questa volta la decade di riferimento non sono gli anni ’70, bensì il decennio successivo. Il gusto retrò del lavoro non deve far pensare però ad un LP derivativo: la sensibilità moderna traspare più o meno in ogni traccia di “Harry’s House” e Harry Styles si conferma popstar di talento, anche se ancora il suo meglio probabilmente non lo abbiamo visto.

I 41 minuti del CD trascorrono sereni: che si stia lavorando su altro oppure approfondendo il disco, non si può negare lo stile e la precisione di Styles e del suo gruppo di lavoro. Pezzi come il singolo As It Was e Matilda sono francamente irresistibili, immersi in un mondo pop zuccheroso ma mai banale, con aperture indie interessanti. Altrove invece abbiamo brani più prevedibili (Keep Driving, Boyfriends), che intaccano inevitabilmente il risultato complessivo, senza però scadere nel monotono. Infine, in Cinema abbiamo quasi una copia di “Random Access Memories” (2013) dei Daft Punk e dei migliori Chic.

Liricamente, “Harry’s House” si presenta come un lavoro più riflessivo del passato: Styles pare introdurci in casa sua, ovvero la sua mente, in maniera più aperta che in passato. Abbiamo riferimenti alla sua relazione con l’attrice Olivia Wilde in Cinema, così come ai problemi di uscire con dei ragazzi in Boyfriends (i più gossippari si chiederanno: esperienza personale oppure empatia verso l’altro sesso? Nessuna risposta disponibile al momento). In altre canzoni abbiamo immancabili riferimenti al cibo, un must per Harry (Music For A Sushi Restaurant, Grapejuice), così come versi sdolcinati (“If I was a bluebird, I would fly to you” canta in Daylight) e velati riferimenti agli atteggiamenti sbagliati di alcuni giovani verso le ragazze: “They think you’re so easy… They take you for granted” proclama in Boyfriends.

In conclusione, “Harry’s House” non raggiunge “Fine Line” (2019) come qualità generale del lavoro, ma fa intravedere un futuro luminoso per Harry Styles: le aperture all’indie pop e alle sonorità degli anni ’80 sono senza dubbio un progresso per un ragazzo partito con una forte tendenza a imitare David Bowie (si ascolti Sign Of The Times a riguardo). Vedremo il futuro cosa porterà in dote a Styles, di certo la stoffa pare esserci.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher, “C’MON YOU KNOW”

c'mon you know

Il terzo lavoro solista del più giovane dei fratelli Gallagher è al tempo stesso il più classico e il più variegato della sua produzione. Aiutato da numerosi produttori e co-autori, Liam con C’MON YOU KNOW” ha prodotto un CD che aiuterà a tenerlo sulla cresta dell’onda ancora per qualche tempo.

Prendiamo per esempio More Power, che apre il disco: pare proprio di essere tornati ai Rolling Stones di You Can’t Always Get What You Want, con quei coretti a fare da sottofondo. Nulla di nuovo, verrebbe da dire; in realtà, mai Liam era suonato così accondiscendente verso Mick Jagger & co., quindi a suo modo siamo di fronte ad una novità sul fronte delle ispirazioni per R Kid. Abbiamo poi il supporto di Ezra Koenig dei Vampire Weekend, che rende Moscow Rules il brano più barocco finora mai scritto a nome Liam Gallagher. Come tralasciare poi Everything’s Electric, che vanta la collaborazione di Dave Grohl! Insomma, un fritto misto che, al suo meglio, raggiunge ottimi risultati.

Sono infatti proprio i brani più in linea con i precedenti lavori di Gallagher, “As You Were” (2017) e “Why Me? Why Not.” (2019), a segnare il passo. Sia Don’t Go Halfway che I’m Free sono prevedibili e sono semplicemente intervalli scritti per i fan più tradizionali. Invece buona la title track, che ricorda gli ultimi Oasis, così come le già citate Everything’s Electric e Moscow Rules.

In generale, malgrado “C’MON YOU KNOW” arrivi dopo la devastante pandemia da Covid-19, nel corso del CD e delle interviste promozionali rilasciate recentemente abbiamo notato un Liam diverso, più introverso e meno spaccone: ne sono esempi anche alcuni testi del lavoro. In More Power lo sentiamo cantare: “The cut, it never really heals, just enough to stop the bleed… Mother, I’ll admit that I was angry for too long”. In I’m Free se la prende con le fake news: “How long you gonna sell illusion? How long you gonna sell confusion?”. Infine, una precisazione: il titolo Moscow Rules non ha nulla a che vedere con la situazione in Ucraina.

“C’MON YOU KNOW” non è al dunque un CD destinato a cambiare la carriera di una delle ultime grandi rockstar britanniche: chi già ama Liam continuerà a farlo, così come chi lo detesta. Certo, resta come sempre il rimpianto di dove sarebbero arrivati gli Oasis senza gli attriti col fratello Noel… ma non si piange sul latte versato, no? Godiamoci del buon rock and roll, non chiediamo di più a R Kid.

Voto finale: 7.

Wilco, “Cruel Country”

cruel country

Il quindicesimo album di inediti dei Wilco, istituzione del rock americano, è il loro CD più country e uno dei più lunghi della loro produzione. A 77 minuti e 21 canzoni, il doppio LP è sempre una sfida, anche per artisti leggendari come Prince e i The Clash. “Cruel Country” non è il miglior disco a firma Wilco, ma arricchisce il canzoniere della band con altre canzoni che faranno la fortuna dei live futuri di Jeff Tweedy e compagni.

Il titolo può in realtà essere inteso in due differenti modi: “country” in inglese può riferirsi sia a “nazione” che all’omonimo genere musicale. In effetti, in alcuni brani troviamo rimandi all’attualità, pur non essendo questo un CD “pandemico” (quello era infatti “Love Is The King”, a firma Jeff Tweedy, del 2020). Allo stesso tempo, sia i ritmi spesso rilassati che la volontà di suonare insieme dal vivo, dichiarata apertamente dalla band in sede di promozione del lavoro, piuttosto che scrivere canzoni politiche fanno pensare a un gruppo di amici vogliosi di divertirsi.

Può risultare strano che i Wilco, capaci in passato di spaziare in ogni ambito del rock, dall’indie all’alternativo al folk, siano tornati alle origini: il country era infatti l’architrave degli Uncle Tupelo, la prima band di Tweedy, così come dell’esordio del gruppo, “A.M.” del 1995. Tuttavia, a pensarci bene un ritorno alle basi può essere anche visto come un trampolino di lancio verso future sterzate: staremo a vedere.

I brani migliori sono Tired Of Taking It Out On You e Bird Without A Tail / Base Of My Skull, mentre deludono All Across The World e A Lifetime To Find. Carina infine Tonight’s The Day. In generale, come già anticipato, i 77 minuti risultano un po’ superflui, soprattutto verso la fine (ad esempio, Please Be Wrong e The Plains non sono brutte melodie, però sanno di già sentito), ma in un 2022 in cui molti artisti rilevanti hanno scelto questo formato (basti pensare a Beach House, Big Thief e Kendrick Lamar), il fatto che anche i Wilco ci abbiano omaggiato con un doppio CD ci fa solo piacere.

Voto finale: 7.

The Black Keys, “Dropout Boogie”

dropout boogie

Il terzo album in tre anni del duo originario di Akron, Ohio, calca terreni molto familiari: un blues rock caldo, sporco al punto giusto ma mai troppo tirato via. Dan Auerbach e Patrick Carney, dall’alto dei loro vent’anni di carriera (l’esordio “The Big Come Up” usciva infatti nel lontano 2002), sanno benissimo cosa i loro fan vogliono da un LP dei The Black Keys: ma siamo davvero sicuri che alla lunga questo atteggiamento conservativo paghi?

I The Black Keys sono diventati garanzia di CD mai troppo impegnativi, capaci di riportare a galla le radici blues del rock: LP come “Brothers” (2010) ed “El Camino” (2011) sono tuttora molto amati e non per caso. Brani del livello di Tighten Up, Lonely Boy e Gold On The Ceiling farebbero la fortuna di qualunque artista; che siano stati composti tutti nel giro di soli due anni è sintomo di grande talento. Il duo ha successivamente esplorato nuovi territori, soprattutto nel campo della psichedelia, nel successivo “Turn Blue” (2014), per poi darsi ad una lunga pausa fatta di progetti solisti e collaborazioni varie.

Il 2019 ha dato alla luce “Let’s Rock”, un ritorno al sound che ha fatto la fortuna dei The Black Keys; invece, nel 2021 i due americani hanno omaggiato le figure di riferimento del loro passato con la raccolta di cover “Delta Kream”. Dove si colloca “Dropout Boogie” in tutto ciò?

Partiamo dalle cose positive: la durata (34 minuti) e il numero di canzoni in tracklist (10) evitano il fastidioso filler che spesso percepiamo nei CD più lunghi e complessi. Inoltre, It Ain’t Over è un ottimo pezzo e farà la fortuna di Auerbach e Carney dal vivo. Stesso dicasi per Wild Child. Abbiamo poi una ballata abbastanza inusuale, How Long, a dire il vero non indimenticabile. D’altro lato, l’estetica generale del gruppo non si è spostata di una virgola negli ultimi anni, anzi ha denotato un ritorno sempre più marcato alle origini. Si ascolti a tal proposito Burn The Damn Thing Down, oppure Your Team Is Looking Good.

In poche parole, “Dropout Boogie” non è assolutamente un cattivo lavoro; al contrario, alcune canzoni sono riuscite e il disco è coeso e breve al punto giusto. Allo stesso tempo, non possiamo non dichiarare serenamente che i tempi migliori dei The Black Keys sono ormai alle loro spalle: vedremo per quanto ancora il duo riuscirà a divagare sullo stesso spartito senza suonare noioso. Di questo passo, non per molto tempo.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

Gli album più attesi del 2021

Archiviato il 2020, A-Rock è già all’opera per il nuovo anno: quali sono gli album più attesi del 2021?

Se l’anno passato avevamo indicato come CD più intriganti quelli di Tame Impala e The 1975 (e a ragione, visto che entrambi sono entrati nella top 10 dei 50 album migliori del 2020), nel 2021 i lavori a cui guardiamo con maggiore interesse sono rispettivamente quelli di Kendrick Lamar e Lana Del Rey. K-Dot è ormai entrato nella storia dell’hip hop con album come “good kid, m.A.A.d city” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), senza scordarsi di “DAMN.” (2017); il suo quinto album vero e proprio di inediti segnerà un altro passaggio cruciale nell’affermazione del rap come genere imperante nelle classifiche e nella società? Un discorso simile vale per Lana: il precedente “Norman Fucking Rockwell!” è stato l’album del 2019 per A-Rock e molte altre pubblicazioni, oltre che un grande successo commerciale; riuscirà il suo erede, dal titolo “Chemtrails Over The Country Club”, a mantenere tutte le attese riposte in lei da parte di pubblico e critica?

Passando al rock, abbiamo anche in questo caso artisti attesi al varco: gli Arcade Fire, ad esempio, vengono dal loro lavoro più debole, “Everything Now” (2017), un riscatto è necessario per una delle migliori band del XXI secolo. Invece i The War On Drugs devono proseguire sul percorso di crescita intrapreso con “Lost In The Dream” (2014) e “A Deeper Understanding” (2017); un discorso simile vale per Iceage e Parquet Courts, che hanno pubblicato con i loro ultimi LP “Beyondless” e “Wide Awake!” (entrambi del 2018) due lavori variegati e che aprivano strade interessanti al loro punk-rock. Due giovani voci che A-Rock ha già analizzato in passato e inserito nelle liste di fine anno sono Julien Baker e shame: se la prima è attesa al varco dopo “Turn Out The Lights” (2017), il gruppo punk inglese dopo il fulminante esordio “Songs Of Praise” (2018) dovrà confermarsi. Un doveroso rimando poi va ai nuovi (o meglio dire “vecchi”) Red Hot Chili Peppers, che hanno riaccolto John Frusciante: vedremo se l’ispirazione è tornata quella dei tempi migliori. Infine menzioniamo Queens Of The Stone Age e Phoenix, che forse hanno dato il meglio, ma sono comunque nomi importanti nello scenario rock.

