I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: luglio 2022

Luglio è stato un mese molto interessante (e molto caldo), con uscite importanti musicalmente parlando. Abbiamo recensito infatti i nuovi lavori dei black midi e degli Interpol; sul versante rock abbiamo anche il secondo CD del 2022 di Jack White e il ritorno di Ty Segall. Inoltre, spazio anche a Steve Lacy. Buona lettura!

black midi, “Hellfire”

hellfire

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

Voto finale: 8,5.

Jack White, “Entering Heaven Alive”

Entering Heaven Alive

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

Voto finale: 7,5.

Steve Lacy, “Gemini Rights”

gemini rights

Il secondo album vero e proprio a firma Steve Lacy (anche parte del collettivo The Internet) è un ottimo CD di neo-soul e R&B. Nulla di innovativo su questi fronti, sia chiaro, ma Lacy si dimostra in grado di brillare anche da solista, dopo fruttuose collaborazioni in passato con Vampire Weekend e Solange Knowles, tra gli altri.

L’esordio “Apollo XXI” (2019) non era un cattivo LP, piuttosto mancava di cura nei particolari e, pertanto, era stato schifato dai critici più pignoli. “Gemini Rights”, da questo punto di vista, è un netto miglioramento, dovuto anche al fatto che questa volta Steve ha registrato il lavoro in uno studio vero e proprio e non, come in passato, attraverso il proprio cellulare o laptop.

La prima parte di “Gemini Rights” è formata da possibili hit: da Mercury a Bad Habit, passando per Buttons, abbiamo alcune tra le più belle canzoni a firma Steve Lacy. Nella parte centrale invece il lavoro perde vigore: ad esempio, il falsetto di Amber era ampiamente evitabile. Buona invece Sunshine, grazie anche alla collaborazione di Foushée.

Anche liricamente il Nostro dimostra una maturità nel parlare dei propri sentimenti che in passato non avevamo colto. Molto del CD ruota accanto ad una rottura sentimentale recentemente patita da Lacy: ad esempio, in Static canta “If you had to stunt your shining for your lover, dump that fucker”, mentre Mercury contiene il seguente verso: “Oh, I know myself, my skin, rolling stones don’t crawl back in”. Helmet possiede il momento più evocativo dell’intero CD: “I tried to play pretend (oh-oh), tried not to see the end (ah-ah), but I couldn’t see you the way you saw me. Now I can feel the waste on me”.

In conclusione, “Gemini Rights” è un buonissimo LP estivo: canzoni leggere, a metà tra soul e R&B, con tocchi funk, che sono ascoltabili tanto in spiaggia quanto nelle feste tra amici. Nulla di radicale, insomma, ma Steve Lacy ha finalmente dato sfoggio del suo talento. Tuttavia, siamo convinti che possa fare ancora meglio: aspettiamo con trepidazione il suo prossimo lavoro.

Voto finale: 7,5.

Interpol, “The Other Side Of Make-Believe”

the other side of make-believe

Il settimo album del trio newyorkese suona, allo stesso tempo, tipicamente Interpol e innovativo rispetto ai canoni della band. Accanto al loro familiare post-punk, Paul Banks e compagni infatti provano a mescolare ritmi più oscuri, quasi à la Nine Inch Nails (Mr. Credit), aiutati anche da produttori d’eccezione come Flood e Alan Moulder (in passato collaboratori di U2 e Depeche Mode).

Se tutti o quasi siamo d’accordo che “Turn On The Bright Lights” (2002) è uno dei migliori CD indie rock degli scorsi vent’anni, in molti dubitano dei lavori più recenti degli Interpol, accusati di ripetere la stessa ricetta ogni volta. Questo era in effetti il caso del breve EP “A Fine Mess” (2019) e, in parte, di “Interpol” (2010), che iniziava effettivamente a mostrare la corda; invece erano buoni i successivi “El Pintor” (2014) e “Marauder” (2018), che tornavano quasi ai livelli del secondo lavoro di studio “Antics” (2004).

“The Other Side Of Make-Believe” si situa sostanzialmente nel mezzo, qualitativamente parlando: abbiamo ottimi singoli di lancio (Toni, Something Changed) accanto a brani decisamente più convenzionali, che potrebbero entrare in qualsiasi album degli Interpol dal 2007 in avanti (Into The Night, Passenger). I risultati restano comunque accettabili, grazie soprattutto alla bella voce di Banks, che resta sempre un valore aggiunto importante per il gruppo americano.

Come sempre, dal lato testuale un album degli Interpol può contenere perle come versi del tutto assurdi. Questa volta i tre newyorkesi mostrano il loro lato più serio: anzi, Paul Banks si dimostra addirittura spavaldo quando, in Toni, dichiara: “Still in shape, my methods refined”. Altrove, però, emergono insicurezze (“All along I was different, ’cuz my nature made me great… but not that great”, canta Banks in Greenwich) e il tratto ironico della band: “You’re truly erupting too hard, that’s why you’re a sizable god” (Big Shot City).

In conclusione, “The Other Side Of Make-Believe” è un buon LP degli Interpol. Certo, il vicino ventennale del fondamentale “Turn On The Bright Lights” ci farà capire una volta di più quanto la loro produzione sia calata di intensità e qualità nel corso dei seguenti due decenni, ma Banks e co. restano un’affidabile band post-punk.

Voto finale: 7.

Ty Segall, “Hello, Hi”

hello hi

Il quattordicesimo album solista (!!) del più celebre garage rocker americano è una svolta acustica benvenuta dopo i poco riusciti “First Taste” (2019) e “Harmonizer” (2021). Non tutto gira alla perfezione, ma un album di Ty Segall influenzato da Neil Young e T. Rex è un gradito ritorno alla tranquillità di album come “Goodbye Bread” (2011) e “Sleeper” (2013), tra i migliori della sua produzione.

Il californiano si conferma cantautore di talento e, allo stesso tempo, eccentrico: il CD inizia con le due tracce più deboli del lotto, Good Morning e Cement, che al primo ascolto sembrano stroncare qualsiasi speranza di un ritorno ai bei tempi di Ty. In realtà poi, con l’andare delle canzoni, abbiamo perle come la title track e Saturday Pt. 2, tra le migliori canzoni del Ty Segall più recente. Da non sottovalutare poi il fascino di Looking At You.

C’è sicuramente chi preferirà la versione più feroce del cantautore californiano, ad esempio quella vista in “Slaughterhouse” (2012). La verità è che il fascino di una discografia tanto disparata e confusionaria come quella di Ty Segall risiede nella sua incredibile versatilità: punk, hard rock, garage rock, folk, psichedelia… abbiamo visto praticamente di tutto nel corso degli ultimi 13 anni di carriera di Ty.

Non è infatti un caso che i suoi LP più amati sono quelli che sanno fondere tra loro tutte queste facce, da “Manipulator” (2014) a “Freedom Goblin” (2018). “Hello, Hi” non appartiene a questa ultima schiera, ma lascia sperare che Ty Segall possa tornare, in tempi brevi, a buoni livelli.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

I 50 migliori album del 2021 (25-1)

Il momento è giunto: siamo arrivati all’appuntamento più atteso per i fan di A-Rock, la seconda e più pregevole parte della classifica dei 50 migliori dischi dell’anno, quella che contiene le posizioni dalla 25 alla 1!

Nella prima metà abbiamo trovato artisti importanti, come Lorde, Lana Del Rey e The Killers. Chi si sarà aggiudicato il titolo di miglior CD del 2021? Buona lettura!

25) Paul McCartney, “McCartney III”

(POP – ROCK)

È vero, parliamo di un album di fine 2020, ma non potevamo lasciare l’ultimo lavoro di Sir Paul fuori dalla nostra classifica. Sir Paul McCartney non ha bisogno di introduzione: la sua è ormai una carriera leggendaria che, giunta al ventunesimo (!!) album di inediti, non vuole proprio fermarsi. “McCartney III” è la chiusura ideale della trilogia iniziata con l’esordio solista del 1970, “McCartney”, e proseguita poi con “McCartney II” (1980). La caratteristica di tutti questi CD è di essere suonati interamente da Paul in persona, che li ha spesso utilizzati per i suoi esperimenti più arditi (ad esempio Temporary Secretary), con atmosfere decisamente meno pop di un tipico disco dei Beatles, ma sempre appetibili da una larga fetta di pubblico.

“McCartney III” non è da meno: le 11 canzoni vanno dall’esperimento folk-blues di Long Tailed Winter Bird al pop-rock della squisita Find My Way al pop beatlesiano di Pretty Boys, per poi sfociare nella stramba Deep Deep Feeling, ben otto minuti di rock à la David Bowie su morbide tastiere. Insomma, un pot-pourri mai scontato, decisamente non coeso ma intrigante nel complesso. I risultati migliori Paul li raggiunge in Find My Way e Pretty Boys, mentre delude un po’ Women And Wives.

Liricamente, McCartney cerca di calarsi nella drammatica temperie storica del 2020: il CD, uscito a dicembre dello scorso anno, rievoca la triste condizione di isolamento totale in cui è stato arrangiato, specialmente in Find My Way (“You never used to be afraid in days like these, but now you’re overwhelmed by your anxieties” è un verso potente) e Seize The Day, che nella semplicità della lirica “It’s still alright to be nice” ci ricorda che la gentilezza è una qualità sottovalutata, specialmente in tempi di pandemia.

Un cantante della caratura di Paul McCartney, che era stato in grado di restare sulla cresta dell’onda anche negli anni ’10 del XXI secolo grazie alle collaborazioni di successo con Mark Ronson (Alligator e New) e Kanye West con Rihanna (FourFiveSeconds), aveva prodotto con “Egypt Station” (2018) un album lungo e caotico, che faceva presagire un’ispirazione ormai esaurita per il cantautore inglese. Ritrovarlo in così buona forma solo due anni dopo, capace di stupirci come ai bei tempi, è un’ulteriore dimostrazione che, nella musica, l’età non conta.

24) Indigo De Souza, “Any Shape You Take”

(ROCK)

Il secondo disco della cantante è una boccata di aria fresca in una scena indie rock un po’ ferma nel 2021. “Any Shape You Take” migliora ogni aspetto dell’esordio “I Love My Mom” (2018), passato un po’ in sordina: sia a livello compositivo che lirico Indigo si conferma matura e pronta a scrivere pagine importanti del genere nei prossimi anni.

I riferimenti della Nostra sono chiari: PJ Harvey, Fiona Apple e Alanis Morissette sono le prime icone femminili del pop-rock che vengono in mente ascoltandola. Tuttavia, De Souza non si limita a prendere spunto da queste grandi autrici: innestando su questa ricetta elementi grunge e quasi sperimentali (si senta Real Pain a tal proposito), “Any Shape You Take” è un CD figlio dei nostri tempi: in bilico fra speranza e disperazione, la giovane Indigo De Souza dimostra in realtà una maturità sorprendente.

Testualmente, infatti, la cantautrice è capace di trasmettere le sensazioni provate a causa di una relazione tossica del passato attraverso le urla disperate di Real Pain così come di farti sentire protetto in Hold U, quando canta “I will hold you” e “You are a good thing, I’ve noticed” convintamente. In Way Out appare il suo lato più sognatore quando sentiamo dirle “I wanna be a light”, mentre in Kill Me si riappropria di un tema a lei caro fin dal precedente album: “Call your mother, tell her you love her… Call my mother and tell her the same”.

In alcune canzoni, come la già citata Real Pain e Bad Dream, prevale un pessimismo molto forte; in altre, come 17, i toni sono più distesi. I pezzi migliori sono Hold U e Kill Me, mentre un po’ sotto la media Way Out. In generale, va detto, l’indie rock robusto, sperimentale a tratti di “Any Shape You Take” si fa quasi sempre apprezzare e i 38 minuti di durata del disco spingono il replay value (a differenza degli ultimi prolissi lavori di Drake e Kanye West, tanto per capirsi).

In conclusione, Indigo De Souza si conferma ragazza con del potenziale e “Any Shape You Take” è un CD molto interessante. Vedremo se in futuro saprà fare meglio, per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori dell’anno nel genere indie rock.

23) Lucy Dacus, “Home Video”

(ROCK)

Il terzo album a firma Lucy Dacus è un altro passo avanti in una discografia sempre più ricca. Dopo l’esordio raccolto di “No Burden” (2016) e il magnifico “Historian” (2018), questo lavoro è una svolta in direzione quasi pop. I pezzi sono più brevi e con ritornelli più accattivanti; non per questo, tuttavia, bisogna concludere che Lucy si sia “venduta”, contando anche i temi affrontati nel corso di “Home Video”.

Fin da subito, sulla stampa e tra i fan si sono scatenati i parallelismi con “Punisher”, il CD uscito l’anno passato e che ha fatto dell’amica Phoebe Bridgers un nuovo pilastro del mondo indie, con tanto di candidatura ai Grammy. In effetti, le somiglianze fra i due album sono numerose: il sound è indie rock con occasionali episodi folk, i temi trattati sono intimi e personali… Allo stesso modo, alcuni esperimenti della Dacus fanno di “Home Video” un LP autonomo e non indebitato con alcuna delle giovani donne che stanno rivoluzionando l’indie rock (basti citare, oltre a Phoebe Bridgers, anche Julien Baker e Courtney Barnett).

Dicevamo che Lucy affronta il proprio passato nel corso del CD: la sua gioventù non è stata semplice, essendo stata cresciuta a Richmond, in Virginia, da una famiglia conservatrice e molto religiosa, lei che da bisessuale è sempre stata nel mirino dei più intransigenti. L’iniziale, bellissima Hot & Heavy contiene il seguente verso: “You used to be so sweet, now you’re a firecracker on a crowded street”; invece VBS contiene una profezia fatta da un sacerdote, “A preacher in a t-shirt told me I could be a leader”. Tuttavia, nella stessa canzone la sua figura è ambivalente: “All it did, in the end, was make the dark feel darker than before”.

Il lavoro, nella sua onestà, a volte è davvero toccante, così come le melodie: oltre la già citata Hot & Heavy, ottime anche First Time e Thumbs. Invece inferiori alla media Partner In Crime, in cui Lucy sperimenta addirittura l’uso dell’autotune, con risultati controversi, e Christine.

In conclusione, “Home Video” è un CD molto nostalgico, in cui i ricordi dell’infanzia e della gioventù sono presentati in tutta la loro crudezza da una Lucy Dacus mai così aperta. Speriamo che il disco abbia, come “Punisher”, i riconoscimenti che merita. La cantautrice americana, infatti, si conferma tra le migliori nel suo genere e rafforza il suo status di ragazza prodigio.

22) SPIRIT OF THE BEEHIVE, “ENTERTAINMENT, DEATH”

(ROCK)

Il trio originario di Philadelphia ha dato origine, con “ENTERTAINMENT, DEATH”, a uno degli album più imprevedibili degli ultimi anni. Indie rock, psichedelia, noise, pop: tutto si mescola nel corso del CD. Canzoni brevi, sui tre minuti, ma anche una suite di quasi sette minuti: di tutto e di più anche in termini di durata delle melodie. Zack Schwartz, Rivka Ravede e Corey Wichlin, al loro quarto lavoro, confermano il bene che si diceva di loro anche riguardo i precedenti lavori.

Se c’è una differenza, è nella produzione: il lavoro è più curato rispetto al passato, sintomo di una maggiore autorevolezza anche in sede di etichetta discografica. I risultati, malgrado a volte siano fin troppo confusionari, sono a tratti irresistibili: la struttura tipica delle canzoni popolari è stravolta, spesso all’interno della stessa melodia (si senta a riguardo THERE’S NOTHING YOU CAN’T DO). ENTERTAINMENT inizia come un pastiche noise sperimentale, poi sboccia in un pezzo che richiama gli anni ’60. GIVE UP YOUR LIFE sembra quasi un brano del Ty Segall più psichedelico, DEATH invece rievoca i primi Pink Floyd. C’è un brano che si intitola I SUCK THE DEVIL’S COCK… Nessun commento aggiuntivo sul significato.

In generale, possiamo dire che l’umorismo non fa difetto alla band americana. Anche molte liriche testimoniano questo atteggiamento, a metà fra lo scanzonato e il nichilista: “Dust picks up and swallows us whole” canta convintamente Schwartz in ENTERTAINMENT. Invece in I SUCK THE DEVIL’S COCK lo sentiamo proclamare: “Another middle-class dumb American, falling asleep. He don’t appreciate constructive criticism”, compreso l’errore grammaticale. Infine, in RAPID & COMPLETE RECOVERY, abbiamo il verso più sognante ed evocativo del lotto: “Spanning lifetimes compressed in a vacuum, no limitations, you know what comes after”.

In concreto, però, malgrado questi momenti leggeri, il CD suona claustrofobico e ansiogeno; sentimenti che purtroppo tutti abbiamo provato nel corso dell’ultimo anno, colpiti come siamo dalla pandemia e dalle sue conseguenze. Non per questo però dobbiamo ignorare gli SPIRIT OF THE BEEHIVE; anzi, la band di Philadelphia, con “ENTERTAINMENT, DEATH” potrebbe avere scritto uno dei più originali album pandemici. Non un traguardo da poco, in un panorama musicale sempre più omologato.

21) For Those I Love, “For Those I Love”

(ELETTRONICA)

Il progetto For Those I Love incarna in realtà l’estetica di una sola persona, l’irlandese David Balfe: la genesi dell’album di esordio di questo nuovo protagonista della scena elettronica è davvero tragica.

Nel 2018 Paul Curran, grande amico e partner musicale di Balfe, si è tolto la vita; da quel momento David ha cercato di onorare nel modo giusto la memoria di Curran e di riportare alla memoria i bei momenti vissuti insieme. “For Those I Love”, come il titolo indica, è dedicato anche ai cari ancora in questo mondo: spesso nel modo di cantare di Balfe, quasi “spoken word” data la scarsa espressività della voce, si menzionano i familiari del Nostro e il fondamentale ruolo che hanno avuto e hanno tuttora nella vita del cantautore irlandese.

Ma in cosa consiste musicalmente il lavoro? “For Those I Love” è un ottimo CD di musica elettronica: le basi vanno dalla house alla trance, passando per momenti più psichedelici. I momenti migliori sono le iniziali I Have A Love e You Stayed / To Live, ma anche la più tranquilla The Shape Of You risalta. Invece è inferiore alla media Top Scheme. In generale, si possono rintracciare influenze di Burial, Chemical Brothers e The Avalanches, con tocchi dei Primal Scream più rave, ma For Those I Love riesce a suonare originale, anche per il modo di affrontare un lutto altrimenti insopportabile.

I versi che restano impressi sono numerosi: “I felt like I had it all. I have a love, and it will never fade and neither will you, Paul. I love you bro” in I Have A Love è il più toccante di tutti. In Top Scheme viene alla luce il lato più politico e nichilista di Balfe: “It seems sometimes the love in these songs isn’t enough – because the world is fucked”. Infine, in Birthday / The Pain, abbiamo un momento filosofico, con più di un fondo di verità: “So we’ll spend the rest of our lives being brave, and hope that things will change, and age will still mark the time in the same way”.

“For Those I Love” non è un LP perfetto, come invece sostengono molte pubblicazioni inglesi (fra cui NME), ma certamente l’Irlanda si conferma terra ricca di spunti. Se prima la elogiavamo soprattutto per la scena punk e rock (U2, My Bloody Valentine e Fontaines D.C. ne sono luminosi esempi), anche nell’elettronica abbiamo trovato un nuovo esponente che pare destinato a scrivere pagine importanti in futuro.

20) Parannoul, “To See The Next Part Of The Dream”

(ROCK)

L’opera prima del misterioso progetto coreano Parannoul è un disco shoegaze in bassa fedeltà. Pochissimi sanno chi ci sia dietro al nome d’arte Parannoul: di certo sappiamo solo che è uno studente di Seul, che si descrive “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”. Inoltre, descrive le sue doti canore come “pessime”. Insomma, tutto congiura contro Parannoul: ma allora come è possibile che “To See The Next Part Of The Dream” sia un buon disco shoegaze?

