Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 50 migliori album del 2022 (50-26)

Il 2022 è stato davvero un anno ricco di buona musica. Abbiamo avuto prove di forza da parte di artisti che sono nel gotha del pop (Beyoncé, Taylor Swift, The Weeknd), altri autori e band avevano così tante cose da dire che hanno pubblicato più di un CD (Jack White, Nas, King Gizzard & The Lizard Wizard)… Altri ancora invece hanno preferito pubblicare album doppi che riassumono in modo impeccabile la loro estetica (Big Thief, Beach House). Infine, abbiamo visto emergere artisti di grande talento (Jockstrap, Chat Pile) e altri hanno confermato quanto di buono si dice da loro da anni (Arctic Monkeys, The 1975, Charli XCX).

Insomma, è proprio arrivato il momento di riassumere in due puntate, come di consueto, i 50 migliori album dell’anno. Buona lettura!

50) Nas, “Magic” / “King’s Disease III”

(HIP HOP)

Arrivato la Vigilia di Natale 2021 sui servizi di streaming e sugli scaffali dei negozi di musica, “Magic” lo trova in buona forma, non lontano dai suoi migliori momenti.

Nas è un nome sempre controverso nel mondo hip hop: capace di capolavori come “Illmatic” (1994) così come di flop colossali come “Nastradamus” (1999), negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sorta di sua rinascita artistica, soprattutto a partire da “King’s Disease” (2020). Assistito ancora da Hit-Boy e con ospiti di spessore come A$AP Rocky e DJ Premier, entrambi in Wave Gods, i 29 minuti di durata del CD passano facilmente e aiutano il replay value. L’essere retro nelle sonorità è solo un fattore tra tanti, per alcuni anzi potrebbe anche essere un valore aggiunto.

Liricamente, Nas si conferma rapper capace di scrivere versi feroci (“I’m tellin’ it like it is, you gotta deal with the consequence”, in Speechless) e nostalgico (in Dedicated cita il film Carlito’s Way e Mike Tyson, icone degli anni ‘90), arrogante (“Only thing undefeated is time, the second is the internet, number three is this rhyme”, sempre in Speechless) e dubbioso della capacità di mantenere la fedeltà per molto tempo (“One girl for the rest of your life, is that realistic?”, chiede retoricamente in Wu For The Children). I brani migliori sono Dedicated e Speechless, sotto la media invece The Truth.

In generale, “Magic” conferma una volta in più che, quando Nas è concentrato e senza grilli per la testa, è capace di produrre CD davvero riusciti. Questo, purtroppo per lui e la sua eredità artistica, non è sempre stato il caso, soprattutto nella parte centrale della sua carriera.

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

49) Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

(ROCK)

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

48) Steve Lacy, “Gemini Rights”

(R&B – SOUL)

Il secondo album vero e proprio a firma Steve Lacy (anche parte del collettivo The Internet) è un ottimo CD di neo-soul e R&B. Nulla di innovativo su questi fronti, sia chiaro, ma Lacy si dimostra in grado di brillare anche da solista, dopo fruttuose collaborazioni in passato con Vampire Weekend e Solange Knowles, tra gli altri.

L’esordio “Apollo XXI” (2019) non era un cattivo LP, piuttosto mancava di cura nei particolari e, pertanto, era stato schifato dai critici più pignoli. “Gemini Rights”, da questo punto di vista, è un netto miglioramento, dovuto anche al fatto che questa volta Steve ha registrato il lavoro in uno studio vero e proprio e non, come in passato, attraverso il proprio cellulare o laptop.

La prima parte di “Gemini Rights” è formata da possibili hit: da Mercury a Bad Habit, passando per Buttons, abbiamo alcune tra le più belle canzoni a firma Steve Lacy. Nella parte centrale invece il lavoro perde vigore: ad esempio, il falsetto di Amber era ampiamente evitabile. Buona invece Sunshine, grazie anche alla collaborazione di Foushée.

Anche liricamente il Nostro dimostra una maturità nel parlare dei propri sentimenti che in passato non avevamo colto. Molto del CD ruota accanto ad una rottura sentimentale recentemente patita da Lacy: ad esempio, in Static canta “If you had to stunt your shining for your lover, dump that fucker”, mentre Mercury contiene il seguente verso: “Oh, I know myself, my skin, rolling stones don’t crawl back in”. Helmet possiede il momento più evocativo dell’intero CD: “I tried to play pretend (oh-oh), tried not to see the end (ah-ah), but I couldn’t see you the way you saw me. Now I can feel the waste on me”.

In conclusione, “Gemini Rights” è un buonissimo LP estivo: canzoni leggere, a metà tra soul e R&B, con tocchi funk, che sono ascoltabili tanto in spiaggia quanto nelle feste tra amici. Nulla di radicale, insomma, ma Steve Lacy ha finalmente dato sfoggio del suo talento. Tuttavia, siamo convinti che possa fare ancora meglio: aspettiamo con trepidazione il suo prossimo lavoro.

47) Let’s Eat Grandma, “Two Ribbons”

(POP)

Giunte al terzo album, le due cantautrici inglesi Jenny Hollingworth e Rosa Walton, in arte Let’s Eat Grandma, mantengono lo stile pop alternativo che contraddistingueva “I’m All Ears” (2018), l’album che aveva messo la band sulla bocca di molti. Non tutto funziona a meraviglia, ma la maturità con cui Hollingworth e Walton affrontano temi difficili come la morte prematura di una persona cara e le prime crepe nella loro amicizia ne fa consigliare l’ascolto.

Il primo fatto che balza all’occhio è la concisione del CD: dieci brani, di cui due intermezzi, per 38 minuti complessivi, potrebbero essere considerati da molti fan delle Let’s Eat Grandma non abbastanza, dopo ben quattro anni di assenza. Tuttavia, la coesione del lavoro e la bellezza di pezzi come Hall Of Mirrors e la frizzante Happy New Year sono punti a favore di “Two Ribbons”.

Dicevamo che il lavoro affronta tematiche delicate: Jenny Hollingworth ha visto morire il giovanissimo fidanzato a causa di una rara forma di tumore. Inoltre, Jenny e Rosa si sono progressivamente allontanate durante il tour a supporto del precedente CD “I’m All Ears” e hanno composto le canzoni individualmente per la prima volta nella loro carriera. Non parliamo quindi di un “ordinary pain”, come viene cantato amaramente in Insect Loop; altrove abbiamo immagini di pioggia che cade mentre si è in sala d’attesa all’aeroporto (Hall Of Mirrors) e viaggi lunghi ed epici, coronati dalla spiacevole sensazione di non stare bene con il compagno di viaggio (Sunday).

In conclusione, “Two Ribbons” è un CD importante nella carriera delle Let’s Eat Grandma: Jenny Hollingworth e Rosa Walton sono ormai mature, ma hanno passato delle tragedie che le hanno radicalmente cambiate, tanto da mettere a rischio il futuro della band. Vedremo i prossimi anni dove le condurranno; di certo questo non è un cattivo lavoro. Forse è inferiore a “I’m All Ears”, ma il talento di Jenny e Rosa è indiscutibile.

46) ROSALÍA, “MOTOMAMI”

(POP)

Il terzo disco della cantante spagnola amplia notevolmente i suoi orizzonti: art pop, hip hop… ormai nulla è estraneo all’estetica di ROSALÍA. “MOTOMAMI” non è un album immacolato, ma contiene alcuni dei pezzi più futuristi ascoltati negli ultimi anni.

La giovane artista si era fatta conoscere con “EL MAL QUERER”, nel 2018: un CD che aveva catapultato ROSALÍA nell’Olimpo pop, con una radicale innovazione della musica spagnola più classica, quella con base flamenco, che l’aveva fatta amare tanto dal pubblico quanto dalla critica, prova ne sia il successo di MALAMENTE. “MOTOMAMI” è una creatura diversa: più sperimentale, meno coeso, ma non meno ammaliante. Le 16 canzoni che compongono il CD vanno dal minuto scarso di durata (la title track) ad oltre quattro minuti; affrontano temi leggeri con ironia (CHICKEN TERIYAKI, HENTAI) così come i problemi che la fama ha portato sulla psiche di ROSALÍA (LA FAMA, con The Weeknd).

Le canzoni migliori sono anche le più imprevedibili: SAOKO, BULERÍAS e G3 N15 sono pezzi davvero mozzafiato. Menzione poi per la magnifica voce della Nostra, valore aggiunto lungo l’intero LP. Inferiori sono invece gli intermezzi di breve durata, che alla lunga tolgono linfa al lavoro: MOTOMAMI e Abcdefg ne sono chiari esempi. In generale, la varietà di stili può risultare alienante, ma una domanda ci viene spontanea: quante possono passare indifferentemente dal reggaeton all’hip hop al pop senza perdere un briciolo della loro qualità compositiva?

In generale, “MOTOMAMI” conferma tutto il bene che si diceva di ROSALÍA: ambizioso, basato su temi ed esperienze non facili da assimilare ma capace di slanci pop da Top 40 di Billboard. È un CD perfetto? No, però il futuro della musica pop passa anche da qui.

45) Alex G, “God Save The Animals”

(ROCK)

Il decimo disco di inediti di Alex Giannascoli, tornato a chiamarsi Alex G dopo la breve parentesi col nickname (Sandy) Alex G, prosegue nel solco tracciato dai suoi CD più recenti, vale a dire “Rocket” (2017) e “House Of Sugar” (2019): un indie rock eccentrico, spesso virato sul folk à la Animal Collective (S.D.O.S). I risultati forse non raggiungono le vette dei suoi migliori lavori, ma “God Save The Animals” resta un buon disco indie.

Il titolo del CD può far pensare ad un inno ambientalista, forse contenente riferimenti al sacro. In realtà, come Alex ci ha abituato, “God Save The Animals” ha solo in parte gli animali e la natura al centro del palcoscenico. Troviamo infatti riferimenti più personali, ad esempio in Cross The Sea (“You can believe in me”) e in Ain’t It Easy (“Now you sit with me, I keep you safe”).

Le canzoni, dal canto loro, sono infarcite, spesso anche eccessivamente, di autotune: Alex Giannascoli non si era mai distinto per un uso di questo strumento, ma nel corso di “God Save The Animals” l’autotune diventa la maggiore innovazione nella palette sonora utilizzata dal Nostro. Si ascoltino ad esempio Cross The Sea e la danzereccia No Bitterness. I migliori pezzi sono Runner e Ain’t It Easy, mentre sotto la media restano S.D.O.S e Headroom Piano.

In conclusione, “God Save The Animals” conferma la fama di autore misterioso guadagnata da Alex G lungo una carriera accidentata e prolifica: i testi rimangono criptici, le melodie sguazzano nell’indie per poi virare improvvisamente verso folk ed elettronica… insomma, il lavoro non brilla per coerenza, ma prosegue con successo una carriera sempre più interessante.

44) Sorry, “Anywhere But Here”

(ROCK)

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

43) Pusha T, “It’s Almost Dry”

(HIP HOP)

Il quarto album solista di Pusha T non aggiunge nulla ad un’estetica ormai ben conosciuta: rime dure, basi potenti, testi molto gangsta rap, ospiti scelti con cura. “It’s Almost Dry”, in questo senso, può essere una delusione per coloro che cercano un disco rap avventuroso e sperimentale; ma, del resto, chi ascolta King Push con queste idee in testa al giorno d’oggi?

Il CD segue “Daytona” (2018), da molti riconosciuto come il miglior lavoro a firma Pusha T dai tempi dei Clipse, il duo formato col fratello No Malice con cui si è fatto conoscere nei primi anni ’00. Le sette canzoni, prodotte da Kanye West, erano tanto dure quanto irresistibili; in questo “It’s Almost Dry” è più variegato, potendo contare anche sulla collaborazione di Pharrell Williams, JAY-Z e Kid Cudi tra gli altri, oltre all’amico Kanye.

I risultati, pur leggermente inferiori, sono comunque buoni e paragonabili a “Daytona”, specialmente nei momenti migliori: ad esempio la doppietta iniziale formata da Brambleton e Let The Smokers Shine The Coupes, così come Diet Coke e Neck & Wrist, sono tracce di ottima fattura. Invece inferiori alla media Rock N Roll e Scrape It Off, ma complessivamente i 35 minuti di “It’s Almost Dry” scorrono bene e il CD mostra una coesione e una compattezza non facili da trovare in molti lavori hip hop recenti.

Liricamente, prima accennavamo al fatto che Pusha T sa essere tanto sincero quanto feroce nelle sue canzoni: molti ricorderanno il suo diss con Drake, concluso con la stratosferica The Story Of Adidon. Ebbene, in “It’s Almost Dry” il bersaglio del Nostro è l’ex manager dei Clipse, Anthony Gonzalez, che è stato condannato a otto anni in carcere per aver gestito un cartello della droga da 20 milioni di dollari. In un’intervista del 2020 Gonzalez dichiarò: “il 95% dei brani dei Clipse parlavano della mia vita”. A tal proposito, il verso più potente è racchiuso in Let The Smokers Shine The Coupes: “If I never sold dope for you, then you’re 95 percent of who?”.

In generale, pertanto, “It’s Almost Dry” è un buon CD hip hop vecchio stampo. Il 44enne Pusha T dimostra ancora una volta la propria, pregiata stoffa: non staremo parlando del suo miglior lavoro, ma certamente questo disco merita almeno un ascolto.

42) Earl Sweatshirt, “SICK!”

(HIP HOP)

Il nuovo CD del rapper più misterioso uscito da quella covata di ragazzi prodigi che era la Odd Future apre un nuovo, interessante capitolo nella sua già brillante carriera. Se “Some Rap Songs” (2018) rappresentava il compimento di quel rap jazzato e astratto che aveva contraddistinto la produzione della sua gioventù, “SICK!” è quasi trap nel suo incedere.

Due eventi hanno grande peso nell’economia del lavoro: la pandemia in cui siamo coinvolti da ormai quasi tre anni e la recente nascita del primo figlio di Earl. Se “Feet Of Clay”, il breve EP del 2019, era la chiusura ideale del ciclo di “Some Rap Songs”, il Nostro ha rivelato che prima di pubblicare “SICK!” aveva in mente di dare alla luce un LP di ben 19 canzoni, che però suonavano troppo ottimiste e sono state scartate in favore dei beat più sghembi e jazzati di questo lavoro.

Decisione probabilmente corretta: Sweatshirt dà il meglio sulla breve distanza, come già dimostrato in passato. I 24 minuti del CD scorrono bene, anche grazie a ospiti di spessore come Armand Hammer, il duo formato dai rapper ELUCID e billy woods (presenti in Tabula Rasa), Zelooperz (Vision) e The Alchemist (Lye). I pezzi migliori sono 2010 e Tabula Rasa, leggermente sotto la media la troppo breve Old Friend. Da sottolineare infine la melodia alla base della sognante Vision.

Se un tempo Earl era un maestro delle canzoni potenti, con testi scarni e ironia a piene mani, in “SICK!” notiamo una figura più matura emergere dalle sue canzoni. Le considerazioni sul suo passato sono presenti un po’ ovunque, ma non con la voglia di sfida e rivincita che caratterizzava la sua gioventù. Da notare, a chiusura di Fire In The Hole, queste parole, originariamente pronunciate dal grande Fela Kuti: “As far as Africa is concerned, music cannot be for enjoyment. Music has to be for revolution. Music is the weapon”. In 2010 abbiamo acute considerazioni sulla sua infanzia così come sul futuro prossimo (“We got us a fire to rekindle”), mentre in Old Friend sembra un soldato in guerra: “I came from out the thicket smiling… Link up for some feasible methods to free yourself”.

Earl Sweatshirt si conferma nome imprescindibile per la scena hip hop più sperimentale: le sue canzoni fulminanti ma non trascurate sono piccoli miracoli di ottimo artigianato. Pur non essendo il suo miglior lavoro, “SICK!” apre nuove prospettive in una carriera già piuttosto peculiare.

41) Arcade Fire, “WE”

(ROCK)

Registrato durante la pandemia ed erede del più controverso CD della loro produzione, gli Arcade Fire con “WE” hanno voluto riprendersi l’appellativo di “band migliore del mondo”, che fino al 2017 era spesso associato al loro nome. Ci sono riusciti? Senza dubbio il lavoro è decisamente migliore di “Everything Now” (2017), ma non raggiunge la perfezione di “Funeral” (2004), il fulminante esordio del complesso canadese.

Il CD è diviso in due parti: la prima, “I”, è focalizzata sull’isolamento a cui il Covid ci ha costretto nel corso degli ultimi anni; la seconda, “WE”, che dà il titolo al lavoro, ci riporta invece a sensazioni migliori, di comunità, che purtroppo sono state spesso perdute negli ultimi tempi. Gli Arcade Fire hanno sempre mirato a sentimenti universali, che si trattasse del dramma di perdere i propri cari (“Funeral”) oppure di ripercorrere la propria infanzia di ragazzi di periferia (“The Suburbs” del 2010): anche questa volta, come vediamo, mirano molto in alto.

Bersaglio centrato? Solo in parte. Musicalmente, i canadesi provano a tornare all’indie rock pieno di pathos dei loro esordi, abbandonando i ritmi caraibici e disco visti in “Reflektor” (2013) e il pop da classifica di “Everything Now”. Effetto nostalgia assicurato, ma quando si hanno canzoni belle come Age Of Anxiety I e The Lightning II tutto funziona. Ottima pure la più raccolta Unconditional Love I (Lookout Kid). Delude invece End Of The Empire IV (Sagittarius A*). In generale, la divisione del disco in suite formate da due o più componenti aiuta la coesione complessiva: a parte l’inutile Prelude e la conclusiva title track, infatti, abbiamo Age Of Anxiety, End Of The Empire, The Lightning e Unconditional Love.

Ospitando Peter Gabriel in Unconditional II (Race And Religion) e aiutati dal produttore Nigel Godrich (storico collaboratore dei Radiohead), Win Butler e Régine Chassagne hanno pubblicato un LP gradevole, che nei suoi momenti migliori è inattaccabile. Considerando la recente dipartita dalla band del fratello di Win Butler, Will, e le alte aspettative poste in “WE” dopo il flop di “Everything Now”, probabilmente siamo di fronte al miglior risultato possibile. Sicuramente, negli Arcade Fire è rimasta ancora la voglia di creare quel forte sentimento di comunità col loro pubblico che ne contraddistingue da sempre la carriera; in tempi così grami, non è una brutta cosa.

40) Jenny Hval, “Classic Objects”

(POP)

Il CD dell’artista norvegese rappresenta una gradita novità nella sua estetica. Conosciuta un tempo per le sue composizioni ermetiche, spesso indecifrabili, Jenny Hval si è via via aperta ad influenze art pop, sulla scia di Björk e Kate Bush. Se il precedente LP a suo nome “The Practice Of Love” (2019) aveva solo accennato questa nuova direzione, “Classic Objects” la porta a compimento e si afferma come uno dei migliori lavori pop dell’anno.

Le otto tracce dell’album superano tutte i quattro minuti di lunghezza, eccetto Freedom, peraltro il pezzo più debole del lotto. Non per questo, però, i 42 minuti di “Classic Objects” sono monotoni: anzi, pezzi come American Coffee e Cemetery Of Splendour sarebbero brani eccellenti per qualsiasi artista. La vocalità di Jenny, poi, è parte integrante del successo del lavoro.

In generale, liricamente assistiamo invece ad una conferma dei temi cari alla norvegese: la carnalità e l’importanza della sostanza sulla forma (“And I am holding a disco flashlight, it is meant to make the audience feel like multitudes of colors that belong to nobody in particular, that they share between their bodies”, il bel verso di Year Of Love), la ricerca sulla propria condizione interiore (“Who is she who faces her fears?” si chiede in American Coffee), la sensazione di solitudine, drammaticamente accentuata dal Covid (“I am an abandoned project”, proclama sconsolata in Jupiter).

Se la prima uscita del progetto Lost Girls, che la Nostra condivide con Håvard Volden, “Menneskekollektivet” del 2021, aveva fatto pensare al ritorno della Jenny Hval più sperimentale, “Classic Objects” rappresenta in realtà un notevole passo avanti nella carriera della cantautrice norvegese in direzione di una crescente accessibilità. Ad oggi, è il suo miglior lavoro.