Il mondo del pop, dal canto suo, pare che vivrà un 2021 tumultuoso: se già abbiamo citato il nuovo disco di Lana Del Rey, come dimenticarsi che sia Lorde che Adele che Billie Eilish, forse anche Rihanna, potrebbero pubblicare i seguiti a CD che spesso avevano segnato la loro definitiva affermazione anche fra i critici di professione (soprattutto Lorde e RiRi)? Billie, dal canto suo, deve dare un seguito al clamoroso “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” (2019); che aveva travolto il mondo della musica due anni fa. Invece il nuovo LP di Adele segue di ormai sei anni “25” (2015): un erede è davvero necessario. Discorso diverso per St. Vincent: Annie Clark è una delle figure più interessanti a cavallo fra pop e rock, specialmente dopo “MASSEDUCTION” (2017), vedremo l’ispirazione dove la porterà.

Il lato hip hop della musica vivrà un 2021 davvero pieno di uscite importanti. Se abbiamo già anticipato che Kendrick Lamar è il più atteso assieme a Lana Del Rey da A-Rock, non dimentichiamoci che il 2021 è l’anno in cui verrà pubblicato, come già anticipato da Drake stesso, “Certified Lover Boy”, il seguito del controverso “Scorpion” (2018): dopo un 2020 che lo ha visto dare alla luce il mixtape “Dark Lane Demo Tapes”, discreto ma nulla più, il canadese deve dimostrare che il successo commerciale può essere accompagnato dal rispetto della critica. Discorso diverso per Danny Brown, che via social ha dichiarato che quest’anno arriverà “XXXX”, seguito del CD che lo ha fatto conoscere al mondo, “XXX” del 2011. Il suo stile, pazzoide ma creativo, sarà un toccasana per la scena hip hop. Il giovane rapper inglese slowthai invece seguirà il grande esordio “Nothing Great About Britain” (2019) con “TYRON”: manterrà le aspettative? Come non menzionare Travis Scott poi, uno dei nomi più trendy degli ultimi anni, atteso con “Utopia”? Chiudiamo la rassegna con il caldissimo Denzel Curry, che nel 2020 ha pubblicato due brevi ma piacevoli lavori e pare pronto a dare alla luce “Melt My Eyez, See Your Future”, e Vince Staples, reduce da un 2020 piuttosto opaco e caratterizzato da singoli molto deboli: speriamo possa recuperare la forma migliore nell’anno nuovo.

Per finire, abbiamo degli album ormai mitici, almeno nell’immaginario collettivo, probabilmente destinati a vedere la luce prima o poi… ma chissà quando! Per esempio, “Masochism” di Sky Ferreira è dibattuto ormai da anni, con la stessa Sky che pareva pronta nel 2019 a pubblicarlo ma poi era stata fermata dalla pandemia e dalla decisione di non farlo fino alla cacciata di Donald Trump dalla Casa Bianca. Chissà quindi che il 2021 non sia l’anno buono. Stendiamo un velo pietoso poi su “Dear Tommy”, il fantomatico seguito di “Kill For Love” dei Chromatics (che nel frattempo hanno pubblicato altri CD peraltro).

Se quindi il 2020 è stato un anno interessante, almeno per il mondo della musica, chissà il 2021 cosa ci riserverà! A-Rock proverà come sempre, al meglio delle sue possibilità, a darvi una copertura ampia e variegata!

I 20 migliori album del 2010

Ad A-Rock, chi lo segue da un po’ lo sa, siamo fans delle liste, che si parli delle canzoni e dei dischi migliori o peggiori di un certo anno o, addirittura, di una decade! In questo 2020 pieno di tristezza e tragedie ci siamo chiesti: come offrire ai nostri lettori delle buone proposte musicali per le ormai prossime vacanze natalizie?

I soliti recap e gli articoli dedicati alle giovani promesse pubblicati nel corso dell’anno sono stati senza dubbio utili per capire il panorama musicale odierno, ma è anche vero che il passato è fondamentale per capire il contesto di oggi. Quindi la domanda è venuta spontanea: perché non coprire il 2010, anno di capitale importanza per la musica?

Risale al 2010 infatti il lavoro hip hop più importante degli ultimi anni, quel “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” che ha fatto di Kanye West un’icona di genialità, ambizione e follia. Non solo: abbiamo nel 2010 anche CD fondamentali per le discografie dei Beach House, dei Deerhunter e dei Vampire Weekend. Per non farci mancare nulla, in quell’anno hanno fatto il loro esordio (o quasi) pesi massimi come Drake, Tame Impala e James Blake… chi di loro sarà entrato nella lista dei migliori 20 album del 2010? Buona lettura!

20) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (ROCK – SPERIMENTALE)

19) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (ROCK)

18) Foals, “Total Life Forever” (ROCK)

17) James Blake, “Klavierwerke EP” / “CMYK EP” (ELETTRONICA)

16) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (ELETTRONICA – ROCK)

15) Caribou, “Swim” (ELETTRONICA)

14) Girls, “Broken Dreams Club” (ROCK)

13) Hot Chip, “One Life Stand” (ROCK – ELETTRONICA)

12) Joanna Newsom, “Have One On Me” (FOLK)

11) Vampire Weekend, “Contra” (ROCK – POP)

10) Gorillaz, “Plastic Beach” (HIP HOP – ELETTRONICA)

9) Sufjan Stevens, “The Age Of Adz” / “All Delighted People” (FOLK – ELETTRONICA)

8) Titus Andronicus, “The Monitor” (ROCK)

7) Janelle Monáe, “The ArchAndroid” (POP – R&B – SOUL)

6) Tame Impala, “Innerspeaker” (ROCK)

5) The National, “High Violet” (ROCK)

4) Arcade Fire, “The Suburbs” (ROCK)

3) Beach House, “Teen Dream” (POP)

2) Deerhunter, “Halcyon Digest” (ROCK)

1) Kanye West, “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (HIP HOP)

Siete d’accordo con questa lista oppure avreste scelto altri CD? Lasciate pure dei commenti. Ci vediamo tra pochi giorni con le liste dedicate al 2020!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (100-1)

Siamo alla seconda e ultima puntata delle 200 migliori canzoni degli anni ’10; quella più calda, dove si decreterà la migliore della decade secondo A-Rock. Frank Ocean, Arctic Monkeys, Bon Iver, Lana Del Rey… i big sono tutti presenti: chi avrà vinto la palma di miglior pezzo degli anni 2010-2019? Buona lettura!

100) The War On Drugs, An Ocean In Between The Waves (2014)

99) Neon Indian, Slumlord (2015)

98) Car Seat Headrest, Nervous Young Inhumans (2018)

97) Darkside, Paper Trails (2013)

96) Mac DeMarco, Ode To Viceroy (2012)

95) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Round And Round (2010)

94) A.A.L. (Against All Logic), This Old House Is All I Have (2018)

93) Grizzly Bear, Speak In Rounds (2012)

92) Real Estate, All The Same (2011)

91) Neon Indian, Annie (2015)

90) Alt-J, Breezeblocks (2012)

89) Car Seat Headrest, Fill In The Blank (2016)

88) Sia, Chandelier (2014)

87) The National, Graceless (2013)

86) Earl Sweatshirt feat. Vince Staples and Casey Veggies, Hive (2013)

85) Sufjan Stevens, Impossible Soul (2010)

84) Queens Of The Stone Age, My God Is The Sun (2013)

83) Adele, Rolling In The Deep (2011)

82) Icona Pop feat. Charli XCX, I Love It (2012)

81) Coldplay, Orphans (2019)

80) Broken Social Scene, World Sick (2010)

79) Beach House, Norway (2010)

78) Radiohead, Lift (2017)

77) Lorde, Royals (2013)

76) Cloud Nothings, Wasted Days (2012)

75) Justin Timberlake feat. JAY-Z, Suit & Tie (2013)

74) Kendrick Lamar, DNA. (2017)

73) Sufjan Stevens, Should Have Known Better (2015)

72) Nick Cave & The Bad Seeds feat. Else Torp, Distant Sky (2016)

71) Kings Of Leon, Pyro (2010)

70) Mac DeMarco, My Kind Of Woman (2012)

69) The 1975, It’s Not Living (If It’s Not With You) (2018)

68) Deerhunter, Memory Boy (2010)

67) The 1975, Sex (2013)

66) The Weeknd feat. Daft Punk, Starboy (2016)

65) Darkside, Golden Arrow (2013)

64) Coldplay, Paradise (2011)

63) Travis Scott feat. Drake, SICKO MODE (2018)

62) Justin Timberlake, Mirrors (2013)

61) Lorde, Green Light (2017)

60) Drake feat. Majid Jordan, Hold On, We’re Going Home (2015)

59) Earl Sweatshirt, Mantra (2015)

58) Blood Orange feat. A$AP Rocky and Project Pat, Chewing Gum (2018)

57) Gorillaz feat. Little Dragon, Empire Ants (2010)

56) LCD Soundsystem, call the police (2017)

55) King Krule, Czech One (2017)

54) The War On Drugs, Red Eyes (2014)

53) Vampire Weekend, Step (2013)

52) Daft Punk feat. Pharrell Williams, Get Lucky (2013)

51) Lana Del Rey, Mariners Apartment Complex (2019)

50) Kendrick Lamar, Sing To Me, I’m Dying Of Thirst (2012)

49) Sufjan Stevens, Fourth Of July (2015)

48) Gorillaz, On Melancholy Hill (2010)

47) Arctic Monkeys, Arabella (2013)

46) Drake, Over My Dead Body (2011)

45) Girls, Carolina (2010)

44) Fleet Foxes, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar (2017)

43) Arctic Monkeys, R U Mine? (2013)

42) Drake, Nice For What (2018)

41) Flume feat. JPEGMAFIA, How To Build A Relationship (2019)

40) Vince Staples, Lift Me Up (2015)

39) Frank Ocean, Ivy (2016)

38) Billie Eilish, bad guy (2019)

37) Jamie xx feat. Romy, Loud Places (2015)

36) Tame Impala, Elephant (2012)

35) Beach House, Myth (2012)

34) Bon Iver, Sh’Diah (2019)

33) Drake, Hotline Bling (2016)

32) Grimes, Oblivion (2012)

31) The National, Sorrow (2010)

30) St. Vincent, Champagne Year (2011)

29) Drake, Marvin’s Room (2011)

28) Frank Ocean, Nikes (2016)

27) Kanye West, I Am A God (2013)

26) Fleet Foxes, Third Of May / Ōdaigahara (2017)

25) The War On Drugs, Strangest Thing (2017)

24) Florence + The Machine, Shake It Out (2011)

23) King Krule, Dum Surfer (2017)

22) David Bowie, Lazarus (2016)

21) Bon Iver, Perth (2011)

20) Vampire Weekend, Hannah Hunt (2013)

19) The 1975, Love It If We Made It (2018)

18) Grimes, Realiti (2015)

17) Deerhunter, Helicopter (2010)

16) Tame Impala, Eventually (2015)

15) Frank Ocean, Thinkin Bout You (2012)

14) Tame Impala, Feels Like We Only Go Backwards (2012)

13) Arcade Fire, We Exist (2013)

12) Lana Del Rey, Venice Beach (2019)

11) Beach House, Dive (2018)

10) Robyn, Dancing On My Own (2010)

9) Kendrick Lamar, Alright (2015)

8) Bon Iver, Holocene (2011)

7) Kanye West, POWER (2010)

6) M83, Midnight City (2011)

5) Arcade Fire, Reflektor (2013)

4) FKA twigs, cellophane (2019)

3) Frank Ocean, Pyramids (2012)

2) Kanye West feat. Pusha T, Runaway (2010)

1) Tame Impala, Let It Happen (2015)

La nostra lunga cavalcata è finita: Let It Happen dei Tame Impala è meritatamente il più bel pezzo degli anni ’10 secondo A-Rock. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con le nostre scelte? Non esitate a lasciare commenti!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (50-1)

Eccoci giunti alla fine della nostra lunga cavalcata. La lista dei 200 migliori CD del decennio 2010-2019 si conclude qui. Chi avrà trionfato nella lunga lista di A-Rock? Buona lettura!