Partiamo dal fatto che, per i cultori della perfezione musicale, magari amanti dei My Bloody Valentine, questo CD non rientra nei canoni dello shoegaze. I suoni sono sporchi, la fedeltà molto bassa, la voce pressoché inintelligibile… allo stesso tempo, però, le progressioni chitarristiche della lunghissima White Ceiling (dieci minuti precisi!) e dell’iniziale Beautiful World catturano l’ascoltatore meno pignolo. I riferimenti sono chiari: Ride, Slowdive, i primi M83… ma il dream pop di Extra Story e la quasi post-hardcore Youth Rebellion sono outliers davvero interessanti, che aprono nuove strade a Parannoul.

Anche le liriche, seppur cantate in coreano, se tradotte sono molto profonde, spesso disperate: “I wish no one had seen my miserable self, I wish no one had seen my numerous failures, I wish my young and stupid days to disappear forever” ne è solo l’esempio più calzante (Beautiful World). Il malessere giovanile è subito percepibile, così come la cultura emo che permea molta parte del CD.

In conclusione, “To See The Next Part Of The Dream” è un buon LP, di quelli che fanno capire quanto Internet possa essere benefico. Chi avrebbe mai sentito parlare di Parannoul e di questo album senza Bandcamp, Spotify e co.?

19) Wolf Alice, “Blue Weekend”

(ROCK)

Reduci dal grande successo di “Visions Of A Life” (2017), che li ha portati a vincere il primo Mercury Prize della loro giovane carriera, i Wolf Alice hanno cercato di cambiare leggermente una formula davvero efficace.

In passato li abbiamo sentiti sia nella loro versione più grunge, soprattutto nell’esordio “My Love Is Cool” (2015), che flirtare con lo shoegaze (nel già citato “Visions Of A Life”). L’ingrediente principale era però sempre stato un indie rock sbarazzino, con chiari riferimenti agli anni ’90, con la bella voce della frontwoman Ellie Rowsell a fare da collante.

“Blue Weekend” è un CD molto personale, anche e soprattutto nelle liriche, che spesso evocano rapporti amorosi del passato o l’importanza di esprimersi liberamente. Esemplare il seguente verso, in The Last Man On Earth: “Every book you take that you dust off from the shelf has lines between lines between lines that you read about yourself”, oppure questa frase, da No Hard Feelings: “It’s not hard to remember when it was tough to hear your name, crying in the bathtub to ‘Love Is A Losing Game’”. Ciò non va a discapito della spontaneità delle canzoni: Smile e The Beach II sono ottimi pezzi, con ritornelli che entrano nella testa dell’ascoltatore e non la lasciano più.

Sono altre però le sorprese: The Last Man On Earth è un grandioso pezzo pop, che evoca addirittura David Bowie e, fra le artiste emerse più recentemente, Weyes Blood. Abbiamo poi il folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love), in cui il batterista Joel Amey affianca la Rowsell nel canto. Invece, in Play The Greatest Hits, il bassista Theo Ellis è assoluto protagonista con una linea di basso davvero irresistibile. Tuttavia, è sempre Ellie Rowsell la protagonista: la sua voce assume diverse connotazioni, che si tratti di momenti più intimi (dolce in The Last Man On Earth) o più trascinanti (tiratissima in Play The Greatest Hits).

In conclusione, “Blue Weekend” non scrive la storia della musica: i rimandi al rock alternativo degli anni’90, dalla prima Alanis Morissette a Liz Phair, sono chiari. Tuttavia, è un piacere seguire l’evoluzione dei Wolf Alice e cercare di capire dove andranno a cadere nel loro prossimo lavoro. Il successo che li ha baciati in passato e, siamo sicuri, tornerà a far riempire loro i palazzetti di tutta Europa, è meritato.

18) Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, “A Beginner’s Mind”

(FOLK)

Sufjan Stevens è tornato a comporre musica folk: finalmente, verrebbe da dire! Affiancato dal giovane cantautore Angelo De Augustine, genera con “A Beginner’s Mind” un eccellente album folk, che lo fa tornare ai fasti di “Carrie & Lowell” (2015), anche se senza la portata di drammaticità di quel lavoro.

I due hanno infatti preso ispirazione da film del passato prossimo e remoto, da Il Silenzio Degli Innocenti a La Notte Dei Morti Viventi, creando una colonna sonora fittizia per questi film. Alle volte i riferimenti sono chiari (Back To Oz, Lady Macbeth In Chains), altre più velati (ad esempio You Give Death A Bad Name mescola zombie e Bon Jovi).

Musicalmente, siamo di fronte al ritorno al folk da parte di uno dei migliori cantautori della sua generazione, dopo gli esperimenti elettronici di “The Ascension” e “Aporia” dell’anno passato. Alcuni brani catturano subito l’ascoltatore, Back To Oz e Reach Out sono tra questi; in altri invece prevale forse la prudenza e Sufjan e Angelo non sperimentano, si senta It’s Your Own Body And Mind. In generale, tuttavia, nessuno dei 13 brani del CD suona fuori posto.

Testualmente, parlando di supposte colonne sonore per film del passato, i riferimenti ai capolavori citati sono numerosi, ma una frase spicca, contenuta in (This Is) The Thing, dedicata a La Cosa di John Carpenter: “This is the thing about people, you never really know what’s inside… Somewhere in the soul there’s a secret”.

In conclusione, il maestro Sufjan Stevens e il suo protegé Angelo De Augustine hanno prodotto, con “A Beginner’s Mind”, il miglior album folk dell’anno. Se serviva una conferma ulteriore del talento sconfinato di Stevens, ecco qua la prova.

17) Tyler, The Creator, “CALL ME IF YOU GET LOST”

(HIP HOP)

Tyler Gregory Okonma (questo il vero nome del Nostro) ha riesumato, con questo suo nuovo CD, alcuni tratti della sua prima parte di carriera. Se sia “Flower Boy” (2017) che “IGOR” (2019) avevano flirtato con il neo-soul, questo “CALL ME IF YOU GET LOST” è decisamente più hip hop. Anche i testi fanno i conti con il giovane Tyler, The Creator: in MASSA esclama “Yeah, when I turned 23 that’s when puberty finally hit me, my facial hair started growing, my clothing ain’t really fit me… See, I was shifting, that’s really why Cherry Bomb sounded so shifty”.

In effetti, “Cherry Bomb” (2015) è visto da molti come il peggior disco della sua produzione, confuso e prolisso; ma forse è stato proprio quello che gli ha fatto capire che anche il talento, se non addomesticato, non serve a nulla. Tyler, da quel momento, si è dedicato a rifarsi un’immagine pubblica più pulita e a puntare tutto sulla musica e non sulle provocazioni.

Il rapper omofobo e volgare delle origini lasciò il posto, in “Flower Boy”, a un ragazzo fragile, capace di confessare di avere avuto esperienze omosessuali in passato. Un cambiamento radicale, che fece bene anche alla sua musica, definitivamente sbocciata con “IGOR”, con tanto di Grammy vinto. “CALL ME IF YOU GET LOST” rappresenta un altro buon lavoro in una discografia sempre più interessante.

Per il nuovo lavoro, Tyler si serve anche di collaboratori di spessore: DJ Drama compare in molte canzoni, mentre Pharrell Williams e Lil Uzi Vert sono ospiti della potente JUGGERNAUT. Abbiamo poi Lil Wayne, uno dei riferimenti del giovane Tyler Okonma, in HOT WIND BLOWS e Domo Genesis, ex collega della Odd Future, in MANIFESTO. Tuttavia, questi ospiti non offuscano mai la figura principale, che nel corso del CD assume l’identità di Sir Baudelaire, come dichiara nell’omonima traccia iniziale, in omaggio al poeta dei “Fiori Del Male”.

Liricamente, come già accennato, Tyler continua a mostrare lati del suo carattere che, fino a “Wolf” (2013), ci erano del tutto sconosciuti. Ad esempio, in MANIFESTO analizza l’impatto delle sue azioni in chiave antirazzista sopra una base che pare presa in prestito da Kendrick Lamar: “Hit some protest up, retweeted positive messages, donated some funds… Am I doing enough or not doing enough?”. In MASSA confessa che sua madre, nel 2011, viveva in un rifugio. Invece, in WILSHIRE, emerge una storia d’amore con una ragazza fidanzata con un suo amico: i tormenti di Tyler sono evidenti, a un tratto pare pronto a sacrificare l’amicizia, subito dopo si pente e rinuncia all’amore… Insomma, confessioni a cuore aperto da parte sua (e inevitabili pettegolezzi sul fatto se la storia sia vera o meno).

Dicevamo che il rap la fa da padrone in “CALL ME IF YOU GET LOST”: i singoli di lancio, da LUMBERJACK a WUSYANAME, vanno fortemente in questa direzione. Tuttavia, allo stesso tempo, il Tyler più pop di “IGOR” non viene totalmente sacrificato: i due brani più ambiziosi, SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE e WILSHIRE, sono R&B di qualità. Questa varietà alle volte è confusionaria, ma i risultati generali sono ottimi.

La struttura del lavoro è davvero particolare: abbiamo una canzone che supera gli otto minuti, un’altra che quasi arriva a dieci! Ma poi allo stesso tempo contiamo numerosi intermezzi e brani che sembrano solo abbozzati… Insomma, una creatività incontenibile, non sempre efficace ma mai fine a sé stessa. Dei pochi brani che superano i tre minuti di durata, i migliori sono MASSA e SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE; buona anche LEMONHEAD. Invece sotto le attese RISE!.

In conclusione, il CD è un altro passo avanti per un artista imprescindibile se si vuole comprendere lo scenario hip hop contemporaneo. Tyler, The Creator si conferma cantautore maturo e baciato dal talento: il successo di pubblico e critica che ultimamente sta avendo è meritato.

16) shame, “Drunk Tank Pink”

(PUNK)

Il secondo disco degli shame, talentuosa band punk inglese, evita con abilità la “trappola del secondo album” che spesso colpisce gruppi che hanno scritto esordi fantastici quali “Songs Of Praise” (2018), che fra le altre cose era stato oggetto di una rubrica Rising di A-Rock ed era entrato sia nella lista dei migliori CD dell’anno che in quella dei migliori della decade 2010-2019.

Insomma, A-Rock attendeva con trepidazione “Drunk Tank Pink” e gli shame non hanno tradito. Il disco suona più feroce rispetto all’esordio, che flirtava con l’indie rock in larghi tratti. “Drunk Tank Pink” invece è un puro album punk: arrabbiato, feroce, oltre che influenzato dalla pandemia che ormai da un anno sta devastando le nostre vite. Questo sebbene il CD sia pronto da tempo: basti dire che già a febbraio 2020 il lavoro doveva essere pubblicato, ma il Covid-19 ne ha ritardato l’uscita.

E allora come mai il sentimento di isolamento traspare così chiaramente dalle liriche di “Drunk Tank Pink”? Il frontman Charlie Steen, dopo un tour estenuante seguito al successo di “Songs Of Praise”, si è auto-isolato in un ambiente a chiare tinte rosa (da qui il titolo) cercando di recuperare le forze fisiche e mentali. Lo stesso hanno fatto i suoi compagni di band, con effetti sorprendenti sul loro sound: come già accennato, il disco suona davvero feroce in alcuni tratti, si sentano per esempio 6/1 e la cacofonica Station Wagon che chiude il disco. Merito anche dello sperimentalismo alla chitarra di Sean Coyle-Smith e della produzione di James Ford, già all’opera con Arctic Monkeys e Foals.

Non per questo gli shame rinunciano totalmente all’essere amichevoli con l’ascoltatore: l’iniziale Alphabet è un ottimo singolo di lancio, così come Nigel Hitter. Tuttavia, le migliori canzoni sono quelle propriamente punk, su tutte Water In The Well. Invece sotto la media proprio Nigel Hitter.

Le liriche, come dicevamo, trasudano angoscia e malinconia malgrado siano state scritte pre-Covid: in March Day Steen urla “In my room, in my womb, is the only place I find peace”. Invece in Water In The Well emerge il lato più canzonatorio degli shame: “Which way is heaven, sir? We all got lost somehow” è un verso davvero ironico. Infine Station Wagon conclude epicamente “Drunk Tank Pink” con le seguenti, ambiziose parole: “Nobody said this was going to be easy and with you as my witness I’m going to try and achieve the unachievable”.

In generale, dunque, “Drunk Tank Pink” non è affatto una replica del fortunato “Songs Of Praise”, quanto piuttosto una prova ulteriore del talento degli shame. Il mondo punk inglese ha ufficialmente trovato un altro gruppo imprescindibile: ispirandosi un po’ ai Parquet Courts, un po’ ai Talking Heads (con spruzzate del jazz caro ai black midi), gli shame hanno scritto una pagina davvero importante del 2021.

15) SAULT, “Nine”

(SOUL – R&B)

Il quinto album in meno di tre anni del misterioso gruppo inglese SAULT è uno dei migliori CD di musica black del 2021. Uscito il 25 giugno e disponibile, sia in streaming che come download dal sito ufficiale del gruppo, per soli 99 giorni, “Nine” rende i SAULT un nome imprescindibile per gli amanti di soul, funk ed R&B.

Se l’anno scorso i britannici avevano pubblicato una densa coppia di album, intitolati “UNTITLED (Black Is) e “UNTITLED (Rise)”, con profondi significati politici, il 2021 li vede concentrati su affreschi di vita quotidiana nelle periferie di Londra. Il CD scorre bene, con durata (34 minuti) e numero di canzoni (dieci, con due intermezzi) accessibili a tutti. Fondendo abilmente il meglio della tradizione nera, con richiami a Marvin Gaye, Stevie Wonder e Kendrick Lamar, “Nine” è davvero un bel disco.

Anche liricamente i SAULT si confermano versatili e potenti: se nel brevissimo Mike’s Story l’ospite Micheal Ofo narra drammatici episodi della sua vita quotidiana da bambino, in Alcohol invece si parla degli effetti della dipendenza (“Oh alcohol, look what I’ve done… Oh alcohol, it was only supposed to be one”) e You From London ospita una Little Simz in gran forma, che spara versi come “I know killers in the streets, but I ain’t really involved. We don’t wanna cause any grief, but we get triggered when hearin’ the sound of police”.

Insomma, i SAULT restano tanto misteriosi quanto talentuosi. “Nine” rappresenta ad oggi il loro LP più compiuto, con tante tracce che restano impresse nella memoria dell’ascoltatore (soprattutto London Gangs e Bitter Streets) e nessun episodio davvero debole. In poche parole: stiamo parlando di uno dei migliori dischi dell’anno.

14) Magdalena Bay, “Mercurial World”

(POP)

Il primo disco dei Magdalena Bay, la band formata da Mica Tenenbaum e Matthew Lewin, è una ventata di aria fresca nella scena pop. Mescolando influenze variegate, da Grimes a Charli XCX passando per Carly Rae Jepsen, il duo riesce infatti a creare un CD davvero trascinante, ben sequenziato e ricco di ottimi pezzi synth pop.

Passando sopra la scelta di iniziare “Mercurial World” con The End e terminarlo con The Beginning, un po’ troppo fintamente anticonformista, i Magdalena Bay confermano il bene che si diceva di loro negli ambienti specialistici. Dalla title track a Chaeri, da You Lose! a Secrets (Your Fire), il CD è un trionfo per gli amanti tanto di Britney Spears quanto di Madonna, tanto per citare due veterane della scena. Insomma, abbiamo trovato un ottimo disco pop.

Non fosse per testi spesso deboli e una seconda metà leggermente sottotono (che contiene ad esempio la prevedibile Prophecy) rispetto alla squisita parte iniziale, staremmo parlando di un capolavoro. Tuttavia, contando che stiamo parlando di un esordio sulla lunga durata (a nome Magdalena Bay compaiono infatti anche un EP e due brevi mixtape), “Mercurial World” è davvero un successo e farà certamente comparire il nome dei Magdalena Bay in varie liste dei migliori album del 2021.

13) Turnstile, “GLOW ON”

(PUNK)

Giunti al terzo album di punk tanto duro quanto sperimentale, gli americani Turnstile hanno prodotto il migliore CD della loro carriera. Mescolando hardcore, rock alternativo, R&B (!) e dream pop (!!), la band con “GLOW ON” ha creato un’esperienza sonora davvero unica.

Sia chiaro, la sperimentazione è benvenuta, ma “GLOW ON” è un album di hardcore punk fatto e finito: pezzi come DON’T PLAY e HOLIDAY sono durissimi, tanto per capirsi. Invece abbiamo ad esempio UNDERWATER BOI e ALIEN LOVE CALL, che suonano quasi rilassanti. A chiudere il cerchio, il grande artista R&B Blood Orange (nome d’arte di Dev Hynes) collabora proprio in ALIEN LOVE CALL e LONELY DEZIRES, confondendo ancora di più le acque. Insomma, un cocktail sonoro incredibile e sorprendente, che ammalia sia i fan duri e puri sia, potenzialmente, il pubblico più mainstream.

Liricamente, il lavoro passa da liriche più riflessive (“Too bright to live! Too bright to die!” in HOLIDAY e “Still can’t fill the hole you left behind!” in FLY AGAIN) ad altri più trascinanti e pronti per i live incendiari della band, come “You really gotta see it live to get it” (NO SURPRISE) e “If it makes you feel alive! Well, then I’m happy to provide!” (BLACKOUT). La frase più rappresentativa dell’estetica dei Turnstile è però contenuta in HOLIDAY: “I can sail with no direction”.

I migliori brani sono BLACKOUT e MYSTERY, mentre un po’ sotto la media i brevi intermezzi HUMANOID / SHAKE IT UP e NO SURPRISE. In generale, tuttavia, siamo di fronte a un CD davvero innovativo per il genere hardcore e che potrebbe aprire la strada a molti gruppi nei prossimi anni, vogliosi di rischiare lo “sbarco” nel mondo più commerciale senza però tradire il genere.

12) Iceage, “Seek Shelter”

(ROCK – PUNK)

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

11) Floating Points, Pharoah Sanders & London Symphony Orchestra, “Promises”

(ELETTRONICA – JAZZ)

La collaborazione fra un grande veterano del jazz, un talentuoso compositore di musica elettronica e una tra le orchestre più stimate a livello mondiale non poteva che dare risultati interessanti. “Promises” è un lavoro molto ambizioso, che riesce nel complesso a mescolare abilmente i tre mondi messi a confronto e lascia brillare tutti e tre gli interpreti in eguale maniera.

Il CD si compone di nove movimenti composti da Sam Shepherd, in arte Floating Points, poi arrangiati assieme a Pharoah Sanders, leggenda vivente del jazz, e alla London Symphony Orchestra. Se all’inizio è difficile riuscire a capire cosa aspettarsi, col tempo e attraverso ripetuti ascolti “Promises” si rivela un LP molto ricco, ma non sovraccarico, in cui gli attori sono tutti protagonisti allo stesso livello.

Il primo movimento è decisamente rilassante, un pezzo ambient in cui il potente sax di Sanders si sente solo nella parte finale; invece poi nel successivo la situazione si ribalta e Shepherd lascia il palcoscenico all’orchestra e a Pharoah. Il lavoro è un continuo, sapiente alternarsi fra momenti più vivi (Movement 4) e altri più quieti (Movement 8), che creano un prodotto davvero imperdibile per gli amanti del jazz e della musica d’ambiente. I migliori momenti sono rintracciabili in Movement 1 e Movement 6, mentre è sotto la media Movement 9.

In conclusione, la collaborazione fra tre pesi massimi della scena musicale, rappresentanti di generi apparentemente distanti come musica classica, jazz ed elettronica, ha generato un lavoro davvero ben strutturato, i cui 46 minuti rappresentano un toccasana in tempi così difficili. Non per tutti, ma “Promises” almeno un ascolto lo merita.

