I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: febbraio 2022

Febbraio è stato un mese densissimo di pubblicazioni importanti per la musica pop-rock. Abbiamo recensito le nuove uscite di artisti del calibro di Beach House, Mitski e Animal Collective. In più, abbiamo il magnifico secondo CD dei Black Country, New Road e il ritorno di Saba, dei Big Thief e di Cate Le Bon. Come tralasciare poi il nuovo CD dei veterani Spoon e il quarto LP degli Alt-J? Buona lettura!

Black Country, New Road, “Ants From Up There”

ants from up there

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Voto finale: 9.

Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

Dragon New Warm Mountain I Believe In You

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici anche dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

Voto finale: 9.

Beach House, “Once Twice Melody”

once twice melody

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande disco in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

Voto finale: 8.

Mitski, “Laurel Hell”

laurel hell

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour che la vedrà supportare la superstar Harry Styles, quindi il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

Voto finale: 8.

Animal Collective, “Time Skiffs”

time skiffs

Il dodicesimo disco di inediti degli Animal Collective segue il debole “Tangerine Reef” (2018) e l’EP “Bridge To Quiet” del 2020 ed è il primo dai tempi di “Merriweather Post Pavilion” (2009) che è stato composto dal quartetto originale, vale a dire Noah Lennox (Panda Bear), David Portner (Avey Tare), Brian Weitz (Geologist) e Josh Dibb (Deakin). I risultati si vedono: il gruppo pare rigenerato rispetto alle ultime prove, le melodie sono strane ma dolci e tendenti più al pop che allo sperimentalismo, per un risultato finale davvero soddisfacente.

Siamo non lontani dai territori calcati nel periodo più florido degli Animal Collective, quello a cavallo degli anni ’00, contraddistinti da CD immortali come “Feels” (2005), “Strawberry Jam” (2007) e il già citato “Merriweather Post Pavilion”: pop psichedelico, testi impressionisti piuttosto che calati nella realtà, lunghe suite strumentali che esplodono in ritornelli accattivanti… non sarà un ritorno all’imprevedibilità dei loro tempi migliori, ma gli Animal Collective sembrano tornati davvero a buoni livelli.

Il CD si articola in nove canzoni, per una durata complessiva di 47 minuti, alternati tra canzoni più compatte (Dragon Slayer) ed altre che sembrano delle lunghe jam session in studio (Cherokee), con risultati in generale apprezzabili. I migliori pezzi sono Prester John e Strung With Everything, mentre sotto la media Passer-by.

In generale, come già accennato, “Time Skiffs” è il più convincente album degli Animal Collective da tredici anni a questa parte. Che questo lavoro segni un nuovo inizio per la band non è scontato; allo stesso tempo, però, godiamoci questo LP, in tutta la sua (apparente) semplicità.

Voto finale: 7,5.

Spoon, “Lucifer On The Sofa”

lucifer on the sofa

Ne sono successe di cose dall’ultimo album di studio degli Spoon, “Hot Thoughts” del 2017: il gruppo texano ha pubblicato un greatest hits, “Everything Hits At Once: The Best Of Spoon”, nel 2019; il bassista Rob Pope ha lasciato la band ed è stato rimpiazzato da Ben Trokan; ultimo ma non per importanza, una pandemia ha colpito il mondo ed ha anche influenzato il modo di registrare questo “Lucifer On The Sofa”.

Insomma, il CD si presentava come un tagliando sull’efficacia della formula che ha fatto degli Spoon uno dei complessi indie rock più affidabili su piazza: canzoni minimaliste, ritornelli pop ma non troppo, testi tendenti al claustrofobico, durata ragionevole dei lavori. Se “Hot Thoughts” aveva flirtato con elettronica e funk, questo LP invece torna alla radici rock del gruppo, ad esempio a “Transference” (2010).

Aiutati da produttori rinomati come Dave Fridmann (già con loro nei precedenti due CD), Mark Rankin (Adele, Iggy Pop), Justin Raisen (Kim Gordon, Yves Tumor) e addirittura Jack Antonoff (collaboratore delle popstar Lorde e Lana Del Rey tra le altre), gli Spoon hanno prodotto un decimo disco di qualità: compatto, veloce, con highlights notevoli come Wild e The Devil & Mister Jones. Inferiore alla media solamente Feels Alright.

Liricamente, il diavolo evocato nel titolo appare in varie canzoni, come la title track e The Devil & Mister Jones; altrove abbiamo riferimenti all’amore (Satellite) e a Dio (Astral Jacket), ma il tono generale del lavoro, come già accennato, è malinconico e minaccioso, anche se in modo sottile.

In generale, “Lucifer On The Sofa” non raggiunge la creatività mostrata in dischi del passato come “Ga Ga Ga Ga Ga” (2007) e “They Want My Soul” (2014), ma resta un altro capitolo degno di nota in una discografia immacolata.

Voto finale: 7,5.

Cate Le Bon, “Pompeii”

pompeii

Il sesto album della cantautrice gallese raffina il sound già introdotto in “Reward” del 2019, l’album che la fece scoprire a molti. Il mix insolito di pop, psichedelia e soft rock conferma la versatilità di Cate e migliora ad ogni ascolto, pur non brillando per ritmi trascinanti o canzoni da Top 40 di Billboard.

Stabilitasi da qualche anno nel deserto del Mojave, in California, Le Bon ha scritto durante il periodo più duro della pandemia canzoni simili a quelle del suo recente passato, ma “Pompeii” pare un album molto più coeso rispetto a “Reward”: nota di merito alla presenza della Nostra, che àncora tutte le canzoni ed evita derive psichedeliche o troppo barocche. Menzione poi per la copertina, che la ritrae vestita da suora: il ritratto è stato prodotto dall’amico Tim Presley (White Fence), suo compagno nella band DRINKS.

Le canzoni di “Pompeii” procedono lente, meditative: nessuna è trascinante come ci aspetteremmo da un brano pop, tuttavia i nove pezzi che compongono il CD scorrono via serenamente. Vi sono quelli più psichedelici come Running Away e French Boys, così come quelli più accessibili come l’ottima Moderation e Harbour; ma nessuno suona fuori posto. Solo Cry Me Old Trouble e French Boys sono inferiori alla media.

Testualmente, restano impressi alcuni versi declamati da Cate Le Bon nel corso dei 43 minuti di durata del disco: ad esempio, nella title track Pompeii abbiamo “Every fear that I have, I send it to Pompeii”, che suona come un mandare a quel paese le paure che la trattengono. In Harbour, abbiamo una frase tanto potente quanto misteriosa: “What you said was nice… When you said my heart broke a century”. In Moderation, invece, compare la sua indole ribelle: “Moderation: I can’t stand it”.

“Pompeii” è in conclusione un buon LP, che svela dettagli interessanti ad ogni ascolto. Cate Le Bon si conferma cantautrice di qualità nel reame art pop, sulla scorta del successo riscosso l’anno scorso da artisti come The Weather Station e Cassandra Jenkins. La aspettiamo alla prova del prossimo CD, fiduciosi che la qualità sarà ancora una volta apprezzabile.

Voto finale: 7,5.

Saba, “Few Good Things”

Few Good Things

“Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat” cantava Saba in “CARE FOR ME” del 2018, il bellissimo album che precede “Few Good Things” nella discografia del Nostro. Se il tono del precedente lavoro era malinconico, a tratti disperato a causa della tragica sorte del cugino Walter, in “Few Good Things” Saba passa ad un’estetica più accessibile, che a volte tocca la trap (Survivor’s Guilt) e spesso il neo-soul. I risultati sono meno strabilianti, ma il CD non rappresenta una battuta d’arresto: semplicemente, pare un disco di transizione.

“Few Good Things” rispetto a “CARE FOR ME” accoglie un maggior numero di ospiti: tra i più rappresentativi abbiamo G Herbo (in Survivor’s Guilt) e Smino (Still). I brani scorrono bene, non vi sono cambi di ritmo radicali, circostanza che aiuta la coesione complessiva del lavoro. Allo stesso tempo, mancano i versi travolgenti e la potenza di alcune melodie che trovavamo in “CARE FOR ME”. Ad esempio, Stop That è debole. Al contrario, 2012 e la title track, che chiudono brillantemente il CD, sono davvero riuscite.

I migliori versi riguardano la sensazione che Saba prova nel vedersi ricco e nel riflettere sulle sue umili origini, spesso avvertendo un contrasto insanabile e una sorta di senso di colpa. Abbiamo ad esempio: “I still get nostalgic driving past houses my family lost” (Free Samples) e “Need a million after taxes, I might spend the shit on fashion… Sit all day and I play Madden” (One Way Or Every N***a With A Budget). Altrove invece emergono i suoi problemi personali: “I’m dying from asphyxiation from the weight of the world while in the waiting room I’m waiting for the birth of my girl” (Soldier).

In generale, “Few Good Things”, come da titolo, contiene alcune cose davvero buone; tuttavia, la qualità complessiva è inferiore rispetto a “CARE FOR ME”. Troviamo che Saba renda meglio quando può rappare su basi più raccolte rispetto a quelle trap, ma allo stesso tempo la versatilità è una qualità da coltivare. Lo aspettiamo al prossimo CD, probabilmente la prova della verità per il rapper originario di Chicago.

Voto finale: 7.

Alt-J, “The Dream”

the dream

Pubblicato ben cinque anni dopo “Relaxer” (2017), il quarto album dei britannici Alt-J scrive una pagina interlocutoria in una carriera che sta prendendo una china pericolosa. Salutati, ai tempi del magnifico esordio “An Awesome Wave” (2012), come i salvatori del rock inglese, gli Alt-J non sono mai riusciti a replicare quei risultati; “The Dream” è il loro album più lento e meditativo, con solo alcuni momenti davvero buoni.

In realtà le prime due canzoni del lotto sono tra le migliori della produzione recente degli Alt-J: Bane è una tipica “slow burner”, mentre il singolo U&ME è più accattivante e quasi rievoca Breezeblocks. Il resto del CD vaga tra pezzi lenti, a volte troppo (Get Better), e altri invece più vivi ma non sempre centrati (Hard Drive Gold). Alla fine, restano solo un pugno di brani davvero riusciti: oltre a Bane e U&ME, abbiamo anche The Actor. Non male anche le due canzoni col titolo “americano”, Chicago e Philadelphia.

Liricamente, va detto, il lavoro ha spesso il merito di trattare temi delicati in modo molto aperto ed evocativo: “I still pretend you’re only out of sight in another room, smiling at your phone” canta sconsolato Joe Newman in Get Better parlando di una persona cara da poco scomparsa. Altrove il tono è più scherzoso: Bane è un’ode alla Coca Cola, mentre Hard Drive Gold tratta il tema delle criptovalute e i relativi rischi.

In generale, tuttavia, “The Dream” non suona propriamente come il sogno evocato dal titolo: piuttosto, come una lunga playlist di pezzi propedeutici al sonno. Di per sé, non è necessariamente un problema, però la qualità di alcune melodie è discutibile e abbassa la media. Peccato, perché da tre ragazzi che all’esordio hanno vinto il Mercury Prize ci aspettiamo sempre grandi cose. Sarà per la prossima, speriamo.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

I 50 migliori album del 2019 (25-1)

Nella prima parte della lista dei 50 migliori dischi dell’anno di A-Rock abbiamo visto molti artisti di rilievo, da Taylor Swift a Bruce Springsteen passando per Thom Yorke ed Earl Sweatshirt. Chi avrà vinto la palma di album dell’anno? Lo scoprirete alla fine dell’articolo. Buona lettura!

25) Angel Olsen, “All Mirrors”

(POP)

Il nuovo album della cantautrice americana Angel Olsen la trova impegnata in una radicale giravolta artistica, ma questa non è certo una novità per lei: se le origini della sua estetica vanno cercate nel folk rock, già in “Bury Your Fire For No Witness” (2014) la svolta verso l’indie rock era stata netta. Il suo più bel lavoro, “My Woman” (2016), conteneva invece elementi prog e synth pop mai fuori luogo.

“All Mirrors” è un pregevole CD art pop: seguendo il percorso tracciato da Kate Bush e ispirandosi probabilmente anche ad artiste contemporanee come Florence + The Machine e Julia Holter, la Nostra ha portato il suo sperimentalismo verso territori orchestrali, a volte davvero incontenibili, come nella sontuosa Lark. Del resto, anche il singolo All Mirrors aveva anticipato questa svolta, ma essere stata in grado di non cadere nel cliché del pop orchestrale più trito e ritrito, evitando di compiacersi troppo, è un merito non banale.

Il lavoro è ottimo non solo per la continua ricerca da parte di Angel, ma anche per la concisione: “All Mirrors” infatti consta di 11 pezzi per 48 minuti complessivi, creando un insieme coeso e ben strutturato, in cui è un piacere affondare. I pezzi migliori sono l’iniziale Lark e la più semplice Spring, mentre sotto la media (altissima) del CD abbiamo Impasse e la pur intrigante Endgame.

In conclusione, il 2019 resterà significativo per il mondo pop più sofisticato: nello stesso anno sono usciti lavori magnifici da parte di Weyes Blood, Lana Del Rey e Angel Olsen. Tre artiste ambiziose, che sono al culmine delle proprie qualità, in continua tensione verso il perfetto disco pop del XXI secolo. Chissà che una di loro non ci arrivi, prima o poi… Di certo Angel Olsen dimostra una caratura come cantautrice che la eleva al di sopra di quasi tutte le sue coetanee.

24) MIKE, “Tears Of Joy”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di MIKE era decisamente atteso: dopo lo spazio datogli l’anno scorso dal suo mentore Earl Sweatshirt nel suo magnifico disco “Some Rap Songs”, c’era curiosità e sia critica che pubblico si chiedevano se la direzione di Bonema avrebbe incrociato il rap astratto e sperimentale di Earl.

Ebbene, la risposta è un sonoro sì. “tears of joy” risente decisamente della lezione del maestro, con canzoni brevi, spesso brevissime (molte sotto i 2 minuti) ma messaggi presentati con chiarezza, a volte anche crudezza. La voce molto profonda di MIKE aggiunge ulteriore pepe ad una ricetta non facile da digerire ma non per questo scadente.

Il CD è dedicato alla madre di Michael, morta recentemente; il dolore del giovane rapper è palpabile, soprattutto in versi come “Sittin’ with my head in my hands, hold it in” (nell’iniziale Scarred Lungs, Vol. 1 & 2) e “Shit scary, but I stay spinnin’, lookin’ through obituaries with your name in it” in WholeWide World. Anche il mood generale del lavoro ne viene influenzato: le basi sono spesso oscure e non lasciano molto spazio a ritornelli o momenti mainstream.

Dicevamo che il lavoro è in parte ispirato da Earl Sweatshirt: in effetti “tears of joy” riporta alla memoria le canzoni a metà fra hip hop e jazz tipiche di Earl, ma non bisogna pensare che il CD sia una copia spiccicata di “Some Rap Songs”. Intanto è il doppio sia per numero di canzoni che per durata; inoltre manca forse il focus estremo che ha fatto di Sweatshirt un peso massimo nel panorama odierno, ma MIKE è ancora molto giovane e avrà modo di affinare questi aspetti.

I brani migliori sono la commovente Stargazer Pt. 3 e le brevi ma intense Goin’ Truuu e Planet, mentre convincono meno #Memories e Fool In Me. In generale, la struttura molto frammentaria dell’album può essere per alcuni eccessiva, ma in realtà sembra riflettere il grande dramma che ha colpito l’artista statunitense.

“tears of joy” è quindi un buonissimo lavoro e un ottimo punto di entrata nella discografia di Michael Jordan Bonema, che (va ricordato) registra pezzi dal 2015 e nel 2018 ha prodotto la bellezza di 4 raccolte di inediti fra mixtape ed EP. Insomma, il ragazzo è prolifico ma ha già ben chiara la direzione da intraprendere per raggiungere i grandi maestri del genere.

23) These New Puritans, “Inside The Rose”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il nuovo album dei These New Puritans arriva addirittura a sei anni dal delicato “Field Of Reeds”, in cui il complesso inglese aveva aperto decisamente a elementi di musica neo-classica, reinventandosi rispetto all’estetica post-punk con inserti elettronici dei precedenti CD. “Inside The Rose” è un’efficace sintesi di tutto questo e, proprio per questo, la prima volta in cui i TNP sembrano vogliosi di riassumere piuttosto che sperimentare ulteriormente.

Ciò non va però a discapito della qualità delle 9 canzoni che compongono il CD: ognuna ha la sua fisionomia specifica, chi più rock (Anti-Gravity) chi inclassificabile (Infinity Vibraphones e la title track). Altrove riappaiono quelle caratteristiche classicheggianti che avevano reso “Field Of Reeds” così strano, per esempio in Where The Trees Are On Fire.

I testi sono come sempre vaghi, ma stavolta compaiono domande esistenziali del tipo “Isn’t life a funny thing? All these words and they say nothing” (in Beyond Black Suns). Ma del resto non si ascolta un lavoro dei These New Puritans per le liriche: gli inglesi ci hanno abituato a comunicare maggiormente attraverso i paesaggi sonori piuttosto che mediante parole.

I pezzi migliori sono l’apertura sontuosa di Infinity Vibraphones e la marciante Beyond Black Suns, che potrebbe essere benissimo un brano dei Massive Attack. Troppo breve invece Lost Angel per essere apprezzabile. Come sempre con un LP dei TNP, “Inside The Rose” non è un ascolto facile, ma la pazienza verrà premiata grazie a canzoni mai scontate e paesaggi sonori davvero evocativi.

In conclusione, ancora una volta i These New Puritans hanno stupito fans e addetti ai lavori: dopo sei anni di assenza e una formazione ridotta all’osso (i membri ufficiali ora sono solamente i gemelli Barnett), “Inside The Rose” suona come nulla nella passata discografia del complesso britannico. E, malgrado tutto questo, i risultati sono ancora una volta strabilianti.

22) Weyes Blood, “Titanic Rising”

(POP)

Natalie Mering, meglio conosciuta come Weyes Blood, con il suo quarto CD ha raggiunto probabilmente il picco delle proprie capacità. Accanto al folk anni ’60 delle origini, la Mering in “Titanic Rising” ha dato spazio ad arrangiamenti decisamente più barocchi, aiutata anche da un produttore d’eccezione come Jonathan Rado dei Foxygen.

Fin dalla prima canzone capiamo che qualcosa è cambiato nel progetto Weyes Blood: A Lot’s Gonna Change è una canzone molto ricercata, quasi barocca, che si rifà alla grande Joni Mitchell ma anche a Father John Misty. La canzone è anche un ovvio highlight in un disco che per la verità conta molte belle melodie: ottima anche la seguente Andromeda ad esempio, così come Wild Time. Movies inizia come Bliss dei Muse ma poi evolve in un brano pop grandioso per arrangiamenti. I due brevi intermezzi Titanic Rising e Nearer To Thee servono più che altro a rendere coerente il disco e dargli una convincente narrativa interna: Nearer To Thee infatti chiude “Titanic Rising” e riprende le atmosfere di A Lot’s Gonna Change. Il titolo allude alla canzone che l’orchestra del Titanic stava cantando durante il naufragio… tutto ciò a testimoniare la complessità del lavoro della Mering.

Liricamente il CD affronta molti temi tipici del mondo pop-rock, dall’amore (“I need a love every day” canta Natalie in Everyday) al dolore (“No one’s ever gonna give you a trophy for all the pain and things you’ve been through. No one knows but you” si sente in Mirror Forever) ai problemi più interiori dell’animo umano, tanto che in A Lot’s Gonna Change Weyes Blood canta “Everyone’s broken now… and no one knows just how”.

In conclusione, il progetto della cantante statunitense, come già accennato, sembra aver trovato il suo sbocco definitivo; il folk accattivante ma semplice delle origini è stato accantonato, o meglio affiancato da strumentazioni decisamente più elaborate e liriche non banali. Il futuro è tutto da scrivere per Natalie Mering e sembra promettere molto bene. Lei e Julia Holter sono definitivamente le figure più innovative dell’art pop mondiale.

21) Flume, “Hi This Is Flume”

(ELETTRONICA)

Il primo mixtape ad opera del celebre produttore australiano Harley Streten, in arte Flume, segue i due album che lo hanno reso una star dell’EDM, “Flume” del 2012 e “Skin” (2016). Adesso che tutti lo conoscono per il suo lato più commerciale, Flume si è lasciato andare alla sperimentazione e ”Hi This Is Flume”, pur essendo a tratti confuso, è un’aggiunta importante alla sua discografia.

Il mixtape, come sappiamo, è maggiormente utilizzato nel mondo hip hop. Nell’elettronica di solito si privilegiano gli album veri e propri, spesso con un disegno dietro, si vedano i recenti lavori di Jon Hopkins e Daft Punk. Streten con “Hi This Is Flume” invece collabora con artisti emergenti ma già conosciuti del mondo sperimentale e rap, creando canzoni spesso davvero notevoli, anche se come già accennato a volte i risultati possono risultare disorientanti.

Due sono gli immediati highlights, entrambi canzoni con collaboratori: se High Beams beneficia della presenza di HWLS ma soprattutto di Slowthai, il vero capolavoro del CD è How To Build A Relationship, in cui l’elettronica sbilenca di Flume si mischia perfettamente con il rap deciso di JPEGMAFIA. Non male anche Daze, che ricorda Aphex Twin. Al contrario, il remix di Is It Cold In The Water? di (e con) SOPHIE è piuttosto fuori fuoco e ripetitivo, mentre Amber è troppo schizofrenica.