50) The Field, “Looping State Of Mind” (2011)

(ELETTRONICA)

Il terzo album di Axel Willner è il suo CD più compiuto, in cui fin dal titolo la sua estetica è chiaramente illustrata e messa in risalto.

Le 7 canzoni che formano “Looping State Of Mind” vanno dalla techno dura e pura (It’s Up There) ad atmosfere più ambient (Burned Out), che guadagneranno peso nel corso degli anni nei successivi lavori a firma The Field, si pensi a “Infinite Moment” (2018). Il compositore svedese inoltre crea le sue melodie più accattivanti, da Is This Power a Then It’s White, che aggiungono quel qualcosa in più ad un lavoro già ottimo.

In conclusione, “Looping State Of Mind” non avrà forse l’effetto sorpresa del fulminante esordio di Willner, quel “From Here We Go Sublime” (2007) che aveva fatto gridare al miracolo. Tuttavia, data la grazia e la compattezza messe in mostra nel corso dell’album, probabilmente sarà “Looping State Of Mind” ad entrare maggiormente nel cuore dei fans presenti e futuri.

49) Caribou, “Our Love” (2014)

(ELETTRONICA)

Dan Snaith (aka Manitoba aka Caribou) ci ha abituato nel corso della sua carriera a pause corpose fra un lavoro e l’altro. Tornato dopo quattro anni di assenza con “Our Love”, i risultati furono come sempre ottimi: l’elettronica di Snaith si differenzia nel CD rispetto al solito per una maggiore attenzione alla parte melodica e intimista delle canzoni (non troverete nessuna Odessa, tanto per intenderci).

I temi affrontati del resto non sono banali: l’amore familiare, il senso di abbandono… Le canzoni di “Our Love” sono più o meno tutte dello stesso, ottimo livello: sia le più brevi (da sottolineare Dive e Julia Brightly) che le più lunghe (la decima ed ultima Your Love Will Set You Free è davvero affascinante). Ne viene fuori un CD bellissimo, con picchi come Can’t Do Without You e la title track, che sono senza dubbio fra le migliori canzoni della decade. Altro gradito lavoro, di quelli che dici: “ma perché Caribou non fa più spesso CD?” Poi però pensi: “magari poi vengono male”. E allora ci rifletti un po’ e dici: “meglio pochi ma buoni”. Una lezione perfettamente imparata da Snaith.

48) Bon Iver, “22, A Million” (2016)

(FOLK – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Dopo un capolavoro come “Bon Iver, Bon Iver” del 2011, Justin Vernon (il leader del progetto Bon Iver) si è preso del tempo per sé stesso, organizzando un nuovo festival musicale nella sua città natale, Eaux Claires, e seguendo la sua nuova creatura musicale, i Volcano Choir. Del resto, lui ha sempre detto che le canzoni vanno “sentite” nel cuore e che scrivere solo per accumulare denaro non fa per lui. Promessa mantenuta: il marchio Bon Iver ha prodotto solamente quattro album e un EP in doici anni di vita. Pochi ma buoni, anzi ottimi: ogni passo della carriera di Vernon è sempre stato un viaggio magnifico, sia che fosse concentrato sui sentimenti del protagonista (come l’esordio “For Emma, Forever Ago” del 2007), sia che ci conducesse in località a volte vere, a volte immaginarie (come accade in “Bon Iver, Bon Iver” del 2011).

Sembrava che ormai Bon Iver fosse qualcosa del passato, invece nel 2016 Vernon ha deciso di resuscitare la band; e i risultati sono di nuovo eccellenti. Già l’inizio è promettente: 22 (OVER S∞∞N) ricorda le atmosfere dei suoi precedenti lavori, risultando in un folk gentile e raffinato, mentre la potente 10 d E A T h b R E a s T rimanda addirittura al Kanye West di “Yeezus”. Abbiamo poi l’affascinante intermezzo di 715 – CRΣΣKS, che sembra una riedizione di quella Woods che era stata ripresa anche da Kanye in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”. Sono però presenti influenze anche di James Blake (non a caso i due hanno collaborato in I Need A Forest Fire) e, beh, delle precedenti incarnazioni di Bon Iver. Queste ultime sono particolarmente evidenti in 33 “GOD” (qua sì che la numerologia ha senso) e 29 #Strafford APTS, non a caso fra i brani migliori del disco. Il capolavoro vero è però 666 ʇ, che possiede una sezione ambient da brividi, così come la bella 8 (circle). Il solo brano non completamente a fuoco è _____45_____, mentre la conclusiva 00000 Million ricorda molto la Beth/Rest che chiudeva “Bon Iver, Bon Iver”.

In conclusione, in sole 10 canzoni e 34 minuti di durata, “22, A Million” ci conferma lo sconfinato talento di Justin Vernon e ci fa bramare per avere al più presto nuova musica da parte sua, anche ora che abbiamo avuto “i,i” (2019) in un tempo relativamente vicino a “22, A Million” (3 anni).

47) Janelle Monáe, “The ArchAndroid” (2010)

(POP – R&B – SOUL)

Janelle, già all’esordio, aveva fatto capire a tutti lo sconfinato potenziale in suo possesso, portato al definitivo compimento nel quasi perfetto “Dirty Computer” (2018). Infatti “The ArchAndroid”, attraverso la parabola dell’androide Cindy Mayweather, mira ad affrontare quanti più generi umanamente gestibili (rock, pop, R&B, hip hop, soul ecc) con i migliori risultati possibili, dividendo l’opera in due suites con tanto di overture e ospiti di spessore (il poeta Saul Williams, Big Boi e Of Montreal fra gli altri).

Le ispirazioni per un CD di tale ambizione e faccia tosta sono il miglior Prince, Michael Jackson e James Brown, specialmente nelle parti più funk del disco. L’apparente confusione è attenuata dall’incredibile abilità dell’artista americana di far finire una canzone nell’altra, esemplare la prima parte con Dance Or Die, Faster e Locked Inside. Sottolineiamo poi la voce sopraffina di Janelle, una delle più affascinanti della sua generazione.

Se a tutto ciò aggiungiamo capolavori del calibro di Tightrope e Cold War, veri highlights del lavoro, e i temi affrontati (accettazione di sé, apertura verso chiunque sia percepito come diverso su tutti), “The ArchAndroid” diventa un LP pressoché immancabile per gli amanti della musica pop più ardita e creativa.

46) Blood Orange, “Negro Swan” (2018)

(R&B)

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family).

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano.

45) Nicolas Jaar, “Space Is Only Noise” (2011)

(ELETTRONICA)

Gli anni ’10, nell’ambito della musica elettronica, sono stati senza dubbio influenzati dalla figura di Nicolas Jaar. Il produttore cileno, fra l’attività in proprio, i Darkside e il progetto A.A.L. (Against All Logic) ha creato un ecosistema integrato che, fondendo fra loro rock, elettronica e musica ambient, ha fortemente influenzato (e probabilmente continuerà a influenzare) l’intera scena musicale.

L’esordio “Space Is Only Noise” mette in mostra un talento cristallino: passando da atmosfere ambient (Être) a sample di Ray Charles (I Got A Woman) Jaar crea un CD tanto strano e vario quanto affascinante. Pochi nell’elettronica moderna sanno essere così versatili ed efficaci, prova ne sia anche il suo secondo LP “Sirens” del 2016, più politico ma non per questo fine a sé stesso.

“Space Is Only Noise” si staglia pertanto come un nodo fondamentale per la musica elettronica del decennio, che ci ha fatto conoscere un talento unico e destinato a scrivere ancora molte pagine importanti nel futuro. Chissà che il capolavoro a firma Nicolas Jaar non debba ancora arrivare…

44) The Horrors, “Skying” (2011)

(ROCK)

Migliorare i risultati già ottimi di “Primary Colours” (2009), il CD che aveva fatto conoscere gli Horrors al mondo, non era per nulla semplice. Il gruppo britannico, con il terzo lavoro di studio “Skying”, non solo lo fa, ma riesce anche a sperimentare ulteriori ritmi e generi musicali, producendo un concept album sul cielo (come già il titolo indica) con forti influenze elettroniche e psichedeliche.

Abbiamo quindi un lavoro meno immediato del precedente, ma ancora più raffinato e profondo: i migliori pezzi sono le iniziali Changing The Rain e You Said, oltre alla meravigliosa Endless Blue (prima lenta, poi shoegaze scatenato), a Oceans Burning e a Wild Eyed (che ricorda gli Strokes). In poche parole: uno dei migliori album del 2011 e della decade 2010-2019.

43) The National, “High Violet” (2010)

(ROCK)

Il quinto album dei The National è ancora oggi il loro prodotto più ornato e barocco. Ricco di sfumature e caratterizzato da toni più cupi rispetto ai loro precedenti lavori, “High Violet” contiene anche alcuni dei brani più iconici del gruppo statunitense. Da Sorrow a Terrible Love, ancora oggi capisaldi dei loro concerti, passando per Bloodbuzz Ohio ed England, secondo molti fans “High Violet” è il disco più bello dei The National.

Effettivamente, se eccettuiamo la più prevedibile Anyone’s Ghost, “High Violet” è uno dei CD rock più compiuti e organici della decade appena trascorsa. Certo, il quintetto non brilla per originalità, ma di LP così “umani” nei testi e nelle fragilità messe in mostra ce ne vorrebbero di più.

È un fatto che poi i The National abbiano fatto anche di meglio col successivo “Trouble Will Find Me” (2013), ma ciò non va a demerito di questo LP, che anzi occupa con merito la posizione 43 nella lista dei migliori album della decade di A-Rock.

42) Nick Cave & The Bad Seeds, “Skeleton Tree” (2016)

(SPERIMENTALE – ROCK)

Come nel 2015 Sufjan Stevens ci aveva fatto commuovere celebrando la figura della madre morta da poco di cancro, Nick Cave con questo CD ricorda il figlio 15enne morto cadendo da una rupe durante le registrazioni del CD che sarebbe diventato “Skeleton Tree”.

Accompagnato dai fedeli Bad Seeds, il veterano australiano del rock alternativo e sperimentale produce un lavoro denso e complesso, come del resto era facile attendersi. Nick Cave mescola sonorità diverse fra loro, tra sperimentalismo, musica ambient e soft rock. I titoli e i testi delle canzoni sono evocativi: I Need You e la lirica “Nothing really matters”, oppure “I am calling you” in Jesus Alone e infine il verso più straziante, contenuto in Distant Sky: “They told us our dreams would outlive us, but they lied”.

Nel film tratto dalla registrazione di “Skeleton Tree”, la drammaticità del momento vissuto da Cave è ancora più evidente; speriamo che aver condiviso la pena di aver perso un figlio così giovane possa alleviare la pesantezza che certamente lui e la sua famiglia portano nel cuore. Noi, umilmente, non possiamo che ringraziarlo per un altro magnifico tassello di una carriera davvero leggendaria: pezzi come la title track, Rings Of Saturn e la già citata Distant Sky sono bellissimi sia musicalmente che, come già accennato, nei loro testi. In poche parole, uno dei CD più belli e delicati della sua eredità.

41) Beach House, “7” (2018)

(ROCK – POP)

I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare oltre, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks ed Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band. Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

I Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

40) Kendrick Lamar, “DAMN.” (2017)

(HIP HOP)

Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto disco di Kendrick Lamar, in data 14 aprile. Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

Questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni: adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica. Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD merita la top 50 dei più belli del decennio. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è una ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva.

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un altro capolavoro o quasi, magari inferiore a “To Pimp A Butterfly” (2015), ma comunque notevole.

39) Arcade Fire, “The Suburbs” (2010)

(ROCK)

Giunti al fatidico terzo album, gli Arcade Fire virano verso un pop molto più barocco dei precedenti lavori, i classici “Funeral” (2004) e “Neon Bible” (2007), con spruzzate di dance (come nella bella Sprawl II – Mountains Beyond Mountains). Il tema portante adesso è l’infanzia dei componenti della band nei sobborghi di Houston.

Anche in “The Suburbs” pezzi riusciti non mancano: in particolare ricordiamo Ready To Start, We Used To Wait e City With No Children, tutti singoli estratti per promuovere il CD e fra i brani migliori mai composti dalla band. Gli Arcade Fire all’epoca sembravano incapaci di sbagliare un LP: l’epiteto di “rock band migliore del mondo” era più che meritato.