10) Nick Cave & Warren Ellis, “CARNAGE”

(ROCK)

Il nuovo disco della leggenda australiana del rock alternativo e del fidato Bad Seed Warren Ellis è un’altra aggiunta di spessore ad una discografia davvero magnifica. Si tratta peraltro della prima collaborazione fra i due non devota alla creazione di una colonna sonora per un film. Riprendendo alcuni dei territori musicali esplorati nei lavori recenti con i Bad Seeds e tornando ad alcune sonorità più rock del passato, Nick Cave ha scritto un CD perfetto per la pandemia che stiamo vivendo: a tratti angosciante, ma con un messaggio di speranza che dà conforto.

“CARNAGE”, letteralmente “massacro”, è un titolo intimidatorio, soprattutto in pieno Covid-19: tuttavia, il tema del virus è solo marginale rispetto alle riflessioni proposte da Cave ed Ellis. Emergono soprattutto i temi della fede e dell’amore, da sempre al centro della poetica di Nick Cave; ma se fino a “Push The Sky Away” (2013) c’era sempre una visione quasi demoniaca, da artista maledetto, la morte tragica del figlio Arthur nel 2015 ha radicalmente cambiato le carte in tavola per Nick Cave & The Bad Seeds, che da quel momento hanno privilegiato ritmi più compassati e sonorità quasi ambient, basti risentirsi “Ghosteen” (2019).

Testualmente, dicevamo che il disco tratta temi svariati: il “kingdom in the sky” ritorna più volte nel corso dell’opera, dapprima nell’iniziale Hand Of God e poi in White Elephant e Lavender Fields. Il messaggio più bello che viene trasmesso dal Nostro, contenuto in quest’ultima composizione, è però dedicato ai nostri cari che ci hanno lasciato: “Where did they go? Where did they hide? We don’t ask who, we don’t ask why there is a kingdom in the sky”. Infine, Shattered Ground affronta il tema del rapport tormentato fra il narratore e la sua partner, con una frase che molti di noi avranno pensato almeno una volta nella vita: “Oh, baby, don’t leave me”, che assume un significato ancora più evocativo in questi tempi difficili.

Il CD è molto compatto: otto brani per 40 minuti. Il contenuto musicale è però davvero notevole: passando dall’art pop di Albuquerque alle sonorità più dure di White Elephant, con in mezzo l’ottima Old Time e una seconda parte più raccolta, “CARNAGE” è uno dei migliori dischi di inediti pubblicati nel 2021. Nick Cave ha confermato ancora una volta un talento più unico che raro e, aiutato dal fido Warren Ellis, ha pubblicato un lavoro imprescindibile per gli amanti del cantautore australiano.

9) Squid, “Bright Green Field”

(PUNK – ROCK – SPERIMENTALE)

Le prime parole cantate da Ollie Judge in G.S.K., primo vero brano del CD d’esordio dei britannici Squid (se sorvoliamo l’intro ambient di Resolution Square), sono: “As the sun sets, on the Glaxo Klein, well it’s the only way that I can tell the time”. Beh, la dichiarazione d’intenti è chiara: gli Squid sono decisamente anticapitalisti e non esitano a farlo sapere immaginando un’isola distopica, su cui il settore industriale dei Big Pharma governa indisturbato. Se a ciò aggiungiamo che il frontman è il batterista del gruppo (piuttosto insolito eh?) e che, oltre al classico trio chitarra-basso-batteria, negli Squid trovano spazio sax, violini, trombe e chi più ne ha più ne metta, capirete che siamo di fronte a un lavoro piuttosto variegato e sfidante.

Le 11 canzoni che formano “Bright Green Field” sono pervase da questo senso di inquietudine, accentuato dal modo di cantare di Judge: nevrotico, paranoide, molto simile al David Byrne dei primi Talking Heads. Il riferimento alla band statunitense non è casuale: nei brani migliori del lavoro, da Narrator a Paddling, i Talking Heads sono un chiaro riferimento per gli Squid. Non dobbiamo però pensare che i giovani britannici siano solamente un ennesimo succedaneo della scena new wave e post-punk degli anni ’80.

Infatti, accanto a David Byrne & co., troviamo il post-rock degli Slint (2010), il rock danzereccio dei Franz Ferdinand (Paddling) e una parentesi drone francamente non molto riuscita, ma comunque indice di una voglia di sperimentare sconfinata (Boy Racers). Accanto a questo interessante cocktail sonoro troviamo, come già accennato, liriche spesso davvero pessimiste (un esempio è “You’re always small and there are things that you’ll never know”, in Boy Racers), quando non vere e proprie urla selvagge (Narrator, merito dell’ospite Martha Skye Murphy).

Il 2021 si è caratterizzato come l’anno in cui il rock è tornato sulle bocche di tutti, non tanto per le imprese dei vecchi leoni, ma piuttosto per l’emergere sulla scena underground, specialmente inglese, di band davvero intriganti, ambiziose e mai dome (citiamo, oltre agli Squid, i black midi e i Black Country, New Road). “Bright Green Field” non è un LP perfetto, ma sembra un ottimo antipasto di una carriera già ottimamente lanciata dall’EP del 2019 “Town Centre”. Gli Squid, dal canto loro, si candidano a grande rivelazione della scena punk-rock del 2021.

8) The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

(ROCK)

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

7) Godspeed You! Black Emperor, “G_d’s Pee AT STATE’S END!”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo CD del leggendario gruppo post-rock canadese è un highlight in una carriera già costellata di perle, sia molto in là nel tempo (“Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” del 2000) che più recenti (“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” del 2012). Il disco è infatti fra i più euforizzanti in un periodo di sospensione come quello che stiamo vivendo, in cui alla paura del virus si contrappone la speranza per le campagne vaccinali in corso. Che la luce sia finalmente in fondo al tunnel? I Godspeed You! Black Emperor, a tratti, ne paiono convinti.

In effetti, l’inizio del lavoro ci fa tornare alle lugubri atmosfere di “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”: A Military Alphabet, la prima delle quattro suite in cui è diviso “G_d’s Pee AT STATE’S END!”, è il pezzo più ossessivo e pessimista del lavoro. Al contrario, il tono della seguente Fire At Static Valley è più positivo e fa del post-rock quasi gradevole e accessibile, non una tipica caratteristica dei Godspeed You! Black Emperor.

Le due lunghe tracce che chiudono il lavoro, “GOVERNMENT CAME”OUR SIDE HAS TO WIN (for D.H.), mantengono questa dualità; tuttavia, a differenza dei lavori della prima fase della carriera del complesso di Montreal, il tono complessivo è di cauto ottimismo. È per questo che “G_d’s Pee AT STATE’S END!” è un ottimo LP per la vita durante la fase conclusiva (almeno speriamo) dell’emergenza Covid-19: se è vero che non siamo di fronte ad un disco puramente pop, d’altro canto la forza di queste quattro composizioni è innegabile e rende il 2021 davvero interessante per gli amanti del rock alternativo e sperimentale.

Un’ultima curiosità: il quattro pervade tutto il CD. Siamo infatti di fronte al quarto album della fase post reunion della band, le canzoni (pur elaborate) sono teoricamente quattro e probabilmente, come qualità, questo è il quarto più bel disco nell’intera produzione dei canadesi. Quest’ultimo dato è sufficiente per capire il talento di questi pilastri dello scenario rock.

6) Dave, “We’re All Alone In This Together”

(HIP HOP)

Avevamo lasciato Dave, il talentuoso rapper britannico di origine nigeriana, al successo dell’esordio “Psychodrama” (2019), che gli aveva fatto vincere il Mercury Prize e lo aveva reso una delle voci preminenti della nuova generazione inglese. Beh, tutta questa credibilità viene mantenuta, se non rinforzata, da “We’re All Alone In This Together”: un CD lungo, difficile, ma di infinita profondità e con testi sempre toccanti ed efficaci. Potremmo davvero essere di fronte al miglior rapper d’Oltremanica al momento, almeno parlando al maschile (si veda la posizione numero 1 della lista).

Le 12 canzoni di “We’re All Alone In This Together” sono variegate, possono contare su ospiti di spessore internazionale come James Blake e Stormzy… e allo stesso tempo creano un album di altissimo replay value. Passiamo dalla durezza di Verdansk ai ritmi quasi tropicali di System (con Wizkid) alla trap accennata di Clash (che vanta Stormzy), con le perle delle monumentali cavalcate Both Sides Of A Smile e Heart Attack, la prima di circa otto minuti e la seconda lunga quasi dieci!

Anticipavamo che il CD non è di immediata assimilazione, anche per i temi trattati da Dave: nei testi possiamo infatti ritrovare riferimenti alla vita degli immigrati di origine jugoslava costretti a emigrare nel Regno Unito durante la guerra degli anni ’90, così come la denuncia della maggiore ingiustizia mai patita da immigrati in terra inglese (rimpatriare nei Caraibi delle persone che avevano diritto di stare Oltremanica, privandoli dei loro averi e delle loro case). A chiudere il quadro, nell’introduttiva We’re All Alone il rapper parla di istinti suicidi sia per sé stesso che per il ragazzo con cui dialoga nel corso del brano, mentre nel pezzo finale Survivor’s Guilt si mette a piangere a causa di un attacco d’ansia… Del resto, da colui che aveva immaginato il suo esordio come la confessione di uno psicopatico non potevamo aspettarci di meno.

In conclusione, la ricchezza di significati e di sonorità fanno di “We’re All Alone In This Together” un album imprescindibile per gli amanti dell’hip hop. Dave si candida come re dello scenario rap britannico e, chissà, a sfondare anche in altre parti del mondo. La cosa più incredibile è che non si può essere sicuri che abbia raggiunto il picco delle proprie qualità: che si sia di fronte al nuovo Kendrick Lamar? La risposta al prossimo CD. Per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori prodotti hip hop dell’anno.

5) Silk Sonic, “An Evening With Silk Sonic”

(R&B – SOUL)

Ci sono collaborazioni che sembrano fatte apposta per nascere e prosperare: il progetto Silk Sonic, formato da Bruno Mars e Anderson .Paak, ne è un caso emblematico. “An Evening With Silk Sonic” è una gemma, capace di evocare le atmosfere del soul anni ’70 di Marvin Gaye e Stevie Wonder con delicatezza ma senza suonare come un plagio, anzi con hit indelebili che ne fanno un CD imperdibile in questo strano 2021.

Non sempre le partnership fra pesi massimi escono come erano state pensate: se in certi casi era impossibile che fallissero (David Bowie e i Queen, con Under Pressure), in altri hanno prodotto risultati contraddittori (Future e Drake in “What A Time To Be Alive” del 2015) oppure addirittura disastrosi (Lou Reed e i Metallica con “Lulu”, 2011). Beh, Silk Sonic è un caso a sé stante: non per forza Mars e .Paak parevano destinati al successo, ma “An Evening With Silk Sonic” è un piccolo capolavoro, che rende i Silk Sonic maggiori della somma dei singoli interpreti.

Già i singoli di lancio avevano fatto pensare a un lavoro eccellente: Leave The Door Open è un’ottima ballata, Skate è un perfetto brano funk mentre Smoking Out The Window, pur leggermente inferiore agli altri due, è comunque un buonissimo pezzo. Se a questi aggiungiamo After Last Night, con la preziosa collaborazione di Thundercat e del veterano Bootsy Collins, già bassista dei Parliament-Funkadelic, abbiamo metà CD di perle. Il resto del lavoro contiene brani che, seppur discreti, non arrivano a questi livelli, ma il risultato complessivo è in ogni caso ottimo, contando anche la totale mancanza di tracce riempitivo (basti dire che “An Evening With Silk Sonic” dura a malapena 32 minuti), tanto che ci viene da desiderare che ci siano 2-3 canzoni in più per arrivare ai canonici 40 minuti, fatto sempre più raro nel panorama musicale odierno.

In conclusione, il progetto Silk Sonic, pur non brillando a volte di originalità (si senta Put On A Smile), raggiunge risultati davvero squisiti. Anderson .Paak è ormai pronto per il salto definitivo nel mainstream, mentre Bruno Mars, dal canto suo, si conferma infallibile produttore di hit. “An Evening With Silk Sonic”, ad oggi, è il miglior CD soul del decennio oltre che uno dei più belli del 2021.

4) Black Country, New Road, “For The First Time”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il giovane gruppo britannico, composto da ben sette elementi, quattro ragazzi e tre ragazze (tra cui sassofono e violino), ha pubblicato uno degli esordi più sorprendenti degli ultimi anni. Mescolando abilmente post-punk, jazz e post-rock, i Black Country, New Road si inseriscono nel solco dei black midi e di altre giovani band inglesi che stanno rivoluzionando la scena, denunciando allo stesso tempo i mali della società moderna.

“For The First Time” può sembrare un modo umile di introdurre la band al grande pubblico: il CD è infatti composto da sei canzoni, di cui due singoli, quindi gli inediti veri e propri sono solo quattro. Tuttavia, guardando il range coperto nel corso dei 40 minuti dell’album, si capisce che il vocalist Isaac Wood (dotato di un timbro molto simile a King Krule) e soci hanno operato una scelta corretta. I risultati, come già accennato, sono davvero incredibili a tratti.

Sorretti da una base ritmica clamorosa e con testi sempre calati nel presente, spesso amaro, che i membri del gruppo ben conoscono, i Black Country, New Road stupiscono fin da subito con Instrumental, che, come indica la parola, non ha testo ma serve da perfetta introduzione per le seguenti canzoni. Athens, France è uno dei brani più amichevoli del CD, non a caso scelto come singolo, mai prevedibile ma allo stesso tempo accessibile. Invece Science Fair è l’episodio più brutale, che ricorda gli Slint. Sunglasses è una traccia davvero epica, à la Nick Cave con tocchi di Godspeed You! Black Emperor che fa intravedere un possibile futuro per il gruppo. La delicata Track X (unica un po’ fuori contesto) e Opus chiudono un lavoro che richiede molteplici ascolti per esser apprezzato appieno.

In conclusione, “For The First Time” si candida ad esordio dell’anno in campo rock: sperimentale, feroce ma anche in alcuni tratti accessibile, è un disco che farà parlare di sé per lungo tempo. I Black Country, New Road hanno imposto degli standard molto alti per il loro futuro: vedremo se sapranno mantenerli. Inutile dire che, ad A-Rock, non vediamo l’ora di analizzare dove andranno a parare.

3) black midi, “Cavalcade”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori da ogni logica, ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

2) Billie Eilish, “Happier Than Ever”

(POP)

Era il CD più atteso dell’estate e ha pienamente mantenuto le aspettative. “Happier Than Ever”, il secondo album della popstar più brillante del momento, fa di Billie Eilish non solo un nome imprescindibile per capire il pop contemporaneo, ma anche la più seria candidata alla palma di album dell’anno in ottica Grammy, premio che lei ha già conquistato con il fulminante esordio “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” del 2019.

È difficile inquadrare il fenomeno Billie Eilish senza partire dalle sue origini: amante delle canzoni di Justin Bieber e delle altre popstar, la giovanissima Billie (intorno ai 13-14 anni) incomincia a postare le sue canzoni su Youtube e su Spotify. Il successo è immediato e il passaparola la porta a essere considerata una stella ancora prima di incidere un disco vero e proprio. L’EP “dont smile at me” (2017) è solo un antipasto prima dell’abbuffata di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, che la catapulta in una dimensione dove solo poche persone possono stare: adorata dai giovanissimi ma anche dai genitori più “progressisti”, amata dalla critica per le sonorità eterogenee rispetto al pop stereotipato che domina le classifiche, ma anche per i testi candidi sulle sue paure. Billie, infatti, non ha timore di parlare di istinti suicidi, visioni di amici seppelliti e mostri sotto il letto.

Il CD in realtà non è perfetto: ancora si respira una certa ingenuità in Billie e nel fratello Finneas, che produce tutti i suoi brani ed è spesso co-autore. Pezzi come Bad Guy e When The Party’s Over, tuttavia, sono irresistibili: specialmente il primo, ormai, è storia della musica. La ragazza con i capelli verdi, però, ha lasciato il passo ad un’altra incarnazione: capelli biondo platino, corpo non più nascosto sotto pesanti maglioni neri, in volto una malinconia evidente malgrado il titolo del lavoro, evidentemente ironico.

In effetti, c’è poco da stare allegri: il mondo è devastato da due anni da una pandemia terribile, Billie è osservata costantemente da paparazzi in cerca di scoop o stalker che la inseguono ovunque vada, non può avere una relazione amorosa normale a causa della sua fama… Tutto questo affiora, in modo più o meno evidente, in “Happier Than Ever”.

Fin dall’introduttiva Getting Older, infatti, i temi portanti del CD sono messi in evidenza: il titolo annuncia una Billie Eilish più matura, che non rinuncia all’ironia, “Things I once enjoyed just keep me employed now” canta convintamente. In Your Power emergono invece i rapporti di abuso stabiliti da alcuni uomini a danno delle ragazze più giovani e spesso indifese: “She was sleeping in your clothes, but now she’s got to get to class… Does it keep you in control, for you to keep her in a cage?”. Altrove emerge l’ansia per il futuro tipica dei giovani (“Know I’m supposed to be with someone, but aren’t I someone?”, my future) e la paura che le vengano attribuite dicerie non veritiere (“Stop, what the hell are you talking about? Get my pretty name out of your mouth”, Therefore I Am). Il tema che spesso emerge è però quello dell’amore tradito, finito male: nella title track il suo ex la chiama ubriaco da una Mercedes, Male Fantasy vede Billie perplessa mentre guarda un video pornografico.

Musicalmente, il CD è un trionfo: Eilish esplora folk (Your Power, Male Fantasy), pop elettronico à la Grimes (Oxytocin), R&B (OverHeated), trip hop (NDA), ritmi latini (Billie Bossa Nova) e addirittura il rock in stile Mitski nella title track. In mezzo abbiamo altri esperimenti davvero sorprendenti: my future parte come un semplice brano pop ma poi evolve in un brano quasi funk, con retrogusto jazz. Discorso a parte per Oxytocin e I Didn’t Change My Number: sono i due pezzi che più si avvicinano al pop gotico e a tinte horror di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, con il primo destinato a diventare un successo anche live della Nostra. Gli unici brani inferiori alla media stratosferica del CD sono Halley’s Comet, prevedibile, e Not My Responsibility, un brano spoken word dal forte significato ma debole melodicamente.

Chi credesse ancora che Billie Eilish è solamente un fenomeno mediatico, destinato a sgonfiarsi presto, dovrà ricredersi: “Happier Than Ever” è un lavoro completamente diverso dall’esordio, che pure aveva conquistato molti. Non sarebbe stato un peccato mortale tornare a quelle atmosfere; invece la cantautrice americana si è superata, optando per un lavoro composito, dove le 16 canzoni, tuttavia, non appaiono mai in sovrannumero. In poche parole, siamo di fronte ad una ragazza dal talento splendente.

1) Little Simz, “Sometimes I Might Be Introvert”

(HIP HOP)

Avevamo già capito dai singoli di essere di fronte ad un CD speciale. Introvert, Woman e I Love You, I Hate You sono colossali pezzi rap, ma non solo: Little Simz è capace, infatti, di flirtare con funk e soul in ugual maniera, creando un amalgama quasi perfetto. “Sometimes I Might Be Introvert”, in poche parole, è l’album migliore del 2021.

Little Simz, per i fan di lunga data di A-Rock, è un nome noto: inserita in un appuntamento della rubrica Rising e premiata con la palma di terzo miglior album del 2019 per “GREY Area”, il suo profilo era sempre stato sui taccuini anche della critica mainstream, ma non aveva mai sfondato completamente col pubblico, soprattutto quello al di fuori del Regno Unito. Ebbene, con questo CD è probabile che la notorietà della Nostra cresca; ed è un premio davvero meritato. Abbiamo trovato il contraltare a Kendrick Lamar, aspettando ovviamente il nuovo album di K-Dot, dato come ormai imminente.

Notiamo subito una cosa: le iniziali di “Sometimes I Might Be Introvert” danno SIMBI, che è il nomignolo con cui Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo è conosciuta fra gli amici più stretti. Non è un fatto casuale: molte volte nel corso del lavoro emerge questa duplicità, addirittura in Rollin Stone la sentiamo dire: “Can’t believe it’s Simbi here that’s had you listenin’… Well, fuck that bitch for now, you didn’t know she had a twin”, quasi come se stessimo assistendo ad uno sdoppiamento della sua personalità. Tuttavia, il tema del rapporto fra la Simbi privata e la Little Simz pubblica non è l’unico affrontato nel corso del CD.