39) Charli XCX, “CRASH”

(POP)

“CRASH” viene dopo “how i’m feeling now” (2020), l’album inciso da Charli XCX durante il lockdown pandemico, che ne aveva fatto intravedere il lato più intimo, nascosto in passato dalle melodie pop che ne contraddistinguono l’estetica. “CRASH” è un CD decisamente più ballabile, il primo puramente pop della cantautrice inglese, che è da sempre portavoce dell’hyperpop. I risultati sono generalmente ottimi e fanno presagire un futuro radioso per la Nostra.

I singoli che hanno anticipato la pubblicazione dell’LP hanno dato fin da subito l’idea di una svolta per Charlotte Aitchison: Good Ones è un inno pop pieno di rimpianti per le passate storie d’amore vissute dall’inglese, New Shapes conta sulla collaborazione di Christine And The Queens e Caroline Polachek (ex Chairlift) ed è un highlight immediato del disco. Abbiamo poi Beg For You, in cui Charli duetta con Rina Sawayama, e la più raccolta Every Rule (prodotta da A.G. Cook e Daniel Lopatin), unica vera ballata di “CRASH”. Altrove nel disco abbiamo un ritorno al passato, ad esempio in Constant Repeat (bubblegum bass al suo meglio) e Yuck, quest’ultima non molto convincente.

Se qualcuno pensava che la conclusione dell’accordo stretto in giovane età con la Atlantic spingesse Charli a “sabotare” questo ultimo lavoro, date le parole  dure rivolte dalla Nostra in più occasioni per alcuni atteggiamenti dei manager dell’etichetta vissuti come un abuso nei suoi confronti, il presentimento si è rivelato decisamente sbagliato: il CD è variegato il giusto da non sembrare derivativo, la cura nello scegliere gli ospiti è al solito massima e la qualità media delle canzoni è invidiabile.

“CRASH” ha però un difetto: il livello medio delle composizioni peggiora verso la fine del lavoro (esemplare la prevedibile Used To Know Me), rendendo il risultato leggermente poco bilanciato. Tuttavia, in generale siamo di fronte ad un buonissimo lavoro pop, capace di rievocare gli anni ’80 così come di dare sfogo agli impulsi più sperimentali di Charli XCX. È il suo miglior lavoro? Difficile dirlo, sicuramente merita più di un ascolto.

38) Taylor Swift, “Midnights”

(POP)

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

37) Denzel Curry, “Melt My Eyez, See Your Future”

(HIP HOP)

Il nuovo album del rapper americano è un altro tassello di valore in una carriera sempre più interessante. Dopo un 2020 molto impegnativo, che lo ha visto pubblicare ben due mixtape, nel 2021 Curry ha pubblicato un album di remix. In generale, possiamo dire che Denzel Curry ha cambiato parzialmente il proprio stile in “Melt My Eyez, See Your Future”: meno aggressività, più attenzione alla melodia e all’introspezione. I risultati, pur diversi dal solito Denzel, sono comunque buoni.

“Melt My Eyez, See Your Future” è il successore di “ZUU” (2019), il lavoro che aveva ampliato la platea di fan del Nostro ma aveva anche rappresentato un parziale arretramento, in termini di qualità, rispetto al magnifico “TA13OO” (2018), ad oggi il suo miglior LP. Questo disco si avvicina più al lato pop del mondo hip hop, con esempi di valore come Walkin e Melt Session #1. Altrove troviamo anche brani più simili al “vecchio” Denzel Curry, come Zatoichi e Ain’t No Way, ma paradossalmente con rendimenti inferiori rispetto al passato.

Menzione poi per il parco ospiti di questo CD: “Melt My Eyez, See Your Future” è un divertimento puro per gli amanti della black music, sia della nuova generazione (slowthai, Rico Nasty, 6LACK, JID) che di quella precedente (T-Pain, Robert Glasper). I brani migliori del lotto sono le già citate Walkin e Melt Session #1, ma buona anche Angelz. Invece inferiori X-Wing e la troppo breve The Smell Of Death.

Denzel Curry è sempre stato attento anche all’aspetto testuale, dato particolare visibile nelle tracce più oscure di “TA1300” ma non solo. In “Melt My Eyez, See Your Future”, come prevedibile, l’influenza dei due anni pandemici si fa sentire: “Watching people dying got me being honest” proclama drammaticamente in The Last. Altrove emerge il senso di solitudine che tutti abbiamo percepito, più o meno spesso, in questi ultimi tempi: “Walking with my back to the sun, keep my head to the sky, me against the world, it’s me, myself and I” (Walkin). È un peccato grave, quindi, che in Zatoichi ci sia un verso inutilmente volgare come “Life is short, like a dwarf”, che rovina un po’ il quadro lirico generale.

In conclusione, non siamo di fronte ad un CD perfetto, tuttavia “Melt My Eyez, See Your Future” conferma lo status di Denzel Curry come rapper di rilievo. Senza qualche inciampo sia musicale che lirico saremmo probabilmente di fronte al suo miglior lavoro; tuttavia, anche così abbiamo un LP di assoluto valore.

36) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Omnium Gatherum” / “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”

(ROCK)

Anche nel 2022 i KG&TLW hanno fatto le cose decisamente in grande: cinque CD pubblicati rappresentano un benchmark difficilmente replicabile per qualsiasi altro artista nel panorama musicale. Ad A-Rock abbiamo scelto di privilegiare i due più riusciti: “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”.

“Omnium Gatherum”, il ventesimo album in dieci anni (sì, è proprio così) della band australiana, è, come da titolo, un coacervo di generi disparati: psichedelia (The Dripping Tap, Persistence), metal (Gaia, Predator X), funk (Ambergris), hip hop (Sadie Sorceress, The Grim Reaper)… una vera e propria odissea, che va avanti per ben 80 minuti! I risultati, come prevedibile, non sono sempre all’altezza, ma “Omnium Gatherum” resta un album godibile, il cui minutaggio non influenza eccessivamente il prodotto finale.

L’intera prima facciata del vinile di “Omnium Gatherum” (traducibile dal latino come “il contenitore che raccoglie tutto”) è occupata da The Dripping Tap: un inno ambientalista di stampo psichedelico di ben 18 minuti, in cui tutta la band dà il meglio e che è, a tutti gli effetti, uno dei migliori brani mai scritti dai King Gizzard & The Lizard Wizard. Il CD però, come già detto, non segue la traiettoria tracciata da The Dripping Tap: se è vero che le seguenti, ottime Magenta Mountain e Kepler-22b sono psichedeliche al punto giusto, abbiamo poi un potente pezzo thrash metal come Gaia e, da lì in poi, suona una sorta di liberi tutti per gli australiani.

I brani migliori sono le già citate The Dripping Tap e Magenta Mountain, buone anche Kepler-22b e Presumptuous, mentre deludono The Garden Goblin e Blame It On The Weather. In molte canzoni fanno capolino le istanze ambientaliste tipiche del complesso aussie, ad esempio Evilest Man se la prende con l’australiano che maggiormente inquina il mondo, vale a dire Rupert Murdoch. Invece Ambergris è narrata dalla prospettiva di una balena che preferisce essere arpionata piuttosto che nuotare negli oceani inquinati che la circondano.

D’altro canto, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

In generale, il gruppo australiano ha chiaramente fatto piazza pulita dei propri archivi nel corso del 2022, che resta quindi una summa di quanto i King Gizzard & The Lizard Wizard sanno fare meglio: rock and roll senza freni, sperimentando qualsiasi ritmo e sound di loro gusto. Non staremo parlando di album che hanno fatto la storia della musica come “London Calling” oppure “Sign O’ The Times”, ma “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” restano due dei migliori LP rock del 2022.

35) Yeah Yeah Yeahs, “Cool It Down”

(ROCK)

Il primo CD in nove anni per la storica band newyorkese, una delle più autorevoli ad emergere nei primi anni ’00, è una ventata di aria fresca in una carriera che pareva aver dato il meglio. “Mosquito” (2013), l’ultimo album di inediti prima di “Cool It Down”, è visto infatti da molti come il peggiore della loro produzione; è un piacere che “Cool It Down” riesca dal canto suo a rinverdire i fasti del complesso capeggiato da Karen O.

I due singoli di lancio del lavoro erano del resto davvero invitanti: sia Spitting Off The Edge Of The World (che vanta la collaborazione di Perfume Genius) che Burning sono infatti ottimi pezzi indie rock, il primo reminiscente dei migliori M83 e il secondo invece dell’indie di inizio millennio. Non tutto gira a meraviglia nel CD nel suo complesso, ma i 32 minuti di “Cool It Down” scorrono piacevolmente, rendendolo imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

La prima parte dell’album è pressoché impeccabile: oltre alle già citate Spitting Off The Edge Of The World e Burning, le due tracce Wolf e Fleez, tra le più danzerecce del lotto, fanno il loro lavoro e rendono il CD dinamico e variegato. I problemi cominciano con Different Today, in cui la cantante degli Yeah Yeah Yeahs Karen O si limita a ripetere il titolo senza molto costrutto. Peccato poi per la conclusiva Mars, quasi troncata, che fa terminare il lavoro in modo non soddisfacente.

Questi difetti non sono, tuttavia, dirimenti per il giudizio complessivo su “Cool It Down”. Il CD ristabilisce gli Yeah Yeah Yeahs tra gli alfieri dell’indie rock, dopo anni in cui davamo la band per morta. Karen O e compagni non saranno al top della forma, per esempio ai livelli dell’esordio “Fever To Tell” (2003) o di “It’s Blitz” (2009), però “Cool It Down” è a pieno titolo un buon rientro nella scena musicale.

34) Florence + The Machine, “Dance Fever”

(POP – ROCK)

Il quinto lavoro del progetto Florence + The Machine, “Dance Fever”, è un album pandemico sui generis: non riguarda infatti le conseguenze che il lockdown ha avuto sulla psiche di Florence Welch, o almeno non solo, quanto piuttosto quel senso di liberazione che pervade l’essere umano alla fine di grandi piaghe e tragedie del passato.

Il titolo prende direttamente spunto dal tarantismo (anche noto come “ballo di San Vito”), un morbo medievale che spingeva le persone a danzare sfrenatamente fino allo sfinimento o, nei casi più estremi, alla morte. Florence dedica quindi questo CD ad una malattia, che però sa quasi di libertà dalle restrizioni imposte dal Covid. Non sempre però le parti migliori del lavoro sono quelle più danzerecce.

“Dance Fever” era stato anticipato da alcuni singoli di grandissima qualità: King, Free e My Love sono tra le migliori canzoni recenti del gruppo inglese, trascinanti al punto giusto e curate nei minimi particolari, anche grazie alla produzione di Jack Antonoff. Solo Heaven Is Here deludeva le attese e rimane anche col CD completo uno dei momenti più deboli del lotto. Buona invece Choreomania, invece evitabile Daffodil.

Anche dal punto di vista testuale Florence e co. si dimostrano pieni di sorprese: abbiamo infatti l’inno femminista King, con il potente verso “I am no mother, I am no bride… I am king”. Altrove invece emergono pensieri più drammatici: “Every song I wrote became an escape rope tied around my neck to pull me up to heaven” (Heaven Is Here). Abbiamo infine il tema dell’amore che fa capolino in Girls Against God: “What a thing to admit, but when someone looks at me with real love, I don’t like it very much”.

In generale, comunque, “Dance Fever” sa di ripartenza per Welch: tanto più che è preceduto da un LP non all’altezza dei precedenti a firma Florence + The Machine come “High As Hope” (2018) e da incertezze su come proseguire il proprio percorso artistico. Potremmo anzi spingerci a dire che sia uno dei migliori dischi pubblicati da Florence Welch, ai livelli dell’ottimo esordio “Lungs” (2009). Peccato solo per alcuni episodi a centro disco che lasciano a desiderare, come Back In Town e la troppo breve Prayer Factory, abbassando la media complessiva, ma i risultati sono comunque più che buoni.

In conclusione, “Dance Fever” è uno dei migliori CD pop rock dell’anno: Florence + The Machine si conferma nome irrinunciabile della scena europea. Parlare così bene di una band con ormai quasi quindici anni di carriera alle spalle vuol dire una cosa sola: il talento è notevole e la voglia di mettersi in gioco, anche liricamente, sempre presente.

33) Father John Misty, “Chloë And The Next 20th Century”

(ROCK – POP)

Il quinto CD di Josh Tillman firmato con il nome d’arte di Father John Misty è una reinvenzione radicale: il cantautore folk-rock sbruffone e logorroico che abbiamo imparato a conoscere e amare (oppure disprezzare) negli scorsi anni in CD come “I Love You, Honeybear” (2015) e “Pure Comedy” (2017) lascia il posto ad un narratore che fa degli anni ’50 il suo riferimento. Siamo in piena atmosfera golden age hollywoodiana: big band, swing e jazz sono i tre generi che, inaspettatamente, spesso affiorano nel corso di “Chloë And The Next 20th Century”, si senta Chloë a riguardo per un assaggio.

Ci eravamo lasciati con “God’s Favourite Customer” (2018), un CD più semplice del passato e pensavamo che la parabola di FJM sarebbe proseguita sulla stessa traiettoria; invece, “Chloë And The Next 20th Century” apre prospettive nuovissime per Tillman. Già il titolo è un tuffo nel passato: cosa intende Tillman con la menzione del ventesimo secolo? In realtà, studiando attentamente i testi e immergendosi nelle atmosfere oniriche del CD, il riferimento è più chiaro. Il futuro, secondo Father John Misty, non esiste; anzi, meglio non pensarci, visto il drammatico momento storico che stiamo vivendo… quasi come se fossimo ancora nel XX secolo, quello delle due guerre mondiali e di svariate altre tragedie.

La Chloë citata spesso nel corso del lavoro è, in fondo, solo uno dei tanti personaggi dissoluti che abitano le undici canzoni che formano “Chloë And The Next 20th Century”: una starlet del mondo cinematografico, il cui partner precedente è tragicamente deceduto. Ben sei morti arrivano nel corso del CD, di cui una, la più toccante, è quella del gatto del narratore, oggetto della bellissima Goodbye Mr Blue.

Se abbiamo highlights come la citata Goodbye Mr Blue, Funny Girl e Q4, non tutto il resto dell’album gira a meraviglia: ad esempio, Kiss Me (I Loved You) e We Could Be Strangers sono inferiori alla media dei componimenti del lavoro. Tuttavia, l’ambizione di Father John Misty, completamente calato in questa nuova surreale atmosfera, rende anche questi momenti in qualche modo memorabili. Menzione, infine, per Olvidado (Otro Momento), il momento bossa nova (!!) che nessuno si aspettava da Josh Tillman.

“Chloë And The Next 20th Century”, in conclusione, è il meno “tillmaniano” degli LP a firma Father John Misty. I risultati non sono perfetti, ma tengono alta la bandiera del cantautorato più ricercato e creano nuovi, inesplorati spazi per la carriera futura di uno dei più talentuosi musicisti americani della sua generazione.

32) Conway The Machine, “God Don’t Make Mistakes”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di Conway The Machine è un concentrato di ottimo gangsta rap. Spesso appoggiato da ospiti di spessore, tra cui ricordiamo Rick Ross, Lil Wayne e T.I., oltre che dalla produzione di The Alchemist, il rapper originario di Buffalo ha prodotto uno dei migliori CD hip hop del 2022.

Il risultato è possibile grazie principalmente a due fattori: basi potenti, spesso con lo sguardo puntato sul passato piuttosto che sulle ultime tendenze musicali; e testi candidi, che aprono prospettive sulle molte tragedie affrontate da Conway nel corso di una vita davvero difficile, caratterizzata da crimine, abuso di droghe e morti di persone a lui vicine.

Prova ne sia Guilty, che contiene il seguente, scioccante verso: “No feeling in my legs, I took a bullet in the head, nigga”; invece Stressed contiene parole più desolate e pessimiste: “Life is ‘bout trials and tribulations and overcomin’ obstacles, but I’m tired of shit I’m facin’”. In generale, Conway si inserisce abilmente in quel filone di rap “revivalista” della scuderia Griselda, fondata dal fratello Westside Gunn, che mantiene alta la bandiera del rap East Coast: i risultati non saranno ovviamente innovativi, ma “God Don’t Make Mistakes” resta un buon CD.

In conclusione, il 2022 è stato un anno interessante per l’hip hop: se nel versante più commerciale abbiamo assistito a grandi successi di pubblico, di qualità non sempre accettabile (Drake, Jack Harlow), il lato più “conscious” ha avuto highlight come il nuovo Kendrick Lamar e Conway The Machine. “God Don’t Make Mistakes” non è un capolavoro, ma brani come Piano Love e John Woo Flick non lasciano indifferenti.

31) Sudan Archives, “Natural Brown Prom Queen”

(R&B – ELETTRONICA)

Il secondo CD dell’artista Brittney Parks, meglio nota col nome d’arte Sudan Archives, è un ottimo esempio di R&B alternativo. Brittney usa infatti basi molto elettroniche, che poco hanno a che spartire col pop, creando un insieme di composizioni coeso e, nei suoi momenti migliori, irresistibile.

La violinista e cantautrice si era fatta conoscere negli anni scorsi grazie ad EP di ottima fattura, come “Sudan Archives” (2017) e “Sink” (2018). L’esordio “Athena” del 2019 non aveva fatto altro che ribadire il grande talento della Nostra. “Natural Brown Prom Queen” rifinisce ulteriormente questo sound: va detto che, in questa nicchia di R&B, nessuna suona come lei.

Abbiamo infatti altri artisti, come Kelela e Steve Lacy, entrambi catalogabili come R&B alternativo e dotati di una propria identità, la prima più misteriosa e il secondo invece mainstream; nessuno dei due, tuttavia, suona come Sudan Archives. Merito di una continua voglia di sperimentare, con bassi potenti sempre in evidenza e canzoni polimorfe come OMG BRITT e ChevyS10, che sorprendono anche dopo ripetuti ascolti.

Anche testualmente, “Natural Brown Prom Queen” ricalca alcune tematiche care a Parks: l’empowerment (“I’m not average” ripete ossessivamente in NBPQ (Topless)), polemiche sulle differenze di trattamento tra ragazze nere e bianche (“Sometimes I think that if I was light-skinned then I would get into all the parties, win all the Grammys, make the boys happy”, sempre in NBPQ (Topless)).

Se vogliamo trovare un difetto a “Natural Brown Prom Queen”, è l’eccessiva lunghezza: alcune canzoni, soprattutto verso il finale (Flue, Homesick (Gorgeous & Arrogant)), sono evitabili e non aggiungono nulla al CD. D’altra parte, pezzi come Home Maker e Selfish Soul sono highlight assoluti e rendono questo lavoro imprescindibile per gli amanti della musica nera.

In conclusione, Sudan Archives si conferma artista di grande talento: Brittney Parks è un nome ancora poco noto, ma ha tutte le carte in regola per costruirsi una più che solida fanbase.

30) SAULT, “AIR”

(SPERIMENTALE)

Il sesto album in tre anni del collettivo inglese, oltre a denotare una produttività davvero notevole, amplia drasticamente la loro palette sonora: se nel passato i SAULT erano conosciuti per un solido mix di funk, R&B e soul, con grande attenzione alla storia e cultura black in senso lato nelle loro liriche, “AIR” è un CD puramente strumentale, o quasi.

I SAULT, in effetti, flirtano con la musica classica: il lavoro pare quasi una colonna sonora per un film (ancora?) non prodotto. È un po’ come se i Coldplay componessero un LP hard rock: ok la sperimentazione e l’ambizione, ma i risultati sono accettabili?

La risposta è un convinto sì. Pur suonando davvero sorprendente a chi conosce i SAULT fin dalle loro origini, “AIR” è un bel CD, coraggioso ma non per questo eccessivamente ardito, a tratti davvero magistrale. I migliori pezzi sono Heart e la title track, mentre sotto la media è Solar, un po’ troppo tirata per le lunghe.

In generale, dunque, i SAULT si confermano tanto misteriosi quanto creativamente al top. Il misterioso gruppo inglese, capeggiato dal produttore Inflo, ha creato con “AIR” un lavoro non per tutti, ma che merita sicuramente almeno un ascolto.

29) Chat Pile, “God’s Country”

(METAL – ROCK)

I Chat Pile sono un quartetto statunitense, proveniente da uno degli Stati americani più desolati, l’Oklahoma. Tratti peculiari: terra di minatori, città abbandonate, gravi disuguaglianze… insomma, un incubo, secondo quanto descritto dalla band.

“God’s Country” è un CD potente: metal, noise rock e punk si mescolano in molte tracce, grazie ad una base strumentale sempre efficace ed aggressiva e alla voce di Raygun Busch, a volte cupissima e altre espressiva come quella del miglior Trent Reznor.