Che poi i canadesi abbiano virato verso l’elettronica (con “Reflektor” del 2013) e il pop anni ’70 con “Everything Now” (2017), con risultati controversi, non diminuisce di un’unghia i meriti artistici di “The Suburbs”, LP tanto ambizioso quanto riuscito (e premiato come album dell’anno ai Grammy).

38) Mount Eerie, “A Crow Looked At Me” (2017)

(FOLK)

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la scomparsa dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando lui e una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a ribadire il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere il tuo tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire da un momento all’altro, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

37) Atlas Sound, “Parallax” (2011)

(ROCK)

Il leader dei Deerhunter Bradford Cox, con il progetto Atlas Sound, ha da sempre inteso dare sfogo alla sua vena sperimentale, specialmente nei primi due CD “Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel” (2008) e “Logos” (2009). Invece “Parallax” sarebbe stato un disco perfetto anche per la sua band principale, reduce peraltro in quegli anni dal meraviglioso “Halcyon Digest”: momenti psichedelici si mescolano perfettamente con momenti dream pop e altri più rock, in un amalgama ingentilito da atmosfere sobrie e dalla bella voce di Cox.

Per certi versi questo è il lavoro più pop per Bradford: canzoni perfette o quasi come Te Amo o Mona Lisa farebbero la fortuna di molti artisti indie. Il CD in generale scorre benissimo, con una durata perfetta in termini di canzoni (12) e minuti (48) che lo rendono un “must listen” per gli amanti dei Deerhunter e, in generale, per i fans dell’indie rock più sobrio e raccolto.

36) Janelle Monáe, “Dirty Computer” (2018)

(POP – R&B)

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock. Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell Williams, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, un capolavoro fatto e finito.

35) black midi, “Schlagenheim” (2019)

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

34) Kendrick Lamar, “Good Kid, m.A.A.d City” (2012)

(HIP HOP)

Il secondo album del rapper originario di Compton è stato un punto di svolta per il panorama musicale nel suo intero, non solo per l’hip hop. Mescolando abilmente basi old style con ritratti vividi, a volte tragici, della vita di periferia a Compton, Kendrick si è ritagliato un posto speciale nel cuore dei fans del rap.

Grazie poi alla presenza di ospiti di spessore ma mai invadenti (Dr. Dre, Drake e Jay Rock fra gli altri) il CD si è fatto strada velocemente, raggiungendo anche risultati commercialmente importanti e pienamente meritati. Non ci scordiamo infatti che il disco non contiene solo le più accessibili Poetic Justice e Bitch, Don’t Kill My Vibe; i pezzi veramente stupefacenti sono l’allucinata Sing About Me, I’m Dying Of Thirst (12 minuti di continui capovolgimenti del beat e del flow) e la durissima Backseat Freestyle, puro strumento di K-Dot per far capire a tutti chi fosse il più dotato rapper della sua generazione. Non tralasciamo poi la magnifica The Art Of Peer Pressure e Swimming Pools (Drank), che sarebbero il gioiello della corona del 90% dei rapper attualmente in attività.

“Good Kid, m.A.A.d City” sarebbe l’opera definitiva di pressoché tutti i rapper esistenti. Invece Lamar ha fatto anche di meglio con il successivo “To Pimp A Butterfly” (prego guardare più avanti nella lista), segno che lui e solo lui ha le stigmate per essere incoronato simbolo di una generazione e, senza discussione, miglior rapper degli anni ‘10.

33) Arctic Monkeys, “AM” (2013)

(ROCK)

Una cosa mancava agli Arctic Monkeys per entrare definitivamente nell’Olimpo del rock: il successo in America. Ebbene, “AM” è quello che “The Joshua Tree” è stato per gli U2: la porta d’ingresso per nuove, sconfinate realtà (e un aumento vertiginoso delle vendite).

Le scimmie artiche cambiano ancora nel 2013: nitidi ora sono i riferimenti all’hard rock di Black Sabbath e Kiss. Da non banalizzare però anche le influenze R&B di Dr. Dre (One For The Road) e del rock gentile di Lou Reed (Mad Sounds). Si nota infine l’influenza di Josh Homme e dei suoi Queens Of The Stone Age (Knee Socks), con “Humbug” che ha funto da semplice prova prima del grande salto con “AM”. Resta qualcosa di “Suck It And See”, soprattutto in No.1 Party Anthem; sono però altri i brani top. Da ricordare la durissima Arabella, la celeberrima Do I Wanna Know? e la trascinante Why D’You Only Call Me When You’re High?, ma è anche riuscita la già citata One For The Road.

Gli esordi indie sono ormai dimenticati: Turner e co. sono diventati qualcosa di infinitamente più grande e interessante. In poche parole: una delle più importanti e famose rock band del mondo.

32) Lorde, “Melodrama” (2017)

(POP)

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima. Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

Se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde.

31) Sun Kil Moon, “Benji” (2014)

(FOLK)

Giunto al sesto lavoro di studio, il progetto Sun Kil Moon (capeggiato da Mark Kozelek) ha raggiunto con “Benji” la definitiva consacrazione. Kozelek in “Benji” ritorna all’indie folk delle origini, ma apre contemporaneamente ad un rock quanto mai delicato e gentile. La sua voce, profonda ed evocativa, aiuta a costruire un album quasi perfetto: pezzi come I Can’t Live Without My Mother’s Love e Ben’s My Friend sono già classici, mentre il più “mosso” I Love My Dad ricorda i Kings Of Leon, ma migliorati.

La malinconia che pervade “Benji” non cancella la gioia di vivere trasmessa dalle 11 tracce: del resto, la famiglia e gli amici sono o non sono le cose più importanti della vita?

30) M83, “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011)

(ELETTRONICA – ROCK – POP)

“Ah, questo è il disco di Midnight City!”: ecco il pensiero dell’ascoltatore medio ai tempi dell’uscita di “Hurry Up, We’re Dreaming”, il monumentale doppio album degli M83, il complesso capitanato da Anthony Gonzalez. Il CD è un mix molto eclettico di elettronica epica al punto giusto, rock massivo pronto per le arene di tutto il mondo e pop da cameretta. La cosa stupefacente è che, malgrado l’inevitabile lunghezza in termini di brani (22) e minutaggio (73 minuti), nulla è superfluo.

“Hurry Up, We’re Dreaming” è ad oggi il più riuscito album del complesso di origine francese ma ormai americanizzato, nessuna discussione al riguardo: il pur eccezionale “Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts” (2003), il disco con cui Gonzalez e compagni si erano fatti conoscere al mondo, resta un passo indietro rispetto alla bellezza di pezzi come la celeberrima Midnight City o la Intro. Da non scordare poi la presenza di altri brani iconici come Wait, la bellissima Reunion e la Outro che chiude magistralmente il lavoro.

Gli M83 non sarebbero più stati in grado di replicare la magniloquente bellezza di “Hurry Up, We’re Dreaming”: sia “Junk” (2016) che il più ambient “DSVII” (2019) hanno deviato dal percorso synth/dream pop del precedente capolavoro, con risultati controversi. Del resto, il peso di un CD così riuscito non è facile da sopportare. Siamo tuttavia sicuri che gli M83 hanno ancora delle frecce al loro arco, magari non capaci di creare altri lavori così definitivi, ma almeno interessanti e degni della fama di “Hurry Up, We’re Dreaming”.

29) Beach House, “Teen Dream” (2010)

(POP)

Il terzo album dei Beach House è stata una ventata di freschezza nell’ormai lontano 2010: il mondo dream pop non aveva un manifesto così definito e impeccabile dai tempi dei Cocteau Twins. Pur avendo definito il loro sound già nei loro due precedenti lavori, il timido “Beach Hoise” del 2006 e “Devotion” del 2008, è con “Teen Dream” che Beach House diventa sinonimo di pop di qualità eccelsa.

Mai prima infatti la vocalist Victoria Legrand e il polistrumentista Alex Scally erano parsi così all’unisono determinati, con una chiara visione in testa e una crescita dal punto di vista personale e artistico così vasta ne è un chiaro segnale. Del resto, pezzi come Norway e la più rock 10 Mile Stereo ancora oggi fanno parte del canone del duo, con pieno merito.

I Beach House nel 2012 produrranno un LP ancora più stupefacente di “Teen Dream” (scorrete più avanti per vedere in che posizione si trova nella classifica di A-Rock); ma “Teen Dream” occupa un posto speciale nel cuore dei fans del duo statunitense. È la piena dimostrazione che, quando si esce dalla propria comfort zone, i risultati possono essere a prima vista strani, ma si può arrivare a creare prodotti eccellenti.

28) King Krule, “The OOZ” (2017)

(ROCK – SPERIMENTALE – JAZZ)

Rock, punk, trip hop, jazz, R&B: ecco alcuni dei generi affrontati con successo da Archy Marshall nel suo nuovo CD a nome King Krule. Le numerose identità artistiche assunte da Archy (Zoo Kid, King Krule, il suo stesso nome) hanno significato spesso alcuni cambi nel sound dei dischi prodotti: più ingenui i brani di Zoo Kid, molto eclettici quelli di King Krule, elettronici quelli a nome Archy Marshall. In “The OOZ”, il giovane cantante inglese propone una ricchissima collezione (19 canzoni per 77 minuti di durata), molto varia, sia come lunghezza dei pezzi che come sonorità. Come già accennato, abbiamo pezzi feroci (come la bellissima Dum Surfer e Half Man Half Shark), brani jazz (le belle ballate Czech One e Logos), altri che ricordano i Blur di “13” (Lonely Blue e Biscuit Town).

In generale, stupisce come finalmente Archy sia riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento pur producendo un disco che molti potrebbero bollare come incoerente o troppo ambizioso: un ventunenne che produce con uguale facilità brani rock, jazz e punk non è comune. Inoltre, malgrado il gran numero di brani nella scaletta, nessuno è puramente usato come riempitivo; belli poi i richiami interni al CD, per esempio le due versioni di Bermondsey Bosom, prima “left” poi “right”.

I testi, come sempre nelle canzoni a nome King Krule, affrontano il lato sporco del mondo, in particolare della vita di un giovane di periferia: solitudine, criminalità, droga. Non è un disco facile, come avrete capito: tuttavia, per gli ascoltatori pazienti e amanti della musica ambiziosa e sperimentale, “The OOZ” è un trionfo. Fra i brani migliori abbiamo le già ricordate Dum Surfer e Czech One; non male anche l’enigmatica A Slide In (New Drugs) e The Cadet Leaps, che sembra presa da un disco di Brian Eno. Ottima la title track. Meno riuscite invece Midnight 01 (Deep Sea Diver) e Emergency Blimp, ma non rovinano un LP davvero fantastico. Le influenze sono numerose, ma proprio per questo il sound creato da King Krule è unico: un po’ Massive Attack, un po’ Joy Division, un po’ Tom Waits ecc.

In conclusione, Archy Marshall ha finalmente prodotto quel capolavoro che critica e pubblico aspettavano, ciò che “6 Feet Beneath The Moon” non era stato, malgrado la hype creata da alcuni media specializzati.

27) Frank Ocean, “Blonde” (2016)

(POP – R&B)

“Blonde”, a tutti gli effetti terzo album di inediti di Frank Ocean, è una continua scoperta. Rispetto a “Channel Orange” manca la vulcanica creatività e l’accavallarsi di generi diversi che caratterizzavano il precedente CD, ma migliora la coesione generale e aumentano gli ospiti e i produttori di spessore, che rendono “Blonde” davvero irrinunciabile per gli amanti della buona musica.

In “Blonde” predomina un pop orecchiabile e affascinante, che in certi tratti si rifà a Prince (come nella bella Ivy); in altri casi invece compaiono lunghe interviste simili al Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly” (come nella conclusiva Futura Free). In generale, un album con collaboratori come Beyoncé, Kendrick stesso, Kanye West, Brian Eno, Jonni Greenwood dei Radiohead, Rostam Batmanglji dei Vampire Weekend e Jamie xx (ma non abbiamo citato il sample di Here, There And Everywhere dei Beatles in White Ferrari, oppure David Bowie e Gang Of Four, presunti “ispiratori” di Ocean nel making of del disco) non può che avere quel qualcosa in più rispetto a lavori più “convenzionali”.