Altrove abbiamo infatti la voglia di celebrità che colpisce molti di noi, specie in tempi di social network imperanti (“Why the desperate need for an applause?” domanda in Standing Ovation), l’assenza del padre (“Is you a sperm donor or a dad to me?” è forse il verso più bello della stupenda I Love You, I Hate You) così come la morte violenta del cugino, in Little Q Pt. 2. I versi più belli e potenti sono però contenuti in Introvert: “All we see is broken homes here and poverty, corrupt government officials, lies and atrocities. How they talking on what threatening the economy, knocking down communities to re-up on properties. I’m directly affected: it does more than just bother me”.

Non per questo, però, bisogna pensare che il CD sia troppo carico di tematiche e influenze; anzi, “Sometimes I Might Be An Introvert” spicca anche per l’incredibile abilità di Little Simz nel maneggiare generi diversi con uguale maestria. Se proprio vogliamo trovare un difetto nel disco, sono i numerosi intermezzi narrati dalla voce dell’attrice Emma Corrin, interprete di Diana Spencer nella serie tv The Crown e amica di Little Simz. Ma sarebbe un errore concentrarsi su di essi davanti a una tale quantità di canzoni magistrali.

Possiamo rintracciare i maestri di Simbi in Lauryn Hill, D’Angelo e lo stesso Kendrick Lamar, ma lei riesce a suonare puramente Little Simz. Se “GREY Area” era un LP scarno, con beat minimali su cui la Nostra rappava senza sosta, adesso c’è una intera orchestra che la supporta in alcuni brani, tra cui i due più belli del lavoro, Introvert e Woman. Altri pezzi imperdibili sono I Love You, I Hate You e la funkeggiante Protect My Energy.

In conclusione, “Sometimes I Might Be An Introvert” è il primo album rap davvero imperdibile del decennio 2020-2029. Chissà se qualcuno riuscirà in futuro a scrivere pagine altrettanto importanti in questo genere; per il momento godiamoci questo lavoro, il compimento di otto anni di carriera da parte di Little Simz, nuovo volto simbolo della scena hip hop britannica.

Il podio è quindi formato da due ragazze e un giovane gruppo britannico, che rappresentano tre dei generi più importanti al momento: rock, pop e rap. In quanto a diversità e varietà di generi, mai A-Rock aveva avuto un terzetto di così ampie vedute: un altro segno che la buona musica, quando colpisce l’ascoltatore, non conosce confini o pregiudizi di sorta.

Che ve ne pare di questa lista? Vi convince o avreste preferito vedere altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: maggio 2021

Maggio è stato un mese decisamente affollato di uscite importanti. Ad A-Rock abbiamo avuto il nostro bel da fare: abbiamo recensito i nuovi, attesi lavori degli Iceage e dei black midi. In più, interessanti le novità discografiche a firma The Black Keys e St. Vincent, oltre agli EP di Jorja Smith e dei Mannequin Pussy. Buona lettura!

black midi, “Cavalcade”

cavalcade

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori logica ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021 finora, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

Voto finale: 8,5.

Iceage, “Seek Shelter”

seek shelter

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

Voto finale: 8.

St. Vincent, “Daddy’s Home”

daddy's home

Giunta ormai al settimo album di inediti (contando anche quello del 2012 con David Byrne), Annie Clark reinventa nuovamente la sua estetica e la sua persona, tornando alla New York degli anni ’70, sporca e cattiva, seducente e malinconica. Siamo nei territori di Lou Reed, del primo Prince, di Sly & The Family Stone: funk, soul e rock si mescolano in “Daddy’s Home” a tematiche strettamente personali, che lo rendono il CD più personale e sperimentale di St. Vincent, ma non il suo miglior lavoro.

Già la campagna promozionale e il titolo fanno intravedere l’argomento portante del lavoro: dopo aver scontato oltre dieci anni di carcere per abusi di mercato in ambito finanziario, il padre di Annie è tornato a casa. Lei aveva già affrontato, anche se lateralmente, la tematica, ad esempio in “Strange Mercy” (2011), ma mai con questa schiettezza. La sua assenza ha pesato molto per St. Vincent e la controversa figura del padre assume qui il ruolo di musa dell’artista.

Musicalmente, come dicevamo, la ricerca di St. Vincent è una delle più fertili e innovative del rock moderno: partita come membro del coro di supporto a Sufjan Stevens, nel 2007 Annie decideva di passare solista e pubblicava il delizioso “Marry Me”, art pop ben fatto ma mai scontato, con grande lavoro alla chitarra. Questa sarà la caratteristica fondamentale di tutte le mutazioni del progetto St. Vincent: che si parli di indie rock futuristico (“St. Vincent” del 2014) o di pop sexy e avvolgente (“MASSEDUCTION” del 2017), la chitarrista St. Vincent era sempre preminente.

Invece, in “Daddy’s Home”, la chitarra ha un ruolo importante, certo, ma le potenti schitarrate del passato sono abbandonate per un suono più morbido: la svolta potrà piacere o meno, ma denota un’esplorazione che prescinde anche dai punti fissi del passato. Tuttavia, non tutto fila liscio.

Come dicevamo, accanto a brani gloriosi come Live In The Dream (fra i migliori di Annie Clark) e The Laughing Man, abbiamo dei singoli davvero bizzarri: sia Pay Your Way In Pain che Melting Of The Sun sono pezzi troppo complessi, curati e con produzione perfetta da parte di Jack Antonoff (già produttore di Lana Del Rey e Taylor Swift), ma alla lunga monotoni. Invece condivisibile la presenza dei tre brevi intermezzi Humming, che collegano fra loro le diverse parti del CD.

Testualmente, come dicevamo, questo è il disco più intimo di sempre a firma St. Vincent: My Baby Wants A Baby parla della sua sensazione ambivalente verso la maternità, Annie esclama infatti “No one will scream that song I made, won’t throw no roses on my grave… They’ll just look at me and say: Where’s your baby?”. Nella title track, invece, Annie cita le figure femminili che le hanno fatto da riferimento durante la crescita (da Nina Simone a Tori Amos, passando per Joni Mitchell e Marylin Monroe) e durante i periodi più difficili della sua vita.

In conclusione, “Daddy’s Home” è un CD senza dubbio interessante e che merita più di un ascolto per sfoderare tutte le sue delizie. Tuttavia, per chi è più fan della St. Vincent più rock, il CD sarà un passo indietro in termini di qualità. La figura di Annie Clark resta comunque imprescindibile e rappresenta ad oggi la più credibile erede del Duca Bianco, David Bowie, in termini di trasformismo e livello generale della discografia.

Voto finale: 7,5.

Mannequin Pussy, “Perfect”

perfect

Il bravissimo EP dei Mannequin Pussy è il loro primo lavoro senza il membro fondatore Thanasi Paul e il primo dopo l’ottimo terzo CD della loro produzione, quel “Patience” (2019) che li aveva fatti scoprire a molti. Il sound del gruppo si mantiene fedele al punk-rock del passato, ma in Darling troviamo la prima, grande svolta della loro carriera: pare quasi di sentire una b-side dei Beach House!

Quest’ultimo antefatto può mettere di malumore quelli che si aspettano un lavoro sanguigno, come le migliori parti di “Patience” farebbero pensare. Va detto che già nel precedente disco vi erano parti più melodiche, che lasciavano intravedere il lato più commerciale di Missy Dabice & co., tuttavia mai i Mannequin Pussy si erano spinti così avanti come in Darling, “pecora nera” dell’EP ma non per questo fuori luogo.

Il resto del lavoro è invece più nelle corde del gruppo: abbiamo dapprima l’indie rock accattivante di Control, poi la potente title track e la melodiosa To Lose You. L’episodio più duro è Pigs To Pigs, cantato dal bassista Colins Reginsford, per la prima volta frontman del gruppo. La Dabice, dal canto suo, si conferma carismatica e abile a intonare sia pezzi più facili che brani più potenti.

In conclusione, “Perfect” non sarà “perfetto” come il titolo può ironicamente far pensare; tuttavia, l’EP è una ventata di aria fresca nell’estetica dei Mannequin Pussy e ci rende davvero curiosi per le loro prossime mosse.

Voto finale: 7,5.

Jorja Smith, “Be Right Back”

be right back

Il nuovo lavoro della talentuosa cantautrice inglese è un EP di buona fattura. Rispetto all’esordio “Lost & Found” del 2018 Jorja segue la stessa ricetta, fatta di R&B sensuale e neo-soul raffinato, con focus sulla sua splendida voce, ma con alcune piccole aggiunte. Il lavoro non è rivoluzionario, ma ci fa davvero ben sperare per il futuro della Nostra nel mondo della musica.

Se “Lost & Found” aveva un difetto, era di suonare un po’ uguale nella seconda parte del lavoro, malgrado la presenza di perle come la title track e Where Did I Go?. “Be Right Back” sperimenta di più, con spazio al rap in Bussdown (dove è ospite il rapper londinese Shaybo). I risultati non sono sempre convincenti, il prossimo CD sarà una tappa cruciale per Jorja in questo senso.

Chiudiamo con un’analisi sui testi, molto diretti, dell’EP: in Addicted, fra i migliori pezzi dell’album, Smith si lamenta che “The hardest thing, you are not addicted to me”. Una dichiarazione d’intenti molto chiara. Invece in Burn troviamo la seguente accusa: “You burn like you never burn out, try so hard you can still fall down… You keep it all in but you don’t let it out”. Infine in Bussdown abbiamo un’ammissione di fragilità, ma anche di forza d’animo: “They call me Miss Naive, I’m still naïve, I put trust in all the ones that got me… They never really had me”.

In conclusione, “Be Right Back” è un buon EP da parte di un’artista da cui ci aspettiamo molto negli anni a venire. Jorja Smith, infatti, assieme a Lianne La Havas e Jessie Ware, è alfiere di una nuova schiera di cantanti britanniche di qualità, che mescolano al pop generi come R&B, soul e disco, pronte ad affiancare Adele nella conquista dei palcoscenici più importanti. Speriamo per lei che la nostra previsione non venga contraddetta.

Voto finale: 7.

The Black Keys, “Delta Kream”

delta kream

I The Black Keys sono giunti ormai nella loro terza decade di esistenza e al decimo album, tra inediti e cover: due traguardi davvero ragguardevoli per due ragazzi che erano partiti da Detroit senza troppe pretese e invece, grazie a singoli di successo come Lonely Boy e Tighten Up, hanno raggiunto lo status di rockstar.

Per festeggiare, Patrick Carney e Dan Auerbach hanno deciso di rendere omaggio ai loro maestri: il CD è infatti una raccolta di undici cover blues tratte dai più noti artisti del delta del Mississippi (da qui il titolo del lavoro). Svettano in particolare quelle dedicate a Junior Kimbrough, già omaggiato in passato nel gustoso EP “Chulahoma” (2006). Nulla di clamoroso, come ormai da tradizione del duo, ma le canzoni fluiscono bene una dopo l’altra e il disco è un toccasana per gli amanti del blues.

Tra le migliori cover abbiamo Crawling Kingsnake, ottima cover di un classico di John Lee Hooker; buona anche Stay All Night. Invece sotto la media Louise, monotona, oltre a Going Down South, con un falsetto di Auerbach non molto convincente. Menzioniamo infine Do The Romp, già presente col titolo Do The Rump e in una versione molto più acerba nell’esordio del gruppo, “The Big Come Up” (2002).

In generale, l’ascoltatore non deve aspettarsi molto: si tratta semplicemente di due amici che, in due pomeriggi, si sono messi a omaggiare i loro mentori attraverso quello che sanno fare meglio, suonare. La passione e la cura con cui i The Black Keys hanno composto “Delta Kream” sono però di per sé segno di un LP da ascoltare almeno una volta.

Voto finale: 7.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (50-1)

Eccoci giunti alla fine della nostra lunga cavalcata. La lista dei 200 migliori CD del decennio 2010-2019 si conclude qui. Chi avrà trionfato nella lunga lista di A-Rock? Buona lettura!

50) The Field, “Looping State Of Mind” (2011)

(ELETTRONICA)

Il terzo album di Axel Willner è il suo CD più compiuto, in cui fin dal titolo la sua estetica è chiaramente illustrata e messa in risalto.

Le 7 canzoni che formano “Looping State Of Mind” vanno dalla techno dura e pura (It’s Up There) ad atmosfere più ambient (Burned Out), che guadagneranno peso nel corso degli anni nei successivi lavori a firma The Field, si pensi a “Infinite Moment” (2018). Il compositore svedese inoltre crea le sue melodie più accattivanti, da Is This Power a Then It’s White, che aggiungono quel qualcosa in più ad un lavoro già ottimo.

In conclusione, “Looping State Of Mind” non avrà forse l’effetto sorpresa del fulminante esordio di Willner, quel “From Here We Go Sublime” (2007) che aveva fatto gridare al miracolo. Tuttavia, data la grazia e la compattezza messe in mostra nel corso dell’album, probabilmente sarà “Looping State Of Mind” ad entrare maggiormente nel cuore dei fans presenti e futuri.

49) Caribou, “Our Love” (2014)

(ELETTRONICA)

Dan Snaith (aka Manitoba aka Caribou) ci ha abituato nel corso della sua carriera a pause corpose fra un lavoro e l’altro. Tornato dopo quattro anni di assenza con “Our Love”, i risultati furono come sempre ottimi: l’elettronica di Snaith si differenzia nel CD rispetto al solito per una maggiore attenzione alla parte melodica e intimista delle canzoni (non troverete nessuna Odessa, tanto per intenderci).

I temi affrontati del resto non sono banali: l’amore familiare, il senso di abbandono… Le canzoni di “Our Love” sono più o meno tutte dello stesso, ottimo livello: sia le più brevi (da sottolineare Dive e Julia Brightly) che le più lunghe (la decima ed ultima Your Love Will Set You Free è davvero affascinante). Ne viene fuori un CD bellissimo, con picchi come Can’t Do Without You e la title track, che sono senza dubbio fra le migliori canzoni della decade. Altro gradito lavoro, di quelli che dici: “ma perché Caribou non fa più spesso CD?” Poi però pensi: “magari poi vengono male”. E allora ci rifletti un po’ e dici: “meglio pochi ma buoni”. Una lezione perfettamente imparata da Snaith.

48) Bon Iver, “22, A Million” (2016)

(FOLK – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Dopo un capolavoro come “Bon Iver, Bon Iver” del 2011, Justin Vernon (il leader del progetto Bon Iver) si è preso del tempo per sé stesso, organizzando un nuovo festival musicale nella sua città natale, Eaux Claires, e seguendo la sua nuova creatura musicale, i Volcano Choir. Del resto, lui ha sempre detto che le canzoni vanno “sentite” nel cuore e che scrivere solo per accumulare denaro non fa per lui. Promessa mantenuta: il marchio Bon Iver ha prodotto solamente quattro album e un EP in doici anni di vita. Pochi ma buoni, anzi ottimi: ogni passo della carriera di Vernon è sempre stato un viaggio magnifico, sia che fosse concentrato sui sentimenti del protagonista (come l’esordio “For Emma, Forever Ago” del 2007), sia che ci conducesse in località a volte vere, a volte immaginarie (come accade in “Bon Iver, Bon Iver” del 2011).

Sembrava che ormai Bon Iver fosse qualcosa del passato, invece nel 2016 Vernon ha deciso di resuscitare la band; e i risultati sono di nuovo eccellenti. Già l’inizio è promettente: 22 (OVER S∞∞N) ricorda le atmosfere dei suoi precedenti lavori, risultando in un folk gentile e raffinato, mentre la potente 10 d E A T h b R E a s T rimanda addirittura al Kanye West di “Yeezus”. Abbiamo poi l’affascinante intermezzo di 715 – CRΣΣKS, che sembra una riedizione di quella Woods che era stata ripresa anche da Kanye in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”. Sono però presenti influenze anche di James Blake (non a caso i due hanno collaborato in I Need A Forest Fire) e, beh, delle precedenti incarnazioni di Bon Iver. Queste ultime sono particolarmente evidenti in 33 “GOD” (qua sì che la numerologia ha senso) e 29 #Strafford APTS, non a caso fra i brani migliori del disco. Il capolavoro vero è però 666 ʇ, che possiede una sezione ambient da brividi, così come la bella 8 (circle). Il solo brano non completamente a fuoco è _____45_____, mentre la conclusiva 00000 Million ricorda molto la Beth/Rest che chiudeva “Bon Iver, Bon Iver”.

In conclusione, in sole 10 canzoni e 34 minuti di durata, “22, A Million” ci conferma lo sconfinato talento di Justin Vernon e ci fa bramare per avere al più presto nuova musica da parte sua, anche ora che abbiamo avuto “i,i” (2019) in un tempo relativamente vicino a “22, A Million” (3 anni).

47) Janelle Monáe, “The ArchAndroid” (2010)

(POP – R&B – SOUL)

Janelle, già all’esordio, aveva fatto capire a tutti lo sconfinato potenziale in suo possesso, portato al definitivo compimento nel quasi perfetto “Dirty Computer” (2018). Infatti “The ArchAndroid”, attraverso la parabola dell’androide Cindy Mayweather, mira ad affrontare quanti più generi umanamente gestibili (rock, pop, R&B, hip hop, soul ecc) con i migliori risultati possibili, dividendo l’opera in due suites con tanto di overture e ospiti di spessore (il poeta Saul Williams, Big Boi e Of Montreal fra gli altri).

Le ispirazioni per un CD di tale ambizione e faccia tosta sono il miglior Prince, Michael Jackson e James Brown, specialmente nelle parti più funk del disco. L’apparente confusione è attenuata dall’incredibile abilità dell’artista americana di far finire una canzone nell’altra, esemplare la prima parte con Dance Or Die, Faster e Locked Inside. Sottolineiamo poi la voce sopraffina di Janelle, una delle più affascinanti della sua generazione.

Se a tutto ciò aggiungiamo capolavori del calibro di Tightrope e Cold War, veri highlights del lavoro, e i temi affrontati (accettazione di sé, apertura verso chiunque sia percepito come diverso su tutti), “The ArchAndroid” diventa un LP pressoché immancabile per gli amanti della musica pop più ardita e creativa.

46) Blood Orange, “Negro Swan” (2018)

(R&B)

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family).

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano.

45) Nicolas Jaar, “Space Is Only Noise” (2011)

(ELETTRONICA)

Gli anni ’10, nell’ambito della musica elettronica, sono stati senza dubbio influenzati dalla figura di Nicolas Jaar. Il produttore cileno, fra l’attività in proprio, i Darkside e il progetto A.A.L. (Against All Logic) ha creato un ecosistema integrato che, fondendo fra loro rock, elettronica e musica ambient, ha fortemente influenzato (e probabilmente continuerà a influenzare) l’intera scena musicale.

L’esordio “Space Is Only Noise” mette in mostra un talento cristallino: passando da atmosfere ambient (Être) a sample di Ray Charles (I Got A Woman) Jaar crea un CD tanto strano e vario quanto affascinante. Pochi nell’elettronica moderna sanno essere così versatili ed efficaci, prova ne sia anche il suo secondo LP “Sirens” del 2016, più politico ma non per questo fine a sé stesso.

“Space Is Only Noise” si staglia pertanto come un nodo fondamentale per la musica elettronica del decennio, che ci ha fatto conoscere un talento unico e destinato a scrivere ancora molte pagine importanti nel futuro. Chissà che il capolavoro a firma Nicolas Jaar non debba ancora arrivare…

44) The Horrors, “Skying” (2011)

(ROCK)

Migliorare i risultati già ottimi di “Primary Colours” (2009), il CD che aveva fatto conoscere gli Horrors al mondo, non era per nulla semplice. Il gruppo britannico, con il terzo lavoro di studio “Skying”, non solo lo fa, ma riesce anche a sperimentare ulteriori ritmi e generi musicali, producendo un concept album sul cielo (come già il titolo indica) con forti influenze elettroniche e psichedeliche.