Abbiamo poi canzoni che parlano di macellerie, ma forse accennano anche alle stragi compiute con sempre maggiore frequenza (Slaughterhouse); inni di protesta contro i crescenti problemi ad avere una casa propria (Why); Pamela, infine, tratta di un padre che, nell’illusione di poter tornare con la moglie, ammazza il proprio figlio. Menzione da questo punto di vista per alcuni versi contenuti nelle tracce che compongono “God’s Country”: “All the blood, all the blood… And the fuckin’ sound, man” (Slaughterhouse); “Broken faces and jamming fingers and goddamn dust in my eyes for the rest of my life” (The Mask); e infine “It’s the sound of a fuckin’ gun, it’s the sound of your world collapsing” (Anywhere).

Insomma, un LP non per deboli di cuore, sia musicalmente che liricamente. I Chat Pile, del resto, non vogliono scrivere canzoni commerciali, malgrado pezzi come Anywhere e Pamela siano, tutto sommato, appetibili anche ad un pubblico non di nicchia. Lo scopo della band, come dichiarato in varie interviste, è in realtà quello di catturare l’ansia e la paura di vedere il mondo che si autodistrugge, a causa dell’attività umana. Menzione, infine, per la folle cavalcata finale di grimace_smoking_weed_jpeg; meno comprensibile, invece, il momento intimista di I Don’t Care If I Burn.

Il 2022 è stato, in effetti, un anno tragico sotto vari punti di vista, non ultimo quello ambientale, che ha fatto capire una volta per tutte i danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla nostra vita di tutti i giorni. “God’s Country”, pur essendo un titolo molto americano, in realtà è riferibile a molti Paesi: i Chat Pile, pur con un sound ancora da raffinare e una rabbia che terrà lontano il pubblico più mainstream, lo hanno capito e hanno composto una colonna sonora terribile, ma proprio per questo azzeccata.

28) Suede, “Autofiction”

(ROCK)

Il nuovo album dei britannici Suede, band un tempo simbolo del britpop assieme ai più noti Oasis e Blur, è un’iniezione di energia nella loro estetica: post-punk e rock alternativo fanno capolino più di una volta nel corso delle 11 canzoni che compongono “Autofiction”, rendendolo un CD tradizionale per molti, ma innovativo per i Suede. Non male, per un complesso sulla cresta dell’onda da trent’anni.

Il quarto album dopo la reunion del 2013 è uno dei migliori della loro produzione: compatto, con base ritmica in bella vista, la voce di Brett Anderson al meglio… In più mettiamoci melodie vincenti come She Still Leads Me On e 15 Again e abbiamo un quadro più che roseo. L’usuale attenzione all’estetica glam rock è affiancata, come già accennato, da generi più muscolari; sono proprio i brani più britpop, come That Boy On The Stage e Drive Myself Home, ad essere inferiori alla media. Tuttavia, i risultati restano complessivamente buoni.

I Suede si confermano quindi gruppo imprescindibile per la scena rock britannica: Anderson e compagni sono sopravvissuti a molti eventi potenzialmente devastanti nel loro passato, tra cui l’abbandono del primo chitarrista Bernard Butler negli anni ’90 e una prima spaccatura della band nei primi anni ’00. “Autofiction” è un documento di artisti al picco delle proprie capacità: forse non siamo ai livelli di “Suede” (1993) o “Dog Man Star” (1994), ma il CD resta davvero riuscito.

27) The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

(POP – ROCK)

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

26) Beyoncé, “RENAISSANCE”

(POP)

Da dove cominciamo? “RENAISSANCE” segna il ritorno della vera regina del pop degli ultimi 10 anni, se escludiamo il CD collaborativo col marito JAY-Z “Everything Is Love” (2018) e il CD-video live “Homecoming” del 2019. Queen Bey pare decisa a far rinascere in noi la voglia di ballare: il sound del disco è apertamente dance e house, con le consuete inflessioni R&B (PLASTIC OFF THE SOFA) e hip hop, soprattutto in certe basi (CHURCH GIRL).

Sia chiaro: stiamo parlando di un disco pop, ma la tracklist da 16 canzoni e 62 minuti lascia inevitabilmente spazio ad episodi più deboli (ENERGY). In generale, però, resta da ammirare la presenza di Beyoncé: la voce è ai suoi livelli migliori, la produzione immacolata, la varietà di suoni invidiabile. Non tutto gira a meraviglia, ma i risultati di “RENAISSANCE” restano impressionanti.

“Lemonade” aveva del tutto travolto la scena pop nell’ormai lontano 2016: Beyoncé aveva messo in musica il senso di tradimento patito a seguito dei numerosi flirt del marito JAY-Z, con canzoni indimenticabili come Sorry e Don’t Hurt Yourself. Da questo punto di vista, “RENAISSANCE” suona molto più rilassato: i testi spesso sono solamente degli appoggi per delle irresistibili melodie house (BREAK MY SOUL) e funk (VIRGO’S GROOVE).

Se proprio vogliamo trovare un fil rouge, è la celebrazione della black music in ogni sua espressione: dalle collaborazioni con nomi importanti come The-Game e Grace Jones, passando per nomi più oscuri come Kilo Ali e Lidell Townsell. In più, abbiamo la menzione di figure della musica underground come l’artista trans Honey Dijon, che fanno capire l’intenzione di schierarsi a favore di ogni tipo di diversità da parte di Queen Bey, già emersa nei suoi passati LP e in numerose dichiarazioni pubbliche.

I pezzi migliori sono la doppietta VIRGO’S GROOVEMOVE, piazzate a centro disco ma non per questo trascurabili; buone anche PURE/HONEY, CUFF IT e SUMMER RENAISSANCE. Invece sotto la media ENERGY e CHURCH GIRL. Menzione finale per il parco ospiti e collaboratori: oltre alle figure già citate, abbiamo superstar come Drake, Skrillex, JAY-Z e A.G. Cook del collettivo PC Music.

La conclusione? Non stiamo forse parlando del miglior lavoro a firma Beyoncé, ma “RENAISSANCE” conferma tutto il talento della popstar statunitense. Considerando che, in vari post apparsi sui suoi social a seguito della pubblicazione del lavoro, si parla di una trilogia di cui “RENAISSANCE” sarebbe il primo capitolo, la trepidazione per i nuovi lavori della regina del pop moderno è altissima.

Eccoci arrivati alla fine della prima parte dei 50 album più riusciti del 2022: chi si sarà aggiudicato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento ai prossimi giorni.

Il maestoso (e complesso) ritorno di Beyoncé

Da dove cominciamo? “RENAISSANCE” segna il ritorno della vera regina del pop degli ultimi 10 anni, se escludiamo il CD collaborativo col marito JAY-Z “Everything Is Love” (2018) e il CD-video live “Homecoming” del 2019. Queen Bey pare decisa a far rinascere in noi la voglia di ballare: il sound del disco è apertamente dance e house, con le consuete inflessioni R&B (PLASTIC OFF THE SOFA) e hip hop, soprattutto in certe basi (CHURCH GIRL).

Sia chiaro: stiamo parlando di un disco pop, ma la tracklist da 16 canzoni e 62 minuti lascia inevitabilmente spazio ad episodi più deboli (ENERGY). In generale, però, resta da ammirare la presenza di Beyoncé: la voce è ai suoi livelli migliori, la produzione immacolata, la varietà di suoni invidiabile. Non tutto gira a meraviglia, ma i risultati di “RENAISSANCE” restano impressionanti.

“Lemonade” aveva del tutto travolto la scena pop nell’ormai lontano 2016: Beyoncé aveva messo in musica il senso di tradimento patito a seguito dei numerosi flirt del marito JAY-Z, con canzoni indimenticabili come Sorry e Don’t Hurt Yourself. Da questo punto di vista, “RENAISSANCE” suona molto più rilassato: i testi spesso sono solamente degli appoggi per delle irresistibili melodie house (BREAK MY SOUL) e funk (VIRGO’S GROOVE).

renaissance

Se proprio vogliamo trovare un fil rouge, è la celebrazione della black music in ogni sua espressione: dalle collaborazioni con nomi importanti come The-Game e Grace Jones, passando per nomi più oscuri come Kilo Ali e Lidell Townsell. In più, abbiamo la menzione di figure della musica underground come l’artista trans Honey Dijon, che fanno capire l’intenzione di schierarsi a favore di ogni tipo di diversità da parte di Queen Bey, già emersa nei suoi passati LP e in numerose dichiarazioni pubbliche.

I pezzi migliori sono la doppietta VIRGO’S GROOVEMOVE, piazzate a centro disco ma non per questo trascurabili; buone anche PURE/HONEY, CUFF IT e SUMMER RENAISSANCE. Invece sotto la media ENERGY e CHURCH GIRL. Menzione finale per il parco ospiti e collaboratori: oltre alle figure già citate, abbiamo superstar come Drake, Skrillex, JAY-Z e A.G. Cook del collettivo PC Music.

La conclusione? Non stiamo forse parlando del miglior lavoro a firma Beyoncé, ma “RENAISSANCE” conferma tutto il talento della popstar statunitense. Considerando che, in vari post apparsi sui suoi social a seguito della pubblicazione del lavoro, si parla di una trilogia di cui “RENAISSANCE” sarebbe il primo capitolo, la trepidazione per i nuovi lavori della regina del pop moderno è altissima.

Voto finale: 8.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

I migliori album del decennio 2010-2019 (100-51)

Nel secondo capitolo della nostra lista dei migliori 200 CD della decade 2010-2019 attraversiamo le posizioni che vanno dalla 100 alla 51. Abbiamo già incontrato artisti rilevanti nella puntata precedente, ma le sorprese non sono finite. Buona lettura!

100) Shame, “Songs Of Praise” (2018)

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. L’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Iceage e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

99) Joanna Newsom, “Have One On Me” (2010)

(FOLK)

Il terzo album della cantautrice americana Joanna Newsom è una goduria per gli amanti della musica folk più pura. Grazie a melodie sempre cangianti, canzoni complesse mai però fini a sé stesse e l’abilità con l’arpa della Nostra, anche un triplo album (!) come “Have One On Me” è perfettamente digeribile.

Questa è infatti la prima caratteristica che colpisce del lavoro: la sua gigantesca ambizione. Pubblicare un album triplo della durata superiore ai 120 minuti, quando invece si sarebbero potuti produrre tre album distinti di ottima qualità nello spazio di 5-10 anni, è una mossa rischiosa ma dal rendimento alto, nel caso di Joanna. Se si aggiunge che lei stessa si rifiuta tutt’oggi di mettere a disposizione la sua discografia sui servizi streaming, capiamo che non è neppure dovuta alla massimizzazione dei ricavi, quanto piuttosto al solo e semplice amore per la musica e i suoi fans.

Chiaramente, in un CD tanto complesso, non tutto può essere perfetto, ma gli alti sono davvero strabilianti: la lunghissima title track, Good Intentions Paving Company e Baby Birch sono highlights assoluti. “Have One On Me” non è mai pesante, tanto da apparire anzi come il lavoro più essenziale a firma Joanna Newsom, addirittura migliore di “Ys” (2006).

98) Queens Of The Stone Age, “…Like Clockwork” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei veterani dell’hard rock li trovava a un bivio fondamentale: a ben sei anni da “Era Vulgaris” (2007), l’album forse più discusso tra fans e critici nella produzione della band, i Queens Of The Stone Age avrebbero ritrovato lo smalto perduto?

La risposta è sicuramente affermativa. “…Like Clockwork” infatti rispecchia fedelmente il titolo, girando per la maggior parte del tempo come un orologio svizzero, grazie a pezzi duri come My God Is The Sun e a brani più melodici come I Appear Missing. Questo è anche il CD più ricco di ospiti del gruppo: Dave Grohl, Elton John, Alex Turner e Mark Lanegan sono fra i più illustri, ma notiamo anche il recupero del precedente bassista Nick Oliveri, che era stato cacciato nell’ormai lontano 2004.

In poche parole, con “…Like Clockwork” i Queens Of The Stone Age ritrovarono un motivo per la propria esistenza, considerando inoltre un panorama musicale che tende a mettere da parte il rock per fare spazio a hip hop e trap. Josh Homme e compagni avrebbero poi proseguito il percorso di questo LP con il successivo “Villains” (2017), meno riuscito di “…Like Clockwork” ma con altrettanto successo di pubblico.

97) Chance The Rapper, “Coloring Book” (2016)

(HIP HOP – GOSPEL)

Il terzo mixtape del talentuoso Chance The Rapper è probabilmente il suo miglior lavoro fino ad ora. Dopo il bel lavoro “Acid Rap” del 2013, Chance era atteso al varco, ma “Coloring Book” non delude le attese di critica e pubblico.

Il forte afflato religioso che pervade tutto l’album, infatti, aggiunge al consueto hip hop dell’artista un tocco gospel che affascina ancora di più l’ascoltatore. I pezzi davvero da ricordare sono No Problem, Summer Friends e Same Drugs (una piccola Pyramids). Nessuno dei 14 brani del resto è davvero fuori posto: i più deboli sono la collaborazione con Future (Smoke Break) e Mixtape, ma per il resto la qualità è davvero altissima.

Possiamo senza dubbio premiare “Coloring Book” col titolo di miglior CD di musica hip hop-gospel del 2016. Forse della decade, considerato la scarsa fortuna incontrata da questo strano ibrido fra generi apparentemente agli antipodi negli anni seguenti.

96) Kanye West, “The Life Of Pablo” (2016)

(HIP HOP)

Si può criticare Kanye West per mille motivi: eccessivo egocentrismo, megalomania, arroganza… Insomma, la più grande superstar dell’hip hop non ha un carattere facile.

Musicalmente, però, niente da dire: senza di lui mancherebbe gran parte della musica rap moderna. “The Life Of Pablo” conferma la classe di Kanye: brani potenti e bellissimi come Famous, Real Friends, la perla gospel Ultralight Beam e Waves sono tra i migliori dell’anno. Da sottolineare poi il parco ospiti sterminato: Chance The Rapper, Frank Ocean, Kendrick Lamar, The Weeknd…

Insomma, un ensemble da sogno. Top 100 pienamente meritata. Soprassediamo sulle ultime vicende che hanno colpito Yeezy: i gossip passano, la musica resta. “The Life Of Pablo” è anche l’ultimo LP davvero all’altezza della fama e del talento di Kanye, che negli anni successivi si è perso fra polemiche politiche quantomeno controverse e scelte artistiche discutibili (si veda la conversione improvvisa e il rintanarsi nella musica gospel).

95) Hot Chip, “One Life Stand” (2010)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il quarto album dei britannici Hot Chip li trova pronti a spiccare il volo. Grazie a singoli di successo come Ready For The Floor e Boy From School, gli Hot Chip si erano ritagliati la reputazione di band di punta della scena electropop d’Oltremanica.

“One Life Stand” è il compimento di anni di studio e riflessione, grazie ai quali il gruppo raggiunge il picco delle proprie capacità. Brani lunghi ma accessibili come Thieves In The Night e la title track ancora oggi, dieci anni dopo la pubblicazione, sono i pezzi pregiati del disco; da non sottovalutare la più raccolta Brothers. Il tutto viene aiutato dalla chimica fra i due cantanti, Alexis Taylor e Joe Goddard. È probabile che atti come i Tame Impala e gli Arcade Fire, alla lontana, siano stati influenzati recentemente dalla band britannica.

In conclusione, gli Hot Chip in “One Life Stand” hanno prodotto il loro LP più compiuto e coeso, segno di una carriera in costante crescita, curata nei minimi dettagli e capace di dare un degno seguito a questo pregevole lavoro con il successivo “In Our Heads” (2012).

94) Sufjan Stevens, “The Age Of Adz” (2010)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il sesto album vero e proprio di Sufjan Stevens trova il grande cantautore americano a un bivio: meglio continuare nella consolidata formula che ne ha decretato la fortuna (ballate folk delicate e creative, con la sua voce angelica a fare da collante) oppure tentare qualcosa di nuovo e rinfrescante?

Non sapendo né leggere né scrivere Sufjan ha optato per una via di mezzo tanto intrigante quanto potenzialmente rischiosa: mescolare bellissimi pezzi folk come Futile Devices a derive elettroniche come la title track e Too Much. I risultati, pur non perfetti come nel successivo “Carrie & Lowell” (2015), hanno consentito a Stevens di ampliare notevolmente la propria palette sonora, aprendo la strada alla successiva sperimentazione di “Aporia” (2020).

Non sarebbe un CD a firma Sufjan Stevens senza qualche stranezza: innanzitutto la durata, che raggiunge i 75 minuti distribuiti su 14 pezzi, di cui uno (la conclusiva Impossible Soul) raggiunge i 25 minuti ed è divisa in cinque suite, mescolando insieme folk, elettronica e musica puramente sperimentale. Tanta creatività insieme spesso non è raggiunta da un artista nel corso di un’intera carriera… ma dato che stiamo parlando di Sufjan Stevens lo stupore è relativo.

“The Age Of Adz” è dunque un LP non facile, ma che premia gli ascoltatori pazienti con brani potenti e mai scontati. Il fatto che sia solo il terzo/quarto CD come qualità complessiva a firma Sufjan Stevens fa capire la grandezza del personaggio.

93) The National, “I Am Easy To Find” (2019)

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

92) Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” (2015)

(ROCK)

Il titolo sembra anticipare un album prolisso e pretenzioso; beh, nessuna impressione può essere più sbagliata. Courtney Barnett è una delle esordienti indie rock più interessanti del decennio: la giovane cantante australiana ritorna a inizio XXI secolo, età dell’oro dell’indie, quando nacquero band come Strokes e Franz Ferdinand.

Le prime due canzoni Elevator Operator e Pedestrian At Best sono manifesti delle intenzioni della Barnett; Small Poppies addirittura ricorda i Led Zeppelin. Il suo suono riesce però a contaminarsi anche con White Stripes e il pop à la Robbie Williams, ottenendo risultati spesso straordinari: la conclusiva Boxing Day Blues ne è un valido esempio.

L’immediatezza di “Sometimes I Sit And Think…” è paragonabile a “Vampire Weekend” e “Teen Dream” (tanto per citare due band come Vampire Weekend e Beach House che di immediatezza se ne intendono). Chiaramente il CD di per sé non sarà un capolavoro di sperimentalismo o arditezza stilistica, ma la musica deve anche essere svago, giusto? Quindi: grazie Courtney per aver riaperto (anche se per poco più di 35 minuti) l’armadio dei nostri ricordi, quando sembrava che l’indie dovesse soppiantare il mainstream.

91) My Bloody Valentine, “m b v” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 aspettarsi un nuovo album a firma My Bloody Valentine pareva un sogno destinato a non essere mai realizzato. “Loveless” (1991) era stato il picco dello shoegaze e Kevin Shields e compagni non erano stati in grado di dargli un seguito in 22 anni, fra falsi annunci e tentativi abortiti in studio.

Il fatto che, non solo il CD sia finalmente arrivato ma sia anche bello, anzi bellissimo, è quasi un miracolo. I My Bloody Valentine non si limitano a ricalcare il successo del secolo scorso riprendendo a menadito tutti i particolari che li hanno resi unici: voci androgine e mixate in scarsa evidenza, chitarre piene di riverbero, bassi e batteria inesistenti… No, nel terzo finale del lavoro arrivano anche a cercare nuove soluzioni, vicine alla musica sperimentale (si senta ad esempio Wonder 2).

È vero tuttavia che i pezzi migliori sono comunque più vicini allo shoegaze: da Only Tomorrow a Who Sees You, passando per She Found Now, la band irlandese si conferma maestra del genere. Kevin Shields ha ancora una volta dimostrato tutta la sua abilità, creando un lavoro nostalgico ma mai scontato. Forse non raggiungerà le vette di “Loveless”, ma questo “m b v” è un degno erede. Speriamo solamente che per il quarto LP del gruppo non si debbano attendere altri 22 anni.

90) Disclosure, “Settle” (2013)

(ELETTRONICA)

All’esordio, i fratelli Guy e Howard Lawrence fanno già il pieno, sia di critiche positive che di vendite. “Settle” è infatti uno dei migliori album di musica dance del 2013, abilissimo nel mescolare la house anni ’80 con i ritmi più moderni.

Notevoli anche le collaborazioni: abbiamo infatti tra gli altri Sam Smith, Mary J. Blige, AlunaGeorge… Insomma, pezzi da 90 della musica contemporanea. Tra i migliori brani abbiamo la celeberrima Latch, la trascinante When A Fire Starts To Burn, Voices e la più intima Help Me Lose My Mind.