Le liriche dell’album sono anch’esse significative: in Nikes (la bellissima traccia iniziale) si fa riferimento alle uccisioni di uomini di colore che recentemente hanno colpito gli Stati Uniti; in Be Yourself sentiamo, sotto una nenia che ricorda “Hurry Up, We Are Dreaming” degli M83, una telefonata in cui la mamma di Frank dice al figlio di accettarsi per com’è, non cercando di apparire diverso per far felici gli altri, e gli consiglia di non fare mai uso di stupefacenti nella sua vita (un testo che dice molto delle traversie passate da Frank negli scorsi anni); Facebook Story narra la storia assurda di un uomo e della sua ragazza, ossessionata dai social networks; Solo (Reprise) affida ad André 3000 (altro gradito ospite) accuse varie ai rapper che fanno scrivere ad altri i loro versi (vero Drake?). Vi sono poi liriche più intime, come nella bella Solo o in Skyline To, che raccontano le avventure sessuali e non di Frank. Frank Ocean ha dimostrato che, anche se può sembrare “staccato” dalla realtà, in realtà segue attentamente gli sviluppi storici e sociali dei nostri tempi. Insomma, canzoni come Nikes, Ivy, Nights e Futura Free resteranno negli annali.

26) Kendrick Lamar, “To Pimp A Butterfly” (2015)

(HIP HOP)

Kendrick era tornato dopo il pluripremiato “Good Kid, m.A.A.d. City” (2012) e le aspettative erano più alte che mai: tornerà agli stessi, straordinari livelli? La risposta è: decisamente sì. Anzi, per certi versi “To Pimp A Butterfly” riesce in una missione che “Good Kid…” aveva tralasciato: ridare orgoglio alla comunità nera, colpita come abbiamo visto da tragici eventi negli Stati Uniti.

Mentre infatti il secondo album solista narrava l’infanzia dell’autore, “To Pimp A Butterfly” denuncia le discriminazioni subite dagli afroamericani statunitensi (For Free, ma anche For Sale e How Much A Dollar Cost? sono chiari esempi).

Musicalmente parlando, il CD allarga lo spettro musicale di Lamar, passando dal jazz (in For Free) ai ritmi della musica africana (Momma). Notevoli le collaborazioni con due mostri sacri del rap come Snoop Dogg (in Institutionalized) e Dr. Dre (in Wesley’s Theory). La bellissima King Kunta è probabilmente il miglior pezzo hip hop del 2015. Alright è poi diventato l’inno ufficiale del movimento “Black Lives Matter”, che rivendica la parità di tutti davanti alla legge. Infine, la parte finale della conclusiva Mortal Man è davvero fantastica, con l’intervista di K-Dot all’idolo d’infanzia Tupac Shakur, tragicamente deceduto, finalmente completa.

Insomma, un trionfo lungo più di 78 minuti: un classico dell’hip hop moderno, un LP che può anche parlare ai non appassionati del genere e che merita ogni acclamazione ricevuta nel corso degli anni.

25) The War On Drugs, “Lost In The Dream” (2014)

(ROCK)

La crescita e la definitiva consacrazione dei The War On Drugs è una delle storie più belle della decade appena trascorsa. La band americana, capitanata da Adam Granduciel e in origine supportata anche da Kurt Vile, è diventata una delle più belle realtà del rock grazie ad una sconfinata ambizione e alla sapiente abilità di fondere le atmosfere del rock anni ’70 di Bruce Springsteen con atmosfere psichedeliche e quasi oniriche, creando album avvolgenti e di crescente successo, l’ultimo dei quali, il monumentale “A Deeper Understanding” (2017), è stato premiato come “album rock dell’anno” ai successivi Grammy Awards.

“Lost In The Dream” è il CD dove si è compreso pienamente il potenziale della band. Le due tracce iniziali, la lunghissima Under The Pressure e la pressoché perfetta Red Eyes, sono chiari esempi di un gruppo pronto a decollare. Ne sono prova ulteriore l’irresistibile An Ocean In Between The Waves e la conclusiva In Reverse.

Adam Granduciel e soci meritano ogni apprezzamento: riuscire ad attualizzare un genere come il rock più classico senza risultare conservatori o peggio ai limiti del plagio è un’abilità non comune, farlo con questa brillantezza un dono di pochi.

24) David Bowie, “Blackstar” (2016)

(ROCK)

Mancano le parole quando parliamo della scomparsa di uno dei più grandi cantanti della storia: quel David Bowie autore di capolavori indimenticabili come Heroes, Rebel Rebel e Life On Mars?. Lo showman Bowie aveva sicuramente previsto tutto: fare uscire il suo ultimo LP appena due giorni prima della morte è un qualcosa di incredibile, l’ultima magia del Duca Bianco.

Infatti, uno dei primi album ad uscire nel 2016 (8 gennaio) si è rivelato essere un superbo testamento artistico, il testamento artistico di David Bowie. “Blackstar” è un capolavoro di inventiva e sintesi: 7 brani mai banali, tutti indicatori di una creatività che, malgrado un fisico fiaccato dalla malattia, non è venuta mai meno. Spiccano in particolare la lunghissima, epica title track; Lazarus (che richiama i Radiohead di “In Rainbows”) e Girl Loves Me. Da non trascurare anche Sue (Or In A Season Of Crime).

Cosa chiedere di più al Duca Bianco? “Blackstar” non sarà il miglior album della sua produzione, ma senza dubbio resterà negli annali come uno dei più belli del 2016 e dell’intero decennio. Chapeau, Starman.

23) Vince Staples, “Summertime ‘06” (2015)

(HIP HOP)

Abbiamo già avuto modo di vedere che il 2015 è stato un anno incredibile per la musica; tuttavia, non va trascurata la definitiva affermazione di Vince Staples, che grazie al suo album d’esordio “Summertime ‘06” ha scritto una pagina indelebile del rap recente.

Aiutato dalla produzione oscura e penetrante di Clams Casino e Dion “No I.D.” Wilson, uomo di punta dell’etichetta Def Jam, le canzoni del doppio CD sono tra loro connesse da tematiche comuni (la tragica vita nelle periferie californiane, la totale assenza di sentimenti positivi e la perdita della speranza) ma anche da ritmiche simili: i 60 minuti di “Summertime ‘06” passano molto bene, con capolavori fatti e finiti come Norf Norf e Lift Me Up.

Indelebili sono poi alcuni versi. In Summertime Vince canta: “My teachers told us we were slaves, my momma told me we were kings, I don’t know who to listen to. I guess we somewhere in between. My feelings told me love is real, but feelings here can get you killed”. Oppure questa frase, amara quanto a volte condivisibile, contenuta in Jump Off The Roof: “I hate when you lie; I hate the truth, too”.

Insomma, nessuna delle due metà è sovraccarica o noiosa, mantenendo il livello complessivo del CD altissimo e consentendo a Vince Staples di poter osare nei suoi successivi lavori, i brevissimi “Big Fish Theory” (2017) e “FM!” (2018), non sbagliando peraltro mai un colpo.

22) St. Vincent, “St. Vincent” (2014)

(ROCK – POP)

Il quarto album solista di Annie Clark (non contando dunque quello collaborativo con David Byrne), in arte St. Vincent, è il suo CD più compiuto. Traendo spunto da “Strange Mercy” (2011) e sviluppando ulteriormente le proprie sensibilità pop, Annie ha costruito un prodotto praticamente perfetto, con le perle di Birth In Reverse, che difende l’indie rock delle origini, e Prince Johnny, che invece flirta con il pop, un fatto che poi scopriremo essere determinante per “MASSEDUCTION” (2017).

“St. Vincent” è un lavoro che dimostra molta confidenza nei propri mezzi da parte dell’artista, evidente nei pezzi dove le sue notevoli abilità alla chitarra sono in mostra, si pensi a Birth In Reverse e Huey Newton. Tuttavia, non si scade mai nell’arroganza o nella prevedibilità, tanto che il CD è coeso e degno della palma di miglior LP del 2014.

Non abbiamo mai rivisto una St. Vincent così creativa e allo stesso tempo sicura di sé, nondimeno Annie Clark ha già dimostrato in passato di non essere nuova a reinvenzioni. La cantautrice statunitense si è infatti affermata come una delle maggiori artiste della decade appena trascorsa, segno che il rock ha ancora modo di stupire i fans.

21) Tame Impala, “Currents” (2015)

(ROCK – ELETTRONICA)

Coraggio: ecco una delle parole chiave per descrivere la svolta dei Tame Impala. Dopo due album riusciti come “Innerspeaker” (2010) e “Lonerism” (2012), ci saremmo aspettati un inevitabile passo falso del quintetto australiano. Beh, mai impressione fu più sbagliata: la band “aussie” capitanata da Kevin Parker non finisce di stupire, pubblicando un CD davvero gradevole.

“Currents” si distacca dalla psichedelia dei due precedenti lavori, virando decisamente verso una elettronica zuccherosa e tremendamente ammaliante. Eventually e Cause I’m A Man ne sono esempi notevoli (la prima inizia potente, poi diventa quasi Bee Gees; la seconda è una ballata davvero buona), ma il vero capolavoro è Let It Happen: 7 minuti piazzati ad inizio album (il rischio supponenza o arroganza era altissimo) a imitare i Daft Punk, con parte centrale quasi “tamarra” e voce di Parker quanto mai distorta. Clamorosa Past Life, con duetto fra Parker e una misteriosa seconda voce su base R&B: brano da urlo. Da non sottovalutare anche Yes, I’m Changing e Disciples, unico pezzo che ricorda il passato psichedelico del gruppo.

Insomma, “Currents” segna una svolta fondamentale nella carriera dei Tame Impala, a questo punto uno dei maggiori gruppi rock contemporanei. Ma sorge spontanea una domanda: possiamo ridurre Parker & co. al rock? Direi proprio di no. “Currents” ha ampliato notevolmente il loro range sonoro, passando per elettronica e funk. Chapeau ad una delle più significative band contemporanee.

20) Grizzly Bear, “Shields” (2012)

(ROCK)

Il quarto album degli statunitensi Grizzly Bear è il loro album più complesso, privo delle hit che li resero famosi nel precedente “Veckatimest” (2009), soprattutto la famosissima Two Weeks, ma caratterizzato da un’ambizione negli arrangiamenti e nei cambi di ritmo degni dei migliori Radiohead e di Joni Mitchell.

Già i singoli di lancio, Sleeping Ute e Yet Again, fecero gridare al miracolo nell’ormai lontano 2012; ma ancora oggi sono brani modernissimi, che rendono “Shields” un CD dall’altissimo replay value, grazie ad una produzione impeccabile e a una cura del dettaglio incredibile. Oltre alle canzoni citate prima, sono da ricordare i pezzi che chiudono il disco: Half Gate e Sun In Your Eyes sono clamorosi, ancora oggi fra i migliori della carriera già fiorente dei Grizzly Bear.

I due alfieri della band, Ed Droste e Daniel Rossen, non sono più riusciti a tornare ai brillanti risultati di “Shields”, mantenendo un buon livello ma mai la quasi perfezione che caratterizza questo lavoro, uno dei migliori lavori art rock della decade.

19) Real Estate, “Days” (2011)

(ROCK)

Eccolo qua il capolavoro (ad oggi) della discografia dei Real Estate: con “Days” la band statunitense raggiunge probabilmente il risultato massimo ottenibile con la formula che caratterizza il loro genere musicale, fatto di indie rock soft mischiato con il folk gentile tipico dei Fleet Foxes prima maniera.

Dieci brani pressoché perfetti, coesi e senza passi falsi: si va dal soft rock di Out Of Tune alla bellissima cavalcata di All The Same, dal pop elegante di Green Aisles alla notevole It’s Real. Il capolavoro vero è però Municipality, un brano degno dei migliori Beach Boys. In generale, in un 2011 caratterizzato da rivali di assoluto rilievo (Bon Iver e M83, per esempio), “Days” si staglia come uno dei migliori lavori non solo di quell’anno, ma anche del decennio.