Abbiamo quindi un lavoro meno immediato del precedente, ma ancora più raffinato e profondo: i migliori pezzi sono le iniziali Changing The Rain e You Said, oltre alla meravigliosa Endless Blue (prima lenta, poi shoegaze scatenato), a Oceans Burning e a Wild Eyed (che ricorda gli Strokes). In poche parole: uno dei migliori album del 2011 e della decade 2010-2019.

43) The National, “High Violet” (2010)

(ROCK)

Il quinto album dei The National è ancora oggi il loro prodotto più ornato e barocco. Ricco di sfumature e caratterizzato da toni più cupi rispetto ai loro precedenti lavori, “High Violet” contiene anche alcuni dei brani più iconici del gruppo statunitense. Da Sorrow a Terrible Love, ancora oggi capisaldi dei loro concerti, passando per Bloodbuzz Ohio ed England, secondo molti fans “High Violet” è il disco più bello dei The National.

Effettivamente, se eccettuiamo la più prevedibile Anyone’s Ghost, “High Violet” è uno dei CD rock più compiuti e organici della decade appena trascorsa. Certo, il quintetto non brilla per originalità, ma di LP così “umani” nei testi e nelle fragilità messe in mostra ce ne vorrebbero di più.

È un fatto che poi i The National abbiano fatto anche di meglio col successivo “Trouble Will Find Me” (2013), ma ciò non va a demerito di questo LP, che anzi occupa con merito la posizione 43 nella lista dei migliori album della decade di A-Rock.

42) Nick Cave & The Bad Seeds, “Skeleton Tree” (2016)

(SPERIMENTALE – ROCK)

Come nel 2015 Sufjan Stevens ci aveva fatto commuovere celebrando la figura della madre morta da poco di cancro, Nick Cave con questo CD ricorda il figlio 15enne morto cadendo da una rupe durante le registrazioni del CD che sarebbe diventato “Skeleton Tree”.

Accompagnato dai fedeli Bad Seeds, il veterano australiano del rock alternativo e sperimentale produce un lavoro denso e complesso, come del resto era facile attendersi. Nick Cave mescola sonorità diverse fra loro, tra sperimentalismo, musica ambient e soft rock. I titoli e i testi delle canzoni sono evocativi: I Need You e la lirica “Nothing really matters”, oppure “I am calling you” in Jesus Alone e infine il verso più straziante, contenuto in Distant Sky: “They told us our dreams would outlive us, but they lied”.

Nel film tratto dalla registrazione di “Skeleton Tree”, la drammaticità del momento vissuto da Cave è ancora più evidente; speriamo che aver condiviso la pena di aver perso un figlio così giovane possa alleviare la pesantezza che certamente lui e la sua famiglia portano nel cuore. Noi, umilmente, non possiamo che ringraziarlo per un altro magnifico tassello di una carriera davvero leggendaria: pezzi come la title track, Rings Of Saturn e la già citata Distant Sky sono bellissimi sia musicalmente che, come già accennato, nei loro testi. In poche parole, uno dei CD più belli e delicati della sua eredità.

41) Beach House, “7” (2018)

(ROCK – POP)

I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare oltre, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks ed Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band. Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

I Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

40) Kendrick Lamar, “DAMN.” (2017)

(HIP HOP)

Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto disco di Kendrick Lamar, in data 14 aprile. Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

Questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni: adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica. Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD merita la top 50 dei più belli del decennio. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è una ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva.

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un altro capolavoro o quasi, magari inferiore a “To Pimp A Butterfly” (2015), ma comunque notevole.

39) Arcade Fire, “The Suburbs” (2010)

(ROCK)

Giunti al fatidico terzo album, gli Arcade Fire virano verso un pop molto più barocco dei precedenti lavori, i classici “Funeral” (2004) e “Neon Bible” (2007), con spruzzate di dance (come nella bella Sprawl II – Mountains Beyond Mountains). Il tema portante adesso è l’infanzia dei componenti della band nei sobborghi di Houston.

Anche in “The Suburbs” pezzi riusciti non mancano: in particolare ricordiamo Ready To Start, We Used To Wait e City With No Children, tutti singoli estratti per promuovere il CD e fra i brani migliori mai composti dalla band. Gli Arcade Fire all’epoca sembravano incapaci di sbagliare un LP: l’epiteto di “rock band migliore del mondo” era più che meritato.

Che poi i canadesi abbiano virato verso l’elettronica (con “Reflektor” del 2013) e il pop anni ’70 con “Everything Now” (2017), con risultati controversi, non diminuisce di un’unghia i meriti artistici di “The Suburbs”, LP tanto ambizioso quanto riuscito (e premiato come album dell’anno ai Grammy).

38) Mount Eerie, “A Crow Looked At Me” (2017)

(FOLK)

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la scomparsa dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando lui e una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a ribadire il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere il tuo tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire da un momento all’altro, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

37) Atlas Sound, “Parallax” (2011)

(ROCK)

Il leader dei Deerhunter Bradford Cox, con il progetto Atlas Sound, ha da sempre inteso dare sfogo alla sua vena sperimentale, specialmente nei primi due CD “Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel” (2008) e “Logos” (2009). Invece “Parallax” sarebbe stato un disco perfetto anche per la sua band principale, reduce peraltro in quegli anni dal meraviglioso “Halcyon Digest”: momenti psichedelici si mescolano perfettamente con momenti dream pop e altri più rock, in un amalgama ingentilito da atmosfere sobrie e dalla bella voce di Cox.

Per certi versi questo è il lavoro più pop per Bradford: canzoni perfette o quasi come Te Amo o Mona Lisa farebbero la fortuna di molti artisti indie. Il CD in generale scorre benissimo, con una durata perfetta in termini di canzoni (12) e minuti (48) che lo rendono un “must listen” per gli amanti dei Deerhunter e, in generale, per i fans dell’indie rock più sobrio e raccolto.

36) Janelle Monáe, “Dirty Computer” (2018)

(POP – R&B)

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock. Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell Williams, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, un capolavoro fatto e finito.

35) black midi, “Schlagenheim” (2019)

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

34) Kendrick Lamar, “Good Kid, m.A.A.d City” (2012)

(HIP HOP)

Il secondo album del rapper originario di Compton è stato un punto di svolta per il panorama musicale nel suo intero, non solo per l’hip hop. Mescolando abilmente basi old style con ritratti vividi, a volte tragici, della vita di periferia a Compton, Kendrick si è ritagliato un posto speciale nel cuore dei fans del rap.

Grazie poi alla presenza di ospiti di spessore ma mai invadenti (Dr. Dre, Drake e Jay Rock fra gli altri) il CD si è fatto strada velocemente, raggiungendo anche risultati commercialmente importanti e pienamente meritati. Non ci scordiamo infatti che il disco non contiene solo le più accessibili Poetic Justice e Bitch, Don’t Kill My Vibe; i pezzi veramente stupefacenti sono l’allucinata Sing About Me, I’m Dying Of Thirst (12 minuti di continui capovolgimenti del beat e del flow) e la durissima Backseat Freestyle, puro strumento di K-Dot per far capire a tutti chi fosse il più dotato rapper della sua generazione. Non tralasciamo poi la magnifica The Art Of Peer Pressure e Swimming Pools (Drank), che sarebbero il gioiello della corona del 90% dei rapper attualmente in attività.

“Good Kid, m.A.A.d City” sarebbe l’opera definitiva di pressoché tutti i rapper esistenti. Invece Lamar ha fatto anche di meglio con il successivo “To Pimp A Butterfly” (prego guardare più avanti nella lista), segno che lui e solo lui ha le stigmate per essere incoronato simbolo di una generazione e, senza discussione, miglior rapper degli anni ‘10.

33) Arctic Monkeys, “AM” (2013)

(ROCK)

Una cosa mancava agli Arctic Monkeys per entrare definitivamente nell’Olimpo del rock: il successo in America. Ebbene, “AM” è quello che “The Joshua Tree” è stato per gli U2: la porta d’ingresso per nuove, sconfinate realtà (e un aumento vertiginoso delle vendite).

Le scimmie artiche cambiano ancora nel 2013: nitidi ora sono i riferimenti all’hard rock di Black Sabbath e Kiss. Da non banalizzare però anche le influenze R&B di Dr. Dre (One For The Road) e del rock gentile di Lou Reed (Mad Sounds). Si nota infine l’influenza di Josh Homme e dei suoi Queens Of The Stone Age (Knee Socks), con “Humbug” che ha funto da semplice prova prima del grande salto con “AM”. Resta qualcosa di “Suck It And See”, soprattutto in No.1 Party Anthem; sono però altri i brani top. Da ricordare la durissima Arabella, la celeberrima Do I Wanna Know? e la trascinante Why D’You Only Call Me When You’re High?, ma è anche riuscita la già citata One For The Road.

Gli esordi indie sono ormai dimenticati: Turner e co. sono diventati qualcosa di infinitamente più grande e interessante. In poche parole: una delle più importanti e famose rock band del mondo.

32) Lorde, “Melodrama” (2017)

(POP)

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima. Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

Se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde.

31) Sun Kil Moon, “Benji” (2014)

(FOLK)

Giunto al sesto lavoro di studio, il progetto Sun Kil Moon (capeggiato da Mark Kozelek) ha raggiunto con “Benji” la definitiva consacrazione. Kozelek in “Benji” ritorna all’indie folk delle origini, ma apre contemporaneamente ad un rock quanto mai delicato e gentile. La sua voce, profonda ed evocativa, aiuta a costruire un album quasi perfetto: pezzi come I Can’t Live Without My Mother’s Love e Ben’s My Friend sono già classici, mentre il più “mosso” I Love My Dad ricorda i Kings Of Leon, ma migliorati.

La malinconia che pervade “Benji” non cancella la gioia di vivere trasmessa dalle 11 tracce: del resto, la famiglia e gli amici sono o non sono le cose più importanti della vita?

30) M83, “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011)

(ELETTRONICA – ROCK – POP)

“Ah, questo è il disco di Midnight City!”: ecco il pensiero dell’ascoltatore medio ai tempi dell’uscita di “Hurry Up, We’re Dreaming”, il monumentale doppio album degli M83, il complesso capitanato da Anthony Gonzalez. Il CD è un mix molto eclettico di elettronica epica al punto giusto, rock massivo pronto per le arene di tutto il mondo e pop da cameretta. La cosa stupefacente è che, malgrado l’inevitabile lunghezza in termini di brani (22) e minutaggio (73 minuti), nulla è superfluo.

“Hurry Up, We’re Dreaming” è ad oggi il più riuscito album del complesso di origine francese ma ormai americanizzato, nessuna discussione al riguardo: il pur eccezionale “Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts” (2003), il disco con cui Gonzalez e compagni si erano fatti conoscere al mondo, resta un passo indietro rispetto alla bellezza di pezzi come la celeberrima Midnight City o la Intro. Da non scordare poi la presenza di altri brani iconici come Wait, la bellissima Reunion e la Outro che chiude magistralmente il lavoro.

Gli M83 non sarebbero più stati in grado di replicare la magniloquente bellezza di “Hurry Up, We’re Dreaming”: sia “Junk” (2016) che il più ambient “DSVII” (2019) hanno deviato dal percorso synth/dream pop del precedente capolavoro, con risultati controversi. Del resto, il peso di un CD così riuscito non è facile da sopportare. Siamo tuttavia sicuri che gli M83 hanno ancora delle frecce al loro arco, magari non capaci di creare altri lavori così definitivi, ma almeno interessanti e degni della fama di “Hurry Up, We’re Dreaming”.

29) Beach House, “Teen Dream” (2010)

(POP)

Il terzo album dei Beach House è stata una ventata di freschezza nell’ormai lontano 2010: il mondo dream pop non aveva un manifesto così definito e impeccabile dai tempi dei Cocteau Twins. Pur avendo definito il loro sound già nei loro due precedenti lavori, il timido “Beach Hoise” del 2006 e “Devotion” del 2008, è con “Teen Dream” che Beach House diventa sinonimo di pop di qualità eccelsa.

Mai prima infatti la vocalist Victoria Legrand e il polistrumentista Alex Scally erano parsi così all’unisono determinati, con una chiara visione in testa e una crescita dal punto di vista personale e artistico così vasta ne è un chiaro segnale. Del resto, pezzi come Norway e la più rock 10 Mile Stereo ancora oggi fanno parte del canone del duo, con pieno merito.

I Beach House nel 2012 produrranno un LP ancora più stupefacente di “Teen Dream” (scorrete più avanti per vedere in che posizione si trova nella classifica di A-Rock); ma “Teen Dream” occupa un posto speciale nel cuore dei fans del duo statunitense. È la piena dimostrazione che, quando si esce dalla propria comfort zone, i risultati possono essere a prima vista strani, ma si può arrivare a creare prodotti eccellenti.

28) King Krule, “The OOZ” (2017)

(ROCK – SPERIMENTALE – JAZZ)

Rock, punk, trip hop, jazz, R&B: ecco alcuni dei generi affrontati con successo da Archy Marshall nel suo nuovo CD a nome King Krule. Le numerose identità artistiche assunte da Archy (Zoo Kid, King Krule, il suo stesso nome) hanno significato spesso alcuni cambi nel sound dei dischi prodotti: più ingenui i brani di Zoo Kid, molto eclettici quelli di King Krule, elettronici quelli a nome Archy Marshall. In “The OOZ”, il giovane cantante inglese propone una ricchissima collezione (19 canzoni per 77 minuti di durata), molto varia, sia come lunghezza dei pezzi che come sonorità. Come già accennato, abbiamo pezzi feroci (come la bellissima Dum Surfer e Half Man Half Shark), brani jazz (le belle ballate Czech One e Logos), altri che ricordano i Blur di “13” (Lonely Blue e Biscuit Town).

In generale, stupisce come finalmente Archy sia riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento pur producendo un disco che molti potrebbero bollare come incoerente o troppo ambizioso: un ventunenne che produce con uguale facilità brani rock, jazz e punk non è comune. Inoltre, malgrado il gran numero di brani nella scaletta, nessuno è puramente usato come riempitivo; belli poi i richiami interni al CD, per esempio le due versioni di Bermondsey Bosom, prima “left” poi “right”.

I testi, come sempre nelle canzoni a nome King Krule, affrontano il lato sporco del mondo, in particolare della vita di un giovane di periferia: solitudine, criminalità, droga. Non è un disco facile, come avrete capito: tuttavia, per gli ascoltatori pazienti e amanti della musica ambiziosa e sperimentale, “The OOZ” è un trionfo. Fra i brani migliori abbiamo le già ricordate Dum Surfer e Czech One; non male anche l’enigmatica A Slide In (New Drugs) e The Cadet Leaps, che sembra presa da un disco di Brian Eno. Ottima la title track. Meno riuscite invece Midnight 01 (Deep Sea Diver) e Emergency Blimp, ma non rovinano un LP davvero fantastico. Le influenze sono numerose, ma proprio per questo il sound creato da King Krule è unico: un po’ Massive Attack, un po’ Joy Division, un po’ Tom Waits ecc.

In conclusione, Archy Marshall ha finalmente prodotto quel capolavoro che critica e pubblico aspettavano, ciò che “6 Feet Beneath The Moon” non era stato, malgrado la hype creata da alcuni media specializzati.

27) Frank Ocean, “Blonde” (2016)

(POP – R&B)

“Blonde”, a tutti gli effetti terzo album di inediti di Frank Ocean, è una continua scoperta. Rispetto a “Channel Orange” manca la vulcanica creatività e l’accavallarsi di generi diversi che caratterizzavano il precedente CD, ma migliora la coesione generale e aumentano gli ospiti e i produttori di spessore, che rendono “Blonde” davvero irrinunciabile per gli amanti della buona musica.

In “Blonde” predomina un pop orecchiabile e affascinante, che in certi tratti si rifà a Prince (come nella bella Ivy); in altri casi invece compaiono lunghe interviste simili al Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly” (come nella conclusiva Futura Free). In generale, un album con collaboratori come Beyoncé, Kendrick stesso, Kanye West, Brian Eno, Jonni Greenwood dei Radiohead, Rostam Batmanglji dei Vampire Weekend e Jamie xx (ma non abbiamo citato il sample di Here, There And Everywhere dei Beatles in White Ferrari, oppure David Bowie e Gang Of Four, presunti “ispiratori” di Ocean nel making of del disco) non può che avere quel qualcosa in più rispetto a lavori più “convenzionali”.

Le liriche dell’album sono anch’esse significative: in Nikes (la bellissima traccia iniziale) si fa riferimento alle uccisioni di uomini di colore che recentemente hanno colpito gli Stati Uniti; in Be Yourself sentiamo, sotto una nenia che ricorda “Hurry Up, We Are Dreaming” degli M83, una telefonata in cui la mamma di Frank dice al figlio di accettarsi per com’è, non cercando di apparire diverso per far felici gli altri, e gli consiglia di non fare mai uso di stupefacenti nella sua vita (un testo che dice molto delle traversie passate da Frank negli scorsi anni); Facebook Story narra la storia assurda di un uomo e della sua ragazza, ossessionata dai social networks; Solo (Reprise) affida ad André 3000 (altro gradito ospite) accuse varie ai rapper che fanno scrivere ad altri i loro versi (vero Drake?). Vi sono poi liriche più intime, come nella bella Solo o in Skyline To, che raccontano le avventure sessuali e non di Frank. Frank Ocean ha dimostrato che, anche se può sembrare “staccato” dalla realtà, in realtà segue attentamente gli sviluppi storici e sociali dei nostri tempi. Insomma, canzoni come Nikes, Ivy, Nights e Futura Free resteranno negli annali.

26) Kendrick Lamar, “To Pimp A Butterfly” (2015)

(HIP HOP)

Kendrick era tornato dopo il pluripremiato “Good Kid, m.A.A.d. City” (2012) e le aspettative erano più alte che mai: tornerà agli stessi, straordinari livelli? La risposta è: decisamente sì. Anzi, per certi versi “To Pimp A Butterfly” riesce in una missione che “Good Kid…” aveva tralasciato: ridare orgoglio alla comunità nera, colpita come abbiamo visto da tragici eventi negli Stati Uniti.

Mentre infatti il secondo album solista narrava l’infanzia dell’autore, “To Pimp A Butterfly” denuncia le discriminazioni subite dagli afroamericani statunitensi (For Free, ma anche For Sale e How Much A Dollar Cost? sono chiari esempi).

Musicalmente parlando, il CD allarga lo spettro musicale di Lamar, passando dal jazz (in For Free) ai ritmi della musica africana (Momma). Notevoli le collaborazioni con due mostri sacri del rap come Snoop Dogg (in Institutionalized) e Dr. Dre (in Wesley’s Theory). La bellissima King Kunta è probabilmente il miglior pezzo hip hop del 2015. Alright è poi diventato l’inno ufficiale del movimento “Black Lives Matter”, che rivendica la parità di tutti davanti alla legge. Infine, la parte finale della conclusiva Mortal Man è davvero fantastica, con l’intervista di K-Dot all’idolo d’infanzia Tupac Shakur, tragicamente deceduto, finalmente completa.

Insomma, un trionfo lungo più di 78 minuti: un classico dell’hip hop moderno, un LP che può anche parlare ai non appassionati del genere e che merita ogni acclamazione ricevuta nel corso degli anni.

25) The War On Drugs, “Lost In The Dream” (2014)

(ROCK)

La crescita e la definitiva consacrazione dei The War On Drugs è una delle storie più belle della decade appena trascorsa. La band americana, capitanata da Adam Granduciel e in origine supportata anche da Kurt Vile, è diventata una delle più belle realtà del rock grazie ad una sconfinata ambizione e alla sapiente abilità di fondere le atmosfere del rock anni ’70 di Bruce Springsteen con atmosfere psichedeliche e quasi oniriche, creando album avvolgenti e di crescente successo, l’ultimo dei quali, il monumentale “A Deeper Understanding” (2017), è stato premiato come “album rock dell’anno” ai successivi Grammy Awards.