In poche parole, un ottimo inizio per Guy e Howard Lawrence, solo parzialmente confermato dai seguenti “Caracal” (2015) e il breve EP del 2016 “Moog For Love”.

89) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (2011)

(ROCK – FOLK)

“Smoke Ring For My Halo” è il CD che ha fatto conoscere ad un pubblico più ampio Kurt Vile, ex War On The Drugs ed eroe degli slacker mondiali, ovvero uno di quei personaggi spesso al bordo della strada che paiono osservare disinteressati l’ambiente circostante ma poi, quasi pigramente, fanno osservazioni assolutamente fuori dal comune.

Il CD è una brillante collezione di canzoni folk-rock, nel solco tracciato da Bob Dylan, Neil Young e Tom Petty, tuttavia aggiornato abbastanza da essere attuale ancora oggi. È forse il disco più coeso e meno prolisso di Kurt, anche se non ha la smisurata ambizione del successore “Wakin On A Pretty Daze” (2013).

Tuttavia, canzoni riuscite come Puppet To The Man e Ghost Town, senza scordarci la delicata Baby’s Arms e Jesus Fever, rendono davvero speciale questo disco, uno dei migliori lavori del decennio 2010-2019 proprio per questa sua incredibile qualità: suonare antico e contemporaneo allo stesso tempo.

88) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017” (2018)

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

87) Foals, “Holy Fire” (2013)

(ROCK)

Tutti attendevano al varco i Foals: la tensione rischiava di divorarli. Invece, i cinque ragazzi se ne uscirono nel 2013 con un album ancora più bello di “Total Life Forever” (2010), svoltando verso un rock più carico, quasi hard rock in certi tratti.

Ne sono simboli due delle canzoni migliori del CD: Prelude e Inhaler (quest’ultima trascinante nel ritornello) sono come gemelli siamesi, una senza l’altra non esisterebbe, ma proprio per questo acquistano fascino. Non male il funk à la Hot Chip di My Number, così come il quasi shoegaze della conclusiva Moon.

Insomma, un lavoro vario e ben riuscito, che conferma il talento dei Foals e il loro appeal sul pubblico, fatto ulteriormente validato dal successivo “What Went Down” (2015). Uno dei migliori album rock dell’anno e della decade.

86) Run The Jewels, “Run The Jewels 3” (2017)

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora.

Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima.

Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

85) Waxahatchee, “Out In The Storm” (2017)

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsene una prima idea.

L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile. Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo. Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

84) Wilco, “The Whole Love” (2011)

(ROCK)

I Wilco sono fin dalla nascita uno dei gruppi rock più avvincenti della nostra epoca. Flirtando spesso con country e folk, il complesso americano ci ha regalato nel corso della loro carriera capolavori maestosi come “Summerteeth” (1999) e “Yankee Hotel Foxtrot” (2001).

“The Whole Love” potrebbe parere a primo acchito un tipico album di mezz’età di una band ormai soddisfatta della propria posizione nello scacchiere musicale e non più interessata a prendere rischi. Beh, se pensate questo non conoscete bene i Wilco: la loro qualità migliore è sempre stata infatti quella di brillare nei momenti apparentemente di maggiore sicurezza, che per altre band avrebbero segnato l’inizio della fine.

Jeff Tweedy e compagni con “The Whole Love” hanno infatti probabilmente creato il terzo miglior album di una carriera sempre più stellata. Pezzi ambiziosi come Art Of Almost e la conclusiva One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend) sono clamorosi nella loro difficoltà ma perfettamente compiuti. Lo stesso vale per la più semplice ma deliziosa I Might.

In conclusione, i Wilco hanno confermato ancora una volta di possedere un talento sconfinato, fonte primaria di una carriera ormai trentennale e con successi pienamente meritati.

83) Death Grips, “The Money Store” (2012)

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il primo album del duo hip hop noto come Death Grips fa seguito al mixtape “Exmilitary” del 2011 e ne è una logica continuazione. Partiamo da una premessa: come possono però convivere efficacemente rap, punk e noise in un album di 13 brani per 41 minuti? Questo è il mistero più affascinante di “The Money Store”.

MC Ride e Zach Hill, rispettivamente cantante e polistrumentista del gruppo, non hanno mai più raggiunto questo miracoloso equilibrio, ma “The Money Store” resta un reperto unico. Il CD è infatti altamente repellente, pieno di rabbia, rime insensate e suoni che all’orecchio suonano come un martello pneumatico… ma forse proprio oggi, per tutti questi motivi, suona più vitale che mai?

Non è ben chiaro verso chi sia diretta la rabbia dei Death Grips, probabilmente è più un volgersi verso la pura anarchia (il duo intitolerà non a caso un lavoro nel 2015 “The Powers That B”). L’altra cosa davvero incredibile di “The Money Store” è il successo di pubblico che ha riscosso: malgrado la già accennata totale assenza di brani commerciali, pezzi come I’ve Seen Footage e Get Got hanno ottimi numeri nei servizi di streaming. Con merito, viene da dire: entrambi hanno un implicito fascino, fatto di suoni discordanti ma equilibrati, così come The Fever (Aye Aye).

“The Money Store” è uno dei dischi più influenti e allo stesso tempo più irripetibile della moderna storia del rap. Mescolando industrial, rap e musica puramente sperimentale i Death Grips hanno prodotto a loro modo un capolavoro, destinato a far parlare di sé ancora per molti anni.

82) Solange, “A Seat At The Table” (2016)

(R&B – SOUL)

Il 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. Si pensi, oltre a questo “A Seat At The Table”, a “Formation” di Beyoncé e a “Freetwon Sound” di Blood Orange.

La sorella minore di Bey, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul e rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael Jackson e Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait.

La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Queen Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat.

In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

81) Godspeed You! Black Emeperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (2012)

(ROCK – SPERIMENTALE)

I Godspeed You! Black Emperor sono da sempre riconosciuti come gli artisti pionieri del post-rock, quel genere che mescola rock e musica sperimentale, con punte di metal, per creare spesso brani monumentali che, per l’appunto, hanno perso qualsiasi cosa le rendesse rock per diventare qualcosa di diverso, più epico e decisamente meno commerciale.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” segna il ritorno della band ben dieci anni dopo l’ultimo disco, “Yanqui U.X.O.” (2002). Il lavoro è composto da quattro canzoni, con una struttura a specchio. Prima uno decisamente articolato (con durata superiore ai 20 minuti!), poi uno più semplice, che funge da ristoro dopo due corse sfrenate. Se la prima metà è decisamente cupa, nella seconda i Godspeed You! Black Emperor cercano ritmi meno devastanti, prova ne siano i 20 minuti di We Drift Like Worried Fire, opposti alla durezza e drammaticità di Mladic. I due intermezzi Their Helicopters Sing e Strung Like Lights At Thee Printemps Erable accompagnano poi l’ascoltatore in territori più elettronici, quasi sperimentali.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” si caratterizza così per essere il disco più intenso del collettivo canadese, già noto ai fans per CD mai facili al primo ascolto. La carriera della band prosegue tutt’ora, con l’ultimo lavoro Luciferian Towers che risale al 2017, a testimonianza di un complesso più vivo che mai.

80) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs” (2018)

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è da sempre la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare. Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Nel 2018 sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione.

79) LCD Soundsystem, “American Dream” (2017)

(ELETTRONICA – ROCK)

Gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, l’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

“American Dream” è un trionfo. L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco. Il tono del brano è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a David Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

78) Tame Impala, “Innespeaker” (2010)

(ROCK)

L’esordio dei Tame Impala segna quello che sarà il loro percorso successivo: un sound che richiama molto i grandi artisti psichedelici di fine anni ’60-primi anni ’70, oltre a Flaming Lips e Beatles.

Parker condisce il tutto con la sua bella voce, molto simile a John Lennon. Gli highlights sono numerosi: ricordiamo in particolare It Is Not Meant To Be, Solitude Is Bliss (il tema della solitudine ritorna molto spesso nei testi dei Tame Impala) e Alter Ego. Bella anche la strumentale Jeremy’s Storm.

Insomma, un grande album d’esordio per la band australiana; ma ancora il meglio doveva venire, basti pensare a “Lonerism” (2012) o al rivoluzionario “Currents” (2015).

77) Bon Iver, “i,i” (2019)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa. La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

76) Mac DeMarco, “Salad Days” (2014)

(ROCK)

Il secondo album vero e proprio del cantautore canadese Mac DeMarco è la definitiva affermazione dopo il già interessante “2” del 2012. “Salad Days” mantiene la stessa stranezza di fondo, creata da atmosfere sempre ovattate, titoli e testi spesso nonsense (basti pensare a “Salad Days”) e canzoni tanto semplici quanto irresistibili, su tutte le riuscitissime Blue Boy e Brother.

Tuttavia, non bisogna prendere Mac per un sempliciotto: in sole 11 canzoni e 34 minuti è infatti riuscito a creare il suo miglior CD, pieno anche di riferimenti testuali attuali (si veda Treat Her Better, contro la violenza sulle donne). Si hanno poi anche aperture alla psichedelia, in Chamber Of Reflection specialmente.

Insomma, una miniera d’oro per gli amanti dell’indie rock più scanzonato ma allo stesso tempo attento al mondo che ci circonda. Mac non sarà il miglior cantautore della sua generazione, ma a volte anche del semplice buonumore è il benvenuto, no?

75) Nick Cave & The Bad Seeds, “Push The Sky Away” (2013)

(ROCK)

Il quindicesimo album di Nick Cave, come spesso affiancato dai fidati Bad Seeds, è stato il primo seguito all’avventura dei Grinderman, che l’aveva visto mettere da parte il progetto primario per alcuni anni a inizio decade.

“Push The Sky Away” prosegue idealmente la traiettoria intrapresa nei bellissimi lavori “The Boatman’s Call” (1997) e “No More Shall We part” (2001), vale a dire un Nick Cave decisamente più tranquillo rispetto allo scatenato frontman degli anni ’80. Abbiamo quindi atmosfere decisamente rilassate, quasi ambient, solo a tratti reminiscenti dei Bad Seeds di qualche anno prima (Jubilee Street ad esempio è magnifica in questo senso). Anche liricamente, mentre prima Nick parlava spesso di episodi biblici o assassini spietati (si ricordi la celebre Red Right Hand), adesso fanno capolino argomenti più mondani, dal bosone di Higgs (Higgs Boson Blues) a Hannah Montana (!!), in Mermaids, a Wikipedia.

Nick Cave inaugurò con “Push The Sky Away” la trilogia di CD sperimentali continuata poi con il devastante “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), questi ultimi influenzati anche dalla morte del figlio del Nostro. Insomma, certamente non album leggeri, ma capaci di connettersi come mai prima ai fans del gruppo e giustamente osannati dalla critica di settore.

74) Beyoncé, “Lemonade” (2016)

(POP – R&B)

Il CD della vendetta per la più splendente star femminile della musica nera contemporanea. Grazie anche ad ospiti di assoluto livello (James Blake, Jack White, Kendrick Lamar tra gli altri), Bey convoglia tutta la rabbia contro il marito Jay-Z in “Lemonade”, con brani riusciti come Hold Up, Don’t Hurt Yourself e 6 Inch (con The Weeknd) come highlights.

Beyoncé ha così composto il migliore album di una carriera già brillante: “Lemonade” è un esempio di come la musica possa diventare un’arma potentissima contro la discriminazione femminile e a favore della parità tra i sessi. Menzione particolare poi per lo spettacolare “visual album” che accompagna “Lemonade”: una collezione che raccoglie i video di ogni canzone contenuta nel CD.

In poche parole: una delle opere più ambiziose degli ultimi anni, che senza dubbio risuonerà anche in futuro come un capolavoro pop di altissimo livello, sia musicale che artistico (nel senso più ampio del termine).

73) Mitski, “Be The Cowboy” (2018)

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album.

72) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (2012)

(PUNK – ROCK)

Il secondo album degli statunitensi Cloud Nothings, capitanati dall’indomito Dylan Baldi, è arrivato come un fulmine a ciel sereno nella scena indie d’Oltremanica. Prodotto dal leggendario Steve Albini (storico collaboratore dei Nirvana), “Attack On Memory” suona in effetti come un disco grunge: duro, con voce di Baldi in primo piano, liriche disperanti e batteria rutilante.

L’inizio è scioccante: No Future/No Past è tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, con quella cavalcata finale che evoca il titolo dell’album. Ancora più spiazzante Wasted Days: oltre 8 minuti, con ampia sezione strumentale nella parte centrale e il testo forse più drammatico ma in cui è più facile riconoscersi: “I thought! I would! Be more! Than this!”, ripetuto come un mantra dalla voce straziata di Baldi. Il CD prosegue poi con pezzi più vicini al rock, come Stay Useless, che allentano la pressione nella seconda parte del lavoro.

“Attack On Memory” è l’inizio di una bella storia nel mondo punk-rock, proseguita poi con l’altrettanto potente “Here And Nowhere Else” (2014). I Cloud Nothings, però, non sono mai suonati così spontanei nella loro ancora giovane carriera. Ecco perché “Attack On Memory” mantiene un posto di prestigio fra i migliori album punk del decennio.

71) Real Estate, “Atlas” (2014)

(ROCK)

I Real Estate, giunti al terzo lavoro, raggiungono probabilmente il miglior risultato possibile per il loro dream pop, molto simile in “Atlas” agli Arctic Monkeys di “Suck It And See”, ma con quel tocco di Phoenix (sia nella voce di Martin Courtney che nelle melodie) che arricchisce ulteriormente il range di ritmi dell’album.

“Atlas” si contraddistingue per canzoni graziose e ben fatte (su tutte Had To Hear e Talking Backwards, senza dimenticare la strumentale April’s Song), ma nessuna delle tracce di “Atlas” è fuori fuoco. Un LP praticamente impeccabile, “Atlas” resterà sicuramente un caposaldo dell’indie negli anni a venire.

È un peccato che i Real Estate siano poi stati travolti dallo scandalo legato al loro chitarrista principale Matthew Mondanile (accusato di comportamenti inappropriati da varie donne e costretto a lasciare la band), tanto da non riuscire a replicare fino ad ora i brillanti risultati di “Days” (2011) e “Atlas”. Nulla però ci toglierà mai la possibilità di ascoltare un’altra volta un capolavoro come “Atlas”, tanto semplice quanto riuscito.

70) FKA twigs, “MAGDALENE” (2019)

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD è fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, supporto nella produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

69) James Blake, “James Blake” (2011)

(ELETTRONICA)

Dopo una serie di EP cominciata nel 2009 con “Air & Lack Thereof” e proseguita con “The Bells Sketch EP”, “CMYK EP” e “Klavierwerke EP” (tutti del 2010), la pubblicazione dell’album d’esordio del cantautore inglese James Blake era attesissima.

Attesa ben ripagata dall’eponimo “James Blake”, uno degli album di musica elettronica (ma anche pop e R&B) più influenti della scorsa decade. Potremmo anzi dire che, assieme alla “Trilogy” di The Weeknd, questo disco abbia riscritto le regole dell’R&B alternativo e dell’elettronica più raffinata.

Basi derivanti dal garage di Burial sono infatti mescolate al pianoforte e ad una sensibilità pop che, nei suoi momenti migliori, rende le canzoni di “James Blake” sublimi. Basti sentire per la prima volta The Wilhelm Scream o le due Lindisfarne. Non tutto è perfetto, altrimenti il CD sarebbe facilmente entrato nella top 10 della decade, ma i risultati complessivi sono stupefacenti.

68) Aphex Twin, “Syro” (2014)

(ELETTRONICA)

Lo avevamo dato per spacciato: Aphex Twin sembrava oramai pronto per i libri di storia della musica, descritto come una delle voci più importanti del panorama della musica elettronica, fino però ai primi anni 2000. Invece, uno dei ritorni più graditi del 2014 è senza dubbio quello di Richard D. James, aka Aphex Twin, 13 anni dopo l’ultimo lavoro di studio “Drukqs”.

La qualità della produzione di Aphex è come sempre notevole: un’elettronica raffinata, a volte orecchiabile (come nella introduttiva minipops 67 [120.2]), altre volte più aggressiva (come nella lunga suite XMAS_EVET10 [120] o nella più breve 180 db_[130]). Il colpo da maestro arriva però con la conclusiva aisatsana [102], delicatissima e commovente: solo piano di James e uccellini di sottofondo, che creano un’atmosfera davvero affascinante. Una sensibilità così spiccata in RDJ ci era ignota: chapeau.

67) Sleater-Kinney, “No Cities To Love” (2015)

(PUNK – ROCK)

Le Sleater-Kinney sono state negli anni ’90 una delle band simbolo del movimento punk femminile americano (non a caso chiamato “riot grrl”), assieme alle Hole di Courtney Love. Dopo aver sfornato sei ottimi CD, nel 2006 si erano sciolte, dedicandosi a progetti solisti. Nove anni dopo, l’evento: la reunion. E i risultati sono ancora una volta ottimi.

Le tre ex ragazze rivoltose si scoprono più mature, ma i cavalli di battaglia sono sempre i soliti, dalla critica al capitalismo sfrenato, alla discriminazione verso il sesso femminile, alla lotta alla povertà. Il punk delle origini non si è diluito, anzi: in poco più di 30 minuti le Sleater-Kinney sfornano dieci potenziali hit punk-rock, nessuna delle quali sfigura. Spiccano Price Tag, la title-track e A New Wave, una delle tracce dell’anno.

Insomma, un trionfo: come testimoniano Blur e Sleater-Kinney (ma anche i My Bloody Valentine nel 2013), le reunion a volte riescono ad aggiungere capitoli interessanti a carriere già leggendarie.

66) Vampire Weekend, “Contra” (2010)

(ROCK – POP)

Il rischio dei secondi album di band talentuose ma fondamentalmente “conservatrici” è quello di tentare di ripetere il primo, riuscendoci solo a tratti. Questo è il caso di Strokes, Interpol, Bloc Party e Franz Ferdinand, per citarne alcuni celebri. Ma “Contra”, secondo CD dei Vampire Weekend, non compie questo errore: la band riesce ad ampliare notevolmente il proprio range sonoro, aprendo ad atmosfere alla Paul Simon.

Se infatti l’inizio ricalca l’indie scanzonato di “Vampire Weekend”, il bell’esordio del 2008, con brani veloci e ben fatti come Horchata, White Sky e Holiday, la parte centrale (per esempio con Run o Taxi Cub) ma soprattutto l’ultimo tratto dell’album aprono a sonorità nuove e potenzialmente di radicale cambiamento: basti ascoltare Giving Up The Gun o Diplomat’s Son, lunga addirittura 6 minuti.

In conclusione, i Vampire Weekend, anche se non sempre centrano il bersaglio, restavano ancora una band su cui puntare: possiamo dire una start up, ancora in divenire, ma con una prospettiva a 5 stelle, fatto confermato dal magnifico “Modern Vampires Of The City” (2013).

65) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” (2018)

(ELETTRONICA)

Il titolo dell’album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco. La musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE.

64) Janelle Monáe, “The Electric Lady” (2013)

(R&B – POP)

Il secondo album della talentuosa Janelle Monáe è un altro trionfo. Dopo la sorpresa di “The ArchAndroid” (2010), Janelle non ha per nulla perso lo smalto in questo “The Electric Lady”, in cui torna la figura di Cindy Mayweather e si compongono la quarta e quinta suite dell’ambiziosa opera su questa androide umanizzata.

I temi portanti sono peraltro i medesimi del precedente lavoro: l’amore libero, la voglia di rimuovere quel malessere interno che tutti prima o poi abbiamo… Anche il concept è lo stesso, come già ricordato, supportato da ospiti magnifici come Prince, Miguel, Solange Knowles ed Erykah Badu.

La novità risiede nel semplice fatto di replicare i risultati strabilianti di “The ArchAndroid”, che per molti sarebbe stato un ostacolo troppo grande e una pressione intollerabile. Del resto, però, talenti cristallini e poliedrici come l’artista americana sono rarissimi, così come brani clamorosi come Q.U.E.E.N. ed Electric Lady.

63) Sky Ferreira, “Night Time, My Time” (2013)

(POP – ROCK)

L’esordio (di cui ancora non abbiamo un seguito) di Sky Ferreira è semplicemente un buon album? Sì e no. Senza dubbio le belle canzoni abbondano, da Boys a Nobody Asked Me (If I Was Okay), passando per Heavy Metal Heart e la conclusiva title track; tuttavia, l’impatto che ancora oggi lei e questo LP hanno sul mondo musicale sono immensi.