18) Girls, “Father, Son, Holy Ghost” (2011)

(ROCK)

Dopo il successo del primo CD “Album” e un EP di pregevole qualità, “Broken Dreams Club” del 2010, con i picchi delle squisite Heartbreaker e Carolina, i Girls erano attesi al varco.

E la giovane band non si fa trascinare e non cerca di strafare; piuttosto, “Father, Son, Holy Ghost” perfeziona la formula vincente di “Album”, migliorando la produzione e la cura dei dettagli delle singole canzoni, oltre alla coesione generale. Perso l’effetto sorpresa, Owens e co. cercano quindi di raggiungere il picco delle loro potenzialità, citando anche i Led Zeppelin (Die).

I risultati sono ancora una volta grandiosi: brani come Honey Bunny, Vomit e Forgiveness sono fantastici. Il capolavoro vero è però Alex: 4 minuti di bellissimo britpop, con forti reminiscenze degli Oasis, con strati di chitarre che si accumulano e la calda voce di Owens a tenere insieme il tutto. In poche parole, uno dei più riusciti LP dell’anno e anche del decennio. Chiusura migliore non si poteva immaginare per la carriera dei Girls.

17) Daft Punk, “Random Access Memories” (2013)

(ELETTRONICA)

Il 2013 è stato decisamente un buon anno per la musica; abbiamo avuto ottimi album indie rock, dai The National ai Vampire Weekend, hip hop avanguardistico ma accessibile (“Yeezus”) e… “Random Access Memories”. Il CD dei Daft Punk fa in effetti storia a sé: nato come un album tributo ai maestri del geniale duo, da Giorgio Moroder a Todd Williams, passando per Nile Rodgers degli Chic, si è evoluto nel maggior successo dei francesi, ancora oggi apprezzatissimo sia dai fans maggiormente mainstream che da quelli più ricercati.

Sì, perché in “Random Access Memories” ognuno può trovare un pezzo di suo gradimento: dal soft rock della sontuosa Give Life Back To Music al prog pop di Giorgio By Moroder, alla ballabilità dell’immortale Get Lucky, a pezzi più ricercati come Touch e Within… Senza trascurare la collaborazione di Panda Bear in Doin’ It Right e quella di Julian Casablancas nella memorabile Instant Crush.

Insomma, un trionfo per gli audiofili così come per l’ascoltatore casuale. Peccato solamente che ancora non sia arrivato l’erede di “Random Access Memories”, ma conoscendo i tempi sempre piuttosto lunghi dei Daft Punk non è certo una sorpresa. Nondimeno, ci resta un altro capolavoro in una delle discografie più influenti di sempre nella musica elettronica; e non solo.

16) Car Seat Headrest, “Twin Fantasy” (2018)

(ROCK)

 “Twin Fantasy” occupa un posto speciale nel cuore di Toledo: questa è infatti la seconda versione dello stesso disco, la prima è stata pubblicata nel 2011 e aveva fatto conoscere a molti il talento di Toledo, allora ancora solista e impossibilitato ad avere una produzione curata a dovere.

Fondamentale è il background di “Twin Fantasy”: Toledo narra nel CD le sue disavventure, specialmente alla luce dei turbamenti adolescenziali e della scoperta della propria omosessualità, tanto che molti testi delle dieci canzoni che compongono il disco contengono riferimenti ad amori, sia passati che vissuti al tempo della composizione. Ne sono esempio “most of the time that I use the word ‘you’, well you know that I’m mostly singing about you”; oppure “we were wrecks before we crashed into each other”. Tuttavia, Toledo ha già dimostrato di essere anche ironico nelle sue liriche: ad esempio, in Bodys canta “Is it the chorus yet? No. It’s just a building of the verse, so when the chorus does come it’ll be more rewarding”, circostanza che poi si rivelerà veritiera peraltro.

La bellezza del CD non risiede tuttavia solamente nel concept alla sua base e nei testi: come già accennato, “Twin Fantasy” è uno dei più riusciti LP della decade. Le canzoni grandiose sono numerose: le lunghissime Beach Life-In-Death e Family Prophets (Stars) sono le ancore del disco, i punti ineludibili per chi ama le composizioni rock più ambiziose. Nervous Young Inhumans ricorda i migliori Killers, Bodys ha una base ritmica pazzesca, così come Cute Thing.

Risulta difficile trovare un pezzo meno efficace, tutti hanno la perfetta posizione nella tracklist e un significato ben preciso nella narrazione del disco. Magnifica, infine, la contrapposizione High To DeathSober To Death, altro passaggio cruciale per comprendere pienamente il CD e i temi da cui scaturisce.

Insomma, un capolavoro fatto e finito. Possiamo dunque concludere che il talento di Will Toledo è definitivamente sbocciato con la riedizione di “Twin Fantasy”: il giovane cantante ci aveva già mostrato parte delle sue potenzialità in “Teens Of Style” (2015) e “Teens Of Denial” (2016); mai, tuttavia, aveva prodotto un CD così bello.

15) Radiohead, “A Moon Shaped Pool” (2016)

(ROCK)

Diventa sempre più difficile parlare in maniera imparziale dei Radiohead, una delle band davvero fondamentali del rock degli ultimi vent’anni, con all’attivo album del calibro di “The Bends” (1995), “OK Computer” (1998) e “Kid A” (2000), senza dimenticarci di “In Rainbows” (2007). Ebbene, si sarebbe portati a pensare che ormai la spinta creativa del complesso inglese possa essersi esaurita, considerando anche il predecessore di “A Moon Shaped Pool”, quel misterioso “The King Of Limbs” (2011) che aveva fatto storcere il naso ad alcuni critici e fans della band.

Invece, “A Moon Shaped Pool” ribalta tutto ciò: 11 canzoni davvero ispirate, che passano dal rock vecchia maniera (la politica Burn The Witch e Identikit), alle ballate strappalacrime (le incantevoli Daydreaming e True Love Waits), passando per accenni di elettronica raffinata (in Ful Stop). Da ricordare anche l’apertura al folk di Desert Island Disk.

In poche parole, un altro capitolo di una carriera che ha del leggendario è stato scritto: la palma di miglior album del 2016 è pienamente meritata. Lunga vita a Thom Yorke e compagni, gli unici a cui l’etichetta di “nuovi Beatles” può adattarsi, data la continua ricerca sonora e la voglia di non darsi mai per vinti di fronte alle tendenze del panorama musicale contemporaneo.

14) Fleet Foxes, “Crack-Up” (2017)

(FOLK)

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, I Should See Memphis ricorda quasi gli Animal Collective nel finale, dopo un inizio dolce.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk.

13) The National, “Trouble Will Find Me” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei The National è quello che dovrebbe convincere anche coloro che avevano storto il naso per le precedenti opere della band indie rock capitanata da Matt Berninger. Tutto, dalla voce di Matt alla base ritmica dei fratelli Dessner e Darendorf, è al suo meglio in “Trouble Will Find Me”. I brani riusciti non si contano, dalla trascinante Graceless alla bellissima Don’t Swallow The Cap, fino alla celebre I Need My Girl, probabilmente la migliore ballata mai scritta dai The National.

Nota da tenere a mente: il CD è anche il loro disco più accessibile fino a quel momento, tanto che ancora oggi molti di questi pezzi sono punti nodali dei loro live. Ed è più che giusto che i loro eredi siano stati baciati dal successo, con “Sleep Well Beast” (2017) vincitore di un Grammy e “I Am Here Now” (2019) addirittura accompagnato da un breve film con protagonista Alicia Vikander.

Insomma, possiamo dirlo chiaro e tondo: i The National sono al momento la band indie rock più affidabile su piazza. E non è un complimento da poco, avendo battuto la concorrenza di Arcade Fire, Strokes e tutte le altre nate nei fiorenti anni ’00.

12) Beach House, “Bloom” (2012)

(POP)

Al quarto LP, gli americani Beach House hanno perfezionato a livelli estremi quella formula fatta di dream pop sopraffino con delicati intarsi indie e shoegaze che li ha resi uno dei gruppi di riferimento del pop-rock alternativo degli anni ’10.

Se il precedente “Teen Dream” (2010) aveva preparato il terreno (e posto le basi per molto dream pop successivo), in “Bloom” Victoria Legrand e Alex Scally sembrano totalmente a loro agio e pronti a raggiungere il picco delle loro capacità: capolavori come Myth, Lazuli e Troublemaker sono highlight di un disco pressoché impeccabile.

I Beach House non si sono fermati con questo album, anzi hanno cercato progressivamente di cambiare pelle, introducendo elementi psichedelici e di rock vero e proprio che hanno fatto di “7” (2019), come già visto in precedenza, un ottimo lavoro. Nessuno però, fino ad ora, ha raggiunto questi eccezionali livelli.

11) Destroyer, “Kaputt” (2011)

(ROCK)

Può un artista produrre il suo lavoro più completo dopo quasi venti anni (20!) di attività e 10 CD alle spalle? In effetti solo Dan Bejar poteva farlo. L’anima dei Destroyer infatti, con “Kaputt”, già nel titolo indica una cesura forte con la sua vita passata. Basta con gli eccessi, le droghe, le ragazze inseguite senza freni: Bejar vuole maturare e “Kaputt”, sia testualmente che musicalmente, è un capolavoro.

Il sound è fortemente anni ’80, richiamando il primo Michael Jackson e i Roxy Music, ma le liriche che accompagnano le 9 tracce del lavoro sono piene di riferimenti al passato turbolento di Dan: la title track parla di giorni sprecati dietro la cocaina e le donne, mentre la magnifica Blue Eyes contiene una delle più belle e toccanti frasi motivazionali: “I sent a message in a bottle to the press. It said: Don’t be ashamed or disgusted with yourselves”.

“Kaputt” è il prodotto di un cantautore al top delle sue potenzialità, con brani di spessore assoluto che vanno dal soft rock (Chinatown) all’indie rock (Savage Night At The Opera), passando per elementi quasi prog (Bay Of Pigs) e super ballate (Suicide Demo For Kara Walker). In poche parole: un LP imperdibile per gli amanti della musica morbida e seducente di Prince, Sade e… dei Destroyer.

10) Tame Impala, “Lonerism” (2012)

(ROCK)

Pubblico e critica erano rimasti ben impressionati da “Innerspeaker” e le attese per il suo successore erano molto alte. I Tame Impala le mantennero, addirittura superando il già brillante esordio. “Lonerism” infatti, oltre a una superiore qualità delle melodie, brilla anche per i bei testi di molti brani del CD.

A questo proposito abbiamo le bellissime Why Won’t They Talk To Me? ed Elephant, ma sono riuscitissime anche Mind Mischief, la lunga ma coinvolgente Apocalypse Dreams e l’introduttiva Be Above It, che sembra anticipare la svolta elettronica di “Currents”. Il miracolo vero è però Feels Like We Only Go Backwards, il primo vero pezzo pop uscito dalla mente pazza ma geniale di Kevin Parker, leader del gruppo australiano.

Insomma, un trionfo di chitarre, batteria e base ritmica: uno dei migliori lavori del 2012 e, senza dubbio, il miglior LP di musica psichedelica degli anni ’10.

9) Jamie xx, “In Colour” (2015)

(ELETTRONICA)

Ormai la musica elettronica rischia di diventare un genere troppo inflazionato: questo sembra infatti essere il trend della musica contemporanea. Daft Punk, Burial, Caribou, Aphex Twin: tutti devono per forza suonare come uno di questi capisaldi della EDM (Electronic Dance Music), i più sostengono.

Ebbene, non è così: l’esordio solista di Jamie Smith (in arte Jamie xx), batterista degli osannati xx, colpisce per la freschezza del suono. Si va dal post dubstep di Gosh al pop molto à la xx di Stranger In A Room (cantata non a caso dal collega di gruppo Oliver Sim), ma le perle sono prevalentemente club music: la tesissima Hold Tight e la bella The Rest Is Noise colpiscono l’ascoltatore. Tuttavia, i veri capolavori sono Loud Places e SeeSaw, con Romy Madley-Croft (l’altra componente degli xx) a condurre le danze: due brani pop/elettronici raffinati e affascinanti, tra i più riusciti della decade.

“In Colour” è semplicemente uno dei migliori CD di musica elettronica degli anni ‘10, capace di suonare innovativo pur in un genere molto “frequentato” come la EDM: ecco il grande pregio di Jamie xx.

8) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019)

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi dieci minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

“Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente uno dei migliori LP della decade.

7) Deerhunter, “Halcyon Digest” (2010)

(ROCK)

La carriera dei Deerhunter è una delle più brillanti nel mondo indie rock recente. Per capire come mai “Halcyon Digest” sia probabilmente il loro CD più bello occorre inquadrarlo nella loro discografia. Il 2010 è un anno decisivo per il complesso statunitense: il 2008 li ha visti pubblicare una coppia di ottimi lavori, “Microcastle” e “Weird Era Cont.”, entrambi più accessibili dei precedenti sforzi dei Deerhunter ma non per questo troppo mainstream. Come continuare su questo percorso rischioso ma redditizio sia in termini di esposizione che di qualità musicale?

“Halcyon Digest” è un concentrato della miglior “ricetta” Deerhunter: base ritmica serrata ma non ossessiva, attenzione alla melodia, ritornelli ammalianti, la voce di Bradford Cox a tenere assieme tutto e a cantare di nostalgia (Revival) così come di amici morti (He Would Have Laughed, dedicata a Jay Reatard).

Le canzoni citate sono peraltro fra le migliori del lotto: ma non possiamo dimenticarci della delicata Memory Boy, delle brevi ma trascinanti Coronado e Fountain Stairs così come della lunghissima Desire Lines, dove il chitarrista Lockett Pundt dà il meglio di sé. Ma arrivati in fondo al CD ci potrebbe assalire un dubbio: e se la migliore traccia fosse Helicopter e la sua storia torbida quanto straziante di prostituzione e abusi?

I Deerhunter in seguito hanno prodotto altri buonissimi lavori, ma nessuno ha ritrovato il magico senso di avventura, fragilità e innovazione che percorrono il magnifico “Halcyon Digest”.

6) Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell” (2015)

(FOLK)

Sufjan Stevens non è mai stato un artista facile: fin dagli esordi si era prefisso obiettivi ambiziosi e allo stesso tempo complessi (raccontare gli Stati americani, reinventare le canzoni della tradizione natalizia made in USA…), ma con “Carrie & Lowell” la missione è di quelle apparentemente impossibili: narrare il lutto per la morte della madre senza apparire patetico o, peggio, uno sciacallo pronto a sfruttare un lutto per ragioni puramente economiche. Beh, Sufjan riesce straordinariamente bene a superare anche questa missione.

Canzoni come Should Have Known Better, Death With Dignity e la meravigliosa Fourth Of July sono fra le migliori mai composte in carriera, con liriche davvero commoventi. In generale, quello che musicalmente rimane impresso di “Carrie & Lowell” è la straordinaria coesione e la perfezione stilistica, che lo rendono uno dei migliori album del decennio. Inoltre, finalmente Stevens non si dilunga eccessivamente nella durata e nel numero delle canzoni presenti, riducendo il CD a 12 canzoni invece che le solite 18-19. Una vera perla, insomma, tanto da rendere i 45 minuti scarsi di durata di “Carrie & Lowell” una ammaliante magia.

5) The 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationship” (2018)

(ROCK – POP)

La cosa che più sorprende (e affascina) del talentuoso complesso originario di Manchester è che i risultati di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” sono davvero paurosi, malgrado la grande varietà di generi affrontati (rock, pop, elettronica, ballate strappalacrime, perfino SoundCloud rap!).

I dubbi sulla consistenza e coesione dell’album sono fugati fin dal primo ascolto: i The 1975 hanno generato un CD che resterà nella storia della decade come il disco più millennial mai prodotto. Frammentario ma in qualche modo coeso, vario ma mai fine a sé stesso, profondo e accessibile: “A Brief Inquiry Into Online Relationships” si staglia come un pilastro del rock degli anni ’10, probabilmente l’unico modo per vedere ancora questo genere primeggiare nelle chart.

In tutto questo, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un album davvero generoso di pezzi grandiosi: It’s Not Living (If It’s Not With You) è una delle canzoni migliori dell’anno, I Always Wanna Die (Sometimes) ricorda i Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”, How To Draw / Petrichor parte come Brian Eno e finisce come l’Aphex Twin più scatenato, con risultati clamorosi. Infine, I Couldn’t Be More In Love è pari alle melodie più dolci di George Michael. Il vero highlight è però la trascinante Love It If We Made It, con base molto anni ’80 ma testo riferito strettamente alle vicende politiche odierne e l’ormai iconico verso “thank you Kanye, very cool!”.

In conclusione, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un LP di non facile lettura e in cui ci si può perdere data la grande quantità di generi affrontati e i testi mai banali. Tuttavia, gli amanti della musica non possono non ammirare il coraggio di Healy e compagni di voler riportare il rock (pur contaminato da mille influenze) in cima alle classifiche.

4) Bon Iver, “Bon Iver, Bon Iver” (2011)

(FOLK – ELETTRONICA)

Dopo essersi rinchiuso in un eremo, completamente solo e lontano da tutti, per comporre il precedente lavoro “For Emma, Forever Ago” (2007), Vernon ricorre a un altro stratagemma per rendere ancora più attraente “Bon Iver, Bon Iver”: immaginarsi un viaggio in località a volte reali (Perth, Minnesota), altre volte inventate (Michicant, Hinnom). Da sottolineare la varietà di suoni e strumenti adottata da Bon Iver: tutto sembra essere al posto giusto al momento giusto. Restano impresse la straziante Holocene e la conclusiva Beth/Rest, ideale culmine dell’opera, oltre alla iniziale Perth (una marcetta irresistibile) e le belle Towers e Michicant.

L’indie folk delle origini si è ampliato verso lidi elettronici (come in Towers e Calgary, nonché in Hinnom, TX), che fanno di “Bon Iver, Bon Iver” un CD decisivo nella discografia del gruppo americano capitanato da Justin Vernon, di cui è da ammirare la capacità di sapere quali corde emotive toccare e rendere l’ascolto dei suoi CD una straordinaria esperienza, attraverso anche una parziale apertura all’elettronica e al rock melodico.

3) Vampire Weekend, “Modern Vampires Of The City” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 non c’era band indie rock più attesa al varco da detrattori e fans dei Vampire Weekend. Dopo due CD deliziosi ma un po’ leggerini, se non altro come sonorità, come avrebbero continuato la loro carriera? L’inizio già è abbastanza spiazzante: Obvious Bicycle comincia molto lenta, quasi come un pezzo dei Wilco, ma poi cresce, fino a diventare irresistibile. Stesso effetto con la successiva Unbelievers, ma la perla vera del lavoro è Hannah Hunt, che rievoca le atmosfere di “Contra”, ma con un suono davvero pop, apparentemente discordante con i precedenti CD del gruppo, particolarmente “Vampire Weekend” (2008), l’esordio molto più facile e diretto. Ma i gioielli non finiscono qui: Step rappresenta forse la migliore prova vocale mai registrata da Ezra Koenig, Ya Hey è come un affresco tanto è caratterizzata da liriche astratte e strumentazione ariosa…

Al primo ascolto “Modern Vampires Of The City” può apparire strano e sconclusionato, ma alla lunga si apprezza il festival sonoro messo su dai quattro newyorkesi, capaci di scrivere una pagina decisiva del rock del XXI secolo e particolarmente degli anni ’10, che ha influenzato band del calibro di The 1975 e ha in un certo senso rappresentato uno scoglio difficilmente superabile anche per il gruppo stesso, che gli ha trovato un erede solo sei anni dopo con “Father Of The Bride” (2019).

2) Kanye West, “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010)

(HIP HOP)

Gli anni ’10 del XXI secolo sono stati gli anni dell’esplosione dell’hip hop: questa sarà probabilmente la maggiore eredità musicale della decade. Molto del rap contemporaneo ha una grande ispirazione: Kanye West. L’artista di Chicago, oggi più controverso che mai date le sue recenti esternazioni su Trump (considerato un “dragon spirit” affine a Kanye) e sulla tratta degli schiavi (ritenuta responsabilità almeno in parte degli stessi neri), è prima di tutto un genio musicale. Già nel decennio precedente aveva fatto vedere tutto il suo talento in un capolavoro come “Late Registration” (2005). “808s & Heartbreak” del 2008 aveva aggiunto elettronica e atmosfere decisamente più cupe alla sua palette sonora, ma è “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” il vero compimento della sua carriera.

Da Gorgeous alla potentissima POWER, passando per la monumentale Runaway e l’epica All Of The Lights, tutto gira a meraviglia, tanto che è difficile stabilire quale canzone spicchi sulle altre. Kanye è allo stesso tempo al centro dell’attenzione ma pronto a cedere il palcoscenico a giovani leve come Nicki Minaj (spettacolare il suo verso in Monster) e Kid Cudi, ma anche ad artisti come Pusha-T e Bon Iver aka Justin Vernon, non tralasciando star come Rihanna e Jay-Z.

“My Beautiful Dark Twisted Fantasy” ha ispirato centinaia di altri rapper negli anni seguenti, da Drake a Kendrick Lamar, da Chance The Rapper a Tyler, The Creator. Tutti costoro hanno prodotto lavori più o meno significativi negli anni 2010-2019, ma nessuno è stato tanto massimalista, innovativo e geniale come Kanye.

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (2012)

(R&B)

Arrivati al numero 1 di questa lunga lista, la domanda potrà sorgere spontanea: perché proprio Frank Ocean? In fondo l’R&B ha conosciuto altri momenti memorabili nel corso di questa decade (il primo The Weeknd o Blood Orange, per esempio). “Channel Orange” è il miglior CD della decade per svariati motivi: la produzione immacolata di Frank, che crea gioielli in ogni canzone del disco, dal lento eccellente di Thinkin Bout You a Crack Rock, dall’epica Pyramids al lamento commovente di Bad Religion. Potremmo poi aggiungerci il sequenziamento perfetto, gli ospiti di spessore (da André 3000 a Earl Sweatshirt), la duttilissima voce di Frank Ocean che va dai toni bassi al falsetto più celestiale immaginabile… Aggiungiamo poi una durata ben calibrata, 55 minuti, per la storia narrata (un giorno nella calda estate di Los Angeles) e avremmo il quadro perfetto.

Insomma, “Channel Orange” ha rivitalizzato un genere che pareva moribondo e lo ha reso il più attrattivo per le star pop e rap sia nel 2012 che nel futuro, influenzando tantissimi cantanti nella decade (da Anderson.Paak a Justin Timberlake, da Moses Sumney a Syd) ma allo stesso tempo rimanendo inattaccabile. Aggiungiamo a questa consistente eredità uno dei primi coming out avvenuti nel mondo della black music (in Thinkin Bout You e in una lettera dell’epoca Frank confessa che il suo primo amore è stato per un ragazzo): una mossa che avrà certamente spinto altri artisti, da Tyler, the Creator a Kevin Abstract dei BROCKHAMPTON, a fare altrettanto senza paura di rimanere soli.

“Channel Orange” racchiude dunque tutte le caratteristiche di un classico. E tale è, meritando pienamente il primo posto nella classifica di A-Rock dei migliori 200 album della decade 2010-2019.

Quali sono i vostri pensieri? Siete d’accordo con le scelte di A-Rock oppure avreste optato per altri dischi nella parte alta della classifica? Non esitate a lasciare commenti!

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

I 5 album più deludenti del 2017

Il 2017 ci ha regalato grandi ritorni, alcuni attesi (Fleet Foxes, Gorillaz, LCD Soundsystem), altri imprevisti e, per questo, ancora più apprezzati (Liam Gallagher, Fever Ray). Tuttavia, alcuni artisti a cui siamo affezionati data la loro grande carriera hanno drammaticamente deluso le aspettative che avevamo riposto in loro. Tra di essi troviamo Arcade Fire, U2, Weezer, Taylor Swift e Linkin Park. Gli album sono elencati in ordine alfabetico per nome dell’artista; del resto, fare una lista basata sul merito sarebbe stato difficile, dati i risultati mediocri in ciascuno dei cinque casi.