“Lost In The Dream” è il CD dove si è compreso pienamente il potenziale della band. Le due tracce iniziali, la lunghissima Under The Pressure e la pressoché perfetta Red Eyes, sono chiari esempi di un gruppo pronto a decollare. Ne sono prova ulteriore l’irresistibile An Ocean In Between The Waves e la conclusiva In Reverse.

Adam Granduciel e soci meritano ogni apprezzamento: riuscire ad attualizzare un genere come il rock più classico senza risultare conservatori o peggio ai limiti del plagio è un’abilità non comune, farlo con questa brillantezza un dono di pochi.

24) David Bowie, “Blackstar” (2016)

(ROCK)

Mancano le parole quando parliamo della scomparsa di uno dei più grandi cantanti della storia: quel David Bowie autore di capolavori indimenticabili come Heroes, Rebel Rebel e Life On Mars?. Lo showman Bowie aveva sicuramente previsto tutto: fare uscire il suo ultimo LP appena due giorni prima della morte è un qualcosa di incredibile, l’ultima magia del Duca Bianco.

Infatti, uno dei primi album ad uscire nel 2016 (8 gennaio) si è rivelato essere un superbo testamento artistico, il testamento artistico di David Bowie. “Blackstar” è un capolavoro di inventiva e sintesi: 7 brani mai banali, tutti indicatori di una creatività che, malgrado un fisico fiaccato dalla malattia, non è venuta mai meno. Spiccano in particolare la lunghissima, epica title track; Lazarus (che richiama i Radiohead di “In Rainbows”) e Girl Loves Me. Da non trascurare anche Sue (Or In A Season Of Crime).

Cosa chiedere di più al Duca Bianco? “Blackstar” non sarà il miglior album della sua produzione, ma senza dubbio resterà negli annali come uno dei più belli del 2016 e dell’intero decennio. Chapeau, Starman.

23) Vince Staples, “Summertime ‘06” (2015)

(HIP HOP)

Abbiamo già avuto modo di vedere che il 2015 è stato un anno incredibile per la musica; tuttavia, non va trascurata la definitiva affermazione di Vince Staples, che grazie al suo album d’esordio “Summertime ‘06” ha scritto una pagina indelebile del rap recente.

Aiutato dalla produzione oscura e penetrante di Clams Casino e Dion “No I.D.” Wilson, uomo di punta dell’etichetta Def Jam, le canzoni del doppio CD sono tra loro connesse da tematiche comuni (la tragica vita nelle periferie californiane, la totale assenza di sentimenti positivi e la perdita della speranza) ma anche da ritmiche simili: i 60 minuti di “Summertime ‘06” passano molto bene, con capolavori fatti e finiti come Norf Norf e Lift Me Up.

Indelebili sono poi alcuni versi. In Summertime Vince canta: “My teachers told us we were slaves, my momma told me we were kings, I don’t know who to listen to. I guess we somewhere in between. My feelings told me love is real, but feelings here can get you killed”. Oppure questa frase, amara quanto a volte condivisibile, contenuta in Jump Off The Roof: “I hate when you lie; I hate the truth, too”.

Insomma, nessuna delle due metà è sovraccarica o noiosa, mantenendo il livello complessivo del CD altissimo e consentendo a Vince Staples di poter osare nei suoi successivi lavori, i brevissimi “Big Fish Theory” (2017) e “FM!” (2018), non sbagliando peraltro mai un colpo.

22) St. Vincent, “St. Vincent” (2014)

(ROCK – POP)

Il quarto album solista di Annie Clark (non contando dunque quello collaborativo con David Byrne), in arte St. Vincent, è il suo CD più compiuto. Traendo spunto da “Strange Mercy” (2011) e sviluppando ulteriormente le proprie sensibilità pop, Annie ha costruito un prodotto praticamente perfetto, con le perle di Birth In Reverse, che difende l’indie rock delle origini, e Prince Johnny, che invece flirta con il pop, un fatto che poi scopriremo essere determinante per “MASSEDUCTION” (2017).

“St. Vincent” è un lavoro che dimostra molta confidenza nei propri mezzi da parte dell’artista, evidente nei pezzi dove le sue notevoli abilità alla chitarra sono in mostra, si pensi a Birth In Reverse e Huey Newton. Tuttavia, non si scade mai nell’arroganza o nella prevedibilità, tanto che il CD è coeso e degno della palma di miglior LP del 2014.

Non abbiamo mai rivisto una St. Vincent così creativa e allo stesso tempo sicura di sé, nondimeno Annie Clark ha già dimostrato in passato di non essere nuova a reinvenzioni. La cantautrice statunitense si è infatti affermata come una delle maggiori artiste della decade appena trascorsa, segno che il rock ha ancora modo di stupire i fans.

21) Tame Impala, “Currents” (2015)

(ROCK – ELETTRONICA)

Coraggio: ecco una delle parole chiave per descrivere la svolta dei Tame Impala. Dopo due album riusciti come “Innerspeaker” (2010) e “Lonerism” (2012), ci saremmo aspettati un inevitabile passo falso del quintetto australiano. Beh, mai impressione fu più sbagliata: la band “aussie” capitanata da Kevin Parker non finisce di stupire, pubblicando un CD davvero gradevole.

“Currents” si distacca dalla psichedelia dei due precedenti lavori, virando decisamente verso una elettronica zuccherosa e tremendamente ammaliante. Eventually e Cause I’m A Man ne sono esempi notevoli (la prima inizia potente, poi diventa quasi Bee Gees; la seconda è una ballata davvero buona), ma il vero capolavoro è Let It Happen: 7 minuti piazzati ad inizio album (il rischio supponenza o arroganza era altissimo) a imitare i Daft Punk, con parte centrale quasi “tamarra” e voce di Parker quanto mai distorta. Clamorosa Past Life, con duetto fra Parker e una misteriosa seconda voce su base R&B: brano da urlo. Da non sottovalutare anche Yes, I’m Changing e Disciples, unico pezzo che ricorda il passato psichedelico del gruppo.

Insomma, “Currents” segna una svolta fondamentale nella carriera dei Tame Impala, a questo punto uno dei maggiori gruppi rock contemporanei. Ma sorge spontanea una domanda: possiamo ridurre Parker & co. al rock? Direi proprio di no. “Currents” ha ampliato notevolmente il loro range sonoro, passando per elettronica e funk. Chapeau ad una delle più significative band contemporanee.

20) Grizzly Bear, “Shields” (2012)

(ROCK)

Il quarto album degli statunitensi Grizzly Bear è il loro album più complesso, privo delle hit che li resero famosi nel precedente “Veckatimest” (2009), soprattutto la famosissima Two Weeks, ma caratterizzato da un’ambizione negli arrangiamenti e nei cambi di ritmo degni dei migliori Radiohead e di Joni Mitchell.

Già i singoli di lancio, Sleeping Ute e Yet Again, fecero gridare al miracolo nell’ormai lontano 2012; ma ancora oggi sono brani modernissimi, che rendono “Shields” un CD dall’altissimo replay value, grazie ad una produzione impeccabile e a una cura del dettaglio incredibile. Oltre alle canzoni citate prima, sono da ricordare i pezzi che chiudono il disco: Half Gate e Sun In Your Eyes sono clamorosi, ancora oggi fra i migliori della carriera già fiorente dei Grizzly Bear.

I due alfieri della band, Ed Droste e Daniel Rossen, non sono più riusciti a tornare ai brillanti risultati di “Shields”, mantenendo un buon livello ma mai la quasi perfezione che caratterizza questo lavoro, uno dei migliori lavori art rock della decade.

19) Real Estate, “Days” (2011)

(ROCK)

Eccolo qua il capolavoro (ad oggi) della discografia dei Real Estate: con “Days” la band statunitense raggiunge probabilmente il risultato massimo ottenibile con la formula che caratterizza il loro genere musicale, fatto di indie rock soft mischiato con il folk gentile tipico dei Fleet Foxes prima maniera.

Dieci brani pressoché perfetti, coesi e senza passi falsi: si va dal soft rock di Out Of Tune alla bellissima cavalcata di All The Same, dal pop elegante di Green Aisles alla notevole It’s Real. Il capolavoro vero è però Municipality, un brano degno dei migliori Beach Boys. In generale, in un 2011 caratterizzato da rivali di assoluto rilievo (Bon Iver e M83, per esempio), “Days” si staglia come uno dei migliori lavori non solo di quell’anno, ma anche del decennio.

18) Girls, “Father, Son, Holy Ghost” (2011)

(ROCK)

Dopo il successo del primo CD “Album” e un EP di pregevole qualità, “Broken Dreams Club” del 2010, con i picchi delle squisite Heartbreaker e Carolina, i Girls erano attesi al varco.

E la giovane band non si fa trascinare e non cerca di strafare; piuttosto, “Father, Son, Holy Ghost” perfeziona la formula vincente di “Album”, migliorando la produzione e la cura dei dettagli delle singole canzoni, oltre alla coesione generale. Perso l’effetto sorpresa, Owens e co. cercano quindi di raggiungere il picco delle loro potenzialità, citando anche i Led Zeppelin (Die).

I risultati sono ancora una volta grandiosi: brani come Honey Bunny, Vomit e Forgiveness sono fantastici. Il capolavoro vero è però Alex: 4 minuti di bellissimo britpop, con forti reminiscenze degli Oasis, con strati di chitarre che si accumulano e la calda voce di Owens a tenere insieme il tutto. In poche parole, uno dei più riusciti LP dell’anno e anche del decennio. Chiusura migliore non si poteva immaginare per la carriera dei Girls.

17) Daft Punk, “Random Access Memories” (2013)

(ELETTRONICA)

Il 2013 è stato decisamente un buon anno per la musica; abbiamo avuto ottimi album indie rock, dai The National ai Vampire Weekend, hip hop avanguardistico ma accessibile (“Yeezus”) e… “Random Access Memories”. Il CD dei Daft Punk fa in effetti storia a sé: nato come un album tributo ai maestri del geniale duo, da Giorgio Moroder a Todd Williams, passando per Nile Rodgers degli Chic, si è evoluto nel maggior successo dei francesi, ancora oggi apprezzatissimo sia dai fans maggiormente mainstream che da quelli più ricercati.

Sì, perché in “Random Access Memories” ognuno può trovare un pezzo di suo gradimento: dal soft rock della sontuosa Give Life Back To Music al prog pop di Giorgio By Moroder, alla ballabilità dell’immortale Get Lucky, a pezzi più ricercati come Touch e Within… Senza trascurare la collaborazione di Panda Bear in Doin’ It Right e quella di Julian Casablancas nella memorabile Instant Crush.

Insomma, un trionfo per gli audiofili così come per l’ascoltatore casuale. Peccato solamente che ancora non sia arrivato l’erede di “Random Access Memories”, ma conoscendo i tempi sempre piuttosto lunghi dei Daft Punk non è certo una sorpresa. Nondimeno, ci resta un altro capolavoro in una delle discografie più influenti di sempre nella musica elettronica; e non solo.

16) Car Seat Headrest, “Twin Fantasy” (2018)

(ROCK)

 “Twin Fantasy” occupa un posto speciale nel cuore di Toledo: questa è infatti la seconda versione dello stesso disco, la prima è stata pubblicata nel 2011 e aveva fatto conoscere a molti il talento di Toledo, allora ancora solista e impossibilitato ad avere una produzione curata a dovere.

Fondamentale è il background di “Twin Fantasy”: Toledo narra nel CD le sue disavventure, specialmente alla luce dei turbamenti adolescenziali e della scoperta della propria omosessualità, tanto che molti testi delle dieci canzoni che compongono il disco contengono riferimenti ad amori, sia passati che vissuti al tempo della composizione. Ne sono esempio “most of the time that I use the word ‘you’, well you know that I’m mostly singing about you”; oppure “we were wrecks before we crashed into each other”. Tuttavia, Toledo ha già dimostrato di essere anche ironico nelle sue liriche: ad esempio, in Bodys canta “Is it the chorus yet? No. It’s just a building of the verse, so when the chorus does come it’ll be more rewarding”, circostanza che poi si rivelerà veritiera peraltro.

La bellezza del CD non risiede tuttavia solamente nel concept alla sua base e nei testi: come già accennato, “Twin Fantasy” è uno dei più riusciti LP della decade. Le canzoni grandiose sono numerose: le lunghissime Beach Life-In-Death e Family Prophets (Stars) sono le ancore del disco, i punti ineludibili per chi ama le composizioni rock più ambiziose. Nervous Young Inhumans ricorda i migliori Killers, Bodys ha una base ritmica pazzesca, così come Cute Thing.

Risulta difficile trovare un pezzo meno efficace, tutti hanno la perfetta posizione nella tracklist e un significato ben preciso nella narrazione del disco. Magnifica, infine, la contrapposizione High To DeathSober To Death, altro passaggio cruciale per comprendere pienamente il CD e i temi da cui scaturisce.

Insomma, un capolavoro fatto e finito. Possiamo dunque concludere che il talento di Will Toledo è definitivamente sbocciato con la riedizione di “Twin Fantasy”: il giovane cantante ci aveva già mostrato parte delle sue potenzialità in “Teens Of Style” (2015) e “Teens Of Denial” (2016); mai, tuttavia, aveva prodotto un CD così bello.

15) Radiohead, “A Moon Shaped Pool” (2016)

(ROCK)

Diventa sempre più difficile parlare in maniera imparziale dei Radiohead, una delle band davvero fondamentali del rock degli ultimi vent’anni, con all’attivo album del calibro di “The Bends” (1995), “OK Computer” (1998) e “Kid A” (2000), senza dimenticarci di “In Rainbows” (2007). Ebbene, si sarebbe portati a pensare che ormai la spinta creativa del complesso inglese possa essersi esaurita, considerando anche il predecessore di “A Moon Shaped Pool”, quel misterioso “The King Of Limbs” (2011) che aveva fatto storcere il naso ad alcuni critici e fans della band.

Invece, “A Moon Shaped Pool” ribalta tutto ciò: 11 canzoni davvero ispirate, che passano dal rock vecchia maniera (la politica Burn The Witch e Identikit), alle ballate strappalacrime (le incantevoli Daydreaming e True Love Waits), passando per accenni di elettronica raffinata (in Ful Stop). Da ricordare anche l’apertura al folk di Desert Island Disk.

In poche parole, un altro capitolo di una carriera che ha del leggendario è stato scritto: la palma di miglior album del 2016 è pienamente meritata. Lunga vita a Thom Yorke e compagni, gli unici a cui l’etichetta di “nuovi Beatles” può adattarsi, data la continua ricerca sonora e la voglia di non darsi mai per vinti di fronte alle tendenze del panorama musicale contemporaneo.

14) Fleet Foxes, “Crack-Up” (2017)

(FOLK)

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, I Should See Memphis ricorda quasi gli Animal Collective nel finale, dopo un inizio dolce.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk.

13) The National, “Trouble Will Find Me” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei The National è quello che dovrebbe convincere anche coloro che avevano storto il naso per le precedenti opere della band indie rock capitanata da Matt Berninger. Tutto, dalla voce di Matt alla base ritmica dei fratelli Dessner e Darendorf, è al suo meglio in “Trouble Will Find Me”. I brani riusciti non si contano, dalla trascinante Graceless alla bellissima Don’t Swallow The Cap, fino alla celebre I Need My Girl, probabilmente la migliore ballata mai scritta dai The National.

Nota da tenere a mente: il CD è anche il loro disco più accessibile fino a quel momento, tanto che ancora oggi molti di questi pezzi sono punti nodali dei loro live. Ed è più che giusto che i loro eredi siano stati baciati dal successo, con “Sleep Well Beast” (2017) vincitore di un Grammy e “I Am Here Now” (2019) addirittura accompagnato da un breve film con protagonista Alicia Vikander.

Insomma, possiamo dirlo chiaro e tondo: i The National sono al momento la band indie rock più affidabile su piazza. E non è un complimento da poco, avendo battuto la concorrenza di Arcade Fire, Strokes e tutte le altre nate nei fiorenti anni ’00.

12) Beach House, “Bloom” (2012)

(POP)

Al quarto LP, gli americani Beach House hanno perfezionato a livelli estremi quella formula fatta di dream pop sopraffino con delicati intarsi indie e shoegaze che li ha resi uno dei gruppi di riferimento del pop-rock alternativo degli anni ’10.

Se il precedente “Teen Dream” (2010) aveva preparato il terreno (e posto le basi per molto dream pop successivo), in “Bloom” Victoria Legrand e Alex Scally sembrano totalmente a loro agio e pronti a raggiungere il picco delle loro capacità: capolavori come Myth, Lazuli e Troublemaker sono highlight di un disco pressoché impeccabile.

I Beach House non si sono fermati con questo album, anzi hanno cercato progressivamente di cambiare pelle, introducendo elementi psichedelici e di rock vero e proprio che hanno fatto di “7” (2019), come già visto in precedenza, un ottimo lavoro. Nessuno però, fino ad ora, ha raggiunto questi eccezionali livelli.

11) Destroyer, “Kaputt” (2011)

(ROCK)

Può un artista produrre il suo lavoro più completo dopo quasi venti anni (20!) di attività e 10 CD alle spalle? In effetti solo Dan Bejar poteva farlo. L’anima dei Destroyer infatti, con “Kaputt”, già nel titolo indica una cesura forte con la sua vita passata. Basta con gli eccessi, le droghe, le ragazze inseguite senza freni: Bejar vuole maturare e “Kaputt”, sia testualmente che musicalmente, è un capolavoro.

Il sound è fortemente anni ’80, richiamando il primo Michael Jackson e i Roxy Music, ma le liriche che accompagnano le 9 tracce del lavoro sono piene di riferimenti al passato turbolento di Dan: la title track parla di giorni sprecati dietro la cocaina e le donne, mentre la magnifica Blue Eyes contiene una delle più belle e toccanti frasi motivazionali: “I sent a message in a bottle to the press. It said: Don’t be ashamed or disgusted with yourselves”.

“Kaputt” è il prodotto di un cantautore al top delle sue potenzialità, con brani di spessore assoluto che vanno dal soft rock (Chinatown) all’indie rock (Savage Night At The Opera), passando per elementi quasi prog (Bay Of Pigs) e super ballate (Suicide Demo For Kara Walker). In poche parole: un LP imperdibile per gli amanti della musica morbida e seducente di Prince, Sade e… dei Destroyer.

10) Tame Impala, “Lonerism” (2012)

(ROCK)

Pubblico e critica erano rimasti ben impressionati da “Innerspeaker” e le attese per il suo successore erano molto alte. I Tame Impala le mantennero, addirittura superando il già brillante esordio. “Lonerism” infatti, oltre a una superiore qualità delle melodie, brilla anche per i bei testi di molti brani del CD.

A questo proposito abbiamo le bellissime Why Won’t They Talk To Me? ed Elephant, ma sono riuscitissime anche Mind Mischief, la lunga ma coinvolgente Apocalypse Dreams e l’introduttiva Be Above It, che sembra anticipare la svolta elettronica di “Currents”. Il miracolo vero è però Feels Like We Only Go Backwards, il primo vero pezzo pop uscito dalla mente pazza ma geniale di Kevin Parker, leader del gruppo australiano.

Insomma, un trionfo di chitarre, batteria e base ritmica: uno dei migliori lavori del 2012 e, senza dubbio, il miglior LP di musica psichedelica degli anni ’10.

9) Jamie xx, “In Colour” (2015)

(ELETTRONICA)

Ormai la musica elettronica rischia di diventare un genere troppo inflazionato: questo sembra infatti essere il trend della musica contemporanea. Daft Punk, Burial, Caribou, Aphex Twin: tutti devono per forza suonare come uno di questi capisaldi della EDM (Electronic Dance Music), i più sostengono.