Sky era infatti apparentemente destinata a diventare una popstar: con all’attivo il brillante singolo Everything Is Embarrassing e l’EP “Ghost” (2012) che vantava la collaborazione di Cass McCombs e Dev Hynes (Blood Orange), tutto pareva apparecchiato per il grande botto. Invece Sky ha abbandonato la via facile, decidendo di rifugiarsi in un CD che affronta temi come l’odio per sé stessi e i problemi d’amore in maniera inusuale, con uno sguardo femminista che ancora oggi ha peso su figure come Charli XCX e le sorelle Haim, approcciando generi disparati come il synthpop, il grunge e il rock alternativo.

“Night Time, My Time” non ha un erede probabilmente anche per questo motivo: replicare un piccolo gioiello come questo lavoro e rischiare di rovinare un’eredità così pesante ha reso la Nostra più insicura e, dato il suo maniacale perfezionismo, “Masochism” non ha ancora visto la luce, diventando una sorta di Sacro Graal: da tutti ricercato ma da nessuno trovato.

62) The War On Drugs, “A Deeper Understanding” (2017)

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala. Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del decennio, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

61) Grimes, “Art Angels” (2015)

(POP – ELETTRONICA)

Claire Boucher, la cantante canadese meglio conosciuta come Grimes, nel 2012 aveva stupito tutti con “Visions”, suo terzo lavoro di studio ma primo ad avere un certo successo, superbo CD che mescolava elettronica e pop in maniera davvero unica. In “Art Angels” Grimes torna alla stessa formula già sperimentata in “Visions”, con minore inventiva ma superiore confidenza nei propri mezzi.

I risultati sono ancora una volta ottimi: brani come la potente SCREAM, la title track e la ottima Venus Fly (a cui ha collaborato Janelle Monáe) sono concepibili solo da un genio della musica moderna come Grimes, molto maturata anche vocalmente. La perla del CD è però World Princess Part II, uno dei migliori pezzi pop dell’anno.

Album per certi versi folle, “Art Angels”, ma nondimeno accattivante e ben fatto: i pochi passi falsi (come California) sembrano confermare che la perfezione non è di questo mondo. Top 100 pienamente meritata per “Art Angels” e per Claire Boucher, una delle poche artiste per cui si possa dire: nessuno suona come lei.

60) Deerhunter, “Fading Frontier” (2015)

(ROCK)

I Deerhunter non sono mai stati apprezzati per le canzoni allegre o il clima gioioso dei loro album. Anzi, molto spesso valeva il contrario: a partire dal secondo lavoro di studio “Cryptograms”(2007) fino a “Monomania” (2013), la loro cifra stilistica era sempre stato un indie rock venato di ambient music e pop, aggressivo e con testi riguardanti temi scottanti come morte, sessualità, guerra…

“Fading Frontier” è perciò una gradita scoperta: un album che cresce ad ogni ascolto, accessibile e decisamente più commerciale rispetto ai citati lavori precedenti. Si ritorna dunque alle melodie dream pop di “Halcyon Digest” (2010), capolavoro del gruppo. Bradford Cox e Lockett Pundt, frontman e chitarrista dei Deerhunter, oltre che menti creative della band, danno sfogo alla loro vena più intimista e serena.

I testi d’altra parte non sono banali nemmeno in “Fading Frontier”: in Take Care “copiano” un titolo ai Beach House e a Drake, ma trattano di storie d’amore finite male; in All The Same narrano le disavventure di un uomo che perde moglie e figli, ma trasforma le proprie debolezze in forza per riemergere. Il brano migliore è però Breaker, primo pezzo con parte canora condivisa fra Cox e Pundt nella produzione dei Deerhunter, che riecheggia Beach House e Real Estate. Bella anche Living My Life, che sembra quasi ispirarsi a Bon Iver. Nessuno dei 9 piccoli gioielli che compongono questo LP può dirsi fuori posto: un altro tassello alla già ottima carriera dei Deerhunter è stato aggiunto.

59) Alt-J, “An Awesome Wave” (2012)

(ROCK)

Una band che agli esordi vince il Mercury Prize non è frequente, ma gli Alt-J di “An Awesome Wave” lo meritano: era da tempo che non si sentiva un disco così innovativo.

Gli Alt- J creano infatti una miscellanea sonora affascinante ed efficace: esclusi infatti la Intro iniziale e i due Interlude, il CD cattura l’attenzione dello spettatore creando un genere fatto di indie pop, rock leggero e una spruzzata di elettronica tremendamente bello nei suoi picchi creativi (Fitzpleasure, Breezeblocks e Something Good sono davvero magnifiche).

Anche nei momenti più intimisti “An Awesome Wave” non delude: sia Taro che Dissolve Me non sfigurano. In poche parole: uno dei migliori CD del 2012 e del decennio.

58) Wolf Alice, “My Love Is Cool” (2015)

(ROCK)

Al primo album di studio, gli inglesi Wolf Alice tirano fuori un album semplicemente splendido, che riesce a mescolare con grande abilità generi fra loro diversi (grunge, alternative rock e pop), grazie anche alle meravigliose voci di Ellie Rowsell e Joff Oddie, che un po’ giocano a fare gli xx e un po’ i My Bloody Valentine.

Non vi sono brani sbagliati o fuori posto: anzi, il terzetto iniziale (Turn To Dust, Bros e Your Loves Whore) è probabilmente il migliore del 2015. Altri pezzi non trascurabili sono Lisbon e la conclusiva The Wonderwhy, che ricordano gli Interpol di “Turn On The Bright Lights”; invece Giant Peach gioca a fare gli Strokes.

Non sarà il nuovo “Loveless” o “Kid A”, ma certamente “My Love Is Cool” resterà anche in futuro come uno dei migliori esordi degli anni ’10 del XXI secolo. Complimenti ai Wolf Alice.

57) Iceage, “You’re Nothing” (2013)

(PUNK)

Il secondo CD dei danesi Iceage è facilmente uno dei più begli album punk del decennio 2010-2019 e, allo stesso tempo, uno dei più feroci. Prendendo spunto dalle scene hardcore e punk del passato, gli Iceage (guidati dal bravo frontman Elias Bender Rønnenfelt) creano un grido punk lungo 28 minuti, una durata relativamente breve per un disco nella nostra epoca, ma lungo abbastanza da comunicare tutto il disagio giovanile presente nel gruppo.

In realtà già l’esordio “New Brigade” (2011) aveva lasciato intravedere la natura selvaggia degli Iceage, tanto che addirittura il loro “padrino” Iggy Pop aveva detto di esserne spaventato. La paura è in effetti quella che emana da “You’re Nothing”: già dal titolo i temi dominanti sono intuibili.

Attraverso canzoni devastanti come Ecstasy e Burning Hand Rønnenfelt e compagni creano un senso di claustrofobia che non se ne va se non alla fine del CD. “You’re Nothing” è forse troppo duro per molti, ma resta (e resterà probabilmente anche in futuro) uno dei migliori dischi punk della decade appena finita.

56) Angel Olsen, “My Woman” (2016)

(ROCK)

Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop-rock contemporaneo.

Se inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock, con “My Woman” il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Allo stesso tempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire.

Il 2016 è stato l’anno in cui, con lei e Courtney Barnett, il rock femminile ha trovato due grandi interpreti. Fatto confermato, per quanto riguarda Olsen, dallo splendido “All Mirrors” del 2019, che ce ne ha fatto scoprire il lato più art pop.

55) Kurt Vile, “Wakin On A Pretty Daze” (2013)

(ROCK)

Il quinto album solista di Kurt Vile trova il Nostro al picco delle proprie capacità. “Wakin On A Pretty Daze” è il CD più accessibile della sua discografia, pieno di momenti davvero paradisiaci per gli amanti del rock vecchio stampo: i 9 minuti di Wakin On A Pretty Day sono clamorosi, così come l’epica chiusura di Goldtone. Nel mezzo abbiamo altre perle, da KV Crimes a Too Hard, che rendono il lavoro davvero imperdibile.

I semi di questo squisito LP erano già stati pianati nel precedente “Smoke Ring For My Halo” (2011), dove Kurt aveva abbandonato il lo-fi dei primi dischi da frontman dopo l’apprendistato nei The War On Drugs per far spazio a un rock infarcito di folk e psichedelia. È però in “Wakin On A Pretty Daze” che il suo stile rilassato ma mai prevedibile sboccia completamente.

Il CD è davvero un piacere, intaccato solamente dall’eccessiva lunghezza (oltre 69 minuti) che però non danneggia i momenti davvero memorabili di un lavoro caposaldo del rock classico ma anche psichedelico del decennio.

54) St. Vincent, “Strange Mercy” (2011)

(ROCK)

Annie Clark, in arte St. Vincent, è una delle artiste davvero fondamentali nel panorama pop-rock degli anni ’10. Il suo stile a metà fra ricercato e scanzonato, con un’estetica a tratti à la David Bowie, la rendono un personaggio che non passa mai inosservato; a ciò aggiungiamo canzoni spesso riuscite e il cocktail diventa esplosivo.

“Strange Mercy”, il terzo album a firma St. Vincent, è il lavoro per molti definitivo della cantante statunitense. Mescolando abilmente la sua voce ammaliante a schitarrate a tratti selvagge e testi mai scontati, la Clark condensa in poco più di 40 minuti molta della storia dell’indie rock.

Da Chloe In The Afternoon a Cruel, passando per Champagne Year e Surgeon, il CD è un trionfo, che denota finalmente tutto il talento del progetto St. Vincent, ulteriormente rifinito nel 2014 nell’eponimo “St. Vincent”.

53) Little Simz, “GREY Area” (2019)

(HIP HOP)

Se spesso i passati lavori di Little Simz erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), in “GREY Area” l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque ed evita di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap della decade.

52) Run The Jewels, “Run The Jewels 2” (2014)

(HIP HOP)

La seconda collaborazione fra i due rapper americani Killer Mike ed El-P è un trionfo per gli amanti del rap più duro. In un compatto formato da 11 brani e 39 minuti, i Run The Jewels confermano un’intesa incredibile e un’abilità vocale e di produttori notevoli, che rendono “Run The Jewels 2” il miglior CD ad oggi del duo.

Il lavoro è quasi nostalgico in certi tratti: la collaborazione con Zach De La Rocha (Rage Against The Machine) e i rimandi a Public Enemy e N.W.A. sono chiari e allo stesso tempo graditi, nondimeno i Run The Jewels non sono semplicemente dei tradizionalisti. Anzi, nel 2014 questo disco era davvero all’avanguardia: le sue denunce della violenza a sfondo razziale della polizia americana e la sfida lanciata agli haters sono temi tuttora attuali.

Soprattutto, a risaltare ancora oggi sono le canzoni: fin dall’apertura feroce di Jeopardy, passando per la durissima Close Your Eyes (And Count To Fuck) e Crown, “Run The Jewels 2” è un LP che non lascia spazio al filler e, a tratti, è quasi troppo da prendere tutto in una volta. Ciò non toglie valore ad un lavoro tanto duro quanto sincero: valori non scontati nel panorama musicale moderno, per certi versi troppo “smielato” specie nel mondo pop.

51) Darkside, “Psychic” (2013)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il progetto Darkside, ossia il nickname della collaborazione fra Nicolas Jaar e il chitarrista/bassista Dave Harrington, ha scritto pagine molto importanti della musica degli anni ’10. Nel breve spazio di tre anni infatti il duo ha pubblicato l’EP di esordio “Darkside” (2010), remixato “Random Access Memories” dei Daft Punk (2013) e dato alla luce il loro per ora unico CD vero e proprio, il brillante “Psychic”.

Jaar è molto conosciuto e stimato per essere uno dei più innovativi artisti di musica elettronica, capace di spiccare sia come produttore, sia come compositore, che si parli di musica ambient, dance oppure sperimentale. Darkside è il lato più rock di Nicolas: i riferimenti a prog rock, funk e space rock (quindi agli anni ’70 e ’80 del XX secolo) sono numerosi, basti sentirsi l’epica Golden Arrow e The Only Shrine I’ve Seen. I pezzi riusciti però non terminano qui: le 8 perle di “Psychic” creano infatti un insieme coeso ma mai ripetitivo, anzi a volte quasi elitario nei riferimenti e nella complessità delle canzoni.

Melodie come la già citata Golden Arrow e Paper Trails rientrano di diritto fra le canzoni più belle della decade e rendono questo “Psychic” imprescindibile per gli amanti della musica ai confini fra rock ed elettronica. Dal canto suo Nicolas Jaar si conferma artista versatile e ormai pronto a spiccare il volo fra i maestri dell’elettronica.

Manca poco ormai per sapere chi è il CD più bello della decade 2010-2019 secondo A-Rock! State sintonizzati, domani il verdetto sarà espresso!

Recap: aprile 2019

Aprile è stato un mese intenso musicalmente parlando. A-Rock dedica il suo recap ai nuovi lavori di Weyes Blood, Anderson .Paak, Aldous Harding, dei Broken Social Scene e dei Priests. Inoltre, abbiamo analizzato il ritorno dei Chemical Brothers, dei King Gizzard & The Lizard Wizard e l’album live pubblicato da Beyoncé.

Beyoncé, “HOMECOMING: THE LIVE ALBUM”

homecoming

Pura goduria per i fans della famosissima popstar, questo album riprende la spettacolare esibizione tenuta da Beyoncé al festival di Coachella dello scorso anno. Musicalmente e scenograficamente, si tratta di uno dei più begli album dal vivo mai registrati, oltre che di un compendio straordinario della carriera della signora JAY-Z.

Il catalogo di Beyoncé sarebbe già enormemente dotato di grandi singoli, a partire dal suo inizio di carriera con le Destiny’s Child per poi proseguire nella sua carriera solista. Successi come Crazy In Love, Single Ladies (Put A Ring On It) o la più recente Don’t Hurt Yourself farebbero la fortuna anche presi singolarmente di moltissimi cantanti; insieme, rendono una carriera magnifica. Beyoncé ha inoltre dimostrato di sapersi destreggiare benissimo in molti generi: pop, R&B, dance, rap e soul. Insomma, un’artista a tutto tondo, oltre che un’eccellente ballerina.

Le sue doti di performer sono evidenti nel video che accompagna l’esibizione: sul palco del Coachella si destreggiano più di 200 ballerini e un’intera orchestra oltre a Beyoncé e ai suoi ospiti (il marito JAY-Z, l’ex collega nelle Destiny’s Child Kelly Rowland, la sorella Solange e J. Balvin). Insomma, un trionfo in grande stile. Aggiungiamo a tutto ciò che anche vocalmente la Knowles è al top della forma, sapendo alternare con abilità il suo registro basso e gli acuti che ne hanno fatto la fortuna.

In conclusione, questo “HOMECOMING: THE LIVE ALBUM” è un bellissimo CD, da assaporare più volte per cogliere in ogni minimo dettaglio la straordinarietà della performance di Beyoncé, sempre più a pieno titolo regina del pop. I 40 brani e intermezzi passano senza intoppi e questa sorta di greatest hits della cantante americana è imperdibile per gli amanti della black music in ogni sua sfumatura.

Voto finale: 9.

Weyes Blood, “Titanic Rising”

weyes blood

Natalie Mering, meglio conosciuta come Weyes Blood, con il suo quarto CD ha raggiunto probabilmente il picco delle proprie capacità. Accanto al folk anni ’60 delle origini, la Mering in “Titanic Rising” ha dato spazio ad arrangiamenti decisamente più barocchi, aiutata anche da un produttore d’eccezione come Jonathan Rado dei Foxygen.

Fin dalla prima canzone capiamo che qualcosa è cambiato nel progetto Weyes Blood: A Lot’s Gonna Change è una canzone molto ricercata, quasi barocca, che si rifà alla grande Joni Mitchell ma anche a Father John Misty. La canzone è anche un ovvio highlight in un disco che per la verità conta molte belle melodie: ottima anche la seguente Andromeda ad esempio, così come Wild Time. Movies inizia come Bliss dei Muse ma poi evolve in un brano pop grandioso per arrangiamenti. I due brevi intermezzi Titanic Rising e Nearer To Thee servono più che altro a rendere coerente il disco e dargli una convincente narrativa interna: Nearer To Thee infatti chiude “Titanic Rising” e riprende le atmosfere di A Lot’s Gonna Change. Il titolo allude alla canzone che l’orchestra del Titanic stava cantando durante il naufragio… tutto ciò a testimoniare la complessità del lavoro della Mering, sia strumentale che concettuale.

Liricamente il CD affronta molti temi tipici del mondo pop-rock, dall’amore (“I need a love every day” canta Natalie in Everyday) al dolore (“No one’s ever gonna give you a trophy for all the pain and things you’ve been through. No one knows but you” si sente in Mirror Forever) ai problemi più interiori dell’animo umano, tanto che in A Lot’s Gonna Change Weyes Blood canta “Everyone’s broken now… and no one knows just how”.

In conclusione, il progetto della cantante statunitense, come già accennato, sembra aver trovato il suo sbocco definitivo; il folk accattivante ma semplice delle origini è stato accantonato, o meglio affiancato da strumentazioni decisamente più elaborate e liriche non banali. Il futuro è tutto da scrivere per Natalie Mering e sembra promettere molto bene. Lei e Julia Holter sono definitivamente le figure più innovative dell’art pop mondiale.

Voto finale: 8.

Aldous Harding, “Designer”

designer

Il terzo album della talentuosa compositrice neozelandese (sì, il nome trae in inganno) è il suo lavoro più compiuto. Accanto al folk classico delle origini, ora la Harding ha inserito anche sassofoni e alcune tastiere di sottofondo, tanto da creare un CD coeso eppure mai prevedibile o peggio monotono.

Fin dall’apertura, la graziosa Fixture Picture, notiamo sia i tratti ormai caratteristici di Aldous sia le novità: i ritmi, specialmente delle percussioni, sono più sostenuti che in passato, ma allo stesso tempo le liriche continuano ad essere per lo più inintelligibili. Qui ad esempio si dice “In the corner in blue is my name”, quasi parlassimo di un quadro. Altrove, è vero, compaiono temi più compiuti: il più rilevante è la paura di assumersi responsabilità, sia verso un partner che un figlio, un timore che in effetti prende molti giovani. In The Barrel si dice “When you have a child, so begins the braiding and in that braid you stay.” In Damn riappare il tema, quando la Harding si sente delle catene attorno al corpo che le impediscono di spiccare il volo.

Musicalmente, il 2019 si conferma molto positivo per le giovani autrici: da Jessica Pratt a Julia Jacklin, passando per Weyes Blood e Julia Harding, il mondo indie femminile continua a rivoluzionare il rock. Accanto alla già citata Fixture Picture abbiamo altre ottime tracce come The Barrel e Designer; le uniche eccezioni sono Treasure e Damn, ma restano comunque buone e inserite perfettamente nel contesto di “Designer”.

In conclusione, questo terzo LP a firma Aldous Harding ne conferma il talento e la volontà di espandere il proprio sound di riferimento, rifiutando una comfort zone che per altri sarebbe stato un rifugio benvenuto. “Designer” è ad ora il miglior album folk dell’anno e uno dei migliori della decade.

Voto finale 8.

Anderson .Paak, “Ventura”

ventura

Il cantante americano Anderson .Paak, giunto al quarto album, è tornato alle sonorità che lo avevano reso famoso con “Malibu” (2016): un funk colorato e sempre ballabile, inframmezzato da parti più rappate. Mentre in “Oxnard” dello scorso anno la parte hip hop aveva la meglio, con risultati controversi, “Ventura” privilegia le sonorità calde e morbide che meglio riescono ad Anderson, con ottimi risultati.

In effetti, se si eccettua la canzone di apertura Come Home con André 3000, il resto del breve ma incisivo CD (11 brani per 40 minuti) è caratterizzato da chiari rimandi ai maestri della black music del passato: da Stevie Wonder a Prince, passando per i più recenti Frank Ocean e D’Angelo. Questo è forse il limite maggiore del disco: parere a volte più una somma di cover di pezzi del passato piuttosto che un insieme di inediti.

L’abilità di .Paak di trasportare questi suoni nel XXI secolo consente però di mettere da parte almeno parzialmente questa critica e concentrarsi sull’eleganza di “Ventura”: i suoni più spigolosi di “Oxnard” sono scomparsi, lasciando spazio a chitarre eleganti e batterie fragranti, capaci di accompagnare l’artista nel corso del CD sempre efficacemente.