Liricamente, pur essendo un album di musica prevalentemente elettronica, Streten regala alcune perle: la title track è un ironico invito ad ascoltare il CD sui servizi di streaming, con tanto di guida che recita “Tap the artwork to listen and save to your own music collection”. Invece in How To Build A Relationship JPEGMAFIA costruisce una relazione con questa base di partenza: “Fuck are you talkin’ ‘bout?… I caught him at the coffee house and made him walk it out” per poi affermare perentorio: “Don’t call me unless I gave you my number”.

Insomma, una cavalcata non facile, questo “Hi This Is Flume”. Allo stesso tempo, tuttavia, va elogiato lo spirito innovativo di Flume, capace di sovvertire le aspettative su di lui con un mixtape vario ma allo stesso tempo coeso, capace di regalare aria fresca ad un movimento, quello dell’elettronica più glitch e wonky, un po’ in crisi ultimamente.

20) Floating Points, “Crush”

(ELETTRONICA)

Il nuovo lavoro di Sam Shepherd, in arte Floating Points, riparte esattamente dove avevamo lasciato l’artista inglese quattro anni fa con “Elaenia”: elettronica calda, elegante, solo a tratti pronta per la pista da ballo, sulla falsariga di capisaldi come Aphex Twin e Caribou.

In realtà Shepherd non è artista che riposa sugli allori: gli ultimi anni lo hanno visto produrre mix intrisi di jazz e rock (“Late Night Tales” quest’anno), colonne sonore (“Reflections – Mojave Desert” del 2017) ed EP di varia lunghezza (su tutti “Kuiper” del 2016). Insomma, un’iperattività non scontata; i risultati peraltro sono sempre stati molto interessanti, facendo di Floating Points un nome importante nel panorama della musica elettronica, tanto da permettergli di essere scelto come spalla nel tour degli xx del 2017.

“Crush” si apre con l’interlocutoria Falaise: un insieme di sintetizzatori e percussioni à la Skee Mask che non si adatta completamente all’estetica di Floating Points. Molto meglio i due brani seguenti, la danzereccia Last Bloom e la raccolta Anasickmodular. Intrigante la struttura di “Crush”: il CD infatti consta di 12 brani per 44 minuti, con una chiusura divisa in due parti (Apoptose) e due brevi intervalli posti al centro del disco, Requiem For CS70 And Strings e Karakul, che dividono quasi il lavoro in due metà speculari.

I brani migliori sono la già citata Anasickmodular e LesAlpx, che si avventura in territori techno; buonissima anche Bias. Invece, inferiore alla media Falaise. Il CD non crea grandi cambiamenti nello scenario della musica elettronica mondiale, ma conferma Sam Shepherd come un nome da tenere d’occhio, pronto a sbocciare definitivamente.

19) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands”

(FOLK – ROCK)

Il 2019 è stato un anno da incorniciare per i Big Thief. Capitanati dalla talentuosa Adrianne Lenker, gli statunitensi hanno prodotto due pregevoli album: “U.F.O.F.”, in cui troviamo una virata verso il folk, probabilmente aiutata anche dall’album solista pubblicato dalla Lenker lo scorso anno; e “Two Hands”, dalle venature decisamente più rock.

Complimenti vanno poi alla base ritmica della band: le chitarre gentili di Adrianne Lenker e Buck Meek sono ipnotiche, buono poi il contributo di basso (emblematica From) e batteria (efficacissima in Contact). In generale “U.F.O.F.” ritorna, soprattutto liricamente, su quei terreni che hanno reso i Big Thief dei moderni beniamini dei fan dell’indie: riferimenti alla solitudine, alla capacità di relazionarsi solamente con dei corpi estranei (il titolo del CD sta infatti per UFO Friend) ma anche paesaggi naturali e animali, fantastici o meno.

Musicalmente, nei suoi momenti migliori il disco è uno dei migliori album folk degli ultimi anni: specialmente in Contact (con potente coda rock) e Cattails i risultati sono eccellenti. A peccare sono i momenti più lenti, a volte troppo prevedibili: ne sono esempi Betsy e Magic Dealer, non perfetti. Molto interessante l’esperimento di Jenni, una sorta di shoegaze lento, che ricorda i Low.

Il secondo album è un ritorno al rock. Se il precedente “U.F.O.F.” era un CD prettamente folk, “Two Hands”, registrato dal vivo, torna alle sonorità di “Capacity” (2017). L’inizio del lavoro è eccellente: le sognanti Rock And Sing e Forgotten Eyes sono ottimi pezzi indie rock, che riportano alla mente il folk-rock di Neil Young, con la bellissima voce della Lenker a creare un’atmosfera sospesa fra meraviglia e inquietudine, dati i testi mai facili, che parlano di sofferenza e passione senza vergogna.

L’unico pezzo più debole è proprio la title track, mentre la lunga Not è il brano più ambizioso in un lavoro davvero pregevole. Molto interessante la struttura del CD: i primi e gli ultimi pezzi nella scaletta sono i più quieti, mentre l’accoppiata NotShoulders, piazzata a metà, è la sferzata più rockettara.

I Big Thief non stanno reinventando l’immaginario indie rock, come alcuni critici molto entusiasti si sono spinti a proclamare; certamente però l’abilità vocale e alla chitarra di Adrianne Lenker li distinguono chiaramente dai loro contemporanei. Non una cosa da poco, in un panorama musicale sempre più stereotipato: il caso Big Thief è la piena dimostrazione che il duro lavoro paga. Chapeau.

18) Coldplay, “Everyday Life”

(POP – ROCK)

L’ottavo disco dei Coldplay, la celeberrima band inglese capitanata da Chris Martin, è un deciso ritorno alle sonorità del decennio ’00 del XXI secolo, come da molti anticipato? Sì, senza dubbio. Certo, il sound più pop e caleidoscopico degli anni recenti non viene abbandonato, ma per esempio gli eccessi di “A Head Full Of Dreams” (2015) sono accantonati per fare spazio a ritmi più rock e atmosfere più calde, a volte addirittura orchestrali (si senta Sunrise).

Il doppio album si apre con la metà dedicata all’alba, intitolata appunto “Sunrise”. Che “Everyday Life” sia un ritorno ai tempi creativamente gloriosi di “A Rush Of Blood To The Head” (2002), con un po’ di “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), è chiarissimo da Church e Trouble In Town: due brani eleganti, semplici ma che crescono ascolto dopo ascolto.

I singoli parevano aver fatto intravedere addirittura il lato sperimentale dei Coldplay: Arabesque ad esempio contiene una parte di sassofono decisamente rilevante, fatto insolito per Martin e soci. Invece Orphans, uno degli highlights immediati del CD, è un pezzo gioioso, che riporta alla memoria Viva La Vida. Il lato più ambizioso del complesso si vede anche in BrokEn, che pare un pezzo di Chance The Rapper col suo incedere gospel e i temi sacri affrontati.

La seconda metà, “Sunset”, potrebbe parere più raccolta come sonorità, data la presenza di pezzi come Cry Cry Cry e Old Friends, ma è anche vero che contiene la hit Orphans e la quasi country Guns, che sembra di ispirazione Johnny Cash e di resa Rolling Stones. Molto interessante poi Champion Of The World, che pare presa da “X & Y” (2005).

Affrontiamo infine l’aspetto lirico: il CD è rilevante anche perché i Coldplay, seppure sempre in maniera discreta, affrontano temi molto importanti, dal controllo delle armi (Guns) ai problemi legati alla brutalità della polizia e al razzismo (Trouble In Town). Insomma, Chris Martin e soci sono ormai persone mature, capaci di affrontare temi non solo legati all’amore, come molte volte sono stati accusati di fare in passato.

In generale, “Everyday Life” è un LP davvero riuscito, con alcuni dei pezzi migliori mai scritti dai Coldplay (ad esempio Orphans) e una voglia di sperimentare, ma con raziocinio, che pareva persa da parte del gruppo britannico, tra sbornie dance (Something Just Like This) e intrallazzi con le stelle dell’R&B (Hymn For The Weekend). È senza dubbio il miglior disco dei Coldplay dal 2008 a questa parte, non una cosa da poco per quattro ragazzi che suonano insieme da 23 anni (!).

17) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar”

(ROCK)

L’ultimo album del prolifico cantautore americano, “House Of Sugar”, è il suo CD più completo. Dopo il cambio di nome da Alex G a (Sandy) Alex G, al fine di evitare scambi di persona con uno youtuber suo omonimo, il talentuoso Alex Giannascoli ha ampliato costantemente la propria palette sonora, aggiungendo elementi psichedelici e addirittura country prima ridotti all’osso nei vari dischi lo-fi da lui prodotti in passato.

“House Of Sugar” è un titolo particolare, che richiama le fiabe di Andersen, in particolare “Hansel e Gretel”; non è quindi un caso che una delle migliori canzoni della tracklist si intitoli proprio Gretel. Altrove troviamo invece riferimenti testuali a fatti di vita vera o, almeno, verosimile: in Hope Alex rimpiange un coetaneo morto, “He was a good friend of mine, he died. Why write about it now? Gotta honor him somehow”, si domanda e si risponde. Dopo però la scena diventa improvvisamente piena di vita, “In the house they were calling out his name all night, taking turns on the bed, throwing bottles from the windows of the home on Hope Street”. Non sappiamo se veramente il nome della via fosse Hope Street, ma il riferimento non pare casuale.

Accanto a questi franchi racconti di episodi della propria vita, però, Giannascoli affianca un sound interessante quanto misterioso: all’indie rock si sommano forti influenze degli Animal Collective, specialmente negli inserti più misteriosi, come Taking e Sugar. (Sandy) Alex G finisce quindi per suonare strano ma allo stesso tempo accessibile: brani come Gretel, la tenera Southern Sky e In My Arms non possono lasciare indifferenti. La doppietta CowCrime rimanda ai migliori Real Estate.

In conclusione, “House Of Sugar” è, come da titolo, un lavoro fondamentalmente dolce, ma infarcito degli elementi particolari e stranianti tipici di Alex Giannascoli. Dopo 8 CD fra Bandcamp, autoprodotti e ora la Domino, con in mezzo svariati EP, il giovane cantautore statunitense pare aver trovato la definitiva maturità. “House Of Sugar” è il suo album più completo e affascinante, un “must-listen” per gli amanti dell’indie rock più eccentrico.

16) Slowthai, “Nothing Great About Britain”

(HIP HOP)

Il giovane esponente del grime, la corrente del rap più dura dell’hip hop britannico, con il suo album d’esordio “Nothing Great About Britain” si conferma una voce emergente del panorama musicale e un abile interprete dei drammatici problemi che pervadono la società britannica.

Già il titolo del CD anticipa i temi portanti del lavori: Slowthai denuncia l’uso della Brexit come arma di distrazione di massa, usata dai politici per coprire i problemi inglesi di inuguaglianza e responsabilità nell’incombente cambiamento climatico. In questa verve polemica nessuno viene risparmiato: i politici ovviamente sono i principali protagonisti, ma anche la Regina Elisabetta ci va di mezzo (nella title track Slowthai la chiama “fighetta” e afferma che avrà rispetto di lei solo quando la Regina rispetterà lui e i più poveri).

In altre parti i testi sono invece più rivolti a sé stesso: la personale Northampton’s Child narra le sue disavventure familiari: la morte del fratello per distrofia muscolare, poi il patrigno, prima minacciato (“You’re lucky I’m not as big as you. I would punch you till my hands turn blue”) poi, una volta che Slowthai e la madre vengono cacciati di casa, ignorato per lasciare spazio finalmente a una famiglia povera ma serena (“Now we’re living at Tasha’s. Funny how good vibes turned that room to a palace”).

Musicalmente, possiamo dichiarare serenamente che, assieme a Stormzy, Slowthai è la promessa più brillante del grime: come già ribadito, i testi sono duri ma efficaci, ma anche le basi non lasciano mai indifferenti gli ascoltatori. La trascinante Doorman è quasi punk, Gorgeous invece si rifà al soul; altrove troviamo basi che invece guardano con interesse alla trap, come in Grow Up. Insomma, una varietà stilistica notevole, che si abbina perfettamente alla personalità incendiaria di Slowthai, che anche dal vivo è davvero trascinante.

In conclusione, “Nothing Great About Britain” è un affresco tremendo ma veritiero della condizione attuale della società britannica: lotte di classe, crisi politica e guerra tra poveri sono temi a cui ora non pensiamo guardando al Regno Unito, ma Slowthai (e prima di lui atti punk come Shame e IDLES) ci presentano il tutto senza sconti.

15) Bill Callahan, “Shepherd In A Sheepskin Vest”

(ROCK)

Il nuovo CD a firma Bill Callahan, il quinto di una carriera di tutto rispetto (senza contare quelli a firma Smog), è il suo lavoro più aperto come sonorità e quello che, a livello testuale, contiene riferimenti alla vita privata di Bill che erano assenti in passato.

“Shepherd In A Sheepskin Vest” arriva dopo ben sei anni da “Dream River”: un’assenza davvero di lungo termine, dovuta in gran parte ai radicali cambiamenti avvenuti nella vita personale del cantautore americano. Nel 2014 si è sposato con Hanly Banks, mentre nel 2015 ha avuto un bambino da quest’ultima: insomma, un cambio di prospettiva estremo per un uomo abituato a scrutare con acutezza e profondità i tanti perché della vita, facendo la figura dell’eterno insoddisfatto.

Non è un caso che il disco appena pubblicato sia il più luminoso della sua ormai trentennale carriera: Bob Dylan si mescola a Leonard Cohen, potremmo dire, rendendo “Shepherd In A Sheepskin Vest” un CD lungo (20 brani per 63 minuti) ma facilmente digeribile e mai monotono. Ne sono esempi pezzi squisiti come 747 o Black Dog On The Beach. Tuttavia, anche la parte finale del CD, quella più oscura come liriche, contiene canzoni brillanti rispetto al “solito” Bill Callahan, ne sia esempio Call Me Anything.

Come sempre, tuttavia, a risaltare è specialmente la sua voce: un vero e proprio altro strumento, con un tono baritonale à la Leonard Cohen o Johnny Cash che la rende perfetta per questo tipo di narrazioni. Le storie di Callahan erano sempre state pervase, come già accennato, da domande esistenziali sul senso della vita; ora invece, malgrado restino presenti analisi di questo tipo (cosa scontata in un LP così articolato), i testi sono decisamente più leggeri. Ad esempio, in What Comes After Certainty parla dell’amore vero e assoluto verso la moglie, tanto che si chiede: “True love is not magic, it is certainty… And what comes after certainty?” Più avanti i testi sono ancora più esplicitamente sereni: “I never thought I’d make it this far: little old house, recent-model car… And I’ve got the woman of my dreams”. In Young Icarus ritornano le elucubrazioni tipiche di Callahan: “Well, the past has always lied to me, the past has never given me anything but the blues”. C’è anche tempo per un riferimento al sesso durante il “periodo” delle donne, nell’ironica Confederate Jasmine.

In conclusione, “Shepherd In A Sheepskin Vest” è un punto altissimo nella discografia di Bill Callahan: il cantautore americano pare aver trovato la serenità da lui tanto agognata in passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il disco scorre benissimo e nulla è superfluo. Complimenti, Bill, e buona vita.

14) Vampire Weekend, “Father Of The Bride”

(ROCK – POP)

Sei anni e mille disavventure dopo, i Vampire Weekend sono tornati. Il gruppo indie più venerato della decade, con “Father Of The Bride”, si è aperto a numerose influenze che parevano lontane dal loro sound e a numerosi ospiti, così da creare un CD confusionario ma allo stesso tempo vario e poliedrico, che ribadisce una volta in più che il talento di questi ragazzi è davvero esplosivo.

Nel corso degli ultimi sei anni, Ezra Koenig, vocalist e principale scrittore dei testi delle canzoni della band, si è spostato a Los Angeles dalla nativa New York, ha prodotto una serie TV di discreto successo (Neo Yokio), lavorato a degli show radiofonici e avuto un figlio. Il polistrumentista Rostam Batmanglij, che ha lasciato il gruppo nel 2016, ha collaborato nel frattempo con artisti chiave del panorama musicale (Beyoncé, Charli XCX) e ha pubblicato un album solista, “Half Light”, nel 2017. Anche il bassista Chris Baio ha fatto uscire nel 2017 un suo album, “Man Of The World”. Per finire, il batterista Chris Tomson ha generato il primo album dei suoi Dams Of The West, “Youngish American”, nello stesso anno. Tutto congiurava a far sì che i Vampire Weekend si disfacessero, spinti dai desideri di autonomia dei suoi membri. Ciò, per fortuna, non è accaduto, ma molte cose sono mutate.

Già dalla prima canzone, Hold You Now, capiamo che sono lontanissimi i tempi del pop sintetico di “Contra” (2010) ma anche dell’omonimo esordio “Vampire Weekend” (2008): i ritmi sono tinti di country, Danielle Haim delle HAIM duetta abilmente con Ezra Koenig e la canzone si interrompe bruscamente, quasi fosse una demo. Ecco un altro tratto innovativo dell’estetica dei VW: se prima i loro lavori di studio erano davvero perfetti sia come produzione che come durata, mai oltre i 42 minuti e le 12 canzoni, “Father Of The Bride” è lungo ben 18 canzoni per 58 minuti! Inoltre, numerosi sono i brevi intermezzi da un minuto o poco più, da Big Blue a 2021, prima assenti.

Tutti gli amanti dell’indie non possono tuttavia fare a meno di comparare il nuovo lavoro con “Modern Vampires Of The City” (2013), che aveva definitivamente consegnato i Vampire Weekend all’Olimpo del rock del nuovo millennio con canzoni calde, testi complessi e impegnati e un’unione di intenti totale fra i due leader del gruppo, Ezra Koenig e Rostam Batmanglij. Beh, possiamo dire che la dipartita di Rostam, giustificata col suo desiderio di concentrarsi sui suoi progetti solisti, è avvertita ma non traumatica: certo, la chitarra è più presente che in passato, l’elettronica di fondo presente specialmente in “Modern Vampires Of The City” e “Contra” è scomparsa e i VW hanno aperto a influenze country e R&B, ma complessivamente “Father Of The Bride” è un buon LP.

A parte l’evitabile Rich Man, infatti, la lunghezza del CD non è un peso, anzi permette al complesso statunitense di affrontare disparati generi, come già accennato, ma anche di valorizzare i numerosi ospiti; da Danielle Haim a David Longstreth (Dirty Projectors), passando per Steve Lacy (The Internet) e il redivivo Batmanglij, tutti danno una mano ai Vampire Weekend per fare di “Father Of The Bride” un altro intrigante capitolo della loro produzione.

I migliori pezzi sono la trascinante Harmony Hall e la beatlesiana This Life, che fanno pensare quasi che il disco sia un omaggio alla creatività senza freni del “White Album” della band inglese più famosa della storia della musica. Buone anche Unbearably White e la frenetica Sunflower. Come dicevamo, non riuscita invece Rich Man, anche My Mistake non convince appieno. La palma di canzone più eccentrica va a Simpathy, una sorta di flamenco jazzato con batteria di Chris Tomson in fortissima evidenza, che quasi riporta alla memoria i migliori Gipsy King.

Liricamente, il CD si conferma più leggero di alcuni precedenti lavori del gruppo: ad esempio sono assenti i riferimenti all’Olocausto e all’inesorabile passare del tempo che caratterizzavano “Modern Vampires Of The City”, così come i rimandi alla rivoluzione del Nicaragua di “Contra”. Adesso, oltre al ritmo e al tono delle canzoni, Koenig ha rilassato anche i testi: si notano riferimenti all’estate (Sunflower, Married In A Gold Rush), all’origine dei membri della band (Unbearably White), all’amore (We Belong Together). Quest’ultimo tema è probabilmente stato incentivato dalla nascita del primo figlio di Koenig, avvenuta lo scorso anno.

In conclusione, “Father Of The Bride” marca la rinascita dei Vampire Weekend. È bello come “Modern Vampires Of The City”? No. Allo stesso tempo, nondimeno, Ezra Koenig e compagni hanno dimostrato che non sempre i cambiamenti, anche radicali, portano al fallimento. Anzi, è proprio da momenti come questi che a volte si ricavano le energie e la spinta per aprirsi a nuovi mondi e collaborare con gli altri.

13) Aldous Harding, “Designer”

(FOLK)

Il terzo album della talentuosa compositrice neozelandese (sì, il nome trae in inganno) è il suo lavoro più compiuto. Accanto al folk classico delle origini, ora la Harding ha inserito anche sassofoni e alcune tastiere di sottofondo, tanto da creare un CD coeso eppure mai prevedibile o peggio monotono.

Fin dall’apertura, la graziosa Fixture Picture, notiamo sia i tratti ormai caratteristici di Aldous sia le novità: i ritmi, specialmente delle percussioni, sono più sostenuti che in passato, ma allo stesso tempo le liriche continuano ad essere per lo più inintelligibili. Qui ad esempio si dice “In the corner in blue is my name”, quasi parlassimo di un quadro. Altrove, è vero, compaiono temi più compiuti: il più rilevante è la paura di assumersi responsabilità, sia verso un partner che un figlio, un timore che in effetti prende molti giovani. In The Barrel si dice “When you have a child, so begins the braiding and in that braid you stay.” In Damn riappare il tema, quando la Harding si sente delle catene attorno al corpo che le impediscono di spiccare il volo.