Ebbene, non è così: l’esordio solista di Jamie Smith (in arte Jamie xx), batterista degli osannati xx, colpisce per la freschezza del suono. Si va dal post dubstep di Gosh al pop molto à la xx di Stranger In A Room (cantata non a caso dal collega di gruppo Oliver Sim), ma le perle sono prevalentemente club music: la tesissima Hold Tight e la bella The Rest Is Noise colpiscono l’ascoltatore. Tuttavia, i veri capolavori sono Loud Places e SeeSaw, con Romy Madley-Croft (l’altra componente degli xx) a condurre le danze: due brani pop/elettronici raffinati e affascinanti, tra i più riusciti della decade.

“In Colour” è semplicemente uno dei migliori CD di musica elettronica degli anni ‘10, capace di suonare innovativo pur in un genere molto “frequentato” come la EDM: ecco il grande pregio di Jamie xx.

8) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019)

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi dieci minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

“Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente uno dei migliori LP della decade.

7) Deerhunter, “Halcyon Digest” (2010)

(ROCK)

La carriera dei Deerhunter è una delle più brillanti nel mondo indie rock recente. Per capire come mai “Halcyon Digest” sia probabilmente il loro CD più bello occorre inquadrarlo nella loro discografia. Il 2010 è un anno decisivo per il complesso statunitense: il 2008 li ha visti pubblicare una coppia di ottimi lavori, “Microcastle” e “Weird Era Cont.”, entrambi più accessibili dei precedenti sforzi dei Deerhunter ma non per questo troppo mainstream. Come continuare su questo percorso rischioso ma redditizio sia in termini di esposizione che di qualità musicale?

“Halcyon Digest” è un concentrato della miglior “ricetta” Deerhunter: base ritmica serrata ma non ossessiva, attenzione alla melodia, ritornelli ammalianti, la voce di Bradford Cox a tenere assieme tutto e a cantare di nostalgia (Revival) così come di amici morti (He Would Have Laughed, dedicata a Jay Reatard).

Le canzoni citate sono peraltro fra le migliori del lotto: ma non possiamo dimenticarci della delicata Memory Boy, delle brevi ma trascinanti Coronado e Fountain Stairs così come della lunghissima Desire Lines, dove il chitarrista Lockett Pundt dà il meglio di sé. Ma arrivati in fondo al CD ci potrebbe assalire un dubbio: e se la migliore traccia fosse Helicopter e la sua storia torbida quanto straziante di prostituzione e abusi?

I Deerhunter in seguito hanno prodotto altri buonissimi lavori, ma nessuno ha ritrovato il magico senso di avventura, fragilità e innovazione che percorrono il magnifico “Halcyon Digest”.

6) Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell” (2015)

(FOLK)

Sufjan Stevens non è mai stato un artista facile: fin dagli esordi si era prefisso obiettivi ambiziosi e allo stesso tempo complessi (raccontare gli Stati americani, reinventare le canzoni della tradizione natalizia made in USA…), ma con “Carrie & Lowell” la missione è di quelle apparentemente impossibili: narrare il lutto per la morte della madre senza apparire patetico o, peggio, uno sciacallo pronto a sfruttare un lutto per ragioni puramente economiche. Beh, Sufjan riesce straordinariamente bene a superare anche questa missione.

Canzoni come Should Have Known Better, Death With Dignity e la meravigliosa Fourth Of July sono fra le migliori mai composte in carriera, con liriche davvero commoventi. In generale, quello che musicalmente rimane impresso di “Carrie & Lowell” è la straordinaria coesione e la perfezione stilistica, che lo rendono uno dei migliori album del decennio. Inoltre, finalmente Stevens non si dilunga eccessivamente nella durata e nel numero delle canzoni presenti, riducendo il CD a 12 canzoni invece che le solite 18-19. Una vera perla, insomma, tanto da rendere i 45 minuti scarsi di durata di “Carrie & Lowell” una ammaliante magia.

5) The 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationship” (2018)

(ROCK – POP)

La cosa che più sorprende (e affascina) del talentuoso complesso originario di Manchester è che i risultati di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” sono davvero paurosi, malgrado la grande varietà di generi affrontati (rock, pop, elettronica, ballate strappalacrime, perfino SoundCloud rap!).

I dubbi sulla consistenza e coesione dell’album sono fugati fin dal primo ascolto: i The 1975 hanno generato un CD che resterà nella storia della decade come il disco più millennial mai prodotto. Frammentario ma in qualche modo coeso, vario ma mai fine a sé stesso, profondo e accessibile: “A Brief Inquiry Into Online Relationships” si staglia come un pilastro del rock degli anni ’10, probabilmente l’unico modo per vedere ancora questo genere primeggiare nelle chart.

In tutto questo, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un album davvero generoso di pezzi grandiosi: It’s Not Living (If It’s Not With You) è una delle canzoni migliori dell’anno, I Always Wanna Die (Sometimes) ricorda i Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”, How To Draw / Petrichor parte come Brian Eno e finisce come l’Aphex Twin più scatenato, con risultati clamorosi. Infine, I Couldn’t Be More In Love è pari alle melodie più dolci di George Michael. Il vero highlight è però la trascinante Love It If We Made It, con base molto anni ’80 ma testo riferito strettamente alle vicende politiche odierne e l’ormai iconico verso “thank you Kanye, very cool!”.

In conclusione, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un LP di non facile lettura e in cui ci si può perdere data la grande quantità di generi affrontati e i testi mai banali. Tuttavia, gli amanti della musica non possono non ammirare il coraggio di Healy e compagni di voler riportare il rock (pur contaminato da mille influenze) in cima alle classifiche.

4) Bon Iver, “Bon Iver, Bon Iver” (2011)

(FOLK – ELETTRONICA)

Dopo essersi rinchiuso in un eremo, completamente solo e lontano da tutti, per comporre il precedente lavoro “For Emma, Forever Ago” (2007), Vernon ricorre a un altro stratagemma per rendere ancora più attraente “Bon Iver, Bon Iver”: immaginarsi un viaggio in località a volte reali (Perth, Minnesota), altre volte inventate (Michicant, Hinnom). Da sottolineare la varietà di suoni e strumenti adottata da Bon Iver: tutto sembra essere al posto giusto al momento giusto. Restano impresse la straziante Holocene e la conclusiva Beth/Rest, ideale culmine dell’opera, oltre alla iniziale Perth (una marcetta irresistibile) e le belle Towers e Michicant.

L’indie folk delle origini si è ampliato verso lidi elettronici (come in Towers e Calgary, nonché in Hinnom, TX), che fanno di “Bon Iver, Bon Iver” un CD decisivo nella discografia del gruppo americano capitanato da Justin Vernon, di cui è da ammirare la capacità di sapere quali corde emotive toccare e rendere l’ascolto dei suoi CD una straordinaria esperienza, attraverso anche una parziale apertura all’elettronica e al rock melodico.

3) Vampire Weekend, “Modern Vampires Of The City” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 non c’era band indie rock più attesa al varco da detrattori e fans dei Vampire Weekend. Dopo due CD deliziosi ma un po’ leggerini, se non altro come sonorità, come avrebbero continuato la loro carriera? L’inizio già è abbastanza spiazzante: Obvious Bicycle comincia molto lenta, quasi come un pezzo dei Wilco, ma poi cresce, fino a diventare irresistibile. Stesso effetto con la successiva Unbelievers, ma la perla vera del lavoro è Hannah Hunt, che rievoca le atmosfere di “Contra”, ma con un suono davvero pop, apparentemente discordante con i precedenti CD del gruppo, particolarmente “Vampire Weekend” (2008), l’esordio molto più facile e diretto. Ma i gioielli non finiscono qui: Step rappresenta forse la migliore prova vocale mai registrata da Ezra Koenig, Ya Hey è come un affresco tanto è caratterizzata da liriche astratte e strumentazione ariosa…

Al primo ascolto “Modern Vampires Of The City” può apparire strano e sconclusionato, ma alla lunga si apprezza il festival sonoro messo su dai quattro newyorkesi, capaci di scrivere una pagina decisiva del rock del XXI secolo e particolarmente degli anni ’10, che ha influenzato band del calibro di The 1975 e ha in un certo senso rappresentato uno scoglio difficilmente superabile anche per il gruppo stesso, che gli ha trovato un erede solo sei anni dopo con “Father Of The Bride” (2019).

2) Kanye West, “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010)

(HIP HOP)

Gli anni ’10 del XXI secolo sono stati gli anni dell’esplosione dell’hip hop: questa sarà probabilmente la maggiore eredità musicale della decade. Molto del rap contemporaneo ha una grande ispirazione: Kanye West. L’artista di Chicago, oggi più controverso che mai date le sue recenti esternazioni su Trump (considerato un “dragon spirit” affine a Kanye) e sulla tratta degli schiavi (ritenuta responsabilità almeno in parte degli stessi neri), è prima di tutto un genio musicale. Già nel decennio precedente aveva fatto vedere tutto il suo talento in un capolavoro come “Late Registration” (2005). “808s & Heartbreak” del 2008 aveva aggiunto elettronica e atmosfere decisamente più cupe alla sua palette sonora, ma è “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” il vero compimento della sua carriera.

Da Gorgeous alla potentissima POWER, passando per la monumentale Runaway e l’epica All Of The Lights, tutto gira a meraviglia, tanto che è difficile stabilire quale canzone spicchi sulle altre. Kanye è allo stesso tempo al centro dell’attenzione ma pronto a cedere il palcoscenico a giovani leve come Nicki Minaj (spettacolare il suo verso in Monster) e Kid Cudi, ma anche ad artisti come Pusha-T e Bon Iver aka Justin Vernon, non tralasciando star come Rihanna e Jay-Z.

“My Beautiful Dark Twisted Fantasy” ha ispirato centinaia di altri rapper negli anni seguenti, da Drake a Kendrick Lamar, da Chance The Rapper a Tyler, The Creator. Tutti costoro hanno prodotto lavori più o meno significativi negli anni 2010-2019, ma nessuno è stato tanto massimalista, innovativo e geniale come Kanye.

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (2012)

(R&B)

Arrivati al numero 1 di questa lunga lista, la domanda potrà sorgere spontanea: perché proprio Frank Ocean? In fondo l’R&B ha conosciuto altri momenti memorabili nel corso di questa decade (il primo The Weeknd o Blood Orange, per esempio). “Channel Orange” è il miglior CD della decade per svariati motivi: la produzione immacolata di Frank, che crea gioielli in ogni canzone del disco, dal lento eccellente di Thinkin Bout You a Crack Rock, dall’epica Pyramids al lamento commovente di Bad Religion. Potremmo poi aggiungerci il sequenziamento perfetto, gli ospiti di spessore (da André 3000 a Earl Sweatshirt), la duttilissima voce di Frank Ocean che va dai toni bassi al falsetto più celestiale immaginabile… Aggiungiamo poi una durata ben calibrata, 55 minuti, per la storia narrata (un giorno nella calda estate di Los Angeles) e avremmo il quadro perfetto.

Insomma, “Channel Orange” ha rivitalizzato un genere che pareva moribondo e lo ha reso il più attrattivo per le star pop e rap sia nel 2012 che nel futuro, influenzando tantissimi cantanti nella decade (da Anderson.Paak a Justin Timberlake, da Moses Sumney a Syd) ma allo stesso tempo rimanendo inattaccabile. Aggiungiamo a questa consistente eredità uno dei primi coming out avvenuti nel mondo della black music (in Thinkin Bout You e in una lettera dell’epoca Frank confessa che il suo primo amore è stato per un ragazzo): una mossa che avrà certamente spinto altri artisti, da Tyler, the Creator a Kevin Abstract dei BROCKHAMPTON, a fare altrettanto senza paura di rimanere soli.

“Channel Orange” racchiude dunque tutte le caratteristiche di un classico. E tale è, meritando pienamente il primo posto nella classifica di A-Rock dei migliori 200 album della decade 2010-2019.

Quali sono i vostri pensieri? Siete d’accordo con le scelte di A-Rock oppure avreste optato per altri dischi nella parte alta della classifica? Non esitate a lasciare commenti!

I 50 migliori album del 2019 (25-1)

Nella prima parte della lista dei 50 migliori dischi dell’anno di A-Rock abbiamo visto molti artisti di rilievo, da Taylor Swift a Bruce Springsteen passando per Thom Yorke ed Earl Sweatshirt. Chi avrà vinto la palma di album dell’anno? Lo scoprirete alla fine dell’articolo. Buona lettura!

25) Angel Olsen, “All Mirrors”

(POP)

Il nuovo album della cantautrice americana Angel Olsen la trova impegnata in una radicale giravolta artistica, ma questa non è certo una novità per lei: se le origini della sua estetica vanno cercate nel folk rock, già in “Bury Your Fire For No Witness” (2014) la svolta verso l’indie rock era stata netta. Il suo più bel lavoro, “My Woman” (2016), conteneva invece elementi prog e synth pop mai fuori luogo.

“All Mirrors” è un pregevole CD art pop: seguendo il percorso tracciato da Kate Bush e ispirandosi probabilmente anche ad artiste contemporanee come Florence + The Machine e Julia Holter, la Nostra ha portato il suo sperimentalismo verso territori orchestrali, a volte davvero incontenibili, come nella sontuosa Lark. Del resto, anche il singolo All Mirrors aveva anticipato questa svolta, ma essere stata in grado di non cadere nel cliché del pop orchestrale più trito e ritrito, evitando di compiacersi troppo, è un merito non banale.

Il lavoro è ottimo non solo per la continua ricerca da parte di Angel, ma anche per la concisione: “All Mirrors” infatti consta di 11 pezzi per 48 minuti complessivi, creando un insieme coeso e ben strutturato, in cui è un piacere affondare. I pezzi migliori sono l’iniziale Lark e la più semplice Spring, mentre sotto la media (altissima) del CD abbiamo Impasse e la pur intrigante Endgame.

In conclusione, il 2019 resterà significativo per il mondo pop più sofisticato: nello stesso anno sono usciti lavori magnifici da parte di Weyes Blood, Lana Del Rey e Angel Olsen. Tre artiste ambiziose, che sono al culmine delle proprie qualità, in continua tensione verso il perfetto disco pop del XXI secolo. Chissà che una di loro non ci arrivi, prima o poi… Di certo Angel Olsen dimostra una caratura come cantautrice che la eleva al di sopra di quasi tutte le sue coetanee.

24) MIKE, “Tears Of Joy”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di MIKE era decisamente atteso: dopo lo spazio datogli l’anno scorso dal suo mentore Earl Sweatshirt nel suo magnifico disco “Some Rap Songs”, c’era curiosità e sia critica che pubblico si chiedevano se la direzione di Bonema avrebbe incrociato il rap astratto e sperimentale di Earl.

Ebbene, la risposta è un sonoro sì. “tears of joy” risente decisamente della lezione del maestro, con canzoni brevi, spesso brevissime (molte sotto i 2 minuti) ma messaggi presentati con chiarezza, a volte anche crudezza. La voce molto profonda di MIKE aggiunge ulteriore pepe ad una ricetta non facile da digerire ma non per questo scadente.

Il CD è dedicato alla madre di Michael, morta recentemente; il dolore del giovane rapper è palpabile, soprattutto in versi come “Sittin’ with my head in my hands, hold it in” (nell’iniziale Scarred Lungs, Vol. 1 & 2) e “Shit scary, but I stay spinnin’, lookin’ through obituaries with your name in it” in WholeWide World. Anche il mood generale del lavoro ne viene influenzato: le basi sono spesso oscure e non lasciano molto spazio a ritornelli o momenti mainstream.

Dicevamo che il lavoro è in parte ispirato da Earl Sweatshirt: in effetti “tears of joy” riporta alla memoria le canzoni a metà fra hip hop e jazz tipiche di Earl, ma non bisogna pensare che il CD sia una copia spiccicata di “Some Rap Songs”. Intanto è il doppio sia per numero di canzoni che per durata; inoltre manca forse il focus estremo che ha fatto di Sweatshirt un peso massimo nel panorama odierno, ma MIKE è ancora molto giovane e avrà modo di affinare questi aspetti.

I brani migliori sono la commovente Stargazer Pt. 3 e le brevi ma intense Goin’ Truuu e Planet, mentre convincono meno #Memories e Fool In Me. In generale, la struttura molto frammentaria dell’album può essere per alcuni eccessiva, ma in realtà sembra riflettere il grande dramma che ha colpito l’artista statunitense.

“tears of joy” è quindi un buonissimo lavoro e un ottimo punto di entrata nella discografia di Michael Jordan Bonema, che (va ricordato) registra pezzi dal 2015 e nel 2018 ha prodotto la bellezza di 4 raccolte di inediti fra mixtape ed EP. Insomma, il ragazzo è prolifico ma ha già ben chiara la direzione da intraprendere per raggiungere i grandi maestri del genere.

23) These New Puritans, “Inside The Rose”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il nuovo album dei These New Puritans arriva addirittura a sei anni dal delicato “Field Of Reeds”, in cui il complesso inglese aveva aperto decisamente a elementi di musica neo-classica, reinventandosi rispetto all’estetica post-punk con inserti elettronici dei precedenti CD. “Inside The Rose” è un’efficace sintesi di tutto questo e, proprio per questo, la prima volta in cui i TNP sembrano vogliosi di riassumere piuttosto che sperimentare ulteriormente.

Ciò non va però a discapito della qualità delle 9 canzoni che compongono il CD: ognuna ha la sua fisionomia specifica, chi più rock (Anti-Gravity) chi inclassificabile (Infinity Vibraphones e la title track). Altrove riappaiono quelle caratteristiche classicheggianti che avevano reso “Field Of Reeds” così strano, per esempio in Where The Trees Are On Fire.

I testi sono come sempre vaghi, ma stavolta compaiono domande esistenziali del tipo “Isn’t life a funny thing? All these words and they say nothing” (in Beyond Black Suns). Ma del resto non si ascolta un lavoro dei These New Puritans per le liriche: gli inglesi ci hanno abituato a comunicare maggiormente attraverso i paesaggi sonori piuttosto che mediante parole.

I pezzi migliori sono l’apertura sontuosa di Infinity Vibraphones e la marciante Beyond Black Suns, che potrebbe essere benissimo un brano dei Massive Attack. Troppo breve invece Lost Angel per essere apprezzabile. Come sempre con un LP dei TNP, “Inside The Rose” non è un ascolto facile, ma la pazienza verrà premiata grazie a canzoni mai scontate e paesaggi sonori davvero evocativi.

In conclusione, ancora una volta i These New Puritans hanno stupito fans e addetti ai lavori: dopo sei anni di assenza e una formazione ridotta all’osso (i membri ufficiali ora sono solamente i gemelli Barnett), “Inside The Rose” suona come nulla nella passata discografia del complesso britannico. E, malgrado tutto questo, i risultati sono ancora una volta strabilianti.

22) Weyes Blood, “Titanic Rising”

(POP)

Natalie Mering, meglio conosciuta come Weyes Blood, con il suo quarto CD ha raggiunto probabilmente il picco delle proprie capacità. Accanto al folk anni ’60 delle origini, la Mering in “Titanic Rising” ha dato spazio ad arrangiamenti decisamente più barocchi, aiutata anche da un produttore d’eccezione come Jonathan Rado dei Foxygen.

Fin dalla prima canzone capiamo che qualcosa è cambiato nel progetto Weyes Blood: A Lot’s Gonna Change è una canzone molto ricercata, quasi barocca, che si rifà alla grande Joni Mitchell ma anche a Father John Misty. La canzone è anche un ovvio highlight in un disco che per la verità conta molte belle melodie: ottima anche la seguente Andromeda ad esempio, così come Wild Time. Movies inizia come Bliss dei Muse ma poi evolve in un brano pop grandioso per arrangiamenti. I due brevi intermezzi Titanic Rising e Nearer To Thee servono più che altro a rendere coerente il disco e dargli una convincente narrativa interna: Nearer To Thee infatti chiude “Titanic Rising” e riprende le atmosfere di A Lot’s Gonna Change. Il titolo allude alla canzone che l’orchestra del Titanic stava cantando durante il naufragio… tutto ciò a testimoniare la complessità del lavoro della Mering.

Liricamente il CD affronta molti temi tipici del mondo pop-rock, dall’amore (“I need a love every day” canta Natalie in Everyday) al dolore (“No one’s ever gonna give you a trophy for all the pain and things you’ve been through. No one knows but you” si sente in Mirror Forever) ai problemi più interiori dell’animo umano, tanto che in A Lot’s Gonna Change Weyes Blood canta “Everyone’s broken now… and no one knows just how”.