Anche liricamente si notano decisi progressi: mentre i precedenti lavori di Anderson .Paak erano caratterizzati da chiari riferimenti, a volte molto espliciti, alla vita sessuale dell’artista, “Ventura” contiene anche rimandi alle lotte fra bianchi e neri in America. King James, dedicata al cestista LeBron James, contiene le seguenti liriche: “We couldn’t stand to see our children shot dead in the streets… we salute King James for using his change to create some equal opportunities”. Altrove invece appaiono proclami più spavaldi: in Chosen One ad esempio si dice “To label me as The One, debatable; but second to none, that suit me like a tailored suit”, mentre in Yada Yada abbiamo “Our days are numbered, I’d rather count what I earn”.

I brani migliori sono What Can We Do?, che chiude magistralmente il disco, e la deliziosa Make It Better; convincono meno Chosen One, troppo lunga, e Winners Circle. In conclusione, le canzoni interessanti non mancano e il disco è caratterizzato da grande coerenza e nessun pezzo fuori posto. Allo stesso tempo la domanda sorge spontanea, un po’ come accaduto per i The Internet nel 2018: un LP dai suoni così retrò può davvero aggiungere qualcosa ad un panorama musicale così sovraccarico, specialmente negli ultimi tempi, di CD R&B/soul/rap?

Voto finale: 7,5.

Priests, “The Seduction Of Kansas”

priests

Il secondo album della band punk serve ai Priests per ricalibrare parzialmente il loro sound. Il post-punk sanguigno delle origini viene affiancato da sonorità più accessibili, che ricordano i Foals, introducendo dunque sonorità quasi danzerecce nella loro estetica.

Se l’estetica dei Priests è cambiata lo dobbiamo anche alla dipartita del fondatore Taylor Mulitz, bassista fino all’anno scorso del gruppo, ora rimpiazzato da Janel Leppin. Non sono stati quindi anni facili per loro, dapprima esposti alla fama come mai in precedenza e poi preda di tensioni interne. Tuttavia, il risultato non deluderà i fan del complesso statunitense: fin dalla partenza di Jesus’ Son, passando per Youtube Sartre e Control Freak, la densità ritmica che aveva fatto la fortuna dei Priests resta.

A colpire maggiormente sono i brani più melodici, ad esempio 68 Screen e The Seduction Of Kansas, che tuttavia si integrano bene col resto delle tracce presenti nel CD per creare in conclusione un lavoro coeso e interessante. Nulla di rivoluzionario, ma certamente gradevole. I migliori pezzi sono Carol e Texas Instruments, mentre sono un po’ sotto la media l’eccessivamente lunga Not Perceived e 68 Screen.

Testualmente, la frontwoman e principale ispiratrice delle liriche Katie Alice Greer descrive soprattutto soggetti individuali, non uniti pertanto da un background comune, denunciando molti dei problemi presenti nelle società moderne. Passiamo dalla potente invettiva femminista in 68 Screen (“It’s your movie, you wrote starred and directed it. I may only be your muse, but I’m necessary”) alla denuncia dell’atteggiamento ossessivo verso le donne di alcuni maschi, sia in Jesus’ Son (I am Jesus’ son, I’m young and dumb and full of cum”) che in Control Freak (“You’re out of the woods, Dorothy. I’m your control freak, I’m your ‘no place like home’”). Anche qui, niente di innovativo, almeno rispetto al panorama rock degli anni ’10 del XXI secolo.

“The Seduction Of Kansas” è perciò un buon album, con bei riff e alcune liriche molto azzeccate, ma allo stesso tempo manca ai Priests quel quid necessario al definitivo salto di qualità.

Voto finale: 7,5.

The Chemical Brothers, “No Geography”

no geography

Il duo di musica elettronica formato da Tom Rowlands e Ed Simons continua a mantenersi su buoni livelli nonostante l’età non più verde e, giunti al nono album di inediti, i Chemical Brothers ci ricordano come non sempre la maturità significhi produrre CD prevedibili e scadenti.

Anzi, il contrario vale per “No Geography”: in un anno finora non facile per l’elettronica, privo dei grandi nomi che avevano caratterizzato il 2018, il disco dei Chemical Brothers è un piacevole ritorno alle sonorità della musica elettronica anni ’90: big beat, forti influenze psichedeliche e brani pronti per essere suonati nelle discoteche di tutto il mondo. Notevoli sono i rimandi a Primal Scream e Daft Punk, ad esempio, oltre che alla discografia iniziale dei Chemical Brothers.

La particolarità che colpisce fin da subito dell’album è la sua estrema compattezza: 10 brani per 46 minuti di durata, spesso con le canzoni che si intrecciano fra loro per creare dunque un mondo sonoro davvero affascinante e coeso. Tutto ciò però non significa che “No Geography” suoni eccessivamente uniforme: la differenza fra veri e propri brani trascinanti come l’iniziale Eve Of Destruction e melodie più complesse e aderenti alla techno come Got To Keep On è evidente. Vi sono poi anche pezzi meno commerciali come Gravity Drops e The Universe Sent Me; insomma, i CB ne hanno per tutti i gusti. Malgrado la presenza di singoli destinati ad avere successo duraturo, pertanto, questo LP può essere gustato anche dall’inizio alla fine senza mai risultare fuori luogo.

In generale inoltre il CD, pur risultando in un certo senso legato all’elettronica anni ’90 e specificamente al glorioso passato dei Chemical Brothers, non perde di fascino anche dopo ripetuti ascolti. Non parliamo dunque di un capolavoro, ma di un altro passo avanti nella produzione di Rowlands e Simons che testimonia una volta di più il talento dei due britannici.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “Fishing For Fishies”

fishing for fishies

Allora, ricapitoliamo: i King Gizzard & The Lizard Wizard sono un complesso australiano capace di far uscire 14 CD in 7 anni di attività, di cui cinque in un anno solo, un 2017 contraddistinto da salti nel metal (“Murder Of The Universe”) e nel jazz (“Sketches Of Brunswick East”). Essenzialmente, tuttavia, il gruppo può essere catalogato come psichedelico/garage rock: gli esordi dei King Gizzard, fino a “I’m In Your Mind Fuzz” (2014), avevano riportato alla mente i White Stripes o Jay Reatard, mentre la carriera poi li ha portati su binari più consoni ai primi Tame Impala, ne sono ottimi esempi “Polygondwanaland” e “Flying Microtonal Banana”.

Il nuovo album della prolifica band australiana prende le mosse dai loro precedenti momenti più lenti, quasi old style, pensiamo a “Paper Mâché Dream Balloon” (2015): molti pezzi di “Fishing For Fishies” richiamano il rock anni ’70 dei Beatles o dei Led Zeppelin, fatto piuttosto inusuale per i King Gizzard & The Lizard Wizard, che in passato avevano evocato Flaming Lips e Ty Segall e non gruppi così mainstream.

Il richiamo al genietto del garage rock Ty Segall non è casuale: anche gli australiani, in una produzione così frammentaria, hanno probabilmente perso il treno per produrre un album psichedelico davvero rimarchevole. Certo, “Polygondwanaland” è un buon lavoro, ma per esempio niente a che vedere con “Lonerism” dei conterranei Tame Impala. Il passaggio a sonorità meno distorte e meno sperimentali si deve forse anche al desiderio di ricaricare le pile dopo un periodo davvero infuocato, fra CD e tour infiniti.

I pezzi migliori sono Plastic Boogie e Real’s Not Real, che non a caso sono i più allineati alla precedente versione dei King Gizzard; buona anche Boogieman Sam. Monotona invece la title track, tra l’altro piazzata in apertura, e stucchevole Acarine. Testualmente, Stu Mackenzie e compagni si confermano stranianti: a volte vi sono riferimenti ambientalisti, altre Mackenzie si lamenta del tempo che passa e rimpiange la gioventù (ad esempio in Cruel Millennial si sente “I was only born in ’92… Can’t relate face to face with the modern day youth”).

In conclusione, “Fishing For Fishies” è il più coerente e meglio prodotto LP nella sterminata discografia dei King Gizzard & The Lizard Wizard: a 42 minuti e 9 canzoni siamo di fronte ad un attestato di maturità. Allo stesso tempo, il complesso australiano ha perso quella capacità di sperimentare ritmi molto diversi in suite a volte lunghissime e bislacche ma sempre ambiziose e intriganti per passare al rock classico del secolo scorso. A suo modo è anche questa una rivoluzione nel sound del gruppo, ma i risultati fanno pensare che Mackenzie & co. non siano molto portati per tutto ciò.

Voto finale: 7.

Broken Social Scene, “Let’s Try The After Vol. 2”

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I veterani dell’indie rock sono tornati con un altro breve EP a due mesi dal precedente “Let’s Try The After Vol. 1”. La struttura dei due piccoli lavori è similare, così come la qualità: se il primo riprendeva il filone più dream pop dell’estetica dei Broken Social Scene, questo secondo volume torna alle sonorità rock dei primi dischi del gruppo, in particolare quel “You Forgot It To People” (2002) che li rese famosi.

Il primo dei 5 brani in scaletta, Memory Lover, è una breve intro strumentale, mentre i fuochi d’artificio veri e propri iniziano con Can’t Find My Heart: un potente pezzo rock, con la voce del leader Kevin Drew che ricorda da vicino quella del connazionale Win Butler, leader degli Arcade Fire. Big Couches è forse il pezzo più deludente, prevedibile e con un finale che arriva troppo in fretta. La title track, collocata al quarto posto della tracklist, è quasi folk, data la sua lentezza; invece la conclusiva Wrong Line è un pezzo rock interessante, che sarebbe potuto stare benissimo nei più recenti CD veri e propri del complesso canadese. A mancare di più è Ariel Engle, l’altra figura carismatica dei BSS, che invece aveva sorretto il primo capitolo.

In conclusione, “Let’s Try The After Vol. 2” non è come prevedibile un capolavoro, anzi è inferiore al primo EP della serie; tuttavia i Broken Social Scene dimostrano che hanno ancora qualcosa da dare alla musica, un segnale che aspettavamo e non tradisce le nostre aspettative.

Voto finale: 6,5.

Recap: giugno 2018

Anche giugno è finito. Un mese pieno di uscite interessanti, a volte inattese, di artisti molto amati. Ad A-Rock recensiamo i nuovi dischi di Father John Misty, Natalie Prass, dei Deerhunter e di Stephen Malkmus (ex leader dei Pavement) assieme ai fidati Jicks. Ma soprattutto punteremo l’attenzione sulla collaborazione della più potente coppia della musica contemporanea: Jay-Z e Beyoncé.

Father John Misty, “God’s Favourite Customer”

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Joshua Tillman è giunto al quarto CD sotto il nome di Father John Misty, quello che lo ha portato alla celebrità e contemporaneamente a diventare uno dei cantautori indie più discussi anche online, a causa delle sue prese di posizione sempre controverse, ma mai banali. “God’s Favourite Customer” arriva pochi mesi dopo il monumentale “Pure Comedy”, senza dubbio il lavoro più ambizioso di Tillman: il CD era infatti un’analisi di tutti i mali della società contemporanea, fatta su canzoni molto barocche, per una durata complessiva di 74 minuti. Insomma, un lavoro potenzialmente molto divisivo, che tuttavia aveva fatto breccia anche nel pubblico meno ricercato ed era entrato in molte liste dei migliori album del 2017 (compresa la nostra) con pieno merito.

“God’s Favourite Customer” probabilmente avrà la stessa fortuna, ma per motivi opposti: il disco è considerevolmente più breve di “Pure Comedy” e caratterizzato da canzoni meno complesse. Anche liricamente l’album è radicalmente diverso: adesso Tillman affronta i propri demoni personali, lasciando da parte le riflessioni sul mondo esterno. I risultati, come sempre con lui, sono ottimi.

Già le prime due tracce, Hangout At The Gallows e Mr. Tillman, rappresentano appieno questa svolta: ritorno alle ritmiche e sonorità di “Fear Fun”, durata ragionevole e immediato appeal. Il CD proseguirà poi su questa strada, affiancando canzoni più rock (la bella Disappointing Diamonds Are The Rarest Of Them All e We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That)) ad altre più melodiche (Just Dumb Enough To Try e The Songwriter). A coronamento di tutto sta la bella voce di Father John Misty, più calda ed evocativa che mai: basti sentire The Palace, solo voce e piano.

Liricamente, dicevamo, Tillman affronta gli angoli più oscuri della sua psiche, in particolare la paura di perdere l’amata moglie e le pene d’amore che questo provocherebbe. Un’apertura considerevole e sincera, soprattutto considerato che parliamo di un artista noto per il suo ego infinito e la sua sagace ironia piuttosto che per la sua fragilità.

In conclusione, in soli 38 minuti e dieci canzoni, Father John Misty conferma ancora una volta il suo immenso talento: mescolando influenze disparate (da Neil Young a Bob Dylan ai Fleet Foxes, il suo ex gruppo), Joshua Tillman ha prodotto un LP tanto semplice quanto gradevole. Chissà che il picco delle sue capacità non debba ancora essere raggiunto…

Voto finale: 8.

Stephen Malkmus And The Jicks, “Sparkle Hard”

stephen malkmus

Chi apprezza l’indie rock non può non venerare Stephen Malkmus, un artista che ha fatto la storia di questo genere con i Pavement negli anni ’90 del secolo scorso. Nondimeno, la sua carriera non si esaurì con lo scioglimento del gruppo: Malkmus ha poi cominciato una fiorente carriera alternativa con il suo nuovo complesso, i Jicks, non limitandosi a prendere ispirazione dai Pavement, ma anzi cercando sempre nuove sperimentazioni.

Ne è un’ulteriore dimostrazione questo “Sparkle Hard”, settimo CD di Stephen Malkmus assieme ai Jicks: accanto al classico indie rock che da lui ci aspetteremmo troviamo infatti uso diffuso del pianoforte e dell’autotune, che tanto va di moda oggi. Inoltre, Kim Gordon (ex Sonic Youth) fa una comparsata molto efficace in Refute.

I testi delle 11 canzoni dell’album poi sono molto attuali: in Bike Lane Malkmus fa riferimento all’uccisione da parte della polizia di Freddie Gray, un caso che ha destato molto scalpore negli USA; in Middle America si schiera a fianco del movimento #MeToo, cantando che “Men are scum, I won’t deny it”. Non spesso si sente un artista di mezz’età cantare cose così forti: un merito in più di Stephen Malkmus.

I pezzi migliori sono Cast Off, la sognante Middle America e l’energica Shiggy; convincono meno Brethren e Difficulties – Let Them Eat Vowels, ma non sono in ogni caso pezzi da buttare. Diciamo che, se Ty Segall canterà ancora nel 2028, ci aspettiamo di sentirlo cantare così: intenso, ma consapevole che il tempo è passato e che, accanto all’energia delle origini, devono trovare spazio anche riflessioni più profonde sulla società e su quello che non va.

In conclusione, “Sparkle Hard” non è un LP che cambierà i destini del rock; del resto, Malkmus ne ha già prodotti almeno un paio con i Pavement, basti citare “Slanted, Enchanted” oppure “Crooked Rain, Crooked Rain”. Allo stesso tempo, però, si sentiva nel mercato la necessità che vedesse la luce un disco indie rock impegnato. Ben fatto, Stephen.

Voto finale: 8.

Natalie Prass, “The Future And The Past”

natalie prass

Il secondo album, si sa, è spesso la prova più difficile per un artista, specialmente dopo un buon lavoro d’esordio. Natalie Prass, in effetti, non ha dato alla vita “The Future And The Past” senza problemi: a fine 2016 le canzoni erano già pronte, però l’elezione di Donald Trump l’ha così scioccata che si è trovata costretta a riscrivere gran parte dei testi.

Musicalmente, rispetto all’omonimo “Natalie Prass” del 2015, le cose cambiano leggermente: mentre il primo suo CD eccelleva nelle strumentazioni barocche, adesso Natalie canta spesso su basi molto anni ’80, che richiamano Prince e i Police. Insomma, il riferimento al passato evocato nel titolo trova una soluzione; e il futuro?

Effettivamente, più che guardare al futuro, il disco è molto adatto al presente: in Sisters la Prass chiama le donne a raccolta per resistere al presidente più maschilista della storia. In Ship Go Down, il riferimento della metafora “I’ve always felt the rain, but now a hurricane is pouring on me” è evidente.

I brani migliori di un disco generalmente riuscito sono le iniziali Oh My e Short Court Style, molto danzerecce rispetto al disco d’esordio; la trascinante Ship Go Down; e Sisters. Meno convincente la monotona Hot For The Mountain e superfluo il breve intermezzo Interlude: Your Fire. Come già anticipato, tuttavia, pur non parlando di un capolavoro, Natalie Prass si conferma sostanzialmente ai livelli dell’omonimo esordio del 2015. Esame secondo album superato, dunque.

Voto finale: 7,5.

The Carters, “EVERYTHING IS LOVE”

the carters

Il nome del duo autore di “EVERYTHING IS LOVE” può trarre in inganno: chi saranno mai questi Carters? Ebbene, stiamo parlando della coppia più celebre e potente della musica nera (ma forse di tutta la musica): Jay-Z e Beyoncé. I due hanno infatti realizzato questo album collaborativo a compimento della crisi e della successiva riconciliazione che li ha visti protagonisti negli scorsi anni. Il CD è parte di una trilogia di cui fanno parte anche gli acclamati “Lemonade” e “4:44”, in cui Beyoncé e Jay-Z riflettevano soprattutto sulle rispettive responsabilità. Non è dunque un caso se l’album della definitiva riconciliazione si intitola “EVERYTHING IS LOVE”. In APESHIT Jay-Z trova peraltro anche il tempo di prendere in giro i suoi colleghi dell’industria discografica, sia perché su 8 nomination ai Grammy dello scorso anno “4:44” non ha vinto nulla, sia per non averlo difeso nella causa che la NFL ha intestato contro di lui per aver rifiutato di esibirsi al Super Bowl dopo aver dato la sua parola, per presunte beghe legate al compenso pattuito (“I said no to the Super Bowl: you need me, I don’t need you. Every night we in the end zone, tell the NFL we in stadiums too… Tell the Grammy’s fuck that 0 for 8 shit”).

Musicalmente, il disco è un perfetto incrocio fra lo stile dei due: abbiamo infatti tracce prettamente pop (la bella SUMMER e HEARD ABOUT US) e tracce che richiamano il rap old style di Jay-Z (713). Allo stesso tempo, tuttavia, la coppia ha una volta di più mostrato il suo talento: notiamo infatti tracce R&B e addirittura trap (FRIENDS e APESHIT, in cui non è un caso che collaborino anche Quavo e Offset dei Migos). Oltre a questi due celeberrimi artisti, notiamo anche comparsate di Ty Dolla $ign e Pharrell Williams: insomma, ospiti non banali.

Tra i brani migliori abbiamo SUMMER e APESHIT; convince invece poco NICE, ma è l’unico pezzo debole in un album per il resto apprezzabile, in cui la rivelazione del travaglio interiore che affligge anche le coppie più famose e ricche è un valore aggiunto non da poco. In generale, dunque, è ovvio che Bey e Jay non parlano per tutti, nondimeno i due sembrano finalmente sereni e pronti a riprendere la vita assieme. Valga come manifesto del CD questa frase tratta da LOVEHAPPY: “we came and we saw and we conquered it all”. Beh, non saranno modesti, ma il talento e la spavalderia certo non gli mancano.

Voto finale: 7,5.

Deerhunter, “Double Dream Of Spring”

deerhunter

Questo lavoro dei Deerhunter è molto particolare, sia come struttura che come genesi: si tratta infatti di una cassetta (!) distribuita ai concerti della band statunitense e prodotta in sole 300 copie (!!), quindi un pezzo da collezionisti fatto e finito. Dicevamo che anche la struttura dell’album è bizzarra: abbiamo infatti la prima parte completamente strumentale, mentre le ultime cinque tracce contengono anche la voce del frontman Bradford Cox.

Musicalmente, “Double Dream Of Spring” sembra raccogliere i pezzi dei Deerhunter più abbozzati e liberi da costrizioni: si alternano infatti brevissimi intermezzi (Clorox Creek Chorus) a lunghissime meditazioni krautrock (Dial’s Metal Patterns). Nella seconda parte il lavoro si fa più coeso: spicca in particolare la delicata chiusura Serenity 1919 (Ives), che riprende un’opera del compositore Charles Ives. Citazioni musicalmente colte abbondano anche in Faulkner’s Dance, dedicata al celebre scrittore: troviamo tracce di Stereolab e Can ben piazzate nel corso del brano.