Musicalmente, il mondo indie femminile continua a rivoluzionare il rock. Accanto alla già citata Fixture Picture abbiamo altre ottime tracce come The Barrel e Designer; le uniche eccezioni sono Treasure e Damn, ma restano comunque buone e inserite perfettamente nel contesto di “Designer”.

In conclusione, questo terzo LP a firma Aldous Harding ne conferma il talento e la volontà di espandere il proprio sound di riferimento, rifiutando una comfort zone che per altri sarebbe stato un rifugio benvenuto.

12) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il nuovo doppio album di Nick Cave, come sempre assieme ai fidati Bad Seeds, chiude la trilogia idealmente iniziata con “Push The Sky Away” (2013). Gli ultimi anni non sono stati facili per la band australiana: nel 2015 il figlio di Nick, Arthur, è tragicamente morto a causa di una caduta da una scogliera, mentre l’anno scorso il pianista della band Conway Savage è deceduto a causa di un tumore.

Insomma, gli antecedenti di “Ghosteen” facevano pensare ad un lavoro ancora più tragico e disperato del precedente “Skeleton Tree” (2016), che già era carico di significato essendo stato composto appena dopo la morte di Arthur. Nick Cave sceglie di procedere nelle sonorità quasi ambient dei due CD precedenti, convogliando però anche messaggi positivi, di accettazione della morte e di ricerca di una vita dopo la tragedia, quasi un contraltare ideale al pessimismo devastante di “Skeleton Tree”.

Il grande cantautore ha descritto il primo disco come “i figli”, mentre i tre lunghi brani che creano la suite conclusiva (e l’intero secondo capitolo) sono “i padri”. Come non riconoscere un rimando alla tragica situazione di Nick Cave? Del resto, i testi contengono riferimenti numerosi alla vicenda e in generale alla storia recente della band: in Hollywood, che chiude il secondo CD, si narra la fiaba indiana di Kisa, una donna a cui muore il figlio e che cerca in ogni modo di riportarlo in vita, sia affidandosi alla religione buddhista che alle credenze popolari. Alla fine del brano arriva l’ammissione più candida: “It’s a long way to go to find peace of mind”.

Altrove però, dicevamo, Nick e soci trovano conforto nella vicinanza degli altri: in Waiting For You lui e la moglie analizzano le differenti prospettive di far fronte alla morte di una persona cara, con il cantautore che dichiara “I just want to stay in the business of making you happy”. Una dichiarazione d’amore fortissima e delicata. Infine, in altre parti del monumentale doppio album (11 pezzi per 73 minuti), troviamo riflessioni sul potere dell’arte (Spinning Song) e come sognare un mondo diverso da quello che abbiamo ereditato non sia una debolezza (Bright Horses).

In conclusione, non è facile entrare nel discorso di Nick Cave & The Bad Seeds, specialmente se si è neofiti del gruppo, uno dei più importanti degli ultimi decenni in campo rock. Giunto al 40° (!!) anno di una carriera trionfale, Nick Cave è ancora un uomo tormentato, ma per motivi diametralmente diversi rispetto alla gioventù. Il fatto che sappia scrivere testimonianze così personali e toccanti, mantenendo un’integrità artistica totale, è segno che siamo di fronte ad un vero genio della musica. “Ghosteen” non sarà il suo miglior CD, ma si aggiunge ad un’eredità già colossale non peggiorandola. Non un risultato di poco conto.

11) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!”

(R&B – SOUL)

Il secondo album della talentuosa Jamila Woods è un trionfo per gli amanti di R&B e soul. Facendo riferimento ai maestri del passato e ripercorrendo le vite di grandi artisti di colore de passato e del presente, la Woods ha composto uno dei migliori album di black music dell’anno.

Il disco è perfetto per sequenziamento e lunghezza, contando 13 canzoni per 49 minuti di durata, con nessun brano fuori posto. In questo la giovane americana è migliorata rispetto all’esordio “HEAVN” (2016), mostrando maturità e consapevolezza di sé. Il CD tuttavia non è solamente un ottimo estratto di influenze legate alla musica nera: con titoli di per sé evocativi come MILES e BASQUIAT, l’intento di Jamila è evidente: rievocare le figure storiche del passato che hanno reso i neri degni di attenzione non solo socialmente ma anche artisticamente, gli eroi che hanno aperto la strada agli artisti di colore di oggi.

I risultati, sia liricamente che come composizioni e arrangiamenti, sono sfarzosi ma mai sovraccarichi o fini a sé stessi: pezzi come GIOVANNI e BETTY sono grandiosi, ma nessuno come già accennato è superfluo.

In conclusione, Jamila Woods si conferma un’artista dal potenziale immenso, forse ancora non completamente sfruttato. “LEGACY! LEGACY!” è un trionfo, un LP da assaporare e che rivela sempre nuovi dettagli seducenti. In poche parole, anche questo album farà parte della legacy degli artisti di colore del futuro.

10) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana”

(HIP HOP)

Una delle collaborazioni più anticipate nel mondo rap, “Bandana” trova sia il rapper Freddie Gibbs che il produttore Madlib al meglio. Il CD è un’ottima fusione di hip hop, jazz e inserti di funk, che lo rendono imprescindibile per gli amanti della black music.

“Piñata” (2014), la precedente creazione del duo, era stata una rivelazione: i beat sempre nostalgici e sbilenchi di Madlib si sarebbero adattati al gangsta rap di Gibbs? Beh, la risposta era stata un fortissimo sì. “Bandana” da questo punto di vista non innova particolarmente lo stile dei due, pare piuttosto un miglioramento incrementale della chimica fra i due e nelle scelte di produzione.

Mentre infatti spesso Madlib in passato aveva privilegiato una produzione scarna, a volte addirittura lo-fi, in “Bandana” ogni canzone è immacolata e fluisce spesso nella successiva senza soluzione di continuità. Dal canto suo, Freddie Gibbs si conferma a ottimi livelli, capace di parlare di Allen Iverson, grande cestista del passato (Practice) così come della tratta degli schiavi (Flat Tummy Tea), passando per la morte di Tupac (Massage Seats). Insomma, di tutto un po’.

Il disco può infine contare su alcune collaborazioni di spessore: Pusha-T, Anderson .Paak e Killer Mike (metà dei Run The Jewels) arricchiscono ulteriormente la formula di “Bandana” in Palmolive e Giannis. Insomma, il CD è davvero riuscito sotto tutti i punti di vista. I pezzi migliori sono la scatenata Half Manne Half Cocaine e Crime Pays, mentre leggermente sotto la media sono l’intro iniziale Obrigado e Fake Names.

In conclusione, Freddie Gibbs e Madlib si confermano una volta di più essere fatti l’uno per l’altro, musicalmente parlando; “Bandana” rispetta pienamente l’hype che percorreva Internet ed è uno dei migliori album hip hop dell’anno.

9) Tyler, The Creator, “IGOR”

(HIP HOP)

Il sesto lavoro tra mixtape e CD veri e propri, non contando L’EP natalizio a tema Grinch uscito l’anno scorso, è un trionfo per Tyler, The Creator. Mescolando abilmente soul e hip hop, con strutture delle canzoni sempre innovative, Tyler ha prodotto il suo LP di maggior rilievo, forse anche superiore a quel “Flower Boy” (2017) che gli aveva dato definitivamente la fama.

Tyler, The Creator ne ha fatta di strada rispetto agli esordi, prima con gli Odd Future e poi come solista: se prima i suoi testi erano fortemente violenti, spesso amaramente ironici e omofobi, già in “Flower Boy” avevamo intravisto il suo lato più gentile e aperto, con annessa confessione di essere omosessuale che è stata francamente una rivelazione dato il suo passato.

Questo background è importante per comprendere appieno “IGOR”: l’album si articola in 12 brani per 39 minuti, quindi un lavoro compatto. Tyler narra una storia, in cui il suo alter ego Igor cerca di salvare la propria relazione con un altro uomo, prima suo amante ma poi incerto se tornare dalla sua fidanzata. Tyler canta in molte parti del disco versi commoventi nel loro candore: in EARFQUAKE “Don’t leave, it’s my fault”, mentre in RUNNING OUT OF TIME cerca di convincere il partner: “Stop lyin’ to yourself, I know the real you”. Quando però capisce che la storia è finita, in GONE, GONE / THANK YOU, ammette “Thank you for the love, thank you for the joy”.

Dicevamo della struttura delle canzoni: aiutato da gente del calibro di Kanye West, Pharrell e Cee-Lo Green, fra gli altri, Tyler mantiene la peculiarità di saper mescolare abilmente vari generi musicali: dal rap al funk, passando per soul e R&B, “IGOR” è un trionfo. Certo, la narrativa e la struttura non coincidono, a volte le canzoni finiscono improvvisamente e si intersecano con le successive, ma il CD mantiene un suo fascino innegabile. Inoltre, iniziare il lavoro con una suite strumentale come IGOR’S THEME non è una scelta facile, ma è lodevole e in fondo riuscita.

I pezzi migliori sono EARFQUAKE, la ballabile I THINK e la folle WHAT’S GOOD, in cui risplende tutta l’abilità di Tyler, The Creator nel creare canzoni davvero articolate. Buona anche la potente NEW MAGIC WAND. Se vogliamo trovare un brano inferiore alla media è forse GONE, GONE / THANK YOU, un po’ troppo lungo e pop.

In conclusione, “IGOR” è il lavoro che posiziona Tyler, The Creator nell’Olimpo dell’hip hop contemporaneo. Come molti dei suoi vecchi compagni degli Odd Future, Tyler ha saputo imporsi, malgrado alcuni passaggi a vuoto specialmente ad inizio carriera. Vedremo dove lo porterà il futuro, certo “IGOR” è fino ad ora il suo miglior LP.

8) Fontaines D.C., “Dogrel”

(PUNK – ROCK)

Il punk sembra essere decisamente tornato di moda: negli anni scorsi abbiamo visto nascere numerose band che si rifanno ai grandi maestri degli anni ’80, ad esempio Shame, IDLES, Protomartyr e Parquet Courts. Tutte queste band, con diverse sfumature e tematiche affrontate nel corso della loro carriera, hanno riportato l’attenzione del mondo su un genere che pareva morto e sepolto, preda di istinti pop ben impersonati da Blink-182 e Green Day.

I Fontaines D.C. hanno sfruttato appieno l’onda lunga che le band menzionate sopra hanno provocato e, più in generale, il malessere che pervade il mondo occidentale: disuguaglianze, razzismo, globalizzazione incontrollata e politici senza scrupoli hanno prodotto cambiamenti giganteschi nelle nostre società, impoverendo grandi masse della popolazione e provocando risentimento nelle fasce più deboli.

Il complesso irlandese descrive una Dublino che è voluta diventare grande troppo in fretta, causando la perdita di tutto ciò che rendeva la città caratteristica. Ad esempio, il quintetto non è per niente contento della trasformazione in polo tecnologico della città, resa possibile da una riduzione marcata della pressione fiscale la quale a sua volta ha aggravato i problemi delle fasce più povere, favorendo contemporaneamente i più ricchi. In Hurricane Laughter ad esempio il vocalist Grian Chatten si chiede provocatoriamente “Are there any connections available?”.

Liricamente i Fontaines D.C. in “Dogrel” toccano vari temi, spesso in maniera molto acuta: in Big si affronta il tema già menzionato della trasformazione di Dublino in metropoli all’avanguardia, “My childhood was small, but I’m going to be big!” canta Chatten, una frase che ricorda anche Rock’n’Roll Star degli Oasis. Invece un pessimismo totale permea Sha Sha Sha: “Now here comes the sun. That’s another one done”.

Musicalmente, accanto al post-punk caro a Joy Division e Fall, troviamo anche pezzi più melodici come Roy’s Tune, davvero riuscita, oltre alla conclusiva Dublin City Sky: diciamo che gli Strokes incontrano gli IDLES e i Clash in questi pezzi, portando nuova linfa in un genere ormai alquanto trafficato. Bella anche Boys In The Better Land. Le uniche pecche in un CD altrimenti perfetto sono proprio Dublin City Sky e Hurricane Laughter, ma non intaccano troppo il risultato finale.

In conclusione, “Dogrel” è senza dubbio il disco punk più riuscito dell’anno e uno dei migliori della decade. Malgrado il post-punk sia un genere ormai inflazionato e con maestri forse inarrivabili, i Fontaines D.C. si sono ritagliati abilmente una nicchia tutta per loro, con ritmica tagliente, voce espressiva e testi mai scontati.

7) Dave, “Psychodrama”

(HIP HOP)

Con Dave abbiamo davanti un prodigio vero e proprio: infatti lui è nato nel 1998 ed è anche un ottimo pianista, come dimostra nel corso di “Psychodrama”. Il disco d’esordio del talentuoso rapper britannico è un concentrato di tutte le caratteristiche migliori del rap d’Oltremanica: basi potenti, temi importanti affrontati con onestà e durezza, poca attenzione al lato commerciale (quindi CD concisi e diretti).

Rispetto ai suoi colleghi, David Orobosa Omoregie (questo il vero nome di Dave) come accennavamo introduce il pianoforte all’interno delle sue canzoni: non una caratteristica comune fra i rapper, specialmente quelli inglesi. I temi trattati al contrario sono già stati affrontati, ma mai come se si trattasse di una seduta psichiatrica. Il disco infatti si apre con Psycho e si chiude con Drama, guarda caso le parole che compongono “Psychodrama”; Dave inscena una sorta di seduta in cui lui narra le numerose disavventure vissute (o raccontategli) nel corso della sua breve vita: avere un fratello in carcere per il resto della vita (tema affrontato in Drama), persone abusate dal proprio partner (Lesley), violenza contro le persone di colore (Black). Specialmente toccante e duro il testo di quest’ultima canzone: Dave canta con la sua voce a metà fra Kid Cudi e Tyler, The Creator: “A kid dies, the blacker the killer, the sweeter the news. And if he’s white, you give him a chance, he’s ill and confused; if he’s black he’s probably armed, you see him and shoot”.

I brani migliori sono Psycho, Black e la lunghissima Lesley, vero pilastro che regge l’intero album; forse meno convincente la troppo melodica Voices, ma non intacca l’eccellente risultato complessivo.

In conclusione, Dave è davvero un ragazzo prodigio: dotato di voce imperiosa e grande talento compositivo e lirico, il futuro sembra fatto apposta per lui. “Psychodrama” è già un ottimo lavoro, nulla ci vieta di sperare che in futuro si possa assistere a LP ancora migliori da parte sua.

6) The National, “I Am Easy To Find”

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

Liricamente, Berninger (aiutato anche dalla moglie Carin Besser) non abbandona la sua fama di persona sensibile ma mai passiva di fronte alle disgrazie, soprattutto personali: nella title track canta di una coppia troppo divisa per stare insieme ma anche tanto consuetudinaria da non avere il coraggio di lasciarsi. Invece in Not In Kansas denuncia la deriva politica dell’America, citando il caso dei neonazisti. Allo stesso tempo, però, l’amore è sempre il centro dei suoi pensieri: “There’s never really any safety in it!” afferma perentorio in Hey Rosey, una frase quanto mai veritiera. Tuttavia, forse il verso più significativo dell’intero album è contenuta in Where Is Her Head: “And I will not come back the same” canta Berninger. Una dichiarazione di intenti chiarissima.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un ritorno in grande stile per i nativi di Brooklyn. Il disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National si candidano, chissà, ad un altro Grammy? Possibile, certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

5) Bon Iver, “i,i”

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura e l’impatto sugli ascoltatori potrebbe risultare a primo impatto deludente. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa.

La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Liricamente, come sempre, la band comunica più tramite immagini che con frasi definite e compiute: affiorano a volte sentimenti di amore (“I like you and that ain’t nothing new” canta Vernon in iMi), mentre in RABi compare in modo insolitamente chiaro il tema della morte: “Well, it’s all just scared of dying”.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

4) FKA twigs, “MAGDALENE”

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Il CD, molto atteso da critica e pubblico, era stato anticipato da singoli molto diversi fra loro: la meravigliosa cellophane è il più bel brano mai creato da FKA twigs, una delicata ballata solo voce e piano, con synth solo accennati. Invece holy terrain, con Future, era quasi trap; infine sad day e home with you si rifacevano, nello stile e nel ritmo, all’esordio di Tahliah, “LP1” (2014).

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD sono fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come la già citata cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

Menzioniamo infine l’aspetto testuale: in “MAGDALENE” l’artista inglese evoca, già nel titolo, la figura di Maria Maddalena, una delle più dibattute nei Vangeli. In alcuni brani emerge il ricordo della storia appena finita con Pattinson: in thousand eyes si sente “if I walk out the door it starts our last goodbye”, mentre sad day evoca il giorno in cui Tahliah ha capito che era finita. Altrove invece appare lo smarrimento che ha colpito la talentuosa performer nei momenti peggiori della sua vita: “I’m searching for a light to take me home and guide me out”, un verso desolante di fallen alien, ne è un esempio chiaro.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

3) Little Simz, “GREY Area”

(HIP HOP)

Simbiatu “Simbi” Abisola Abiola Ajikawo, in arte Little Simz, ha scritto già canzoni interessanti anche se ai più sconosciute. Lei infatti registra album sin dal 2013, quindi dai suoi 19 anni! Un talento davvero precoce, che è definitivamente sbocciato nell’eccellente “GREY Area”.

Se spesso infatti i suoi passati lavori erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), adesso l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque e si evita finalmente di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap dell’anno.

2) black midi, “Schlagenheim”

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; come sempre a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

1) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!”

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi 10 minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

I singoli che avevano anticipato il lavoro erano già invitanti e allo stesso tempo rischiosi: Venice Bitch è un pezzo a metà fra folk e dream pop lungo quasi 10 minuti, Mariners Apartment Complex una canzone pressoché perfetta che avvicina Lana a Joni Mitchell e Leonard Cohen. The Greatest è invece una canzone ambientalista, che scopre anche un lato impegnato politicamente di Lana che non conoscevamo. Infine contiamo Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It, già nel titolo una dichiarazione d’intenti, e la cover dei Sublime Doin’ Time. Insomma, un insieme eclettico ed estremamente coraggioso.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola.

È quasi un peccato terminare il CD, ci si rende conto che “Norman Fucking Rockwell!” è un punto nodale non solo per la carriera di Lana Del Rey, ma probabilmente del pop in generale, specialmente quello degli anni che verranno. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero un qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

Lana inoltre, lo sappiamo, ha sempre posto attenzione alle liriche. La sua estetica quasi lynchiana, mescolata a testi spesso molto introspettivi e deprimenti, l’avevano resa un’eroina degli adolescenti problematici. Adesso quest’immagine ingenua della cantautrice è destinata ad essere spazzata via: in California arrivano frasi di autoconvincimento, “You don’t ever have to be stronger than you really are… I shouldn’t have done it but I read it in your letter. You said to a friend that you wished you were doing better”, destinate forse più a sé stessa che ad un tu esterno. Altrove i testi sono esplicitamente introspettivi: “You took my sadness out of context” e “They mistook my kindness for weakness”, contenuti in Mariners Apartment Complex, sono versi più che schietti.

Nella conclusiva Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It troviamo tuttavia l’esclamazione più bella: “I have it!”. Lana dà finalmente un messaggio di speranza agli ascoltatori, alla fine di un CD (e al culmine di una carriera) piena di pensieri malinconici e depressi. “Hope is a dangerous thing for a woman with my past” canta Lana, ma se i risultati di questo ritrovato ottimismo sono così straordinari, speriamo che la sua vita continui ad essere serena. “Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente premiato come disco dell’anno.

Ebbene sì, Lana Del Rey si aggiudica il premio di miglior LP del 2019, in un podio peraltro per due terzi femminile: un segnale che, anche nella musica, quello che un tempo veniva chiamato odiosamente “sesso debole” è fonte di creatività senza eguali.

Cosa ci aspetta nel 2020? Beh, di certo la decade che sta per iniziare si preannuncia piena di cambiamenti radicali, sia musicalmente parlando che nelle tecniche di fruizione della musica: avremo con tutta probabilità uno streaming dominante, con artisti fai-da-te capaci di arrivare in pochissimo tempo nel mainstream, si vedano Billie Eilish e il social del momento, Tik Tok, da cui vedremo nascere sicuramente prima o poi qualche “stellina”.

State collegati, ad ogni modo: A-Rock sta già preparando un articolo sui CD più attesi dell’anno che sta per cominciare. Si parlerà, fra gli altri, di Tame Impala e The 1975: servono altri motivi per correre a leggerlo?

Recap: ottobre 2019

Anche ottobre è finito. Un mese trionfale per gli amanti del rock, che ha visto le nuove uscite dei Noel Gallagher’s High Flying Birds, Nick Cave & The Bad Seeds, Foals, Angel Olsen e dei Wilco. Abbiamo però anche il nuovo CD di Danny Brown, dei DIIV e dei Girl Band. Da segnalare poi i nuovi LP di Vagabon e Floating Points. Abbiamo infine due sorprese assolute: il secondo album in un anno dei Big Thief e il ritorno dei Chromatics, sette anni dopo “Kill For Love”.

Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen”

ghosteen

Il nuovo doppio album di Nick Cave, come sempre assieme ai fidati Bad Seeds, chiude la trilogia idealmente iniziata con “Push The Sky Away” (2013). Gli ultimi anni non sono stati facili per la band australiana: nel 2015 il figlio di Nick, Arthur, è tragicamente morto a causa di una caduta da una scogliera, mentre l’anno scorso il pianista della band Conway Savage è deceduto a causa di un tumore.

Insomma, gli antecedenti di “Ghosteen” facevano pensare ad un lavoro ancora più tragico e disperato del precedente “Skeleton Tree” (2016), che già era carico di significato essendo stato composto appena dopo la morte di Arthur. Nick Cave sceglie di procedere nelle sonorità quasi ambient dei due CD precedenti, convogliando però anche messaggi positivi, di accettazione della morte e di ricerca di una vita dopo la tragedia, quasi un contraltare ideale al pessimismo devastante di “Skeleton Tree”.

Il grande cantautore ha descritto il primo disco come “i figli”, mentre i tre lunghi brani che creano la suite conclusiva (e l’intero secondo capitolo) sono “i padri”. Come non riconoscere un rimando alla tragica situazione di Nick Cave? Del resto, i testi contengono riferimenti numerosi alla vicenda e in generale alla storia recente della band: in Hollywood, che chiude il secondo CD, si narra la fiaba indiana di Kisa, una donna a cui muore il figlio e che cerca in ogni modo di riportarlo in vita, sia affidandosi alla religione buddhista che alle credenze popolari. Alla fine del brano arriva l’ammissione più candida: “It’s a long way to go to find peace of mind”.

Altrove però, dicevamo, Nick e soci trovano conforto nella vicinanza degli altri: in Waiting For You lui e la moglie analizzano le differenti prospettive di far fronte alla morte di una persona cara, con il cantautore che dichiara “I just want to stay in the business of making you happy”. Una dichiarazione d’amore fortissima e delicata. Infine, in altre parti del monumentale doppio album (11 pezzi per 73 minuti), troviamo riflessioni sul potere dell’arte (Spinning Song) e come sognare un mondo diverso da quello che abbiamo ereditato non sia una debolezza (Bright Horses).

In conclusione, non è facile entrare nel discorso di Nick Cave & The Bad Seeds, specialmente se si è neofiti del gruppo, uno dei più importanti degli ultimi decenni in campo rock. Giunto al 40° (!!) anno di una carriera trionfale, Nick Cave è ancora un uomo tormentato, ma per motivi diametralmente diversi rispetto alla gioventù. Il fatto che sappia scrivere testimonianze così personali e toccanti, mantenendo un’integrità artistica totale, è segno che siamo di fronte ad un vero genio della musica. “Ghosteen” non sarà il suo miglior CD, ma si aggiunge ad un’eredità già colossale non peggiorandola. Non un risultato di poco conto.

Voto finale: 8.

Big Thief, “Two Hands”

two hands

Il secondo album in un anno degli statunitensi Big Thief è un ritorno al rock. Se il precedente “U.F.O.F.” era un CD prettamente folk, che rielaborava idee presenti nell’esordio solista della leader del gruppo Adrianne Lenker “abysskiss” (2018), questo “Two Hands”, registrato dal vivo, torna alle sonorità di “Capacity” (2017), per creare con “U.F.O.F.” una coppia di dischi di altissimo livello, da parte di un gruppo che sta lavorando al massimo delle proprie potenzialità.

L’inizio del lavoro è eccellente: le sognanti Rock And Sing e Forgotten Eyes sono ottimi pezzi indie rock, che riportano alla mente il folk-rock di Neil Young, con la bellissima voce della Lenker a creare un’atmosfera sospesa fra meraviglia e inquietudine, dati i testi mai facili, che parlano di sofferenza e passione senza vergogna. L’unico pezzo più debole è proprio la title track, mentre la lunga Not è il brano più ambizioso in un lavoro davvero pregevole. Molto interessante la struttura del CD: i primi e gli ultimi pezzi nella scaletta sono i più quieti, mentre l’accoppiata NotShoulders, piazzata a metà, è la sferzata più rockettara.

I Big Thief non stanno reinventando l’immaginario indie rock, come alcuni critici molto entusiasti si sono spinti a proclamare; certamente però l’abilità vocale e alla chitarra di Adrianne Lenker li distinguono chiaramente dai loro contemporanei. Non una cosa da poco, in un panorama musicale sempre più stereotipato: il caso Big Thief è la piena dimostrazione che il duro lavoro paga. Chapeau.

Voto finale: 8.

Danny Brown, “uknowhatimsayin¿”

danny

Il quinto album di Danny Brown, uno dei rapper più originali degli ultimi anni, è una summa di tutte le caratteristiche che lo rendono unico. Voce nasale, versi al limite dell’indecente alternati a scherzi assurdi e altri introspettivi, basi del tutto fuori di testa, flow inarrestabile: troviamo questo e molto altro in “uknowhatimsayin¿”, che già dal titolo si preannuncia folle. La produzione affidata a pezzi da 90 come Q-Tip (A Tribe Called Quest), Flying Lotus e JPEGMAFIA rendono la ricetta ancora più intrigante, così come la collaborazione con i Run The Jewels in 3 Tearz e quella con Blood Orange in Shine.

I tratti puramente sperimentali di alcune parti del disco lo rendono un osso difficile da masticare, soprattutto al primo ascolto: mentre “Old” (2013) aveva basi quasi danzerecce nella seconda parte, questo lavoro vira verso il lato più ardito di Danny, con esempi virtuosi in Dirty Laundry e Theme Song. Mancano allo stesso tempo anche le atmosfere disperate di “Atrocity Exhibition” (2016), a tutt’oggi il suo album più celebrato, in cui Brown metteva in mostra tutta la sua fragilità e le sue dipendenze.

Troviamo infatti anche versi davvero divertenti, che immediatamente entrano in testa all’ascoltatore: “I ignore a whore like an email from LinkedIn”, contenuto in Savage Nomad, ne è il più chiaro esempio. Altrove ritorna il pensiero della morte, ma in maniera più ironica, quasi leggera rispetto al passato: “I’mma die for this shit like Elvis” canta il rapper statunitense in Combat.

Il CD, per quanto ricercato e a tratti assurdo, è assimilabile relativamente in fretta data la sua brevità: 11 canzoni in 33 minuti sono un’ulteriore dimostrazione della posizione davvero unica occupata da Danny Brown nel mondo hip hop. I pezzi migliori sono la già ricordata Dirty Laundry e la title track, mentre sono inferiori alla media Best Life e Negro Spiritual.

In conclusione, “uknowhatimsayin¿” dimostra ancora una volta l’inventiva senza freni posseduta da Danny Brown. Ormai alla soglia dei 40 anni, il talentuoso rapper non pare per nulla intenzionato a adagiarsi sugli allori: non avrà ancora esaudito il sogno espresso nel suo CD “XXX” (2011), quando diceva di voler diventare “the greatest rapper ever”, ma di certo il rispetto di critica e fans non fanno che crescere album dopo album.

Voto finale: 8.

Angel Olsen, “All Mirrors”

all mirrors

Il nuovo album della cantautrice americana Angel Olsen la trova impegnata in una radicale giravolta artistica, ma questa non è certo una novità per lei: se le origini della sua estetica vanno cercate nel folk rock, già in “Bury Your Fire For No Witness” (2014) la svolta verso l’indie rock era stata netta. Il suo più bel lavoro, “My Woman” (2016), conteneva invece elementi prog e synth pop mai fuori luogo.

“All Mirrors” è un pregevole CD art pop: seguendo il percorso tracciato da Kate Bush e ispirandosi probabilmente anche ad artiste contemporanee come Florence And The Machine e Julia Holter, la Nostra ha portato il suo sperimentalismo verso territori orchestrali, a volte davvero incontenibili, come nella sontuosa Lark. Del resto, anche il singolo All Mirrors aveva anticipato questa svolta, ma essere stata in grado di non cadere nel cliché del pop orchestrale più trito e ritrito, evitando di compiacersi troppo, è un merito non banale.

Il lavoro è ottimo non solo per la continua ricerca da parte di Angel, ma anche per la concisione: “All Mirrors” infatti consta di 11 pezzi per 48 minuti complessivi, creando un insieme coeso e ben strutturato, in cui è un piacere affondare. I pezzi migliori sono l’iniziale Lark e la più semplice Spring, mentre sotto la media (altissima) del CD abbiamo Impasse e la pur intrigante Endgame.

In conclusione, il 2019 resterà significativo per il mondo pop più sofisticato: nello stesso anno sono usciti lavori magnifici da parte di Weyes Blood, Lana Del Rey e Angel Olsen. Tre artiste ambiziose, che sono al culmine delle proprie qualità, in continua tensione verso il perfetto disco pop del XXI secolo. Chissà che una di loro non ci arrivi, prima o poi… Di certo Angel Olsen dimostra una caratura come cantautrice che la eleva al di sopra di quasi tutte le sue coetanee.

Voto finale: 8.

Floating Points, “Crush”

crush

Il nuovo lavoro di Sam Shepherd, in arte Floating Points, riparte esattamente dove avevamo lasciato l’artista inglese quattro anni fa con “Elaenia”: elettronica calda, elegante, solo a tratti pronta per la pista da ballo, sulla falsariga di capisaldi come Aphex Twin e Caribou.

In realtà Shepherd non è artista che riposa sugli allori: gli ultimi anni lo hanno visto produrre mix intrisi di jazz e rock (“Late Night Tales” quest’anno), colonne sonore (“Reflections – Mojave Desert del 2017) ed EP di varia lunghezza (su tutti “Kuiper” del 2016). Insomma, un’iperattività non scontata; i risultati peraltro sono sempre stati molto interessanti, facendo di Floating Points un nome importante nel panorama della musica elettronica, tanto da permettergli di essere scelto come spalla nel tour degli xx del 2017.

“Crush” si apre con l’interlocutoria Falaise: un insieme di sintetizzatori e percussioni à la Skee Mask che non si adatta completamente all’estetica di Floating Points. Molto meglio i due brani seguenti, la danzereccia Last Bloom e la raccolta Anasickmodular. Intrigante la struttura di “Crush”: il CD infatti consta di 12 brani per 44 minuti, con una chiusura divisa in due parti (Apoptose) e due brevi intervalli posti al centro del disco, Requiem For CS70 And Strings e Karakul, che dividono quasi il lavoro in due metà speculari.

I brani migliori sono la già citata Anasickmodular e LesAlpx, che si avventura in territori techno; buonissima anche Bias. Invece, inferiore alla media Falaise. Il CD non crea grandi cambiamenti nello scenario della musica elettronica mondiale, ma conferma Sam Shepherd come un nome da tenere d’occhio, pronto a sbocciare definitivamente.

Voto finale: 8.

DIIV, “Deceiver”

deceiver

Il terzo album degli americani DIIV è il loro lavoro più duro, sia come liriche (finalmente intellegibili quasi completamente) che come sonorità. Il tour con i Deafheaven durante cui il CD è stato composto si dimostra una grande fonte di influenza per Smith e compagni, che più volte virano dall’abituale dream pop all’hard rock di Pixies e Sonic Youth.

Zachary Cole Smith aveva descritto il precedente lavoro come la storia di una persona che esce dalle dipendenze: “Is The Is Are” (2016), pur nella sua lunghezza eccessiva, era il lavoro di una band sicura dei propri mezzi e pronta a spiccare il salto definitivo verso lo stardom. Tuttavia, il frontman dei DIIV era caduto nuovamente nei propri demoni, facendo di “Deceiver” un album sicuramente arrabbiato, ma con liriche che delineano uno Zachary mai pronto ad arrendersi alle proprie debolezze.

La doppietta in apertura di CD, Horsehead e Like Before You Were Born, mette in evidenza quella mezza rivoluzione stilistica che tanto serviva ai DIIV: voce di Smith finalmente chiara, chitarroni alla Queens Of The Stone Age, base ritmica potente. I risultati possono a primo acchito parere eccessivamente duri, ma a lungo andare il CD ben si sposa con le tematiche affrontate (lotta alle dipendenze, incertezza sul proprio futuro).

Lo shoegaze muscolare che rappresenta la nuova veste dei DIIV trova il suo pieno compimento in Skin Game, non a caso primo singolo di lancio di “Deceiver”. Altri brani riusciti sono la più compassata Between Tides e Acheron; invece convince meno Taker.

In generale, i DIIV hanno compiuto quel radicale stacco nel loro stile già promesso in passato ma mai pienamente realizzato. Il CD non è chissà quanto innovativo per il genere, ma questa nuova versione dei DIIV non ha nulla da invidiare alla precedente. Vedremo dove porterà il gruppo in futuro; di certo il gruppo statunitense si conferma fra le realtà più solide dell’indie rock made in USA.

Voto finale: 7,5.

Girl Band, “The Talkies”

the talkies

I Girl Band sono tornati dopo quattro anni dall’esplosivo “Holding Hands With Jamie”. La mutazione avvenuta nella band è evidente: mentre l’esordio del gruppo irlandese si rifaceva al post-punk anni ’80, “The Talkies” è pienamente inserito nel noise contemporaneo, con chiari rimandi ai Daughters e agli Swans.

Il noise ha dimostrato nel corso del 2019 un’insolita vitalità: accanto ai Girl Band abbiamo anche avuto il devastante esordio dei black midi, “Schlagenheim”, a testimonianza di una scena vivace. “The Talkies” si apre in maniera davvero inquietante: Prolix consta solamente di sospiri, sempre più ansiogeni, da parte del frontman Dara Kiely sopra suoni frammentari. La successiva Going Norway è invece il pezzo più accessibile dell’album, con la strumentazione dei Girl Band al pieno del suo fulgore.

La struttura del CD è abbastanza straniante: i 12 brani alternano pezzi sotto i due minuti ad altri molto articolati, con Prefab Castle che addirittura supera i 7 minuti. Non è poi un progetto per tutti: i riff di chitarra sono esclusivamente a supporto di un sound scuro, quasi apocalittico, in cui il precario stato mentale del frontman del complesso irlandese è in primo piano.

L’estesa pausa fra “Holding Hands With Jamie” e “The Talkies” è infatti in parte dovuto alla grande fragilità di Kiely, forza motrice dei Girl Band ma anche membro più irrequieto del gruppo. Nel corso del lavoro, più che affrontare direttamente le proprie fobie, il Nostro fa capire all’ascoltatore cosa si prova ad essere costantemente sull’orlo del burrone. Ne sono esempio Aibohphobia (sulla paura dei palindromi) e l’inquietante Salmon Of Knowledge.

“The Talkies” non raggiunge le vette di “Schlagenheim”, nondimeno i Girl Band dimostrano un’ottima abilità camaleontica: il passaggio da band punk, con riff selvaggi, a complesso noise non è stato indolore, ma i risultati premiano Kiely e compagni. Vedremo dove li porterà la loro prossima incarnazione, sperando che non richieda altri 4 anni e che Dara Kiely trovi un po’ di pace.

Voto finale: 7,5.

Chromatics, “Closer To Grey”

closer

Il nuovo album dei Chromatics ha un alone mistico: annunciato a più riprese con il titolo “Dear Tommy”, anticipato da presunti singoli, alla fine “Dear Tommy” non ha mai visto la luce, almeno per ora. Al suo posto abbiamo “Closer To Grey”, caratterizzato come il settimo album del gruppo malgrado sia il sesto ufficialmente uscito: le tematiche e le ritmiche sono le stesse di “Kill For Love”, il loro capolavoro del 2012, architrave del synth-disco pop degli anni ’10. I risultati non sono altrettanto sorprendenti, ma di certo il disco non è un cattivo lavoro.

Come “Kill For Love” cominciava con una cover (Hey Hey My My di Neil Young, col nome di Into The Black), anche “Closer To Grey” comincia con una reinterpretazione di un capolavoro del passato: stavolta tocca a The Sound Of Silence, il mitico brano di Simon & Garfunkel, rivisto in chiave elettronica e decisamente più oscura. La seconda traccia, You’re No Good, è effettivamente trascurabile, mentre la title track è il primo vero highlight del CD.

Rispetto al suo predecessore, “Closer To Grey” dura esattamente la metà (45 minuti vs 90), ma sconta anche un diminuito effetto sorpresa e, come già accennato, delle sonorità ormai conosciute al pubblico: sette anni si pensava potessero portare rivoluzioni in casa Chromatics, invece l’estetica della band è rimasta la stessa. A seconda del tipo di ascoltatore, può essere una buona o una brutta notizia; un punto di vista neutro probabilmente lo vede più come una debolezza che una forza.

I brani migliori del lotto sono Closer To Grey e Light As A Feather, mentre deludono un po’ You’re Not Good e la nenia Move A Mountain, che rompe il ritmo del lavoro. Da sottolineare poi la lunga Touch Red e la monumentale On The Wall, che arriva a addirittura oltre gli 8 minuti, a dimostrazione di un’ambizione non banale dei Chromatics.

In conclusione, “Closer To Grey” pare il tipico album di un complesso ormai rispettato e con un seguito fedele: un tuffo nella propria comfort zone, in mezzo alle tastiere e alle chitarre soffuse che rendevano speciale “Kill For Love”. Il CD non è assolutamente da buttare, ma considerati i proclami spavaldi del passato del leader Johnny Jewel, quando affermava che “Dear Tommy” sarebbe stato il manifesto definitivo dei Chromatics, vedere ora un lavoro umile per certi versi come “Closer To Grey”, almeno all’inizio, è un po’ straniante. Chissà che presto non veda la luce l’ormai mitico “Dear Tommy”? Nell’attesa godiamoci questo lavoro, non perfetto o radicale, ma certo affascinante.

Voto finale: 7,5.

Foals, “Everything Not Saved Will Be Lost Part 2”

foals

I Foals avevano annunciato che avrebbero fatto le cose in grande: il 2019, in effetti, ha già visto una pubblicazione a loro nome, la prima parte del progetto “Everything Not Saved Will Be Lost”, pubblicata a marzo. Se il primo capitolo giocava con ritmi quasi dance-punk, questa seconda parte torna alle sonorità più aggressive di “Holy Fire” (2013), ben sintetizzate dai singoli di lancio Black Bull e The Runner.

Le due parti formano così un ideale doppio CD dei Foals: il complesso britannico è sempre stato maestro nello stare all’intersezione fra indie rock, elettronica e ritmi più punk, tanto che i loro singoli migliori sono divisi quasi in parti uguali fra queste tre classi: da Spanish Sahara a Inhaler, passando per My Number e Mountain At My Gates, i riferimenti sono costanti, ma i risultati si sono sempre mantenuti più che sufficienti.

Il lavoro parte con un’intro quasi dream pop, Red Desert, che un po’ ricorda la Moonlight di “Everything Not Saved Will Be Lost Part 1”. Subito dopo però arriva la brillante The Runner, che suona quasi come un pezzo dei Black Keys. Altri highlights sono la potentissima Black Bull e 10,000 Feet, mentre Wash Off e Like Lightning non convincono appieno. Da menzionare infine la suite finale Neptune, un’Odissea di 10 minuti fra rock, elettronica e ambient (!), confusa forse ma certo non banale.

In conclusione, “Everything Not Saved Will Be Lost Part 2” è un degno seguito alla prima parte del progetto. I Foals si confermano una delle band indie rock d’Oltremanica più affidabili in termini di solidità dei propri CD, nondimeno come sempre nella loro carriera manca qualcosa per avere un LP davvero definitivo, malgrado i grandi voti ricevuti da molta stampa specializzata, soprattutto inglese. A conti fatti, la Parte 2 pare meglio costruita della Parte 1, ma sorge un sospetto: avessero creato un unico disco con i migliori brani dei due CD, avremmo forse il migliore lavoro di sempre dei Foals? Domanda purtroppo destinata a rimanere senza risposta.

Voto finale: 7,5.

Vagabon, “Vagabon”

vagabon

La prova del secondo album può essere difficile, lo sappiamo, specialmente per coloro che sono stati baciati dal successo già al primo sforzo. Laetitia Tamko, in arte Vagabon, ha avuto questa fortuna: l’esordio del 2017 “Infinite Worlds” le aveva aperto le porte del successo, almeno all’interno dell’indie rock. Il suo stile delicato e gentile, che mescolava elementi dell’indie anni ’00 con il dream pop caro ai DIIV, aveva reso il CD molto interessante.

“Vagabon”, in realtà, era nato con un diverso titolo: “All The Women In Me” pareva il nome scelto per il disco, però poi la Tamko aveva deciso di dare importanza al sé piuttosto che agli elementi esterni, cambiando in corso d’opera anche i titoli ad alcune canzoni della tracklist. I risultati sono effettivamente più intimisti rispetto ad “Infiniet Worlds”, aggiungendo caratteri interessanti alla palette sonora di Vagabon.

Emblematica la ballata In A Bind: pare più una canzone di Sufjan Stevens ai tempi di “Illinois”, tanto è folk. Invece altrove affiorano delle parti dell’estetica synth pop che non appartenevano in alcuna maniera alla versione 1.0 di Vagabon: ad esempio ciò è evidente in Flood. I pezzi migliori sono proprio Flood e In A Bind, mentre delude Home Soon, troppo solenne. Curiosa infine la struttura circolare di “Vagabon”: il primo pezzo, Full Moon In Gemini, è richiamato dall’ultimo, chiamato Full Moon In Gemini (Monako Reprise).