Arcade Fire, “Everything Now”

arcade fire

Il quinto album degli Arcade Fire, band simbolo della scena indie rock degli anni ’00, autrice di capolavori come “Funeral” (2004), “Neon Bible” (2007) e “The Suburbs” (2010), è il loro album più pop e, allo stesso tempo, il più inconsistente. Infatti, accanto a brani molto riusciti, abbiamo per la prima volta canzoni davvero superflue e, addirittura, pessime.

“Everything Now”, questo il titolo del nuovo LP, si caratterizza come un concept album: un’impresa già tentata (e riuscita) ai tempi di “The Suburbs”, che raccontava l’infanzia non semplice dei membri della band. “Everything Now”, invece, si concentra sul consumismo che caratterizza la nostra epoca e sul desiderio di diventare famosi, anche se solo per qualche ora, dei giovani. Un intento lodevole: non concentrarsi sui propri sentimenti, ma tentare qualche cosa di universalmente valido.

Purtroppo, i risultati non sono rose e fiori: la title track e Creature Comfort racchiudono perfettamente il messaggio che la band vuole trasmettere, con ritmica potente e un gusto pop e dance innovativo per gli Arcade Fire, ma contemporaneamente molto intrigante per il pubblico. Si ritrovano infatti chiare influenze di Abba e LCD Soundsystem, fino ad oggi raramente rinvenibili in un disco degli AF. Anche i testi sono decisamente rilevanti: in Everything Now Win canta:”I want it everything now, I need it everything now, I can’t live without everything now…”, insomma la critica ai giovani d’oggi per volere tutto subito è evidente. In Creature Comfort, la bulimia degli acquisti compulsivi e dei like su Facebook/Instagram/Twitter è messa alla berlina: “On and on I don’t know what I want, on and on I don’t know if I want it…”; e poi “some boys hate themselves, spend their lives resenting their fathers. Some girls hate their bodies, stand in the mirror and wait for the feedback”.

Peccato che poi compaiano delle tracce davvero evitabili: se Peter Pan vi pare brutta, aspettate e avrete subito dopo Chemistry, senza dubbio la peggior canzone mai composta dagli Arcade Fire. Ecco di cosa parlavamo all’inizio: gli Arcade Fire sono senza dubbio capaci di scrivere pezzi migliori di questi due, perché tediare il proprio pubblico quindi con roba del livello di Peter Pan e Chemistry?

I due brevi intermezzi Infinite Content ed Infinite_Content (no, non scherzo) ci portano alla seconda parte dell’album: anche qua il discorso si ripete. Abbiamo un buon pezzo in Good God Damn, che ricorda le atmosfere di “Reflektor”; l’interessante Electric Blue cantata dalla sola Régine Chassagne (moglie di Win Butler); ma anche pezzi a mala pena discreti come Put Your Money On Me e We Don’t Deserve Love. Bell’idea, però, quella di chiudere il CD con la ripresa di Everything Now, che era anche prima canzone nella scaletta, a rafforzare l’idea di concept album alla base del disco.

La cosa che più delude, tuttavia, è che gli Arcade Fire abbiano per la prima volta usato del puro filler per arrivare alla durata prescelta, in termini di canzoni e minutaggio, di un CD: come definire altrimenti obbrobri come Peter Pan e Chemistry? Speriamo che “Everything Now” sia solo un mezzo passo falso in una discografia finora eccezionale: proseguire in questo percorso più pop ed elettronico non sembra la miglior opzione per gli Arcade Fire, vedremo cosa accadrà nella loro prossima avventura.

Linkin Park, “One More Light”

one more light

La morte di Chester Bennington è ancora impressa a fuoco nella nostra memoria: alla fine della fiera, eccettuate le ultime pessime uscite, i Linkin Park avevano contribuito non poco a svecchiare il mondo del rock, ma anche quello dell’hip hop, fondendo fra loro metal e rap sotto il nome di “nu metal”. CD come “Hybrid Theory” (2000) e “Meteora” (2003) sono capisaldi del genere. La svolta pop-elettronica intrapresa con “A Thousand Suns” (2010) ed arrivata alle estreme conseguenze in “The Hunting Party” (2014) ha tuttavia inimicato molti fans della prima ora: le atmosfere ovattate e danzerecce effettivamente poco si addicevano a Bennington & company.

“One More Light” però ha un (de)merito in più: cercare di scimmiottare band come Twenty One Pilots o Owl City senza avere la benché minima abilità nello scrivere brani da discoteca o comunque tali da piacere ai giovani fans dei due gruppi citati sopra. L’intero album è quindi un completo fiasco, probabilmente uno dei peggiori non solo del 2017, ma dell’intera decade; la morte del frontman del gruppo non può lenire questo giudizio.

Certo, sarebbe stato bello che la carriera dei Linkin Park al completo fosse terminata con un ultimo colpo di coda, magari un ritorno alle antiche sonorità, comunque un LP degno di nota. Purtroppo, ciò non è accaduto: Chester, là in cielo, siamo convinti che canterà non brani senza mordente come quelli presenti in “One More Light”, ma hit come Numb o Somewhere I Belong.

Taylor Swift, “Reputation”

taylor swift

Questo è già il sesto album a firma Taylor Swift, una delle pop star più famose al mondo. Partita mescolando country e pop, i suoi primi tre lavori non erano memorabili, malgrado il crescente successo. Da “Red” (2012) in poi, però, anche la critica ha cominciato a riconoscerne le doti compositive; ciò è sottolineato dal successo di “1989” (2014), che anche i critici riconoscono come un moderno classico per gli amanti del pop. Per questo “Reputation” era molto atteso: il primo singolo non aveva per nulla convinto. Look What You Made Me Do sembrava infatti un pessimo anticipo per il CD e ne rappresenta il brano peggiore.

La partenza è buona: …Ready For It? è un’ottima intro al disco, che si caratterizza come già anticipato per basi molto potenti, più simili all’hip hop e all’R&B che al pop di Lorde o St. Vincent. La seconda traccia sgancia già i due super ospiti presenti nel disco, Ed Sheeran e Future; la canzone, End Game, non è indimenticabile. Delicate, invece, è una ballata minimale e riuscita, più vicina a “1989”; lo stesso dicasi per Dress.

Il problema con “Reputation” è rappresentato soprattutto dall’elevato numero di canzoni presenti, 15, e dalla durata, 55 minuti, che sono chiaro segnale della presenza di tracce filler e, quindi, evitabili, cosa che non accadeva ad esempio in “1989”. Ne sono esempio So It Goes… e Don’t Blame Me. Non riuscita nemmeno This Is Why We Can’t Have Nice Things, troppo prevedibile. Gradevoli invece Gorgeous, che se non altro ha un ritmo ballabilissimo pur non essendo tamarra, e Getaway Car, potenziale singolo.

I temi affrontati in “Reputation”, come già il titolo indica, hanno soprattutto a che fare con la percezione che Taylor ha della sua fama e di come il pubblico la vede: come semidea oppure come ennesimo prodotto dello star system. Del resto, lei non ha fatto molto per smentire la seconda opinione: tra le liti con Kanye West e i flirt con attori e cantanti famosi, tutto nella sua vita sembra finto e fatto solo per far parlare di sé. Ognuno continuerà a vederla in un modo o nell’altro, anche dopo questo CD: è comunque da elogiare la sua volontà di aprirsi e narrare (onestamente?) i propri sentimenti.

In conclusione, “Reputation” è un altro passo in avanti nella discografia di Taylor Swift: il passaggio dal country al pop è definitivamente compiuto, tanto che spesso sembra di sentire una canzone di The Weeknd o Flume piuttosto che la vecchia Taylor (evidente tutto ciò in Dancing With Our Hands Tied). Il risultato finale non è certamente un capolavoro, diciamo che ci fa sperare di sentire meno tracce riempitivo e più ballate da parte della bella artista americana. Non è un caso che seconda parte del disco, più acustica, sia migliore della prima. Ci aspettavamo di più, insomma.

U2, “Songs Of Experience”

u2

Gli U2, veterani del rock, sono al quattordicesimo album di inediti: insomma, secondo molti sarebbe ora che mettessero da parte velleità di creare nuova musica e si dedicassero a fare tour con le vecchie hits in primo piano: chi non pagherebbe oro per vederli suonare dal vivo i lavori degli anni ’80 e di “Achtung Baby”, per esempio? Tuttavia, Bono e soci vanno avanti per la loro strada, con le loro ballate intrise di messaggi politici universali, sicuri che il pubblico continuerà a comprare i loro CD e andare ai loro concerti.

Nondimeno, ormai la traiettoria discendente intrapresa dal complesso irlandese è evidente: è da “How To Dismantle An Atomic Bomb” (2004) che gli U2 non pubblicano un album davvero degno di nota, fanno 13 anni. I successivi dischi avevano tentato di innovare, almeno parzialmente, il sound del gruppo, senza particolare successo. Almeno, uno dirà, Bono & co. trasmettono bei messaggi: accoglienza, lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni sono sempre stati temi presenti nelle canzoni degli U2. Adesso però la maschera è tolta: un’inchiesta ha beccato Bono a mettere soldi nei paradisi fiscali! Allora erano ipocriti e falsi come tutti gli altri, molti diranno. Sì e no: in generale, non si può certo elogiare il leader degli U2, però insomma chi ha i mezzi per farlo un pensierino lo ha fatto almeno una volta sullo spostare soldi nei paradisi fiscali…

Detto questo, che poco c’entra col disco (il giudizio morale e la simpatia sono altro), purtroppo “Songs Of Experience” verrà ricordato come uno degli LP più deboli degli U2: le canzoni sono ormai stanche e prevedibili. Le poche che cercano di innovare (American Soul, The Showman (Little More Better)) sono poco convincenti; si salva giusto You’re The Best Thing About Me, buon singolo, e Love Is All We Have Left, che al di là del titolo zuccheroso è quasi dream pop. Ecco, diciamo che se il tono del disco fosse stato sulla falsariga di questa melodia avremmo avuto risultati migliori. I pezzi in assoluto peggiori sono Get Out Of Your Own Way e American Soul, fusione mal riuscita fra rap e rock (ascoltate la traccia quasi gemella XXX. di Kendrick Lamar e capirete la differenza abissale fra una fusione di successo e una fallimentare); non seducono nemmeno Red Flag Day e Landlady.

In generale, quindi, le voci su una carriera ormai agli sgoccioli possono essere confermate: meglio smettere quando si è ancora (relativamente) sulla cresta dell’onda che quando si è diventati caricature di sé stessi. Gli U2 non sono mai stati tanto vicini alla seconda, tragica, opzione.

Weezer, “Pacific Daydream”

weezer

Un album svogliato: ecco la prima impressione dopo aver ascoltato per la prima volta “Pacific Daydream”, nuovo CD dei Weezer. La band capitanata da Rivers Cuomo, cult per gli amanti del genere emo, di cui sono stati pionieri negli anni ’90, ha pubblicato un album davvero scadente. Sembravano aver ritrovato la forma migliore, i Weezer, nei due lavori precedenti, “Everything Will Be Alright At The End” (2014) e “Weezer” (2016). Invece, una carriera contraddistinta da tanti alti quanti bassi conosce un altro nadir.

Colpisce soprattutto il fatto che Cuomo e compagni abbiano rielaborato idee già presenti nel “white album” dell’anno scorso, vale a dire canzoni solari, legate alla California, spensierate e ballabili. Però, il saggio insegna, se una cosa funziona, riproporla uguale pochi mesi dopo rischia di risultare una mossa pigra e poco efficace, soprattutto per un gruppo noto per la sua volontà di non rimanere mai nel sentiero tracciato dai precedenti lavori.

Attendiamo con ansia il famigerato “black album”, annunciato da Cuomo per il 2018; del resto, ai Weezer non mancano molti colori, dopo aver pubblicato album omonimi su sfondi blu, verdi, rossi e bianchi. Probabilmente le sonorità cambieranno radicalmente, divenendo più cupe, ma sarebbe un bene per i Weezer, dati i pessimi risultati di “Pacific Daydream”. Speriamo che la band si risollevi: saranno mai in grado di replicare i risultati di “Pinkerton” (1996)? Probabilmente no, ma sperare non costa nulla. Altrimenti, meglio chiuderla qui, per quanto “Pacific Daydream”, come “One More Light” per i Linkin Park, sia una conclusione scadente per una carriera complessivamente discreta.