In generale, quindi, possiamo ritrovare influenze di svariati album passati dei Deerhunter: da “Cryptograms” (2007) a “Halcyon Digest” (2010), passando per “Weird Era Cont.” (2008). Insomma, un caleidoscopio sonoro ricco, certo perfettibile ma che denota ancora grande voglia di sperimentare da parte di un gruppo attivo da quasi vent’anni. Aspettiamo con trepidazione il prossimo album vero e proprio del gruppo, in uscita quest’anno e con il titolo provvisorio “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?”, per capire meglio dove tutto ciò li avrà portati, certi tuttavia che Cox e compagni resteranno alfieri di un indie rock tanto fragile quanto superbo nei suoi momenti migliori.

Voto finale: 7.

I 50 migliori album del 2016 (25-1)

Eccoci arrivati alla seconda (e ultima) parte della nostra classifica dei 50 migliori album del 2016. Nella prima sezione avevamo grandi nomi, come Green Day, Last Shadow Puppets e Rihanna: cosa conterrà la parte più alta della lista? Buona lettura.

25) Sturgill Simpson, “A Sailor’s Guide To Earth”

(COUNTRY)

Può il country regalare emozioni al di fuori degli Stati Uniti? Sì, se il cantante riesce a veicolare messaggi universali con orchestrazioni non banali, rimostranza che ci sentiamo di fare a molti musicisti country più “tradizionali”. Ebbene, Sturgill Simpson riesce a fare suo questo insegnamento nel suo terzo LP “A Sailor’s Guide To Earth”: colpiscono soprattutto l’uso di strumenti inusuali per il genere, come trombe e sassofono, oltre ai frequenti cambi di ritmo presenti nelle 9 canzoni che compongono l’album. Tra di esse ricordiamo in particolare Welcome To Earth (Pollywog), Breakers Roar e la conclusiva Call To Arms. Meno riuscita la ballata Oh Sarah, ma i risultati complessivi sono comunque davvero lodevoli.

24) Cat’s Eyes, “Treasury House”

(POP)

I Cat’s Eyes sono un duo, formato dal cantante degli Horrors Faris Badwan e dalla soprana italo-canadese Rachel Zeffira. Il contrasto fra la voce profonda di Faris e quella fragile di Rachel aveva già segnato il trionfo dell’esordio della band, l’omonimo “Cat’s Eyes” del 2011. Lo stile si distanzia molto da quello caratteristico degli Horrors: addio rock alternativo e sperimentalismo, dentro un pop da camera raffinato e suadente. Sembra quindi che Badwan, dopo il pregevole “Luminous” (2014), abbia voluto di nuovo dare sfogo al suo lato più romantico; e i risultati sono di nuovo eccellenti. Le 11 canzoni che compongono il CD sono tutte ben prodotte e curate, perfette per trascorrere 35 minuti di calma e serenità. Spiccano in particolare la title track, Chameleon Queen e la bellissima Names Of The Mountains, che ricorda gli xx. Riuscita anche Standoff, la melodia più elettronica presente nell’album. Invece Be Careful Where You Park Your Car ricorda addirittura i White Stripes, anche nel titolo. Insomma, un piccolo gioiello da parte di due fra i più talentuosi musicisti della loro generazione.

23) PJ Harvey, “The Hope Six Demolition Project”

(ROCK)

La veterana dell’alternative rock britannico PJ Harvey è ormai giunta al nono album di inediti, ma non dà alcun segno di cedimento: l’ispirazione continua ad essere ottima e la voglia di commentare le scelte politiche occidentali non è venuta meno. “The Hope Six Demolition Project” non raggiunge le vette del precedente CD “Let England Shake”, ma è un altro tassello di una carriera davvero notevole. L’inizio è particolarmente efficace: The Community Of Hope e The Ministry Of Defence sono potenti ballate rock, con testi che descrivono efficacemente le periferie americane e gli errori compiuti dall’Occidente nelle guerre degli anni passati. Abbiamo altri pezzi squisiti come River Anacostia e la conclusiva Dollar, Dollar; peccato per pezzi deboli come The Ministry Of Social Affairs, troppo prolissa, e The Orange Monkey. Ma il voto finale non può che essere positivo, così come lusinghiera è la posizione in questa lista dei migliori album del 2016.

22) Danny Brown, “Atrocity Exhibition”

(HIP HOP)

Il quarto album di Danny Brown segue gli acclamati “XXX” (2011) e “Old” (2013), che dopo l’esordio “The Hybrid” (2010) hanno segnato una crescita vertiginosa nella qualità delle canzoni e nella popolarità del giovane rapper statunitense. Malgrado questo crescente successo, Brown nelle sue canzoni tratta sempre temi complessi e legati alla sua personale esperienza: suicidio, redenzione… “Atrocity Exhibition” (titolo preso da una canzone dei Joy Division) non fa eccezione: abbiamo ritmiche spesso opprimenti e non orecchiabili, a testimonianza che lo sperimentalismo di Brown non è venuto meno. In generale, nelle 15 canzoni che compongono il CD impressiona soprattutto la parte iniziale; abbiamo brani generalmente veloci, che rendono i 48 minuti dell’album frammentati e non semplici. La pazienza richiesta per entrare in “Atrocity Exhibition” viene però ripagata: un LP rap così efficace e ardito non è per nulla comune. I pezzi migliori sono Tell Me What I Don’t Know, la potentissima Really Doe (con la collaborazione nientepopodimeno che di Kendrick Lamar, Earl Sweatshirt e Ab-Soul) e l’ossessiva When It Rain. La dolce Get Hi sembra preannunciare una svolta nella produzione del rapper americano: sarà mantenuta? Infine, sono da sottolineare le numerose influenze nei suoni presenti nelle basi: Joy Division, Talking Heads, New Order… I rimandi sono molteplici e sempre centrati. Insomma, sembra proprio che la “trilogia” iniziata con “XXX” si concluda con questo “Atrocity Exhibition”: non era semplice mantenere un livello così alto per tre CD consecutivi e rendere gradevole una voce particolare come quella di Brown. Missione compiuta.

21) James Blake, “The Colour In Anything”

(ELETTRONICA – POP)

James Blake ha voluto strafare: 17 canzoni per “The Colour In Anything”, suo terzo album dopo l’eponimo esordio (2011) e “Overgrown” (2013). Durata superiore ai 70 minuti, cura dei minimi dettagli di voci e orchestrazione: ecco le principali caratteristiche del CD. Il risultato, a ben pensarci, poteva essere anche migliore: alcuni pezzi sono leggermente sotto la media (per esempio la title track e la conclusiva Meet You In The Maze). In generale, infatti, Blake non è mai stato così ispirato: pezzi come Radio Silence, Timeless, Always e la strana Points sono belli come i migliori pezzi mai scritti dal giovane cantautore inglese. La voce poi è sempre ottima, così come l’intreccio fra post-dubstep, pop ed elettronica soft. Insomma, davvero un peccato: “The Colour In Anything” poteva essere il capolavoro di una carriera già pregevole, invece l’eccessiva lunghezza e le troppe canzoni rischiano di compromettere il risultato finale. Niente di cui disperarsi però: il percorso è quello giusto. Se James non vorrà strafare anche la prossima volta, ne sentiremo delle belle.

20) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It”

(ROCK – POP – ELETTRONICA)

Il gruppo inglese The 1975, capitanato dal vulcanico Matt Healy, scatena reazioni molto diverse nel pubblico: o lo si ama o lo si odia. Il loro secondo album, già dal titolo, è destinato a rinfocolare questa diatriba: troppo lungo, oppure dimostra una volta di più la grande ambizione e sicurezza nei propri mezzi della band? E ancora: le 17 canzoni, con 4 ambient à la Brian Eno, non saranno troppe (senza contare i 73 minuti di durata)? Beh, diciamo che entrambe le parti hanno delle ragioni e dei torti: è vero, troppo spesso l’album eccede in gigioneria o brani fin troppo simili fra loro, ma vale anche il fatto che un CD così divertente e imprevedibile erano anni che non lo sentivamo. Inoltre, sarà pur vero che la band britannica musicalmente non inventa nulla, con chiarissimi riferimenti a Police, Tears For Fears, My Bloody Valentine e M83 presenti qua e là; tuttavia, un revival così efficace degli anni ’80 non è facile da produrre. Ma quindi, in conclusione, qualcuno si starà chiedendo: ma da che parte stai? La mia personale opinione è che un gruppo capace di passare da un esordio zoppicante (con Phoenix e Strokes come riferimenti) a un LP variegato come questo “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (e pezzi bellissimi come A Change Of Heart, She’s American, Loving Someone e The Ballad Of Me And My Brain) ha un talento fuori dal comune. Se i quattro ragazzi metteranno a freno la loro smodata ambizione, potrebbe davvero essere che la “Next Big Thing” della musica inglese siano loro.

19) Nicolas Jaar, “Sirens”

(ELETTRONICA)

Nicolas Jaar, giovane speranza della scena elettronica, cerca di trasmettere messaggi universali mediante un CD di musica elettronica. “Sirens” è solamente il secondo disco vero e proprio della sua carriera: nel precedente “Space Is Only Noise” (2011) aveva fatto gridare al miracolo per la sua naturale capacità di mescolare ambient e dance, in un raffinato mix di brani eterei e altri più carichi. Nel nuovo lavoro, Jaar non cambia una formula che si era rivelata vincente, limitandosi ad affinarla; le novità più gustose risiedono nei testi delle sei canzoni che compongono “Sirens”. Già nella prima canzone in scaletta, la misteriosa Killing Time, Jaar inizia subito a farci capire come la pensa riguardo all’economia: “money, it seems, needs its working class”. Abbiamo poi la potente The Governor, dove le origini cilene del nostro vengono prepotentemente alla luce: i richiami alla feroce dittatura di Pinochet sono forti nei versi “we’re all just rolling, the mothers have sunk, all the blood’s hidden in the Governor’s trunk.” Il più importante momento politico risiede però in No, cantata in spagnolo da Jaar, dove oltre a una sua conversazione con il padre Alfredo abbiamo la lirica “ya dijimos no, pero el si està en todo”, rimando al referendum dove i cileni decisero di votare no alla dittatura di Pinochet, condannandosi ad anni tragici di ritorsioni e vendette dei fedeli al regime. Musicalmente parlando, le poche tracce di “Sirens” farebbero pensare ad un LP breve, ma in realtà si superano i 46 minuti di durata; gli highlights sono la già citata The Governor e Three Sons Of Nazareth, uno dei migliori brani mai scritti da Nicolas. Insomma, stiamo parlando di uno dei più brillanti talenti della scena elettronica mondiale: “Sirens” non fa che cementarne lo status.

18) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine”

(POP)

La collaborazione fra l’ex frontman dei Walkmen Hamilton Leithauser e l’ex multi-strumentista dei Vampire Weekend Rostam Batmanglij risulta in un buon CD: 10 canzoni che guardano fortemente al passato, soprattutto agli anni ’60 -’70 del secolo scorso. Colpiscono positivamente soprattutto due cose: la produzione dell’album, impeccabile e ricca di particolari deliziosi (le voci alla fine di When The Truth Is… e durante 1959, il banjo in Peaceful Morning tra i migliori) e la duttilità della voce di Leithauser, mai stato così vario in un singolo album (addirittura in una canzone, come nella bella Sick As A Dog). Detto questo, chi cerca invenzioni clamorose musicalmente parlando forse non gradirà troppo questo “I Had A Dream That You Were Mine”. Viceversa, gli amanti di Walkmen e Vampire Weekend ritroveranno molti tratti caratteristici delle due band: orecchiabilità, coesione sonora e rilettura dei classici, per esempio. Le canzoni migliori sono l’iniziale A 1000 Times, dolce canzone d’amore; le già citate Sick As A Dog e 1959; e Rough Going (I Won’t Let Up), quasi jazz. Il capolavoro vero però è When The Truth Is…, perfetta melodia, condita con pianoforte e strumentazione minimale, tutta farina del sacco di Rostam; la voce di Leithauser accompagna perfettamente il tutto. Niente di paragonabile a “Modern Vampires Of The City” (2013), l’album della definitiva consacrazione dei VW, però certamente un LP godibile e curato, che riporta nel pieno della forma due tra le menti più creative del mondo indie americano. Una vera delizia pop d’autore.

17) Anderson .Paak, “Malibu”

(HIP HOP)

Il giovane Anderson è già al secondo album di inediti: il primo, “Venice” (2014), era passato nel sostanziale anonimato, pur essendo di qualità discreta. È proprio con “Malibu” che il rapper statunitense è definitivamente esploso: era da tempo che non sentivamo una così sapiente miscela di soul, R&B e hip hop. Immaginate di ascoltare Kendrick Lamar che scimmiotta D’Angelo e Frank Ocean e avrete una vaga idea della maestria di Anderson .Paak. Parlando strettamente di musica, brani pregevoli non mancano: in particolare le prime due tracce, TheBird e Heart Don’t Stand A Chance, impressionano l’ascoltatore. Non dobbiamo però sottovalutare il resto di “Malibu”: la elettronica Am I Wrong, la trascinante Come Down e la chiusura di The Dreamer sono davvero notevoli. Peccato per due-tre tracce non riuscite: ricordiamo Your Prime e la breve Water Fall (Interluuube). Insomma, ancora una volta Dr. Dre aveva visto lungo ingaggiando Anderson .Paak per la sua casa discografica, ormai sempre più fucina di grandi talenti: la presenza in “Compton” (l’album dell’anno scorso che ha chiuso la carriera di Dre) ha senza dubbio spinto al rialzo le quotazioni di Anderson, ma la stoffa resta ottima. Uno dei migliori album hip hop dell’anno (Kanye permettendo) e uno dei più riusciti esordi degli ultimi anni.

16) Suede, “Night Thoughts”

(ROCK)

Si parla dei Suede ormai da 27 anni: la band inglese si è infatti formata nel lontano 1989, ma la qualità delle loro canzoni non è mai venuto meno. Tra i pionieri del britpop inglese, genere che poi ha visto affermarsi band fondamentali come Oasis, Blur e Verve, i Suede si sono sempre contraddistinti per l’oscuro fascino dei loro album, tanto da diventare simbolo del rock inglese più dark. Brett Anderson e soci, dopo la reunion del 2010, hanno pubblicato due ottimi lavori come “Bloodsports” (2013) e il qui presente “Night Thoughts”, due magniloquenti opere rock che nulla hanno da invidiare ai CD degli esordi dei Suede. “Night Thoughts” è composto da 12 pezzi, con highlights assoluti come le iniziali When You Are Young (ricca di archi nell’orchestrazione) e la potente Outsiders, senza dimenticarci Like Kids. Interessante la scelta di riprendere When You Are Young in chiusura con la breve When You Were Young, a testimonianza che il modello erano i Beatles di “Sgt. Pepper”: non siamo arrivati a quei livelli, ovviamente, ma i risultati sono assolutamente accettabili. In conclusione, un altro capitolo prezioso è stato aggiunto alla già ottima carriera dei Suede, uno dei gruppi più sottovalutati del panorama musicale moderno, ma capaci di regalare perle come questo “Night Thoughts”.

15) Car Seat Headrest, “Teens Of Denial”

(ROCK)

Il secondo album di Toledo e co. per l’etichetta Matador conferma come i Car Seat Headrest (nome alquanto incomprensibile, ma tant’è) siano una delle realtà più interessanti del nuovo indie rock mondiale. Un album molto lungo e per certi versi difficile, questo “Teens Of Denial”: oltre 70 minuti di durata, brani molto lunghi (uno addirittura oltre 12 minuti!) e continui cambi di ritmo. Proprio qui, del resto, risiede il fascino del CD: Toledo, con voce sempre intonata e sul pezzo, descrive gli effetti che il consumo di droghe ha su di lui e sui suoi amici, tanto che il lavoro diventa un vero e proprio inno contro il consumo di stupefacenti. Belle canzoni ne abbiamo, ovviamente: dalle due iniziali Fill In The Blank e Vincent, alle infinite (ma gradevoli) Cosmic Hero e The Ballad Of Costa Concordia (vi ricorda qualcosa?), il nuovo LP dei Car Seat Headrest è un trionfo di chitarre rutilanti e batteria potentissima. Tra i migliori album rock dell’anno.

14) Kanye West, “The Life Of Pablo”

(HIP HOP)

Si può criticare Kanye West per mille motivi: eccessivamente egocentrico, megalomane, arrogante… Insomma, la più grande superstar dell’hip hop non ha un carattere facile. Musicalmente, però, niente da dire: senza di lui mancherebbe gran parte della musica rap moderna. “The Life Of Pablo” conferma la classe di Kanye: brani potenti e bellissimi come Famous, Real Friends, la perla gospel Ultralight Beam e Waves sono tra i migliori dell’anno. Da sottolineare poi il parco ospiti sterminato: Chance The Rapper, Frank Ocean, Kendrick Lamar, The Weeknd… insomma, un ensemble da sogno. Top 15 pienamente meritata. Soprassediamo sulle ultime vicende che hanno colpito Yeezy: i gossip passano, la musica resta.

13) Blood Orange, “Freetown Sound”

(HIP HOP – SOUL)

La musica black ha trovato in Devonté Hynes (conosciuto con il nome d’arte di Blood Orange) un nuovo grande interprete: pur non inventando nulla di nuovo, il giovane cantante pubblica un CD molto bello, caratterizzato da tematiche difficili come le lotte razziali passate e presenti che hanno colpito gli Stati Uniti e le diseguaglianze rintracciabili nella società americana. Musicalmente, Hynes recupera le sonorità di Prince e Michael Jackson, creando un mix di funk, soul e hip hop molto affascinante. I migliori brani sono Augustine, Best To You, Juicy 1-4 e Hadron Collider (dove canta Nelly Furtado). Da sottolineare le collaborazioni presenti nel CD: oltre a Furtado abbiamo Carly Rae Jepsen e Debbie Harry, altri due pezzi grossi della musica pop contemporanea e del recente passato. “Freetown Sound” sarà troppo lungo e a volte meno efficace (troppi gli intermezzi musicali, per esempio), ma i risultati complessivi sono notevoli.

12) Chance The Rapper, “Coloring Book”

(HIP HOP – GOSPEL)

Il terzo mixtape del talentuoso Chance The Rapper è probabilmente il suo miglior lavoro fino ad ora. Dopo il bel mixtape “Acid Rap” del 2013, Chance era atteso al varco, ma “Coloring Book” non delude le attese di critica e pubblico. Il forte afflato religioso che pervade tutto l’album, infatti, aggiunge al consueto hip hop dell’artista un tocco gospel che affascina ancora di più l’ascoltatore. I pezzi davvero da ricordare sono No Problem, Summer Friends e Same Drugs (una piccola Pyramids). Nessuno dei 14 brani del resto è davvero fuori posto: i più deboli sono la collaborazione con Future (Smoke Break) e Mixtape, ma per il resto la qualità è davvero altissima. Possiamo senza dubbio premiare “Coloring Book” col titolo di miglior CD (da parte di un cantante maschile) di musica black dell’anno. Escluso Frank Ocean, ovviamente.

11) School Of Seven Bells, “SVIIB”

(ROCK – ELETTRONICA)

“SVIIB” è il quarto ed ultimo CD della band americana School Of Seven Bells. Nel corso della loro produzione, gli SVIIB (come viene spesso stilizzato il loro nome) hanno sempre cercato un connubio fra rock ed elettronica, un synth rock potente ma allo stesso tempo raffinato; senza dubbio, questo LP rappresenta l’apice di questa ricerca musicale. Di per sé i risultati sarebbero già buoni, ma lo sono ancora di più considerando che il duo conosciuto come School Of Seven Bells è stato colpito nel dicembre 2013 da un lutto terribile: Benjamin Curtis, la metà maschile del gruppo, è morto a causa di un linfoma e ha dunque lasciato il “compito” alla partner Alejandra Deheza di terminare “SVIIB”. Dunque, il fatto che l’album sia gradevole e riuscito è davvero sorprendente: sono belle soprattutto Ablaze (che inizia con il verso “how could I have known?”, espressivo della disperazione di Alejandra), On My Heart e la struggente Open Your Eyes. A Thousand Times More, poi, richiama addirittura lo shoegaze, anche se in forme più gentili dei My Bloody Valentine. Infine, This Is Our Time è una maestosa conclusione ad un piccolo capolavoro del 2016 come “SVIIB”. Insomma, un inaspettato trionfo, un lavoro sentito e bellissimo: un perfetto testamento alla carriera degli School Of Seven Bells e alla vita di Benjamin Curtis.