In conclusione, il secondo LP di Laetitia Tamko non è per nulla il tipico seguito di un lavoro di successo da parte di un’artista che si trova improvvisamente analizzata nei minimi dettagli da critica e pubblico. Sarebbe stato facile ritornare al comodo indie rock di “Infinite Worlds”; invece Vagabon ha deciso per una svolta, non radicale ma certamente forte. I risultati richiedono ascolti numerosi per essere colti appieno, ma non deluderanno i fan della giovane artista americana di origine camerunense.

Voto finale: 7.

Wilco, “Ode To Joy”

ode to joy

L’undicesimo album dei veterani dell’alternative rock Wilco prosegue nel solco tracciato dal precedente “Schmilco” (2016); le 11 canzoni sono infatti ridotte all’essenziale e grande attenzione è posta sulla voce, sempre più suadente col passare del tempo, del frontman Jeff Tweedy.

L’ispirazione del CD va anche cercata nei due recenti LP solisti di Tweedy, “WARM” (2018) e “WARMER” (2019): un folk-rock apparentemente molto tranquillo e semplice, ma che in realtà nasconde arrangiamenti da non sottovalutare e messaggi non banali. Ad esempio, nascosti tra le pieghe dell’album troviamo invettive contro il nazionalismo imperante in America (Citizens) ma anche elogi della solitudine (Quiet Amplifier).

Per godere appieno dei frutti di “Ode To Joy” sono necessari più ascolti: ad esempio, il lavoro egregio svolto dal batterista Glenn Koche e dal chitarrista Nels Kline, specialmente per sostenere i brani più fermi, ad esempio Bright Leaves e Citizens, è chiaro solo dopo varie sessioni. Va detto peraltro che sono i brani più movimentati i veri highlight del lavoro, come Everyone Hides e Love Is Everywhere (Beware).

Il CD quindi non è un capolavoro, ma i fan della band troveranno pane per i loro denti. I Wilco, dal canto loro, proseguono una carriera quasi trentennale con un altro LP di buon artigianato, che manterrà alta la bandiera della band ancora per qualche tempo.

Voto finale: 7.

Noel Gallagher’s High Flying Birds, “This Is The Place”

this is the place

Il secondo EP del 2019 di Noel Gallagher arriva, chissà se casualmente, solo poche settimane dopo il ritorno sulla scena del fratello Liam, che con “Why Me? Why Not.” si è prepotentemente riportato al centro del panorama del rock vecchio stile.

L’EP continua l’apertura a ritmi quasi sperimentali, dati i canoni dei fratelli-coltelli Gallagher, già intravista peraltro nel riuscito “Who Built The Moon?” (2017). L’iniziale This Is The Place è un buon singolo, quasi psichedelico e a tratti vicino agli LCD Soundystem. La seguente A Dream Is All I Need To Get By è invece decisamente più allineata sugli Oasis di inizio XXI secolo. Infine, l’ultimo inedito Evil Flower è quasi krautrock e rimanda a “Dig Out Your Soul” (2008), ultimo LP degli Oasis. Abbiamo poi due remix, rispettivamente di This Is The Place ed Evil Flower, che in verità non aggiungono molto a “This Is The Place”.

Ribadiamo che la scelta di pubblicare 3 brevi EP in un solo anno è quantomeno opinabile e non ha portato molta fortuna a chi l’ha intrapresa in precedenza, vedi i Green Day del 2012. Diluire così la qualità di un potenziale discreto CD, allungando il brodo di ogni pubblicazione con due evitabili remix, non pare lungimirante. “This Is The Place” non è un cattivo lavoro, ma è lontano dalle migliori opere del maggiore dei Gallagher. Questa volta ha vinto Liam.

Voto finale: 6,5.

Recap: maggio 2019

Anche maggio è terminato. Un mese ricco di uscite musicali attese, soprattutto per gli amanti dell’indie rock. Abbiamo infatti i nuovi lavori di Mac DeMarco, dei The National, degli Interpol e dei Big Thief. Segnaliamo inoltre i ritorni di Flying Lotus, Tyler, The Creator, Rhye, Tim Hecker, Jamila Woods e Carly Rae Jepsen.

The National, “I Am Easy To Find”

national

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

In generale, un LP con durata superiore all’ora e ben 16 canzoni non è facile da digerire, ma i tesori sono numerosi e davvero rimarchevoli: i The National si confermano band incapace di comporre cattivi dischi e in continuo cambiamento, fatto che rende davvero poco credibile la crisi di mezza età che colpisce molti gruppi rock.

Liricamente, Berninger (aiutato anche dalla moglie Carin Besser) non abbandona la sua fama di persona sensibile ma mai passiva di fronte alle disgrazie, soprattutto personali: nella title track canta di una coppia troppo divisa per stare insieme ma anche tanto consuetudinaria da non avere il coraggio di lasciarsi. Invece in Not In Kansas denuncia la deriva politica dell’America, citando il caso dei neonazisti. Allo stesso tempo, però, l’amore è sempre il centro dei suoi pensieri: “There’s never really any safety in it!” afferma perentorio in Hey Rosey, una frase quanto mai veritiera. Tuttavia, forse il verso più significativo dell’intero album è contenuta in Where Is Her Head: “And I will not come back the same” canta Berninger. Una dichiarazione di intenti chiarissima.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un ritorno in grande stile per i nativi di Brooklyn. Il disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National si candidano, chissà, ad un altro Grammy? Possibile, certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

Voto finale: 8,5.

Tyler, The Creator, “IGOR”

igor

Il sesto lavoro tra mixtape e CD veri e propri, non contando L’EP natalizio a tema Grinch uscito l’anno scorso, è un trionfo per Tyler, The Creator. Mescolando abilmente soul e hip hop, con strutture delle canzoni sempre innovative, Tyler ha prodotto il suo LP di maggior rilievo, forse anche superiore a quel “Flower Boy” (2017) che gli aveva dato definitivamente la fama.

Tyler, The Creator ne ha fatta di strada rispetto agli esordi, prima con gli Odd Future e poi come solista: se prima i suoi testi erano fortemente violenti, spesso amaramente ironici e omofobi, già in “Flower Boy” avevamo intravisto il suo lato più gentile e aperto, con annessa confessione di essere omosessuale che è stata francamente una rivelazione dato il suo passato.

Questo background è importante per comprendere appieno “IGOR”: l’album si articola in 12 brani per 39 minuti, quindi un lavoro compatto. Tyler narra una storia, in cui il suo alter ego Igor cerca di salvare la propria relazione con un altro uomo, prima suo amante ma poi incerto se tornare dalla sua fidanzata. Tyler canta in molte parti del disco versi commoventi nel loro candore: in EARFQUAKE “Don’t leave, it’s my fault”, mentre in RUNNING OUT OF TIME cerca di convincere il partner: “Stop lyin’ to yourself, I know the real you”. Quando però capisce che la storia è finita, in GONE, GONE / THANK YOU, ammette “Thank you for the love, thank you for the joy”.

Dicevamo della struttura delle canzoni: aiutato da gente del calibro di Kanye West, Pharrell e Cee-Lo Green, fra gli altri, Tyler mantiene la peculiarità di saper mescolare abilmente vari generi musicali: dal rap al funk, passando per soul e R&B, “IGOR” è un trionfo. Certo, la narrativa e la struttura non coincidono, a volte le canzoni finiscono improvvisamente e si intersecano con le successive, ma il CD mantiene un suo fascino innegabile. Inoltre, iniziare il lavoro con una suite strumentale come IGOR’S THEME non è una scelta facile, ma è lodevole e in fondo riuscita.

I pezzi migliori sono EARFQUAKE, la ballabile I THINK e la folle WHAT’S GOOD, in cui risplende tutta l’abilità di Tyler, The Creator nel creare canzoni davvero articolate. Buona anche la potente NEW MAGIC WAND. Se vogliamo trovare un brano inferiore alla media è forse GONE, GONE / THANK YOU, un po’ troppo lungo e pop.

In conclusione, “IGOR” è il lavoro che posiziona Tyler, The Creator nell’Olimpo dell’hip hop contemporaneo. Come molti dei suoi vecchi compagni degli Odd Future, Tyler ha saputo imporsi, malgrado alcuni passaggi a vuoto specialmente ad inizio carriera. Vedremo dove lo porterà il futuro, certo “IGOR” è fino ad ora il suo miglior LP.

Voto finale: 8,5.

Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!”

jamila

Il secondo album della talentuosa Jamila Woods è un trionfo per gli amanti di R&B e soul. Facendo riferimento ai maestri del passato e ripercorrendo le vite di grandi artisti di colore de passato e del presente, la Woods ha composto uno dei migliori album di black music dell’anno.

Il disco è perfetto per sequenziamento e lunghezza, contando 13 canzoni per 49 minuti di durata, con nessun brano fuori posto. In questo la giovane americana è migliorata rispetto all’esordio “HEAVN” (2016), mostrando maturità e consapevolezza di sé. Il CD tuttavia non è solamente un ottimo estratto di influenze legate alla musica nera: con titoli di per sé evocativi come MILES e BASQUIAT, l’intento di Jamila è evidente: rievocare le figure storiche del passato che hanno reso i neri degni di attenzione non solo socialmente ma anche artisticamente, gli eroi che hanno aperto la strada agli artisti di colore di oggi.

I risultati, sia liricamente che come composizioni e arrangiamenti, sono sfarzosi ma mai sovraccarichi o fini a sé stessi: pezzi come GIOVANNI e BETTY sono grandiosi, ma nessuno come già accennato è superfluo.

In conclusione, Jamila Woods si conferma un’artista dal potenziale immenso, forse ancora non completamente sfruttato. “LEGACY! LEGACY!” è un trionfo, un LP da assaporare e che rivela sempre nuovi dettagli seducenti. In poche parole, anche questo album farà parte della legacy degli artisti di colore del futuro.

Voto finale: 8,5.

Flying Lotus, “Flamagra”

flamgra

Il sesto album del celebre produttore losangelino Steven Ellison, meglio conosciuto col nome d’arte Flying Lotus, si è fatto attendere. Il suo ultimo lavoro, il breve ma densissimo “You’re Dead!”, risaliva al 2014. Questi cinque anni sono però stati impegnativi per Ellison: ha girato un film horror, Kuso; lanciato un’intera divisione della sua Brainfeeder dedicata al cinema; composto svariate colonne sonore.

In mezzo a tutto questo, Flying Lotus non ha tuttavia dimenticato la sua prima passione, la musica. Del resto, un personaggio che vanta fra i suoi avi John e Alice Coltrane non può che avere una creatività musicale decisamente sviluppata. “Flamagra” si presenta come il suo lavoro più complesso, sia per struttura che come personale coinvolto: Ellison infatti non bada a spese, coinvolgendo il meglio del mondo hip hop contemporaneo, da Solange Knowles a Tierra Whack, passando per Anderson .Paak e Denzel Curry. Non ci scordiamo poi il contributo del mitico David Lynch in Fire Is Coming! Insomma, 27 canzoni per 67 minuti, contando tutti questi ospiti, vogliono dire una cosa sola: “Flamagra” deve essere digerito, i giudizi impulsivi possono essere fuori asse.

Una cosa è comunque subito chiara: l’ipnotico mix di elettronica, jazz e hip hop dei migliori lavori di Flying Lotus non è scomparsa. Anzi, la formula viene in un certo senso portata agli estremi: spesso in un solo brano troviamo differenti parti, ognuna dedicata ad un genere particolare. I risultati sono prevedibilmente ostici, soprattutto ai primi ascolti, ma la pazienza degli ascoltatori viene premiata da un concentrato di pezzi efficaci: dalla sognante Remind U, che ricorda “Until The Quiet Comes” (2012) alla trascinante More, con grande contributo di Anderson .Paak e Thundercat, passando per Heroes e Land Of Honey, il CD è spesso un trionfo. Certo, alcuni momenti (su tutti la troppo lunga Takashi) sarebbero stati evitabili, ma sappiamo che Ellison è sempre stato un massimalista, fin dai tempi di “Cosmogramma” (2010), quindi aspettarsi da lui prudenza sarebbe vano.

In generale, dunque, “Flamagra” è valso l’attesa: i cinque anni passati da “You’re Dead!” non pesano sulle composizioni di FlyLo, che anzi restano fresche e innovative anche dopo numerosi ascolti. Questo sesto disco non sarà il migliore della sua produzione, ma segna il ritorno di una figura fondamentale per l’elettronica e il jazz contemporanei, capace di stravolgere i cardini di questi due mondi apparentemente lontani.

Voto finale: 8.

Big Thief, “U.F.O.F.”

big thief

Il terzo album degli statunitensi Big Thief, capitanati dalla talentuosa Adrianne Lenker, è una svolta decisa rispetto ai loro precedenti lavori. Se in “Masterpiece” (2016) e “Capacity” (2017) prevaleva un indie rock intimista, in “U.F.O.F.” troviamo una virata verso il folk, probabilmente aiutata anche dall’album solista pubblicato dalla Lenker lo scorso anno.

Non è un caso infatti che, tra le 12 canzoni che compongono il disco, 2 siano riprese da “abysskiss”: sia From che Terminal Paradise già splendevano nella versione originale, ma anche rifatte dai Big Thief non perdono il loro fascino. Complimenti vanno poi alla base ritmica della band: le chitarre gentili di Adrianne Lenker e Buck Meek sono ipnotiche, buono poi il contributo di basso (emblematica From) e batteria (efficacissima in Contact). In generale questo “U.F.O.F.” ritorna, soprattutto liricamente, su quei terreni che hanno reso i Big Thief dei moderni beniamini dei fan dell’indie: riferimenti alla solitudine, alla capacità di relazionarsi solamente con dei corpi estranei (il titolo del CD sta infatti per UFO Friend) ma anche paesaggi naturali e animali, fantastici o meno.

Musicalmente, nei suoi momenti migliori il disco è uno dei migliori album folk degli ultimi anni: specialmente in Contact (con potente coda rock) e Cattails i risultati sono eccellenti. A peccare sono i momenti più lenti, a volte troppo prevedibili: ne sono esempi Betsy e Magic Dealer, non perfetti. Molto interessante l’esperimento di Jenni, una sorta di shoegaze lento, che ricorda i Low.

In conclusione, “U.F.O.F.” ha raccolto giustamente elogi sperticati da tutte le parti: i critici elogiano il cambio di passo della band e la capacità di mantenere intatte le proprie caratteristiche anche cambiando pelle. In effetti questo LP è il migliore della loro produzione, un concentrato di ottimo folk-rock imprescindibile per gli amanti del genere.

Voto finale: 8.

Tim Hecker, “Anoyo”

anoyo

Il mini-album “Anoyo” del musicista canadese Tim Hecker richiama il precedente suo lavoro, quel “Konoyo” (2018) ispirato alla musica giapponese. In effetti i brani che fanno parte di questo progetto sono presi dalle stesse sessions del precedente, i risultati sono tuttavia ancora più intriganti.

Se “Konoyo” aveva una pecca, era sicuramente la lunghezza: la musica di Hecker sa essere sublime, ma se presa troppo a lungo rischia di diventare difficilmente digeribile. “Konoyo”, pur avendo alcune parti eccellenti, alla lunga diventava fin troppo opprimente: le sonorità ambient di Hecker mescolate all’ensemble di musica gagaku Tokyo Gakuso a volte non si sposavano bene.

Ciò non vale per “Anoyo”, quasi un negativo dell’album fratello: dove uno era fin troppo carico, l’altro è essenziale e severo nelle sonorità. Anche il significato dei titoli è antitetico: konoyo sta per aldiquà, mentre anoyo significa aldilà. Musicalmente, “Anoyo” è un ottimo album ambient, allo stesso tempo sperimentale ma più accessibile di altri lavori di Hecker. Ottima Is But A Simulated Blur e buona anche l’iniziale That World, sebbene un po’ prolissa. Nessuna traccia in realtà è fuori posto, anzi nell’insieme il CD è organico e coeso.

In conclusione, “Anoyo” è uno dei punti più alti della musica ambient degli ultimi anni: per la verità, è l’intero genere ad essere tornato in prima linea nel variegato panorama della musica elettronica, grazie anche ai ritorni dei veterani Aphex Twin e Gas. Tim Hecker dal canto suo continua la sua singolare striscia di collaborazioni con paesi e culture diversi, dimostrando una creatività ancora viva e vegeta pur avendo alle spalle più di 20 anni di attività.

Voto finale: 8.

Rhye, “Spirit”

rhye

Il mini-album di Mike Milosh, già dall’anno scorso privo dell’altra metà dei Rhye Robin Hannibal, mantiene l’estetica raffinata vista nei due precedenti album “Woman” (2013) e “Blood” (2018), riducendo però l’influenza di elettronica e R&B per comporre il suo lavoro più intimista.

La struttura dell’EP è molto particolare: abbiamo 3 canzoni su 8 che non arrivano ai 3 minuti e sono puramente strumentali, mentre le altre sono decisamente più articolate. Milosh ha composto queste melodie su un pianoforte tra una pausa e l’altra del tour a supporto di “Blood”, ma non per questo “Spirit” è una semplice raccolta di b-sides: i pezzi sono formati perfettamente, prodotti con raffinatezza e hanno ciascuno un fascino sensuale o romantico che alla lunga conquista.

I pezzi migliori sono Needed e Patience; ma nessuno è fuori posto, tanto che anche i brevi intermezzi sono necessari alla riuscita del lavoro. Liricamente, Milosh conferma i temi che più gli stanno a cuore: desiderio e fragilità, entrambi come vediamo strettamente legati all’amore nel senso più ampio del termine. Esemplari questi due versi: “Why you look so fragile? Do I seem so bad?” e “I wanna be needed, that’s what I need”, entrambi in Needed.

In conclusione, “Spirit” prosegue la striscia vincente inaugurata nel 2013: Milosh continua a deliziarci con canzoni romantiche fino al midollo e capaci di suscitare in ogni ascoltatore un sentimento diverso, dalla nostalgia al desiderio alla paura per la fine di una relazione. Non una cosa da tutti.

Voto finale: 7,5.

Carly Rae Jepsen, “Dedicated”

dedicated

Il quarto disco della popstar canadese non si allontana molto dall’estetica dei precedenti suoi album, mantenendo una rotta ben precisa a cavallo fra pop anni ’80 e elettronica soft. I risultati sono accattivanti, ma alcuni difetti (su tutti la lunghezza) intaccano il giudizio complessivo.

“Dedicated” arriva a tre anni dall’EP “E•MO•TION: Side B”, ideale continuazione di “E•MO•TION” (2015), il CD che aveva fatto entrare definitivamente la Jepsen nei cuori dei suoi numerosi fans, anche più dell’enorme successo del 2012 Call Me Maybe. Il disco era un concentrato di potenziali successi, che mescolavano abilmente melodie ballabili con testi che denotavano una sensibilità e un’abilità lirica fuori dal comune.

Come già anticipato, “Dedicated” contiene molte canzoni, ben 15, per una lunghezza complessiva di 49 minuti, che penalizzano il risultato complessivo: brani come la spagnoleggiante For Sure e I’ll Be Your Girl sarebbero discrete b-sides, ma in questo lavoro sono decisamente sotto la media. Peccato, perché brani innegabilmente belli come Real Love e la conclusiva Party For One annegano in questo oceano di canzoni a volte troppo zuccherose, altre troppo tirate.

Liricamente, Carly Rae Jepsen si conferma molto talentuosa, specialmente nel delineare i tratti principali di quegli amori sfuggenti, a volte non corrisposti altre destinati a infrangersi: ad esempio, in Happy Not Knowing si sentono le seguenti parole, “I’ll only go so far, I don’t have the energy to risk a broken heart when you’re already killing me”, un verso sincero e che riflette la fragilità della cantante. Altrove l’artista canadese è più sfrontata: in Want You In My Room canta “I’m like a lighthouse, I’m a reminder of where you’re goin’”.

Per concludere la nostra analisi, “Dedicated” non è assolutamente un cattivo CD pop; anzi, nel 2019 è probabilmente uno dei più riusciti, in un anno per ora avaro di soddisfazioni per il genere. Tuttavia, Carly Rae Jepsen ha sprecato una ghiotta opportunità: l’ispirazione era ai massimi livelli, peccato averla usata solo parzialmente, infarcendo il disco di brani superflui.

Voto finale: 7.

Mac DeMarco, “Here Comes The Cowboy”

mac

Il rocker più goffo del momento è tornato: il canadese Mac DeMarco, giunto al quarto album, rallenta ulteriormente i ritmi e allunga ancora di più il bordo, con canzoni a volte davvero bizzarre e risultati generalmente mediocri.

Rispetto al passato, DeMarco aveva già fatto intravedere delle evoluzioni nel precedente “This Old Dog” (2017): ritmi più compassati, testi più diretti e un’attenzione alla produzione maggiore. I risultati erano stati interessanti, ma forse non al livello del suo capolavoro “Salad Days” (2014). La vera svolta nella sua discografia sembra quindi essere l’EP “Another One” (2015), che per primo aveva fatto vedere il lato dolce di Mac, con delizie come The Way You’d Love Her.

Il vero problema di “Here Comes The Cowboy” tuttavia non è l’evoluzione dell’estetica del cantautore canadese: alla fine “This Old Dog” era entrato nella top 50 del 2017 di A-Rock senza problemi, a dimostrazione che i cambiamenti non sempre sono negativi, anzi. Le canzoni del nuovo lavoro però sono per lo più pigre: Mac suona quasi svogliato, i pochi esperimenti (come la funk Choo Choo) sono scadenti e la capacità di DeMarco di scrivere canzoni semplici ma accattivanti sembra esaurita.

È un sollievo allora sentirlo cantare “I hope you had your fun…all those days are over now” in Little Dogs March: forse un’idea di cambiamento più deciso si è fatta strada nella psiche contorta del nostro. Alla fine, comunque, un paio di brani buoni però ci sono: Nobody e On The Square, non a caso scelti per promuovere il CD, rientrano fra i migliori della carriera di Mac. Allo stesso tempo, la presenza di fiaschi totali come Choo Choo e la monotona title track rovina un LP altrimenti discreto.

In conclusione, “Here Comes The Cowboy” è ad ora il disco più debole nella prospera carriera di Mac DeMarco. La necessità di cambiare è evidente, per evitare una spirale potenzialmente drammatica nella qualità dei suoi futuri lavori.

Voto finale: 6.

Interpol, “A Fine Mess”

interpol

Dopo il buon “Marauder” (2018), il loro sesto album, gli Interpol sono tornati già all’opera. “A Fine Mess” (“un bel casino”) presenta 5 canzoni, probabilmente rimaste fuori da “Marauder”, in un EP di breve durata ma decisamente intenso.

Il gruppo statunitense è infatti tornato a calcare le ben note frontiere post-punk che ne hanno fatto la fortuna ma anche rappresentato una maledizione; gli Interpol non sono purtroppo mai riusciti a rinnovare il loro sound, rimanendo intrappolati nel successo di “Turn On The Bright Lights” (2002), il loro eccellente album d’esordio.

Il problema è che la formula inizia a essere consumata e i risultati, specialmente prendendo delle b-sides, sono mediocri. Se infatti sia “El Pintor” (2014) che “Marauder” erano riusciti in qualche modo a mantenere alta la bandiera degli Interpol, “A Fine Mess” è, come indica il titolo, un casino, ma decisamente non “bello”: canzoni senza direzione, mixate male e prodotte peggio.

C’è ben poco da salvare in quello che è, assieme all’omonimo “Interpol” del 2010, il peggior fiasco della carriera della band di Paul Banks e compagni. Peccato, perché pareva che gli Interpol avessero ritrovato linfa vitale negli ultimi anni.

Voto finale: 5.

I 50 migliori album del 2017 (50-26)

Anche il 2017 è ormai agli sgoccioli. Un anno ricco di ritorni, musicalmente parlando: alcuni annunciati (Fleet Foxes, Gorillaz), altri inattesi (Liam Gallagher, Fever Ray). In generale, il livello è stato soddisfacente, ma non eccezionale: lontani sono il 2010, il 2011 e il 2015, anni che davvero hanno rivoluzionato il panorama musicale contemporaneo. Tuttavia, molti cantanti e gruppi hanno dimostrato che la musica può ancora comunicare qualcosa, sia al pubblico che alla sfera privata di ognuno di noi.

Iniziamo la nostra analisi dei 50 migliori album dell’anno con le posizioni dalla 50 alla 26. Ricordiamo qua alcuni artisti che, pur meritevoli, non sono entrati nella lista: Jay-Z, Charlotte Gainsbourg, Protomartyr, SZA, Gorillaz e Alt-J purtroppo non sono riusciti a produrre dischi sufficientemente buoni per entrare nella lista di A-Rock. Altri artisti molto attesi, come Arcade Fire e Weezer, hanno semplicemente pubblicato brutti LP, come già scritto nell’articolo pubblicato pochi giorni fa relativo ai 5 album più deludenti del 2017.

Parlando dei generi più in vista nel 2017, senza dubbio pop e hip hop hanno continuato a mietere successi e a riempire le classifiche dei brani più ascoltati. In particolare, nel pop abbiamo avuto prove eccellenti (St. Vincent, Lorde) che contribuiranno anche nei prossimi anni a rivitalizzare il genere; d’altro canto, l’hip hop ha visto consolidarsi due giovani stelle del firmamento rap contemporaneo (Vince Staples e Kendrick Lamar). Invece, per l’elettronica non è stato un anno facile: pochi gli LP davvero riusciti, malgrado ritorni imprevedibili (Fever Ray). Da sottolineare poi il balzo in avanti del folk, che con i CD di Fleet Foxes e Mount Eerie ha creato due capolavori destinati ad influenzare il genere per anni. Per quanto riguarda il rock, il 2017 è stato un anno di transizione: accanto a graditi ritorni (Queens Of The Stone Age, Grizzly Bear, LCD Soundsystem), abbiamo avuto delusioni cocenti (Arcade Fire, Weezer, U2). Aspettiamo con ansia il 2018 per il comeback di gruppi amati come Vampire Weekend ed Arctic Monkeys. Infine, nota di merito per il ritorno di due grandi band shoegaze, Ride e Slowdive, entrambe presenti nella nostra lista. Ma andiamo con ordine.

50) Liam Gallagher, “As You Were”

(ROCK)

Lo avevamo inserito al primo posto nella lista dei CD più attesi del 2017: il primo sforzo solista del più giovane e scapestrato dei fratelli Gallagher. Dopo la non felicissima esperienza con i Beady Eye, aveva giurato che non avrebbe mai fatto un album solista, considerata roba da checche (parole sue, non mie). Invece, ha infranto il suo voto e ha realizzato questo “As You Were”: accantonati gli insulti al fratello e ad altri artisti (fra cui A$AP Rocky, U2 e Coldplay), Liam sembra una persona più matura; e questo non farà altro che bene alla sua vita e, probabilmente, alla sua carriera.

I singoli scelti per promuovere il CD erano sembrati molto interessanti: Wall Of Glass è un ottimo brano britpop, che ricorda molto gli Oasis dei primi tre LP; Chinatown e For What It’s Worth sono più intime ma non meno efficaci. Tutto stava a valutare le altre nove canzoni in scaletta. Beh, il nostro non ha deluso le attese: non parliamo di un disco capace di rinverdire i fasti di “Definitely Maybe” (1994) o “(What’s The Story) Morning Glory?” (1995), però Liam dimostra a tutti che il talento negli Oasis non era solo appannaggio di Noel e fa meglio dei due album prodotti con i Beady Eye, “Different Gear, Steel Speeding” (2011) e “BE” (2013). Peccato che “As You Were” perda efficacia nella sua parte centrale e finale, altrimenti il risultato finale sarebbe anche potuto essere migliore. La chiusura con la potente I’ve All I Need riscatta tutto.

Tra i pezzi migliori, abbiamo la già citata Wall Of Glass; belle anche Bold e Greedy Soul. Convincono meno le ballate, fin troppo dolci e smielate: tranne la riuscita Universal Gleam, per esempio, Paper Crown e When I’m In Need sono i punti deboli del CD. In generale, fa piacere tornare agli anni ’90, con la energia e irriverenza che ci aspetteremmo da un Gallagher ma contemporaneamente una maturità prima lontana da Liam. Fanno riflettere i testi di For What It’s Worth, dove si scusa con tutti coloro che ha offeso; e di Chinatown, dedicata alle vittime dell’attentato terroristico di Londra.

In conclusione, questo album stupirà molti: chi pensava che sarebbe venuto fuori un fiasco assoluto e chi pensava il talento fosse solo nelle mani di Noel capirà che, senza la voce e il carisma di Liam, la favola degli Oasis non sarebbe mai stata possibile.

49) Priests, “Nothing Feels Natural”

(PUNK)

La band punk statunitense dei Priests, un quartetto per metà maschile e per metà femminile, regala un disco di rara intensità, di protesta politica e insieme molto ambizioso. I Priests, infatti, non si limitano a urlare i loro pensieri senza un costrutto; recuperando molta della scena post punk anni ’80, infatti, Katie Alice Greer e compagnia comunicano tutta la frustrazione provata per l’attuale situazione del mondo.

I pilastri su cui si fonda questo veloce CD, “Nothing Feels Natural” (già il titolo dice tutto), sono chiari: gli U2 delle origini, i Joy Division e gli Interpol sono chiari riferimenti. Non manca un veloce passaggio à la Deerhunter, nell’ammaliante (sì, è il titolo del brano). Le canzoni più belle dell’album sono l’iniziale Appropriate, concentrato di tutto il punk più recente nello spazio di appena 5 minuti, pezzo davvero clamoroso; la ossessiva No Big Bang; e la conclusiva Suck, che ricorda molto i Rapture di “Echoes”. Da non ignorare anche la potente title track.

Insomma, niente di innovativo o indimenticabile, ma dischi come questo “Nothing Feels Natural” ricordano che il punk ha ancora un’utilità, soprattutto in tempi grami come quelli attuali. La Greer si candida, infine, a diventare una voce punk femminile molto significativa, al pari delle Savages e delle Sleater-Kinney.

48) Vagabon, “Infinite Worlds”

(ROCK)

Vagabon è il nome d’arte della newyorkese di origine camerunense Lætitia Tamko. Il suo esordio, “Infinite Worlds”, può a pieno diritto essere annoverato fra i migliori album rock dell’anno. La Tamko riesce infatti a fondere perfettamente un indie rock di chiara ascendenza strokesiana con un dream pop molto ammaliante, di cui è simbolo la strumentale Mal A’ L’Aise. Le sole 8 tracce del disco impediscono un giudizio completo, poiché sarebbe piaciuto vedere pienamente in gioco il potenziale della giovane artista. Tuttavia, per quello che abbiamo sentito, possiamo dire che Vagabon ha talento da vendere. Riuscire a creare un disco coerente mescolando Strokes, Cocteau Twins e Bloc Party non era facile.

Tra le tracce migliori di questo “Infinite Worlds” abbiamo le iniziali The Embers e Fear & Force; la già ricordata Mal A’ L’Aise e Cold Apartment, tuttavia, non sono da meno. Insomma, un esordio coi fiocchi da parte di un’artista davvero promettente.

Jay Som e Vagabon, dunque, hanno rivitalizzato generi come indie rock e dream pop che sembravano su un binario morto. Assieme ai Car Seat Headrest, il cui secondo CD “Teens Of Denial” del 2016 ha fatto gridare al miracolo, sono fra le migliori speranze del rock contemporaneo.

47) Jay Som, “Everybody Works”

(ROCK)

A proposito di Jay Som, questo “Everybody Works” è già il secondo album della giovane artista Melina Duterte. Il primo, “Turn Into” (2016), era passato nel sostanziale anonimato malgrado le qualità che lasciava intuire. Era già formata infatti l’estetica della Duterte: un indie rock scanzonato e influenzato dal dream pop à la Arctic Monkeys di “Suck It And See”.

“Everybody Works” consolida questo sound, migliorando la produzione e la cura dei dettagli, facendo del CD un lavoro imperdibile per gli amanti dell’indie anni ’00. Già da qui capiamo che la giovane compositrice non propone nulla di clamorosamente innovativo, ma la raffinatezza con cui si ispira ad artisti molto più celebri (Arctic Monkeys, Beach House) senza cadere nel plagio è ammirevole.

Degne di nota sono The Bus Song, Baybee e 1 Billion Dogs, dove addirittura si flirta con lo shoegaze; ma nessuna delle 10 tracce del disco è fuori posto. Insomma, un LP di ottima fattura e di grande fascino: quando il talento di Melina Duterte sboccerà definitivamente, ne sentiremo delle belle.

46) Mac DeMarco, “This Old Dog”

(POP – ROCK)

Il terzo album del talentuoso musicista canadese Mac DeMarco, “This Old Dog”, prosegue la lenta evoluzione che ha contraddistinto la sua breve ma prolifica carriera. Qui Mac suona tutti gli strumenti e canta in tutte le canzoni, curando anche la produzione: insomma, un egocentrismo notevole. Non è un caso, probabilmente, che anche i testi riflettano questo atteggiamento: nella ipnotica My Old Man troviamo riferimenti al tormentato rapporto con suo padre, Sister è dedicata alla sorella minore.

Non bisogna però pensare che nella vita di tutti i giorni DeMarco sia un maniaco à la Kanye West, un altro che di egocentrismo se ne intende. Anzi, vale il contrario: lui si dà sempre l’apparenza del ragazzo appena alzato dal letto, con l’aria trasandata e mezza addormentata. Contemporaneamente, però, egli è anche una persona fragile e insicura: lo dimostrano i testi presenti soprattutto nei precedenti lavori, come “2” (2012) e il bel “Salad Days” (2014).

A colpire è l’evoluzione stilistica del giovane Mac: se nei precedenti CD era maggiormente in evidenza l’aspetto indie rock (spaziando da Two Door Cinema Club a Ariel Pink e Real Estate, tanto per capirsi), in “This Old Dog” il pop è preponderante. Sia chiaro: non parliamo di cambiamenti radicali, come del resto era difficile aspettarsi da una persona “calma” e assorta come Mac. Tuttavia, questo è il primo LP a firma Mac DeMarco dove la produzione è brillante e la cura dei dettagli massima: ai fan della prima ora potrà non piacere troppo la perdita dell’ingenuità e (finta) noncuranza dei primi lavori, ma le persone cambiano con il passare del tempo e Mac sembra aver trovato la definitiva maturità, personale ed artistica.

Musicalmente parlando, “This Old Dog” presenta un Mac DeMarco molto simile ai lavori solisti di John Lennon e ad Harry Nilsson: insomma, due padri della musica moderna. Proprio per questo il CD non brilla per innovazione, ma ciò non va a discapito della qualità complessiva: prova ne sono la bella title track, My Old Man, Baby You’re Out e A Wolf Who Wears Sheeps’ Clothes. Strana ma riuscita anche On The Level, che flirta con l’elettronica soft. In generale, le canzoni sono brevi, addirittura Sister dura poco più di un minuto. Tuttavia, la particolarità di DeMarco è di saper sempre cambiare le carte in tavola: la lunghissima Moonlight On The River (più di 7 minuti) è l’ideale chiusura del lavoro.

In conclusione, “This Old Dog” è un interessante passo in avanti nella discografia di Mac DeMarco, un artista di cui non sappiamo mai cosa pensare: ci fa o ci è? Avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure no? Il giudizio è sospeso: “This Old Dog” rappresenta certamente il lavoro maggiormente personale e intimista del cantante canadese. Non vediamo l’ora di riascoltarlo in nuove tracce per dare un giudizio definitivo.

45) Elbow, “Little Fictions”

(ROCK)

Giunti al settimo lavoro di inediti, gli Elbow continuano il loro pregevole percorso artistico. Al ventesimo anno di attività (!), sono poche le band che possono vantare la loro longevità e, contemporaneamente, la medesima volontà di non adagiarsi mai su un rock prevedibile. “Little Fictions” rimanda al più bel CD del gruppo, quel “The Seldom Seen Kid” (2008) vincitore del Mercury Music Prize; tuttavia, Garvey e co. non cadono mai nell’ovvietà. Pur somigliando a tratti a pezzi da novanta del rock contemporaneo come Arcade Fire e Interpol (soprattutto in All Disco e Trust The Sun), la band mantiene una sua identità, fatta di ritmo pulsante, testi di solito riferiti all’amore e canzoni dense, ma molto riuscite, musicalmente e vocalmente. Ne sono esempio Magnificent (She Says) e la conclusiva Kindling; più prevedibile K2, ma è un peccato veniale in un album altrimenti eccellente.

44) Spoon, “Hot Thoughts”

(ROCK)

Il nono album dei veterani dell’indie rock statunitense mantiene alto il livello dei precedenti lavori di Britt Daniel & co., cercando contemporaneamente di instillare nuove sonorità nel tipico genere della band. Infatti, accanto al tradizionale indie rock, che ha fatto le fortune del gruppo anche grazie a stupendi lavori come “Kill The Moonlight” (2002), abbiamo dei passaggi di funk ed elettronica che rendono questo “Hot Thoughts” molto intrigante.

Non sono molte le band che riescono ad operare significativi cambiamenti nel loro sound 24 anni dopo la loro fondazione (gli Spoon sono infatti nati nel 1993) e dopo otto album di successo: la caratteristica peculiare della band texana è che hanno sempre sperimentato nuovi colori e ritmi nel loro sound, basandosi però su una stretta aderenza al mondo del rock. In generale, dunque, non c’è che da essere soddisfatti per un LP così variegato e riuscito: ecco, diciamo che se gli Strokes tornassero ai livelli dei loro primi lavori cercando di mantenere il percorso più sperimentale intrapreso dopo “Angles”, il loro CD suonerebbe così.

Tra i brani degni di nota abbiamo la title track, WhisperI’lllistentohearit e la super funk First Caress. Molto strana la quasi solo strumentale Pink Up, molto lunga ed elettronica, decisamente un pezzo poco spooniano; più tradizionale invece Can I Sit Next To You. La seconda parte perde leggermente vigore, ma i risultati sono comunque buoni.

In conclusione, “Hot Thoughts” si aggiunge meritatamente ad una discografia già eccellente: gli Spoon restano ancora un gruppo fondamentale per gli amanti dell’indie.

43) Paramore, “After Laughter”

(POP – ROCK)

Il quarto album dei Paramore è una rinfrescata necessaria al loro sound. La band capitanata da Hayley Williams, infatti, non si limita a percorrere i sentieri pop-rock delle origini, ma cerca di rifarsi al pop anni ’80 tipico di Police e Talking Heads.

“After Laughter” è il quinto album a firma Paramore, il primo dopo l’eponimo “Paramore” del 2013: se precedentemente il gruppo era famoso come alfiere della musica emo, i membri hanno sempre cercato di innovare, aprendo al funk e al pop-rock, sempre però nei sentieri ben precisi della musica emo. Tuttavia, rispetto ai contemporanei (per esempio, Tokyo Hotel e Brand New), i Paramore hanno mantenuto un livello di scrittura e profondità testuale ben maggiore: non solo ansie giovanili, ma anche temi delicati come il suicidio e la solitudine.

“After Laughter” era quindi atteso con trepidazione: Williams & co. avrebbero mantenuto il buon livello dei precedenti lavori? La risposta è un sì convinto: malgrado i numerosi avvicendamenti nella formazione, tra cui l’abbandono del bassista Jeremy Davis e il ritorno del primo batterista Zac Farro, dopo sei anni di pausa dalla band, la formula dei Paramore si è arricchita, come già ricordato, di chiari riferimenti al pop anni ’80 e ai complessi simbolo di quel periodo.

Un’operazione molto simile era stata effettuata dai The 1975 l’anno scorso, con ambizione e rischio ancora più grandi; i Paramore riescono a non cadere nel tranello della troppa voglia di fare e creano un prodotto compatto e godibile, una conferma del loro talento e versatilità.

Tra i brani migliori abbiamo Rose-Colored Boy e Told You So, che rendono la parte iniziale del CD davvero interessante; da ricordare anche Fake Happy, Pool e Grudges, che rievocano da vicino i Police e i Talking Heads al loro apice. Meno riuscite invece le ballate, come Forgiveness e la conclusiva Tell Me How.

In generale, va apprezzata la voglia di sperimentare nuove sonorità di un gruppo che avrebbe potuto tranquillamente continuare a far piangere adolescenti fragili suonando stanche e monotone canzoni emo, ma che invece non perde la voglia di sorprendere il proprio pubblico.

42) Big Thief, “Capacity”

(ROCK)

I Big Thief sono un complesso americano che suona un indie rock intimista come poche volte si è sentito, sia musicalmente che come tematiche affrontate. Il loro primo album, “Masterpiece” del 2016 (viva la modestia), era un buon connubio di pop e rock; in “Capacity” notiamo un affinamento della formula che li ha fatti conoscere.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio la bellissima voce di Adrianne Lenker, evocativa e fragile come solo le migliori voci femminili sanno essere: in Watering ne abbiamo un chiaro esempio. Le strumentazioni non sono né innovative né radicalmente differenti da “Masterpiece”, tuttavia il risultato complessivo è più convincente. Abbiamo infatti ottimi brani come l’intimista Pretty Things, Shark Smile (che parte quasi punk) e il nucleo del CD, la bellissima Mythological Beauty. Da non trascurare anche la parte finale del disco, con Haley e Mary come highlights.

In conclusione, “Capacity” sicuramente amplierà la platea di fans dei Big Thief, un premio meritato per un gruppo certo non rivoluzionario, ma che sa usare gli ingredienti dell’indie rock più classico per creare brani mai banali.

41) Ride, “Weather Diaries”

(ROCK)

Il 2017 ha segnato il ritorno dello shoegaze sulla scena rock. Infatti, sia Slowdive che Ride sono tornati in attività, producendo nuovi CD sulla falsa riga di quelli che, a cavallo fra anni ’80 e ’90, avevano fatto pensare che una nuova stagione fosse possibile per il rock alternativo. In effetti, grunge e shoegaze sono state le ultime due grandi correnti di cambiamento nel rock.

“Weather Diaries” rappresenta perciò un gradito ritorno, che non intacca l’eredità della band britannica, in particolare quella dei due primi lavori, i bellissimi “Nowhere” (1990) e “Going Blank Again” (1992). Molto aveva fatto discutere la svolta verso sonorità meno difficili dello shoegaze nei due successivi lavori dei Ride, i poco riusciti “Carnival Of Light” (1994) e “Tarantula” (1996). Non è un caso che, dopo “Tarantula”, la band si sia sciolta. “Weather Diaries” cerca di recuperare le antiche sonorità, senza dimenticare però le parti migliori dei due tanto discussi ultimi CD a firma Ride. E i risultati sono davvero interessanti.