10) Leonard Cohen, “You Want It Darker”

(SOUL – FOLK)

La leggenda canadese del folk e della canzone d’autore Leonard Cohen, con il quattordicesimo album di inediti, ha nuovamente sconvolto i suoi fans. “You Want It Darker” sembrava in effetti un testamento musicale, un ultimo regalo a pubblico e critica fatto di melodie raccolte e un tono di voce più cupo che mai. Impressione purtroppo confermata dalla scomparsa del veterano Cohen, avvenuta lo scorso novembre. Tutto questo pareva avverarsi anche nei testi, molto poetici e profondi, cantati da Cohen: nella title track, egli afferma “I’m ready, my Lord”; in Leaving The Table canta invece “I’m leaving the table, I’m out of the game”. Musicalmente parlando, le melodie non sono orecchiabili e tantomeno sono ballabili, come nella gran parte dei precedenti CD di Leonard Cohen. D’altro canto, l’eleganza di brani come la title track e If I Didn’t Have Your Love non lascia indifferenti. In generale, vale lo stesso discorso fatto per David Bowie dopo l’uscita di “Blackstar”: non sarà il miglior LP della produzione del musicista canadese, ma rappresenta un magnifico modo di dire addio ai fans di una carriera davvero leggendaria. Leonard Cohen sembrava un uomo in pace con sé stesso, pronto a vedere cosa c’è dopo questa vita. E non è una cosa da poco. Addio, Maestro.

9) Beyoncé, “Lemonade”

(POP – R&B)

Il CD della vendetta per la più splendente star femminile della musica nera contemporanea. Grazie anche ad ospiti di assoluto livello (James Blake, Jack White, Kendrick Lamar tra gli altri), Bey convoglia tutta la rabbia contro il marito Jay-Z in “Lemonade”, con brani riusciti come Hold Up, Don’t Hurt Yourself e 6 Inch (con The Weeknd) come highlights. Beyoncé ha così composto il migliore album di una carriera già brillante: “Lemonade” è un esempio di come la musica possa diventare un’arma potentissima contro la discriminazione femminile e a favore della parità tra i sessi. Menzione particolare poi per lo spettacolare “visual album” che accompagna “Lemonade”: una collezione che raccoglie i video di ogni canzone contenuta nel CD. In poche parole: una delle opere più ambiziose degli ultimi anni, che senza dubbio risuonerà anche in futuro come un capolavoro pop di altissimo livello, sia musicale che artistico (nel senso più ampio del termine).

8) Anohni, “Hopelessness”

(ELETTRONICA)

La cantante degli Antony And The Johnsons, famoso gruppo pop, ha deciso di dare una svolta alla carriera componendo un album solista di raffinata musica elettronica, “Hopelessness”. Dopo aver proceduto al cambio di sesso, Antony Hegarty ha assunto il nome Anohni e ha scritto il miglior album di musica elettronica dell’anno. Già il titolo testimonia il pessimismo che permea molte liriche del CD: Anohni affronta temi difficili come il cambiamento climatico (nella bellissima 4 Degrees), i bombardamenti delle potenze occidentali sui paesi vittime di guerre civili (Drone Bomb Me) e la violenza sessuale sulle donne (Violent Men). La produzione di Hudson Mohawke e Daniel Lopatin (aka Oneohtrix Point Never) aggiunge dettagli preziosi a molti brani. Insomma, un LP politico di musica elettronica: sembrava un controsenso fino a pochi anni fa, ma grazie ad artisti come Anohni, Nicolas Jaar e Grimes la cosa è diventata plausibile. Un altro tassello ad una già ottima carriera è stato aggiunto con “Hopelessness” da parte del fu Antony Hegarty: speriamo che abbia trovato finalmente pace tramite questo radicale cambio di vita e di carriera.

7) Solange, “A Seat At The Table”

(R&B – SOUL)

Questo 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. La sorella minore di Beyoncé, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul e rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael Jackson e Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait. La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Queen Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat. In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

6) Angel Olsen, “My Woman”

(ROCK)

Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop-rock contemporaneo. Inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock. Con “My Woman”, però, il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Nel contempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire. Sembra proprio che con lei e Courtney Barnett il rock femminile abbia trovato due grandi interpreti.

5) Bon Iver, “22, A Million”

(FOLK – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Dopo un capolavoro come “Bon Iver, Bon Iver” del 2011, Justin Vernon (il leader del progetto Bon Iver) si è preso del tempo per sé stesso, organizzando un nuovo festival musicale nella sua città natale, Eaux Claires, e seguendo la sua nuova creatura musicale, i Volcano Choir. Del resto, lui ha sempre detto che le canzoni vanno “sentite” nel cuore e che scrivere solo per accumulare denaro non fa per lui. Promessa mantenuta: il marchio Bon Iver ha prodotto solamente tre album e un EP in nove anni di vita. Pochi ma buoni, anzi ottimi: ogni passo della carriera di Vernon è sempre stato un viaggio magnifico, sia che fosse concentrato sui sentimenti del protagonista (come l’esordio “For Emma, Forever Ago” del 2007), sia che ci conducesse in località a volte vere, a volte immaginarie (come accade in “Bon Iver, Bon Iver” del 2011). Sembrava che ormai Bon Iver fosse qualcosa del passato, invece quest’anno Vernon ha deciso di resuscitare la band; e i risultati sono di nuovo eccellenti. Già l’inizio è promettente: 22 (OVER S∞∞N) ricorda le atmosfere dei suoi precedenti lavori, risultando in un folk gentile e raffinato, mentre la potente 10 d E A T h b R E a s T ⚄⚄ rimanda addirittura al Kanye West di “Yeezus”. Abbiamo poi l’affascinante intermezzo di 715 – CRΣΣKS, che sembra una riedizione di quella Woods che era stata ripresa anche da Kanye in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”. Sono però presenti influenze anche di James Blake (non a caso i due hanno collaborato in I Need A Forest Fire) e, beh, delle precedenti incarnazioni di Bon Iver. Queste ultime sono particolarmente evidenti in 33 “GOD” (qua sì che la numerologia ha senso) e 29 #Strafford APTS, non a caso fra i brani migliori del disco. Il capolavoro vero è però 666 ʇ, che possiede una sezione ambient da brividi, così come la bella 8 (circle). Il solo brano non completamente a fuoco è _____45_____, mentre la conclusiva 00000 Million ricorda molto la Beth/Rest che chiudeva “Bon Iver, Bon Iver”. I testi sono quanto mai criptici: si possono leggere riferimenti alla fede e all’amore, ma sempre slegati dal contesto, quasi che Justin voglia evidenziare come anche la nostra epoca sia confusa (i titoli dei brani sono piuttosto misteriosi) e come noi stiamo perdendo i riferimenti che un tempo ci sostenevano (l’amore e la fede, appunto). In conclusione, in sole 10 canzoni e 34 minuti di durata, “22, A Million” ci conferma lo sconfinato talento di Justin Vernon e ci fa bramare per avere al più presto nuova musica da parte sua. Bentornato, Justin.

4) Nick Cave & The Bad Seeds, “Skeleton Tree”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Come l’anno passato Sufjan Stevens ci aveva fatto commuovere celebrando la figura della madre morta da poco di cancro, tanto da vincere la palma di miglior album del 2015, quest’anno Nick Cave ricorda il figlio 15enne morto cadendo da una rupe durante le registrazioni del CD che sarebbe diventato “Skeleton Tree”. Accompagnato dai fedeli Bad Seeds, il veterano australiano del rock alternativo e sperimentale produce un lavoro denso e complesso, come del resto era facile attendersi. Nick Cave mescola sonorità diverse fra loro, tra sperimentalismo, musica ambient e soft rock. I titoli e i testi delle canzoni sono evocativi: I Need You e la lirica “Nothing really matters”, oppure “I am calling you” in Jesus Alone e infine il verso più straziante, contenuto in Distant Sky: “They told us our dreams would outlive us, but they lied”. Nel film tratto dalla registrazione di “Skeleton Tree”, la drammaticità del momento vissuto da Cave è ancora più evidente; speriamo che aver condiviso la pena di aver perso un figlio così giovane possa alleviare la pesantezza che certamente lui e la sua famiglia portano nel cuore. Noi, umilmente, non possiamo che ringraziarlo per un altro magnifico tassello di una carriera davvero leggendaria: pezzi come la title track, Rings Of Saturn e la già citata Distant Sky sono bellissimi sia musicalmente che, come già accennato, nei loro testi. In poche parole, uno dei CD più belli e sentiti dell’anno.

3) Frank Ocean, “Endless/ Blonde”

(POP – R&B)

Agosto 2016 era andato via tranquillo, senza uscite musicali da segnalare. Finché… Ebbene sì: Frank Ocean è tornato dal suo letargo! Il 2016 ci restituisce un Frank in piena forma, artista ormai nel pieno delle sue potenzialità e versatile come solo i grandi sanno essere (due album, di cui uno abbinato a un enigmatico video, un magazine… Insomma, molte forme artistiche complementari e adatte alla sua narrazione). Già da un anno circolavano voci sul seguito del magnifico “Channel Orange” del 2012, uno degli album migliori del decennio, intriso di riferimenti a pop, funk, soul e R&B. Frank sembrava troppo sotto pressione, sia da parte della critica che del pubblico, tanto da essere spinto a comunicare con l’esterno solo tramite Tumblr e rare comparsate in album di suoi colleghi (per esempio in “The Life Of Pablo” di Kanye West). Poi, finalmente, ad inizio agosto il suo sito viene rinominato “Boys Don’t Cry”, presunto titolo del nuovo CD, e Apple Music annuncia di avere una esclusiva trasmissione di nuova musica di Frank, abbinata ad un video. Lo streaming, finita la trasmissione, tace; poi il 19 agosto esce il video completo e rifinito, senza interruzioni, di quello che ora è “Endless”. Inoltre, Frank distribuisce in alcuni negozi in giro per il mondo una rivista di arte e moda da lui curata, intitolata proprio “Boys Don’t Cry”: un necessario completamento della sua narrazione artistica. “Endless” in sé e per sé non è una raccolta indimenticabile di musica: se questo fosse stato il vero nuovo LP di Frank Ocean, non avrei nascosto la mia delusione. Restano però alcune tracce interessanti, oltre a una lodevole ambizione artistica nel tentare di abbinare un monotono video di lui che costruisce una mensola alla musica. Tutto assume un senso se lo paragoniamo alla pazienza dimostrata dai fans di Frank mentre lui componeva il suo nuovo lavoro di inediti. Una sorta di prova: solo chi supererà la visione del video e l’ascolto di quelle che sembrano b-sides o demo potrà raggiungere il privilegio di ascoltare il mio vero nuovo CD. Le canzoni migliori sono la romantica At Your Best You’re Love, cover degli Isley Brothers; Rushes; e la trascinante Higgs, dove viene scandito un discorso sul consumismo di massa dello scrittore Wolfgang Tillmans sopra synths potenti e “strani” per un artista afroamericano come Ocean.

“Endless” è niente in confronto al magnifico “Blonde”, a tutti gli effetti terzo album di inediti di Frank Ocean. Rispetto a “Channel Orange” manca la vulcanica creatività e l’accavallarsi di generi diversi che caratterizzavano il precedente CD, ma migliora la coesione generale e aumentano gli ospiti e i produttori di spessore, che rendono “Blonde” davvero irrinunciabile per gli amanti della buona musica. In “Blonde” predomina un pop orecchiabile e affascinante, che in certi tratti si rifà a Prince (come nella bella Ivy); in altri casi invece compaiono lunghe interviste simili al Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly” (come nella conclusiva Futura Free). In generale, un album con collaboratori come Beyoncé, Kendrick stesso, Kanye West, Brian Eno, Jonni Greenwood dei Radiohead, Rostam Batmanglji dei Vampire Weekend e Jamie xx (ma non abbiamo citato il sample di Here, There And Everywhere dei Beatles in White Ferrari, oppure David Bowie e Gang Of Four, presunti “ispiratori” di Ocean nel making of del disco) non può che avere quel qualcosa in più rispetto a lavori più “convenzionali”. Le liriche dell’album sono anch’esse significative: in Nikes (la bellissima traccia iniziale) si fa riferimento alle uccisioni di uomini di colore che recentemente hanno colpito gli Stati Uniti; in Be Yourself sentiamo, sotto una nenia che ricorda “Hurry Up, We Are Dreaming” degli M83, una telefonata in cui la mamma di Frank dice al figlio di accettarsi per com’è, non cercando di apparire diverso per far felici gli altri, e gli consiglia di non fare mai uso di stupefacenti nella sua vita (un testo che dice molto delle traversie passate da Frank negli scorsi anni); Facebook Story narra la storia assurda di un uomo e della sua ragazza, ossessionata dai social networks; Solo (Reprise) affida ad André 3000 (altro gradito ospite) accuse varie ai rapper che fanno scrivere ad altri i loro versi (vero Drake?). Vi sono poi liriche più intime, come nella bella Solo o in Skyline To, che raccontano le avventure sessuali e non di Frank. Concludiamo analizzando una particolarità della copertina dell’album: come mai su Apple Music il CD compare come “Blonde”, ma la copertina (sia quella ufficiale che quella alternativa) recita “Blond”? Sembra una differenza da poco, ma potrebbe significare anche che Frank è a favore della fluidità di genere e preferenze sessuali, temi quanto mai attuali. Un altro dei misteri relativi a Frank Ocean dunque potrebbe contenere un messaggio universale di grande forza, a dimostrare che, anche se può sembrare “staccato” dalla realtà, in realtà Frank segue attentamente gli sviluppi storici e sociali dei nostri tempi. Insomma, canzoni come Nikes, Ivy, Nights e Futura Free resteranno negli annali. Il mondo ha trovato il suo nuovo Prince: nell’anno della morte del Principe di Minneapolis, non potrebbe esistere incoronazione migliore.

2) David Bowie, “Blackstar”

(ROCK)

Mancano le parole quando parliamo della scomparsa di uno dei più grandi cantanti della storia: quel David Bowie autore di capolavori indimenticabili come Heroes, Rebel Rebel e Life On Mars?. Lo showman Bowie aveva sicuramente previsto tutto: fare uscire il suo ultimo LP appena due giorni prima della morte è un qualcosa di incredibile, l’ultima magia del Duca Bianco. Infatti, uno dei primi album ad uscire nel 2016 (8 gennaio) si è rivelato essere un superbo testamento artistico, il testamento artistico di David Bowie. “Blackstar” è un capolavoro di inventiva e sintesi: 7 brani mai banali, tutti indicatori di una creatività che, malgrado un fisico fiaccato dalla malattia, non è venuta mai meno. Spiccano in particolare la lunghissima, epica title track; Lazarus (che richiama i Radiohead di “In Rainbows”) e Girl Loves Me. Da non trascurare anche Sue (Or In A Season Of Crime). Cosa chiedere di più al Duca Bianco? “Blackstar” non sarà il miglior album della sua produzione, ma senza dubbio resterà negli annali come uno dei più belli del 2016 e dell’intero decennio. Chapeau, Starman.

1) Radiohead, “A Moon Shaped Pool”

(ROCK)

Diventa sempre più difficile parlare in maniera imparziale dei Radiohead, una delle band davvero fondamentali del rock degli ultimi vent’anni, con all’attivo album del calibro di “The Bends” (1995), “OK Computer” (1998) e “Kid A” (2000), senza dimenticarci di “In Rainbows” (2007). Ebbene, si sarebbe portati a pensare che ormai la spinta creativa del complesso inglese possa essersi esaurita, considerando anche il predecessore di “A Moon Shaped Pool”, quel misterioso “The King Of Limbs” (2011) che aveva fatto storcere il naso ad alcuni critici e fans della band. Invece, “A Moon Shaped Pool” ribalta tutto ciò: 11 canzoni davvero ispirate, che passano dal rock vecchia maniera (la politica Burn The Witch e Identikit), alla ballata strappalacrime (le incantevoli Daydreaming e True Love Waits), passando per accenni di elettronica raffinata (in Ful Stop). Da ricordare anche l’apertura al folk di Desert Island Disk. In poche parole, un altro capitolo di una carriera che ha del leggendario è stato scritto: la palma di miglior album del 2016 è pienamente meritata. Lunga vita a Thom Yorke e compagni, gli unici a cui l’etichetta di “nuovi Beatles” può adattarsi, data la continua ricerca sonora e la voglia di non darsi mai per vinti di fronte alle tendenze del panorama musicale contemporaneo.

Cosa ne pensate di questa lista? Vi convince oppure avreste privilegiato altri artisti? Non esitate a commentare!

Buon Natale da A-Rock!

Beyoncé vs Rihanna: chi è la regina del pop?

Questo sembra essere sempre di più un anno fondamentale per la musica: dopo il ritorno di artisti come M83, Kanye West e Kendrick Lamar, il 2016 segna un passaggio importante anche per il pop. Sia Beyoncé che Rihanna, due delle più serie pretendenti al trono di regina del pop, hanno pubblicato nuovi LP: sia “Lemonade” che “ANTI” segnano tuttavia una svolta audace per entrambe. Chi ha fatto di meglio? Analizziamo i due lavori, evidenziando punti deboli e forti di entrambi.

“Lemonade”

lemonade

Partiamo dal nuovo CD di Beyoncé, che uscito solo da pochi giorni è già entrato in molte discussioni: molti lo hanno eletto uno degli album più importanti degli ultimi anni, altri (la netta minoranza) lo sminuiscono. Chi ha ragione? Senza dubbio “Lemonade”, sesto album della signora Carter, segna una svolta artistica netta nella sua produzione: se i primi suoi 5 lavori erano incentrati su un abile mix di pop, soul e R&B, con “Lemonade” i suoni si fanno decisamente più audaci.

Anche la lista degli ospiti è impressionante: contiamo tra gli altri Jack White, James Blake, Kendrick Lamar e The Weeknd; inoltre, i crediti vanno anche a Ezra Koenig dei Vampire Weekend e agli Animal Collective. Insomma, alcune delle migliori figure della musica leggera degli ultimi vent’anni. Brani riusciti, non a caso, non mancano: dopo la partenza soft con Pray You Catch Me, abbiamo subito due botte di adrenalina con le bellissime Hold Up e Don’t Hurt Yourself (il duetto con Jack White). Altri highlights sono Freedom, con Kendrick Lamar, e All Night; da non sottovalutare anche 6 Inch. Il solo brano scontato è Sandcastles; per il resto, possiamo serenamente candidare l’album alla top 5 del 2016.

Menzione particolare per i testi di “Lemonade”: Beyoncé potrebbe fare di più per la libertà femminile nella coppia e la parità di genere di mille manifesti femministi. Basta leggere le liriche di brani come Daddy Lessons, Sorry e Formation per capire l’importanza di questo CD anche nel prossimo futuro. P.S.: si vergogni Jay-Z, che con una Beyoncé in casa cerca avventure con altre donne.

Voto finale: 8,5.

“ANTI”     

anti 

Rihanna, con “ANTI”, è già all’ottavo album di inediti: una carriera da veterana, che farebbe pensare che ormai il meglio dell’artista caraibica sia già stato espresso. Meglio che per alcuni coincide con “meno peggio”: in effetti, la Rihanna pop a volte diventa davvero pesante, fin troppo commerciale e “provocante”, per usare un eufemismo.

Perché allora dedicare una recensione ad “ANTI”? Perché Rihanna sembra essere definitivamente maturata: nessuna canzonetta (eccettuata la pessima Work con Drake) e anzi melodie molto più ricercate. Addirittura troviamo in “ANTI” una cover di New Person, Same Old Mistakes dei Tame Impala (con titolo Same Ol’ Mistakes), peraltro venuta bene.

In realtà brani solidi ne contiamo almeno altri due, vale a dire la iniziale Consideration e Kiss Better, entrambi molto R&B e più “cupi” della solita Rihanna. Insomma, la popstar caraibica è giunta ad un bivio nella sua carriera, finora molto redditizia ma musicalmente contrastata: continuare sulla scia di “ANTI”, con album molto meno commerciali ma più riusciti musicalmente, oppure tornare a sfornare hit come Umbrella e Diamonds, perdendo in qualità. Scelta non facile: noi speriamo vivamente che RiRi scelga la prima opzione.

Voto: 7,5.