Sia chiaro: non parliamo di un LP innovativo o di un radicale cambiamento nel sound dei Ride, tuttavia è sempre piacevole ascoltare una band che sembrava appartenere al firmamento del rock tornare sui suoi passi senza aver perso lo smalto dei tempi migliori. Infatti, tranne un paio di leggeri passi falsi, “Weather Diaries” entra senza demeriti nell’eredità che i Ride lasceranno alla musica.

I brani migliori sono soprattutto nella parte iniziale: molto bello il duo rappresentato da Lannoy Point e Charm Assault. All I Want sarebbe buona, ma l’elettronica presente nel pezzo lo rovina parzialmente. Altre belle canzoni sono l’eterea Home Is A Feeling, la potente Cali e Impermanence. Tra i passi falsi abbiamo la title track, fin troppo monotona, e la strumentale Lateral Alice.

A questo punto possiamo dirlo: tutte le band più rappresentative dello shoegaze sono tornate a produrre musica nel nuovo millennio. Infatti, accanto a Slowdive e Ride, non scordiamoci che i My Bloody Valentine sono tornati con “m b v” nel 2013 e i Lush con l’EP “Blind Spot” nel 2016. Insomma, un trionfo per gli amanti del rock alternativo e, in generale, per chi apprezza la buona musica.

40) (Sandy) Alex G, “Rocket”

(ROCK)

Classe 1993, già 8 album alle spalle: se non parliamo di un prodigio, poco ci manca. Alexander Giannascoli, cantante di chiara origine italiana e con nome d’arte Alex G, da poco cambiato in (Sandy) Alex G, ricorda a tutti che la prolificità non è sempre sinonimo di lavori abborracciati: ne sia esempio anche l’instancabile Ty Segall. “Rocket”, tuttavia, è il primo album di Alex con l’etichetta Domino, fra le più importanti in ambito indie rock; e infatti il CD ha avuto maggior risonanza dei precedenti suoi LP.

“Rocket” colpisce soprattutto per la capacità di evocare tempi lontani senza sembrare un plagio di autori più quotati: prendendo spunto da autori come il compianto Elliott Smith e Wilco, con una spruzzata di Pavement, Alex G propone una summa dell’indie anni ’90-’00, colpendo per varietà stilistica e apparente semplicità di scrittura. Niente di clamorosamente innovativo, dunque, ma certo un lavoro molto interessante, da ascoltare per tutti gli amanti di quegli anni a cavallo di due secoli.

Parlando strettamente di musica, abbiamo ottime canzoni, soprattutto nella prima parte: il poker iniziale di canzoni, formato da Poison Root, Proud, County e Bobby, è per esempio molto riuscito, un po’ lo-fi, un po’ country e il restante terzo indie; colpisce poi la violenza quasi hard rock di Brick, mentre la strumentale Horse delude leggermente.

Nella seconda parte abbiamo invece come highlight la dolce Alina, ma anche Powerful Man non è trascurabile. In generale, a parte qualche passo falso, “Rocket” si mantiene su alti livelli, facendo sperare che il mondo dell’indie rock abbia trovato un nuovo, grande interprete in Alexander Giannascoli. L’età e il talento sono dalla sua parte: lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.

39) Mount Kimbie, “Love What Survives”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il duo formato da Dominic Maker e Kai Campos arriva ad un punto di svolta in una carriera già interessante: per la prima volta i Mount Kimbie inseriscono il rock nelle loro creazioni, creando un mix fra elettronica, funk e rock molto affascinante e, in gran parte, riuscito.

L’apertura è già radicalmente nuova per coloro che erano abituati ai Mount Kimbie come ad un duo dubstep: questo terzo album della loro produzione inizia infatti con Four Years And One Day e Blue Train Lines (che conta la collaborazione di King Krule), due brani fortemente influenzati dal rock, entrambi riusciti. I vecchi Mount Kimbie tornano in pezzi come You Look Certain (I’m Not Sure), altro highlight del CD, e la bella Delta, con base ritmica molto marcata e sintetizzatori ipnotici. Tra gli ospiti abbiamo, oltre a King Krule, anche altri artisti celebri: James Blake compare addirittura in due canzoni, We Go Home Together e How We Got By; ma contiamo anche Micachu (in Marylin) e Andrea Balency, vocalist dei Mount Kimbie in tour, che canta nella già citata You Look Certain (I’m Not Sure). Se We Go Home Together convince meno, la seconda collaborazione con James Blake, la conclusiva How We Got By, è più riuscita: il piano di James è come sempre sontuoso e si sposa benissimo con il mood del brano.

In generale, possiamo dire che i Mount Kimbie hanno operato un cambio molto importante nel loro tipico sound in “Love What Survives”, che sembra promettere molto bene per il futuro artistico del duo: è come sentire Depeche Mode e LCD Soundsystem fusi assieme, non una cosa banale quindi. Speriamo che i risultati possano ancora migliorare; ad ogni modo, questo LP merita pienamente di entrare nella lista dei 50 migliori dischi del 2017.

38) Grizzly Bear, “Painted Ruins”

(ROCK)

I Grizzly Bear venivano da due album di grande successo, sia con la critica che con il pubblico: “Veckatimest” (2009) e “Shields” (2012) avevano delineato un genere a metà fra rock e folk, con accenni di sperimentalismo e, contemporaneamente, di pop (ricordate Two Weeks?). Insomma, le aspettative per “Painted Ruins” erano molto elevate: ripetendosi avrebbero rischiato di non replicare la cristallina bellezza dei due lavori che hanno dato loro il successo, ma anche cambiare avrebbe comportato rischi notevoli.

I Grizzly Bear hanno optato per una soluzione di compromesso: nella lunga assenza dalle scene (ben cinque anni), hanno affinato il loro caratteristico genere e, allo stesso tempo, inserito delle interessanti sonorità elettroniche, che rendono il nuovo LP molto intrigante. Possiamo anzi dire che “Painted Ruins” è il CD più elettronico a firma Grizzly Bear; prova ne siano i due singoli Mourning Sound e Three Rings, tra i migliori brani del disco.

Tuttavia, la seconda parte del lavoro riporta alla mente i passati sforzi creativi del gruppo: per esempio, il rock di Cut-Out ricorda soprattutto “Veckatimest” e “Yellow House”, mentre l’intricata Glass Hillside (non bellissima) è più assimilabile alle atmosfere di “Shields”. Menzione finale per l’ottima chiusura del CD: come sempre, i Grizzly Bear mantengono il meglio alla fine. Sky Took Hold, in effetti, è a pieno diritto tra i migliori pezzi di “Painted Ruins”: una canzone epica al punto giusto, gran finale di un LP gradevole anche se non perfetto.

Purtroppo, infatti, Ed Droste e Daniel Rossen (menti e voci della band), forse anche a causa dello scarso dialogo intercorso nelle sessions di registrazione di “Painted Ruins”, dove si inviavano le loro bozze tramite mail, non raggiungono i miracolosi risultati di “Shields”: a parte la già menzionata Glass Hillside, non convince pienamente neppure Systole, ma sono peccati veniali.

Non bisogna credere, infatti, che il CD sia un fiasco; anzi, “Painted Ruins” entra di diritto fra i migliori CD dell’anno, magari non nei primi 10, ma certamente nei primi 50. Non siamo ai livelli di “Shields”, vero capolavoro del gruppo, ma certamente “Yellow House” è alla portata di “Painted Ruins”. Tutto dipende da cosa ci aspettavamo dai Grizzly Bear: non sono mai stati fermi nelle loro posizioni, quindi aspettarsi una copia dei passati dischi sarebbe stato un’illusione. Un po’ di elettronica non ha fatto altro che bene alla band: vedremo dove li porterà questo nuovo percorso, ma abbiamo piena fiducia nelle capacità dei Grizzly Bear di reinventarsi costantemente senza perdere lo smalto e il gusto per la sperimentazione che li hanno sempre contraddistinti.

37) Queens Of The Stone Age, “Villains”

(ROCK)

Il settimo album della gloriosa band simbolo dell’hard rock anni ’00 era atteso con trepidazione da fans e critica: Josh Homme e compagni avrebbero cambiato ancora una volta la loro ricetta sonora, dopo la rivoluzione pop di “…Like Clockwork” (2013)? I QOTSA sono stati, ancora una volta, molto furbi ed abili: non hanno stravolto la base ritmica trovata quattro anni fa; tuttavia, con poche ma azzeccate innovazioni hanno mantenuto fresco il loro sound, del resto sempre al passo con i tempi.

Partiamo, quindi: “Villains” arriva quattro anni dopo “…Like Clockwork”, album fondamentale nella discografia dei Queens Of The Stone Age; non il loro migliore (inarrivabili in tal senso “Rated R” e “Songs For The Deaf”), tuttavia aveva lasciato intravedere il lato più melodico della band, con canzoni quasi pop come la title track e Kalopsia. La presenza di ospiti di spessore, da Alex Turner a Mark Lanegan, aveva poi arricchito la formula vincente del disco. Pertanto, il metal delle origini è ormai abbandonato: come sarebbe suonato il settimo album di un gruppo così rinnovato musicalmente?

In “Villains” possiamo parlare di funk-rock: le prime due, bellissime tracce del CD, Feet Don’t Fail Me e il singolo The Way We Used To Do, sono la grande intro al disco. Le sole 9 canzoni farebbero pensare ad un lavoro pigro del gruppo; in realtà, molte superano i 5 minuti di durata e le strutture delle melodie sono spesso complesse e intricate. La durata complessiva, non a caso, raggiunge i 48 minuti.

Gli highlights sono almeno quattro: oltre alle già citate Feet Don’t Fail Me e The Way We Used To Do, abbiamo il secondo singolo The Evil Has Landed e la più melodica Fortress. Meno bella la frenetica Head Like A Haunted House, che è anche la più breve traccia del CD. Non trascurabile, infine, la conclusiva Villains Of Circumstance. I testi fanno spesso riferimento al diavolo e alla sua presenza nel mondo: Homme e co. si rendono conto che viviamo in tempi difficili e, sebbene non stiamo parlando di Bob Dylan o Leonard Cohen, i testi riflettono ciò con ironia e arguzia.

In conclusione, i QOTSA si confermano band fondamentale dello scenario rock mondiale: nonostante la mancanza di collaborazioni eccellenti che avevano contraddistinto i precedenti LP del complesso statunitense, i risultati sono comunque molto buoni. Lavorare con Iggy Pop ha ampliato ancora di più gli orizzonti musicali di Josh Homme, che si conferma grande artista rock. Le “regine dell’età della pietra” sono entrate definitivamente nell’età moderna, con un hard rock funkeggiante e molto ballabile.

36) Ty Segall, “Ty Segall”

(ROCK)

Registrato con Steve Albini, uno dei migliori produttori su piazza, questo “Ty Segall”, nono album dell’omonimo multistrumentista americano, è un altro tassello prezioso in una sempre più sorprendente carriera. Ty ha sempre perseguito un genere a metà fra il rock anni ’70, vicino soprattutto a Rolling Stones e Velvet Underground, e la scena indie anni ’90-‘2000, su tutti Strokes e Pavement. Il CD è un’ulteriore affermazione di questa estetica: le prime due canzoni, Break A Guitar e Warm Hands (Freedom Returned), sono davvero riuscite. In particolare Warm Hands (Freedom Returned) è un fantastico mix di hard rock, garage rock e punk. Una sorta di suite rock, tremendamente ambiziosa ma davvero bellissima. Il resto dell’album scivola via gradevolmente, ma non raggiunge i picchi di Warm Hands: Ty ha infatti posto nella seconda parte del suo nuovo LP alcune delle canzoni pop da lui scritte più intimiste di sempre, ad esempio Talkin’ e Orange Color Queen.

In generale, dunque, niente di clamorosamente rivoluzionario o innovativo per il rock, ma Ty Segall si conferma ancora una volta come una delle voci più autorevoli del settore. Ah, dimenticavo: ha appena 30 anni… Che il meglio debba ancora arrivare?

35) Wolf Alice, “Visions Of A Life”

(ROCK)

Il secondo album del giovane gruppo inglese dimostra ancora una volta il loro immenso talento. “Visions Of A Life” cerca di innestare qualche novità nel sound della band: se l’esordio “My Love Is Cool” (2015) entrò nella top 5 dei più bei album del 2015 di A-Rock era perché sapeva fondere benissimo il rock anni ’90 di Nirvana e Verve con i più contemporanei Arctic Monkeys e Libertines. Nel nuovo LP, Ellie Rowsell e compagni introducono anche tratti shoegaze nel loro sound, ma ricordano in certi punti anche il pop degli M83.

L’inizio del CD è ottimo: Heavenward è un ottimo brano shoegaze, che sembra composto da My Bloody Valentine o Slowdive; Beautifully Unconventional è intrigante come i migliori momenti di “My Love Is Cool”. Avrete notato quanti riferimenti a band del passato ci sono in “Visions Of A Life”: il tratto che sembrava più caratteristico dei Wolf Alice, un folk-rock lento o duro a seconda delle circostanze, è un po’ in secondo piano in questo secondo album. Solo nel finale, con Sadboy e St. Purple & Green, si torna alle sognanti atmosfere di “My Love Is Cool”. Tuttavia, i risultati restano comunque gradevoli: le già ricordate Heavenward e Beautifully Unconventional sono belle, così come Sky Musings, forse il vero highlight, con la voce della Rowsell al top. Non trascurabile anche la conclusiva title track, un’epica suite da oltre 7 minuti.

In conclusione, non stiamo parlando del disco che riscrive la storia del rock inglese, come alcune pubblicazioni d’Oltremanica sembrano pensare (vero, NME?). Nondimeno, una band del talento e dell’eclettismo dei Wolf Alice non è rinvenibile in America o, comunque, nel resto del continente europeo. Attendiamo con ansia la terza prova del complesso britannico, per dare una valutazione definitiva dei Wolf Alice.

34) Sampha, “Process”

(R&B – POP – SOUL)

Il 29enne Sampha Sisay, conosciuto con il nome d’arte Sampha, ha già alle spalle due EP e numerose collaborazioni con importanti artisti della scena black internazionale: Drake, Solange Knowles e Kanye West tra gli altri. Il suo primo LP, “Process”, tratta il soul in maniera molto contemporanea: vale a dire infarcendolo di elettronica e un pizzico di R&B. I risultati sono magnifici nei suoi tratti migliori: il duo rappresentato da Plastic 100°C e Blood On Me è davvero riuscito, così come la conclusiva What Shouldn’t I Be?. La canzone più introspettiva è  (No One Knows Me) Like The Piano, in cui ricorda l’infanzia e il ruolo che il pianoforte ha avuto nella sua formazione.

I riferimenti musicali sono molto alti: James Blake su tutti, ma anche tracce di The Weeknd e Maxwell compaiono qua e là. Soprattutto Under ricorda il modo di cantare del migliore The Weeknd. In conclusione, dunque, Sampha non inventa nulla, ma tratta il meglio dei grandi maestri citati ottenendo un risultato molto buono, 40 minuti passati ascoltando 10 canzoni mai banali o prevedibili. Insieme a FKA Twigs, il giovane Sampha si candida ad essere un importante esponente della scena black britannica, ma non solo.

33) Lana Del Rey, “Lust For Life”

(POP)

Il quinto album della popstar Lana Del Rey, “Lust For Life”, si apre subito con una novità: nella cover Lana sorride, lei che fino a qualche tempo fa era presa in giro per i suoi testi tragici e la tristezza che le sue canzoni emanavano. Tuttavia, non si pensi che “Lust For Life” sia un CD allegro: cadremmo in un errore madornale. Lana mantiene il caratteristico spleen, cercando però di ampliare la propria palette sonora e ingaggiando ospiti di tutto rispetto.

Tra i singoli utilizzati per promuovere il disco, infatti, troviamo delle collaborazioni con The Weeknd (la bella title track) e con A$AP Rocky (le meno riuscite Summer Bummer e Groupie Love). Oltre a questi due artisti abbiamo dei featuring anche con il figlio di John Lennon, Sean, Playboi Carti e Stevie Nicks. È da sottolineare come, a parte la title track, queste tracce siano tra le più deboli dell’album: sia le due con A$AP Rocky che Tomorrow Never Came con Sean Lennon Ono (chiaro riferimento alla celeberrima Tomorrow Never Knows dei Beatles) che Beautiful People Beautiful Problems con Stevie Nicks non convincono proprio. Meglio la Lana solista, quindi.

Ne abbiamo la dimostrazione nelle belle Love, Cherry e Get Free, che chiude il disco quasi con accenni di dream pop. Una caratteristica di “Lust For Life”, infatti, è che Lana amplia notevolmente il numero di generi affrontati: dal pop dolente all’R&B, fino al country e appunto al dream pop. Tutto questo fa molto ben sperare per il futuro della carriera della signorina Elizabeth Woolridge Grant, vero nome di Lana: se saprà fondere adeguatamente tutti questi ingredienti, il prossimo lavoro potrebbe davvero ridefinire la musica pop, un po’ quello che Lorde ha fatto quest’anno con l’eccellente “Melodrama”.

Menzione finale per la bella voce di Lana, asset fondamentale della popstar, sfruttata a dovere lungo tutto il CD e specialmente in Heroin e God Bless America – And All The Beautiful Women In It, non a caso fra le migliori canzoni di “Lust For Life”. È una voce che sa trasmettere sofferenza e sogno, che si sposa benissimo con il pop raffinato e melanconico di Lana. La collaborazione con Abel Tesfaye aka The Weeknd è un’altra prova di tutto ciò.

In conclusione, “Lust For Life” è il più bel CD nella carriera di Lana Del Rey: un’artista costantemente cresciuta, sia artisticamente che come seguito popolare. Peccato che “Lust For Life” sia composto da 16 canzoni per 72 minuti di durata: con due-tre canzoni e dieci minuti di riempitivo in meno avremmo avuto un mezzo capolavoro. Così il disco è “solamente” buono, ma il talento di Lana ci fa ben sperare per il prossimo futuro.

32) Courtney Barnett & Kurt Vile, “Lotta Sea Lice”

(ROCK)

L’album collaborativo tra due degli artisti indie rock più amati degli ultimi anni non poteva che essere un successo. Courtney Barnett e Kurt Vile, del resto, sono anche due spiriti apparentemente affini: spesso associati al mondo degli “slacker”, cioè di quelle persone scansafatiche che non lavorano ma si dilettano ad analizzare la realtà con occhio disincantato e ironico, hanno entrambi caratteri riservati e attenti al mondo che li circonda. “Lotta Sea Lice” trova le sue radici, come del resto era prevedibile, negli stili musicali dei due: il rock-country di Kurt e l’indie più sanguigno di Courtney si fondono spesso perfettamente, con risultati complessivi buonissimi.

L’inizio dell’album è incantevole: la lunga Over Everything è un trionfo, fra i migliori pezzi del 2017 e a pieno diritto fra gli highlights delle produzioni di entrambi gli artisti. Le 9 canzoni fanno pensare ad un album pigro, in realtà ogni pezzo è perfettamente incastrato nel quadro generale e, pur non replicando la bellezza di Over Everything, non guasta il CD nel complesso. Abbiamo infatti la più tranquilla Let It Go e la “barnettiana” Fear Is Like A Forest; poi viene Outta The Woodwork, che potrebbe stare benissimo in un disco di Kurt Vile. Molto carina anche Continental Breakfast.

In generale, colpisce l’intesa fra i due: le voci si sovrappongono continuamente, creando una sinergia notevole fra i due cantanti e la melodia sottostante. Le uniche parziali delusioni vengono da Outta The Woodwork, troppo lenta, e On Script, ma non pregiudicano un voto più che positivo al disco.

In conclusione, questo “Lotta Sea Lice” si inserisce perfettamente nelle discografie di Kurt Vile e Courtney Barnett: chissà che non possa essere replicato in futuro. Le basi di partenza per un altro ottimo LP ci sono tutte.

31) Vince Staples, “Big Fish Theory”

(HIP HOP)

Il secondo, attesissimo album del rapper Vince Staples lo trova ad un bivio fondamentale nella sua fino ad ora fulminante carriera: mentre nel precedente CD, l’acclamato “Summertime ‘06” (2015), Vince presentava un rap meditativo e più calmo di molti suoi colleghi, già nell’EP dello scorso anno, “Prima Donna”, avevamo intravisto un cambiamento in atto: ritmi più cupi, temi trattati molto difficili (su tutti il suicidio, basta sentirsi la title track).

“Big Fish Theory” fonde fra loro elettronica e hip hop in un modo davvero unico: Staples, infatti, cerca di adattare i beat spesso ossessivi della dance al suo flow, come sempre fluviale e mai banale. I risultati non sono perfetti, ma senza dubbio buoni: spiccano in particolare le grandi collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Kendrick Lamar, e i numerosi produttori di grido coinvolti, come Flume e Justin Vernon.

I temi trattati sono, ancora una volta, ancorati alla morte e al suicidio: in più interviste Vince Staples ha confermato di essere stato sconvolto dalla morte di Amy Winehouse e dal trattamento da lei ricevuto dai media mentre era ancora in vita. Non è un caso che il rapper, nella vita quotidiana, mantenga un profilo molto basso, lontano dai paparazzi e dagli eccessi: anni luce lontano da Kanye West, insomma. L’omaggio ad Amy arriva in Alyssa Interlude, dove viene proposta un’intervista da lei rilasciata nel 2006, perfettamente funzionale al brano e all’intero disco.

Tra le canzoni migliori abbiamo Big Fish, 745 e Yeah Right, la collaborazione con Kendrick: possiamo dire che sono a confronto i due migliori rapper della loro generazione. Tra i difetti del disco abbiamo l’eccessiva brevità (dura appena 36 minuti) e la frammentazione, che non ne rende facile l’ascolto. Tuttavia, i meriti del CD sono molti: in un tweet poi cancellato, Staples aveva proclamato spavaldo che “Big Fish Theory” sarebbe stato un disco futuristico. Beh, non sarà un LP superbo, ma certamente rappresenta un passo da gigante nella discografia di Vince Staples e un’interessante fusione fra elettronica ed hip hop.

30) The xx, “I See You”

(ELETTRONICA – POP)

Il terzo lavoro del trio inglese si è fatto attendere per ben cinque anni: risale infatti al 2012 “Coexist”. Tutti iniziarono ad apprezzare gli xx fin dall’esordio, l’eponimo CD del 2009 che conteneva le hit Intro, Basic Space e Crystalised. Questo “I See You” arriva a due anni dal primo LP solista di Jamie xx, il magnifico “In Colour”, un concentrato della miglior musica elettronica passata e presente. Le influenze club sono evidente in “I See You”, ma gli xx riescono contemporaneamente a mantenere le proprie radici di band indie pop, con strumentazione minimale e le voci di Oliver Sim e Romy Madley-Croft più mature e affascinanti come sempre nei loro scambi. Alcune canzoni stonano con il passato della band (A Violent Noise e Dangerous), ma non dobbiamo pensare che l’intero lavoro sia puramente elettronico. Abbiamo infatti anche Say Something Loving e la conclusiva Test Me, che mantengono intatto il nucleo del suono xx, seppur con più ritmo e movimento. Le voci eteree presenti in Lips sembrano prese da un film di Sorrentino; On Hold invece è il singolo più commerciale, ma non per questo inferiore. Menzione finale per Brave For You, composta da Romy per la madre morente: un pezzo toccante e molto espressivo. Insomma, non un lavoro perfetto e coeso stilisticamente, ma senza dubbio un importante passo in avanti nella discografia degli xx, finalmente usciti dal loro guscio e pronti a spiccare il volo verso lidi sonori fino a poco tempo fa inesplorati. Sì, ci erano proprio mancati.

29) Laura Marling, “Semper Femina”

(FOLK)

La cantautrice inglese Laura Marling è ormai giunta al sesto lavoro di inediti: un traguardo rimarchevole, soprattutto se consideriamo il fatto che ha appena 27 anni. Questo “Semper Femina”, riecheggiando nel titolo il motto dei marines americani “semper fidelis”, denota il tema portante dell’album: essere donna oggi. I risultati sono davvero ottimi, con punte di delicatezza e raffinatezza stilistica notevoli.

Il mood generale del CD è malinconico: il genere folk con venature pop e soft rock, tipico anche di artisti come Sufjan Stevens e Joanna Newsom, aiuta molto a trasmettere questo sentimento. Le melodie sono in generale semplici, quasi spoglie, spesso ridotte alla voce della Marling, la chitarra e un sottofondo morbido di tastiere. Non sarà una grande novità nel mondo della musica, ma chi lo è di questi tempi?

Restano impresse soprattutto canzoni come Soothing e Nothing, Not Nearly, con quest’ultima che ricorda molto la Angel Olsen di “My Woman” (2016). Del resto, nessuna delle 9 tracce dell’LP è fuori posto: colpisce positivamente, infatti, la coesione del CD. “Semper Femina”, in conclusione, si staglia come uno dei migliori lavori folk dell’anno. Laura Marling, se sboccerà completamente, potrà diventare la Joni Mitchell del XXI secolo.

28) Stormzy, “Gang Signs & Prayer”

(HIP HOP – SOUL)

L’esordio tanto atteso del giovane artista inglese Stormzy è uno dei migliori CD dell’anno di musica grime. Cosa si intende con questo termine? Il solco seguito è senza dubbio quello dell’hip hop, ma il grime è ancora più duro e i temi trattati riguardano di solito la vita nei sobborghi delle grandi città britanniche. Insomma, un qualcosa di molto simile al gangsta rap degli anni ’90 del secolo scorso, solo ambientato in UK. Skepta (artista che ha anche collaborato all’ultimo CD di Drake) ne è il massimo esponente, ma Stormzy è il giovane rampante che cerca di far conoscere il grime anche al di fuori della ristretta cerchia dei fans “ortodossi”.

Stormzy tenta di raggiungere questo scopo mescolando al grime anche sonorità più morbide, fino ad avvicinarsi al gospel e al soul. Esperimento ambizioso e, per la verità, in gran parte riuscito. Infatti, dopo la partenza sparata con First Things First e Cold, abbiamo anche brani più intimisti come Blinded By Your Grace, Pt.1 e Velvet/Jenny Francis (Interlude).

I temi trattati sono in gran parte sintetizzabili nel titolo dell’album: “Gang Signs & Prayer” infatti parla prevalentemente dei temi tipici del grime, con le basi oscure e ossessive che caratterizzano il genere. Potrà non piacere, ma all’interno dell’hip hop è senza dubbio un’innovazione che sta rivitalizzando il mondo della musica black.

Con 16 canzoni e una durata vicina ai 60 minuti, non tutto può essere perfetto; tuttavia, aspettiamo con impazienza una nuova prova da parte del giovane Stormzy, per capire meglio se in lui prevarrà la parte rap o quella più melodica del gospel/soul. Per ora, questo “Gang Signs & Prayer” è un ottimo esordio per uno dei maggiori talenti nati nella musica nera degli ultimi anni.

27) Drake, “More Life”

(HIP HOP)

Il nuovo LP della superstar canadese del rap Drake era attesissimo, sia dal pubblico che dalla critica. Il precedente CD, “Views” del 2016, aveva il record di essere il primo album a totalizzare un miliardo di streaming su Apple Music e aveva passato ben 13 settimane in testa alla Billboard 200. Insomma, un successo clamoroso, sottolineato dai famosissimi singoli One Dance e Hotline Bling. Tuttavia, i critici (noi di A-Rock compresi) erano stati molto scettici nell’accoglienza di “Views”, troppo lungo e sovraccarico di influenze per piacere.

La domanda che tutti si ponevano era: Drake tornerà alla bellezza di “Take Care” (2011) o dovremo sorbirci un altro mattone? Ebbene, malgrado l’eccessivo numero di brani (22!) e una lunghezza che supera gli 80 minuti (!), “More Life” è decisamente migliore del predecessore. Drake è riuscito a creare una sintesi efficace fra rap e pop, creando un prodotto magari sovraccarico, soprattutto verso la fine, ma molto affascinante e intrigante.

L’inizio, in particolare, è molto solido: molto riuscite Free Smoke e No Long Talk, pezzi rap quasi feroci per lo stile cui ci aveva abituato l’artista canadese. Invece Passionfruit è più gioiosa e pop, ma non per questo meno efficace. Altro brano “commerciale” è Madiba Riddim, che va a comporre una parentesi più leggera assieme a Get It Together. I veri capolavori, però, sono 4422 (con Sampha) e Gyalchester, pezzo trap molto tosto.

Anche la parte centrale di “More Life” contiene brani interessanti, a differenza di “Views”. Abbiamo infatti Can’t Have Everything e Glow, con quest’ultima che contiene un featuring con Kanye West.

Parlando di ospiti, la lista è davvero sterminata: oltre a Kanye e Sampha, abbiamo Young Thug, PartyNextDoor (presente nella non memorabile Since Way Back), 2 Chainz, Skepta e Travis Scott. Insomma, il gotha del mondo hip hop internazionale.

Unica pecca, dicevamo, è l’alto numero di canzoni: senza brani deboli come il già citato Since Way Back, Fake Love e Ice Melts parleremmo di un lavoro eccellente. Così, invece, è solo un buonissimo CD da parte di un rapper molto talentuoso, ma voglioso di strafare e collezionare record di streaming e incassi. Così facendo, purtroppo, la qualità complessiva ne risente; nondimeno, questo “More Life” è ai livelli di “Take Care”, cosa per niente scontata date le premesse.

Nel bene o nel male, parleremo di questo CD fino a fine anno: possiamo dire, però, che senza ombra di dubbio anche i critici saranno soddisfatti stavolta.

26) Gas, “Narkopop”

(ELETTRONICA)

Dopo ben 17 anni di assenza dalla scena musicale, il musicista tedesco Wolfgang Voigt è tornato a produrre musica con il nome d’arte Gas. La sua cifra stilistica è sempre stata una musica ambient molto evocativa e intensa, simile al miglior Brian Eno e ad Aphex Twin. Da lui hanno preso spunto vari altri artisti, tra cui il danese The Field.

Certo, molto è cambiato rispetto al 2000: ora la musica elettronica è diventata mainstream, soppiantando il rock e migrando verso lidi sempre più commerciali. Tuttavia, Gas mantiene intatte le sue caratteristiche peculiari: 10 canzoni senza titolo (o meglio, intitolate semplicemente Narkopop 1, Narkopop 2 e così via) per 78 minuti di durata. Un album dunque impegnativo, ma di ottima fattura e, per questo, godibile: i paesaggi evocati da Voigt sono come sempre onirici, tanto da ricordare le atmosfere di David Lynch e del compositore Angelo Badalamenti. Nessuna aggiunta al sound specifico di Gas, insomma, ma certamente “Narkopop” rappresenta un ottimo ritorno alla musica per Voigt, un po’ quello che “Syro” nel 2014 era stato per Aphex Twin.

Degne di nota sono in particolare la seconda suite, intitolata appunto Narkopop 2, da cui sembra iniziare realmente l’album, dopo una prima melodia un po’ fiacca; in Narkopop 4 Voigt evoca quasi una marcia militare; poi nelle successive Narkopop 5 e Narkopop 6 l’ambiente si fa più dolce, generando due melodie magnifiche. Invece, in Narkopop 8 l’atmosfera è più lugubre e ossessiva. Chiude il CD Narkopop 10, un’odissea di 17 minuti di non facile lettura, ma senza dubbio curata fin nei minimi dettagli.

In conclusione, Wolfgang Voigt dimostra ancora una volta tutto il suo talento: il quinto LP a firma Gas si aggiunge ad un catalogo già di eccellente qualità, fondamentale per tutti gli amanti della musica elettronica.

La prima parte dei 50 migliori album del 2017 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento fra pochi giorni con la seconda parte della lista. Stay tuned!

Recap: giugno 2017

Giugno sarà ricordato come un altro mese ricco di nuova musica di alto livello. In particolare, ad A-Rock ci concentriamo sulle seguenti uscite: la collaborazione fra Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly e James McAlister; il secondo CD dei Big Thief; l’attesissimo secondo LP di Lorde; il sesto lavoro dei Phoenix; il terzo CD degli Alt-J; ma soprattutto il grande ritorno dei Fleet Foxes.

Fleet Foxes, “Crack-Up”

fleet foxes

Partiamo proprio dai Fleet Foxes: il complesso di Seattle, sei anni dopo “Helplessness Blues” e dopo una pausa durata tre anni, a causa del ritorno all’università del leader Robin Pecknold, è tornata sulla scena musicale con l’attesissimo “Crack-Up”. Beh, i risultati sono semplicemente eccezionali.

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, la conclusiva title track ricorda quasi gli Animal Collective, per poi terminare dolcemente.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk. “Crack-Up” resterà senza dubbio come uno dei migliori album non solo del 2017, ma dell’intero decennio.

Voto finale: 9.

Lorde, “Melodrama”

lorde

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

Già dalla copertina vediamo che qualcosa è cambiato: se in “Pure Heroine” avevamo semplicemente il titolo e l’artista, senza alcuna immagine, in “Melodrama” campeggia un ritratto molto affascinante della giovane Ella, quasi un quadro impressionista. Ma i cambiamenti di maggiore portata sono artistici.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Anche tematicamente, del resto, c’è un tema che lega fra loro le 11 canzoni del disco: Lorde immagina di trovarsi ad un party e di viverlo pensando anche ai problemi che non solo la riguardano personalmente, ma che sono riferibili a più o meno tutti i giovani millennials, per esempio la rottura di un fidanzamento e le sue conseguenze, la voglia di vivere il momento senza freni, gli effetti dell’improvvisa fama…

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio, al pari di “Lemonade” di Beyoncé e “Art Angels” di Grimes. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima.

Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

In conclusione, stiamo parlando di un’artista nel pieno delle sue potenzialità: se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde. Meno Katy Perry e Miley Cyrus, più Lorde: ecco un auspicio che ho per il futuro della musica pop.

Voto finale: 9.

Big Thief, “Capacity”

big thief

I Big Thief sono un complesso americano che suona un indie rock intimista come poche volte si è sentito, sia musicalmente che come tematiche affrontate. Il loro primo album, “Masterpiece” del 2016 (viva la modestia), era un buon connubio di pop e rock; in “Capacity” notiamo un affinamento della formula che li ha fatti conoscere.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio la bellissima voce di Adrianne Lenker, evocativa e fragile come solo le migliori voci femminili sanno essere: in Watering ne abbiamo un chiaro esempio. Le strumentazioni non sono né innovative né radicalmente differenti da “Masterpiece”, tuttavia il risultato complessivo è più convincente. Abbiamo infatti ottimi brani come l’intimista Pretty Things, Shark Smile (che parte quasi punk) e il nucleo del CD, la bellissima Mythological Beauty. Da non trascurare anche la parte finale del disco, con Haley e Mary come highlights.

In conclusione, “Capacity” sicuramente amplierà la platea di fans dei Big Thief, un premio meritato per un gruppo certo non rivoluzionario, ma che sa usare gli ingredienti dell’indie rock più classico per creare brani mai banali.

Voto finale: 7,5.

Alt-J, “Relaxer”

alt-j

Il terzo album del complesso inglese è una sintesi di tutte le sonorità incontrate nei due precedenti CD, il bel “An Awesome Wave” (2012) e “This Is All Yours” (2014). La fama degli Alt-J è cresciuta considerevolmente nel corso degli anni, facendone uno dei gruppi rock più apprezzati dal grande pubblico. Ciò malgrado le sonorità del gruppo non siano facili o commerciali: spesso paragonate ai Radiohead, a torto o a ragione, le canzoni degli Alt-J hanno in effetti sempre un non so che di malinconico, pur non arrivando alle vette espressive e artistiche di Thom Yorke & compagni.

“Relaxer” è un titolo ingannevole: le 8 canzoni che formano il CD sono tutto meno che rilassanti. A partire dall’iniziale 3WW, gli Alt-J creano un concentrato delle caratteristiche che li hanno fatti amare (o detestare, a seconda dei punti di vista): voci eteree, parti strumentali preponderanti e strutture delle canzoni mai banali. Colpiscono in particolare, tuttavia, le canzoni dove gli Alt-J si lasciano andare, trascinati da un ritmo più frenetico del solito: ad esempio, In Cold Blood e Hit Me Like That Snare. Anche i pezzi più lenti, va detto, non si fanno disprezzare: l’ambiziosa House Of The Rising Sun magari è troppo lunga, ma certo non trascurabile; lo stesso dicasi per Deadcrush.

I difetti del disco sono principalmente due: il ridotto numero di canzoni e la scarsa coesione tra le varie sonorità affrontate. Quest’ultimo aspetto può anche rivelarsi un vantaggio, per esempio lo era in “Kid A” dei loro mentori Radiohead; però in un LP che non introduce nulla di nuovo nel mondo degli Alt-J rischia di essere visto come una svolta a metà.

In conclusione, “Relaxer” non verrà ricordato come il più bel lavoro del trio britannico, però merita comunque un ascolto. L’evoluzione degli Alt-J continua: vedremo dove li condurrà nel prossimo CD.

Voto finale: 7,5.

Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly & James McAlister, “Planetarium”

planetarium

Quando Sufjan Stevens si lancia in un nuovo progetto, l’attenzione è sempre massima: stiamo parlando di uno dei cantautori più importanti della nostra epoca, con all’attivo capolavori come “Illinois” (2005) e “Carrie & Lowell” (2015). Ancora più interessante è il fatto che il nuovo progetto sia in collaborazione con il chitarrista dei The National, Bryce Dessner, e due ottimi musicisti come Nico Muhly e James McAlister. Cosa potrà mai venire fuori da un grande artista folk, un chitarrista indie rock e due musicisti molto sperimentali nelle loro composizioni? La soluzione alla domanda è “Planetarium”, un monumentale CD di 17 brani per 77 minuti di durata, che fonde fra loro elettronica e sperimentalismo. Resta poco o nulla del folk scarno di Sufjan, ma anche il rock raffinato dei The National si perde nella costellazione sonora dell’album.

Già la genesi dell’album meriterebbe un articolo a parte: un museo di Eindhoven nel 2011 commissionò a Muhly un’opera riguardante il sistema solare. Lui decise di coinvolgere gli altri tre amici copra menzionati e vennero fatte delle registrazioni. Al di là di qualche performance live, tuttavia, il progetto non venne mai portato a compimento. Questo fino al 2016, quando i quattro ripresero le registrazioni e decisero di estrarre un CD incardinato sullo stesso tema originariamente commissionato a Muhly.

Sufjan Stevens, infatti, presta la voce a un LP dedicato al sistema solare: tutti i titoli infatti richiamano parti del nostro universo, dai pianeti alla materia oscura, dalle stelle alle comete. Molti brani superano i 5 minuti di durata (Earth addirittura i 15), ma altri sono brevissimi (Halley’s Comet, Tides e Black Hole sono inferiori al minuto). La struttura del lavoro è dunque variegata, per non dire confusa. Tuttavia, il fascino della voce di Sufjan e le complesse melodie che caratterizzano le canzoni di “Planetarium” ne fanno una sorta di “The Age Of Adz” 2.0; non tutto è perfetto, ma i risultati sono comunque intriganti.

Tra gli highlights del CD abbiamo Uranus, Black Energy (entrambe con ottimi intermezzi strumentali), la deliziosa Moon e l’elettronica Saturn, in cui Stevens modifica visibilmente la sua voce con l’Autotune e la vicinanza a “The Age Of Adz” è evidente.

Il lavoro, inevitabilmente, ha anche dei passi falsi, dato il grande numero di canzoni e l’elevata difficoltà di trovare ritmi sempre cangianti ma non eccessivamente complessi per il pubblico: fra di essi ricordiamo la troppo barocca Pluto e la già menzionata Earth, eccessivamente prolissa: infatti, malgrado una buona prima parte, la canzone si perde nel finale.

In generale, dunque, se da una parte i nomi che hanno collaborato al progetto di “Planetarium” sono indubbiamente importanti per la scena musicale contemporanea, dall’altra era difficile sperare in un LP coeso e sempre efficace, date le diverse origini e i differenti percorsi musicali seguiti dai quattro protagonisti. Il risultato finale resta comunque accettabile: merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7.

Phoenix, “Ti Amo”

phoenix

“Ti Amo” è il sesto album dei francesi Phoenix, ispirato da un viaggio a Roma del cantante Thomas Mars (tra l’altro marito della regista Sofia Coppola). Come si può intuire dal titolo, l’influenza del Belpaese è presente ovunque: 5 delle 10 canzoni del CD possiedono titoli italiani, spesso anche i testi sono cantati in italiano (neanche troppo zoppicante) da Mars. Un motivo in più per amare i Phoenix, dunque? Indubbiamente sì, per noi italiani. Chissà i cugini d’Oltralpe cosa ne penseranno…

A parte le battute, musicalmente prosegue la lenta evoluzione del quartetto. Partiti da una forte ispirazione new wave, con nobili ascendenti come Air e Daft Punk, a partire dal bellissimo “Wolfgang Amadeus Phoenix” (2009) i Phoenix hanno cercato di percorrere lidi alternativi, mai distaccandosi troppo dall’amato french rok sia chiaro, ma facendo ipotizzare una svolta nel loro sound. Infatti, in “Bankrupt!” del 2013 avvertivamo un influsso di sonorità quasi orientaleggianti (basti ricordare Entertainment), mentre in questo “Ti Amo” abbiamo una forte apertura per la musica dance. Si badi: niente di tamarro à la Chainsmokers, ma certamente sonorità più elettroniche che nei precedenti LP.

Abbiamo già ricordato la particolarità del CD: evocare continuamente l’Italia e le sue bellezze. Non è strano, dunque, citare il fior di latte o Via Veneto nei titoli di due canzoni, così come sentire evocare i grandi Lucio Battisti e Franco Battiato in J-Boy. A volte, poi, Mars mescola fra di loro addirittura tre lingue: inglese, francese e italiano! Succede nella title track Ti Amo e in Goodbye Soleil.

Tra i brani migliori del disco abbiamo il singolo J-Boy; la trascinante Lovelife; e la orecchiabilissima Fleur De Lys. Non stiamo parlando di un capolavoro, insomma, anche perché a livello testuale (come quasi sempre nei lavori dei Phoenix) non abbiamo acute analisi della società o del presente politico, tanto per capirci. Tuttavia, un CD così compatto e ascoltabile in pressoché ogni contesto extralavorativo, dalla festa in spiaggia alla discoteca, non è disprezzabile, specialmente in estate.

Voto finale: 7.