In conclusione, il progetto della cantante statunitense, come già accennato, sembra aver trovato il suo sbocco definitivo; il folk accattivante ma semplice delle origini è stato accantonato, o meglio affiancato da strumentazioni decisamente più elaborate e liriche non banali. Il futuro è tutto da scrivere per Natalie Mering e sembra promettere molto bene. Lei e Julia Holter sono definitivamente le figure più innovative dell’art pop mondiale.

21) Flume, “Hi This Is Flume”

(ELETTRONICA)

Il primo mixtape ad opera del celebre produttore australiano Harley Streten, in arte Flume, segue i due album che lo hanno reso una star dell’EDM, “Flume” del 2012 e “Skin” (2016). Adesso che tutti lo conoscono per il suo lato più commerciale, Flume si è lasciato andare alla sperimentazione e ”Hi This Is Flume”, pur essendo a tratti confuso, è un’aggiunta importante alla sua discografia.

Il mixtape, come sappiamo, è maggiormente utilizzato nel mondo hip hop. Nell’elettronica di solito si privilegiano gli album veri e propri, spesso con un disegno dietro, si vedano i recenti lavori di Jon Hopkins e Daft Punk. Streten con “Hi This Is Flume” invece collabora con artisti emergenti ma già conosciuti del mondo sperimentale e rap, creando canzoni spesso davvero notevoli, anche se come già accennato a volte i risultati possono risultare disorientanti.

Due sono gli immediati highlights, entrambi canzoni con collaboratori: se High Beams beneficia della presenza di HWLS ma soprattutto di Slowthai, il vero capolavoro del CD è How To Build A Relationship, in cui l’elettronica sbilenca di Flume si mischia perfettamente con il rap deciso di JPEGMAFIA. Non male anche Daze, che ricorda Aphex Twin. Al contrario, il remix di Is It Cold In The Water? di (e con) SOPHIE è piuttosto fuori fuoco e ripetitivo, mentre Amber è troppo schizofrenica.

Liricamente, pur essendo un album di musica prevalentemente elettronica, Streten regala alcune perle: la title track è un ironico invito ad ascoltare il CD sui servizi di streaming, con tanto di guida che recita “Tap the artwork to listen and save to your own music collection”. Invece in How To Build A Relationship JPEGMAFIA costruisce una relazione con questa base di partenza: “Fuck are you talkin’ ‘bout?… I caught him at the coffee house and made him walk it out” per poi affermare perentorio: “Don’t call me unless I gave you my number”.

Insomma, una cavalcata non facile, questo “Hi This Is Flume”. Allo stesso tempo, tuttavia, va elogiato lo spirito innovativo di Flume, capace di sovvertire le aspettative su di lui con un mixtape vario ma allo stesso tempo coeso, capace di regalare aria fresca ad un movimento, quello dell’elettronica più glitch e wonky, un po’ in crisi ultimamente.

20) Floating Points, “Crush”

(ELETTRONICA)

Il nuovo lavoro di Sam Shepherd, in arte Floating Points, riparte esattamente dove avevamo lasciato l’artista inglese quattro anni fa con “Elaenia”: elettronica calda, elegante, solo a tratti pronta per la pista da ballo, sulla falsariga di capisaldi come Aphex Twin e Caribou.

In realtà Shepherd non è artista che riposa sugli allori: gli ultimi anni lo hanno visto produrre mix intrisi di jazz e rock (“Late Night Tales” quest’anno), colonne sonore (“Reflections – Mojave Desert” del 2017) ed EP di varia lunghezza (su tutti “Kuiper” del 2016). Insomma, un’iperattività non scontata; i risultati peraltro sono sempre stati molto interessanti, facendo di Floating Points un nome importante nel panorama della musica elettronica, tanto da permettergli di essere scelto come spalla nel tour degli xx del 2017.

“Crush” si apre con l’interlocutoria Falaise: un insieme di sintetizzatori e percussioni à la Skee Mask che non si adatta completamente all’estetica di Floating Points. Molto meglio i due brani seguenti, la danzereccia Last Bloom e la raccolta Anasickmodular. Intrigante la struttura di “Crush”: il CD infatti consta di 12 brani per 44 minuti, con una chiusura divisa in due parti (Apoptose) e due brevi intervalli posti al centro del disco, Requiem For CS70 And Strings e Karakul, che dividono quasi il lavoro in due metà speculari.

I brani migliori sono la già citata Anasickmodular e LesAlpx, che si avventura in territori techno; buonissima anche Bias. Invece, inferiore alla media Falaise. Il CD non crea grandi cambiamenti nello scenario della musica elettronica mondiale, ma conferma Sam Shepherd come un nome da tenere d’occhio, pronto a sbocciare definitivamente.

19) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands”

(FOLK – ROCK)

Il 2019 è stato un anno da incorniciare per i Big Thief. Capitanati dalla talentuosa Adrianne Lenker, gli statunitensi hanno prodotto due pregevoli album: “U.F.O.F.”, in cui troviamo una virata verso il folk, probabilmente aiutata anche dall’album solista pubblicato dalla Lenker lo scorso anno; e “Two Hands”, dalle venature decisamente più rock.

Complimenti vanno poi alla base ritmica della band: le chitarre gentili di Adrianne Lenker e Buck Meek sono ipnotiche, buono poi il contributo di basso (emblematica From) e batteria (efficacissima in Contact). In generale “U.F.O.F.” ritorna, soprattutto liricamente, su quei terreni che hanno reso i Big Thief dei moderni beniamini dei fan dell’indie: riferimenti alla solitudine, alla capacità di relazionarsi solamente con dei corpi estranei (il titolo del CD sta infatti per UFO Friend) ma anche paesaggi naturali e animali, fantastici o meno.

Musicalmente, nei suoi momenti migliori il disco è uno dei migliori album folk degli ultimi anni: specialmente in Contact (con potente coda rock) e Cattails i risultati sono eccellenti. A peccare sono i momenti più lenti, a volte troppo prevedibili: ne sono esempi Betsy e Magic Dealer, non perfetti. Molto interessante l’esperimento di Jenni, una sorta di shoegaze lento, che ricorda i Low.

Il secondo album è un ritorno al rock. Se il precedente “U.F.O.F.” era un CD prettamente folk, “Two Hands”, registrato dal vivo, torna alle sonorità di “Capacity” (2017). L’inizio del lavoro è eccellente: le sognanti Rock And Sing e Forgotten Eyes sono ottimi pezzi indie rock, che riportano alla mente il folk-rock di Neil Young, con la bellissima voce della Lenker a creare un’atmosfera sospesa fra meraviglia e inquietudine, dati i testi mai facili, che parlano di sofferenza e passione senza vergogna.

L’unico pezzo più debole è proprio la title track, mentre la lunga Not è il brano più ambizioso in un lavoro davvero pregevole. Molto interessante la struttura del CD: i primi e gli ultimi pezzi nella scaletta sono i più quieti, mentre l’accoppiata NotShoulders, piazzata a metà, è la sferzata più rockettara.

I Big Thief non stanno reinventando l’immaginario indie rock, come alcuni critici molto entusiasti si sono spinti a proclamare; certamente però l’abilità vocale e alla chitarra di Adrianne Lenker li distinguono chiaramente dai loro contemporanei. Non una cosa da poco, in un panorama musicale sempre più stereotipato: il caso Big Thief è la piena dimostrazione che il duro lavoro paga. Chapeau.

18) Coldplay, “Everyday Life”

(POP – ROCK)

L’ottavo disco dei Coldplay, la celeberrima band inglese capitanata da Chris Martin, è un deciso ritorno alle sonorità del decennio ’00 del XXI secolo, come da molti anticipato? Sì, senza dubbio. Certo, il sound più pop e caleidoscopico degli anni recenti non viene abbandonato, ma per esempio gli eccessi di “A Head Full Of Dreams” (2015) sono accantonati per fare spazio a ritmi più rock e atmosfere più calde, a volte addirittura orchestrali (si senta Sunrise).

Il doppio album si apre con la metà dedicata all’alba, intitolata appunto “Sunrise”. Che “Everyday Life” sia un ritorno ai tempi creativamente gloriosi di “A Rush Of Blood To The Head” (2002), con un po’ di “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), è chiarissimo da Church e Trouble In Town: due brani eleganti, semplici ma che crescono ascolto dopo ascolto.

I singoli parevano aver fatto intravedere addirittura il lato sperimentale dei Coldplay: Arabesque ad esempio contiene una parte di sassofono decisamente rilevante, fatto insolito per Martin e soci. Invece Orphans, uno degli highlights immediati del CD, è un pezzo gioioso, che riporta alla memoria Viva La Vida. Il lato più ambizioso del complesso si vede anche in BrokEn, che pare un pezzo di Chance The Rapper col suo incedere gospel e i temi sacri affrontati.

La seconda metà, “Sunset”, potrebbe parere più raccolta come sonorità, data la presenza di pezzi come Cry Cry Cry e Old Friends, ma è anche vero che contiene la hit Orphans e la quasi country Guns, che sembra di ispirazione Johnny Cash e di resa Rolling Stones. Molto interessante poi Champion Of The World, che pare presa da “X & Y” (2005).

Affrontiamo infine l’aspetto lirico: il CD è rilevante anche perché i Coldplay, seppure sempre in maniera discreta, affrontano temi molto importanti, dal controllo delle armi (Guns) ai problemi legati alla brutalità della polizia e al razzismo (Trouble In Town). Insomma, Chris Martin e soci sono ormai persone mature, capaci di affrontare temi non solo legati all’amore, come molte volte sono stati accusati di fare in passato.

In generale, “Everyday Life” è un LP davvero riuscito, con alcuni dei pezzi migliori mai scritti dai Coldplay (ad esempio Orphans) e una voglia di sperimentare, ma con raziocinio, che pareva persa da parte del gruppo britannico, tra sbornie dance (Something Just Like This) e intrallazzi con le stelle dell’R&B (Hymn For The Weekend). È senza dubbio il miglior disco dei Coldplay dal 2008 a questa parte, non una cosa da poco per quattro ragazzi che suonano insieme da 23 anni (!).

17) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar”

(ROCK)

L’ultimo album del prolifico cantautore americano, “House Of Sugar”, è il suo CD più completo. Dopo il cambio di nome da Alex G a (Sandy) Alex G, al fine di evitare scambi di persona con uno youtuber suo omonimo, il talentuoso Alex Giannascoli ha ampliato costantemente la propria palette sonora, aggiungendo elementi psichedelici e addirittura country prima ridotti all’osso nei vari dischi lo-fi da lui prodotti in passato.

“House Of Sugar” è un titolo particolare, che richiama le fiabe di Andersen, in particolare “Hansel e Gretel”; non è quindi un caso che una delle migliori canzoni della tracklist si intitoli proprio Gretel. Altrove troviamo invece riferimenti testuali a fatti di vita vera o, almeno, verosimile: in Hope Alex rimpiange un coetaneo morto, “He was a good friend of mine, he died. Why write about it now? Gotta honor him somehow”, si domanda e si risponde. Dopo però la scena diventa improvvisamente piena di vita, “In the house they were calling out his name all night, taking turns on the bed, throwing bottles from the windows of the home on Hope Street”. Non sappiamo se veramente il nome della via fosse Hope Street, ma il riferimento non pare casuale.

Accanto a questi franchi racconti di episodi della propria vita, però, Giannascoli affianca un sound interessante quanto misterioso: all’indie rock si sommano forti influenze degli Animal Collective, specialmente negli inserti più misteriosi, come Taking e Sugar. (Sandy) Alex G finisce quindi per suonare strano ma allo stesso tempo accessibile: brani come Gretel, la tenera Southern Sky e In My Arms non possono lasciare indifferenti. La doppietta CowCrime rimanda ai migliori Real Estate.

In conclusione, “House Of Sugar” è, come da titolo, un lavoro fondamentalmente dolce, ma infarcito degli elementi particolari e stranianti tipici di Alex Giannascoli. Dopo 8 CD fra Bandcamp, autoprodotti e ora la Domino, con in mezzo svariati EP, il giovane cantautore statunitense pare aver trovato la definitiva maturità. “House Of Sugar” è il suo album più completo e affascinante, un “must-listen” per gli amanti dell’indie rock più eccentrico.

16) Slowthai, “Nothing Great About Britain”

(HIP HOP)

Il giovane esponente del grime, la corrente del rap più dura dell’hip hop britannico, con il suo album d’esordio “Nothing Great About Britain” si conferma una voce emergente del panorama musicale e un abile interprete dei drammatici problemi che pervadono la società britannica.

Già il titolo del CD anticipa i temi portanti del lavori: Slowthai denuncia l’uso della Brexit come arma di distrazione di massa, usata dai politici per coprire i problemi inglesi di inuguaglianza e responsabilità nell’incombente cambiamento climatico. In questa verve polemica nessuno viene risparmiato: i politici ovviamente sono i principali protagonisti, ma anche la Regina Elisabetta ci va di mezzo (nella title track Slowthai la chiama “fighetta” e afferma che avrà rispetto di lei solo quando la Regina rispetterà lui e i più poveri).

In altre parti i testi sono invece più rivolti a sé stesso: la personale Northampton’s Child narra le sue disavventure familiari: la morte del fratello per distrofia muscolare, poi il patrigno, prima minacciato (“You’re lucky I’m not as big as you. I would punch you till my hands turn blue”) poi, una volta che Slowthai e la madre vengono cacciati di casa, ignorato per lasciare spazio finalmente a una famiglia povera ma serena (“Now we’re living at Tasha’s. Funny how good vibes turned that room to a palace”).

Musicalmente, possiamo dichiarare serenamente che, assieme a Stormzy, Slowthai è la promessa più brillante del grime: come già ribadito, i testi sono duri ma efficaci, ma anche le basi non lasciano mai indifferenti gli ascoltatori. La trascinante Doorman è quasi punk, Gorgeous invece si rifà al soul; altrove troviamo basi che invece guardano con interesse alla trap, come in Grow Up. Insomma, una varietà stilistica notevole, che si abbina perfettamente alla personalità incendiaria di Slowthai, che anche dal vivo è davvero trascinante.

In conclusione, “Nothing Great About Britain” è un affresco tremendo ma veritiero della condizione attuale della società britannica: lotte di classe, crisi politica e guerra tra poveri sono temi a cui ora non pensiamo guardando al Regno Unito, ma Slowthai (e prima di lui atti punk come Shame e IDLES) ci presentano il tutto senza sconti.

15) Bill Callahan, “Shepherd In A Sheepskin Vest”

(ROCK)

Il nuovo CD a firma Bill Callahan, il quinto di una carriera di tutto rispetto (senza contare quelli a firma Smog), è il suo lavoro più aperto come sonorità e quello che, a livello testuale, contiene riferimenti alla vita privata di Bill che erano assenti in passato.

“Shepherd In A Sheepskin Vest” arriva dopo ben sei anni da “Dream River”: un’assenza davvero di lungo termine, dovuta in gran parte ai radicali cambiamenti avvenuti nella vita personale del cantautore americano. Nel 2014 si è sposato con Hanly Banks, mentre nel 2015 ha avuto un bambino da quest’ultima: insomma, un cambio di prospettiva estremo per un uomo abituato a scrutare con acutezza e profondità i tanti perché della vita, facendo la figura dell’eterno insoddisfatto.

Non è un caso che il disco appena pubblicato sia il più luminoso della sua ormai trentennale carriera: Bob Dylan si mescola a Leonard Cohen, potremmo dire, rendendo “Shepherd In A Sheepskin Vest” un CD lungo (20 brani per 63 minuti) ma facilmente digeribile e mai monotono. Ne sono esempi pezzi squisiti come 747 o Black Dog On The Beach. Tuttavia, anche la parte finale del CD, quella più oscura come liriche, contiene canzoni brillanti rispetto al “solito” Bill Callahan, ne sia esempio Call Me Anything.

Come sempre, tuttavia, a risaltare è specialmente la sua voce: un vero e proprio altro strumento, con un tono baritonale à la Leonard Cohen o Johnny Cash che la rende perfetta per questo tipo di narrazioni. Le storie di Callahan erano sempre state pervase, come già accennato, da domande esistenziali sul senso della vita; ora invece, malgrado restino presenti analisi di questo tipo (cosa scontata in un LP così articolato), i testi sono decisamente più leggeri. Ad esempio, in What Comes After Certainty parla dell’amore vero e assoluto verso la moglie, tanto che si chiede: “True love is not magic, it is certainty… And what comes after certainty?” Più avanti i testi sono ancora più esplicitamente sereni: “I never thought I’d make it this far: little old house, recent-model car… And I’ve got the woman of my dreams”. In Young Icarus ritornano le elucubrazioni tipiche di Callahan: “Well, the past has always lied to me, the past has never given me anything but the blues”. C’è anche tempo per un riferimento al sesso durante il “periodo” delle donne, nell’ironica Confederate Jasmine.

In conclusione, “Shepherd In A Sheepskin Vest” è un punto altissimo nella discografia di Bill Callahan: il cantautore americano pare aver trovato la serenità da lui tanto agognata in passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il disco scorre benissimo e nulla è superfluo. Complimenti, Bill, e buona vita.

14) Vampire Weekend, “Father Of The Bride”

(ROCK – POP)

Sei anni e mille disavventure dopo, i Vampire Weekend sono tornati. Il gruppo indie più venerato della decade, con “Father Of The Bride”, si è aperto a numerose influenze che parevano lontane dal loro sound e a numerosi ospiti, così da creare un CD confusionario ma allo stesso tempo vario e poliedrico, che ribadisce una volta in più che il talento di questi ragazzi è davvero esplosivo.

Nel corso degli ultimi sei anni, Ezra Koenig, vocalist e principale scrittore dei testi delle canzoni della band, si è spostato a Los Angeles dalla nativa New York, ha prodotto una serie TV di discreto successo (Neo Yokio), lavorato a degli show radiofonici e avuto un figlio. Il polistrumentista Rostam Batmanglij, che ha lasciato il gruppo nel 2016, ha collaborato nel frattempo con artisti chiave del panorama musicale (Beyoncé, Charli XCX) e ha pubblicato un album solista, “Half Light”, nel 2017. Anche il bassista Chris Baio ha fatto uscire nel 2017 un suo album, “Man Of The World”. Per finire, il batterista Chris Tomson ha generato il primo album dei suoi Dams Of The West, “Youngish American”, nello stesso anno. Tutto congiurava a far sì che i Vampire Weekend si disfacessero, spinti dai desideri di autonomia dei suoi membri. Ciò, per fortuna, non è accaduto, ma molte cose sono mutate.

Già dalla prima canzone, Hold You Now, capiamo che sono lontanissimi i tempi del pop sintetico di “Contra” (2010) ma anche dell’omonimo esordio “Vampire Weekend” (2008): i ritmi sono tinti di country, Danielle Haim delle HAIM duetta abilmente con Ezra Koenig e la canzone si interrompe bruscamente, quasi fosse una demo. Ecco un altro tratto innovativo dell’estetica dei VW: se prima i loro lavori di studio erano davvero perfetti sia come produzione che come durata, mai oltre i 42 minuti e le 12 canzoni, “Father Of The Bride” è lungo ben 18 canzoni per 58 minuti! Inoltre, numerosi sono i brevi intermezzi da un minuto o poco più, da Big Blue a 2021, prima assenti.

Tutti gli amanti dell’indie non possono tuttavia fare a meno di comparare il nuovo lavoro con “Modern Vampires Of The City” (2013), che aveva definitivamente consegnato i Vampire Weekend all’Olimpo del rock del nuovo millennio con canzoni calde, testi complessi e impegnati e un’unione di intenti totale fra i due leader del gruppo, Ezra Koenig e Rostam Batmanglij. Beh, possiamo dire che la dipartita di Rostam, giustificata col suo desiderio di concentrarsi sui suoi progetti solisti, è avvertita ma non traumatica: certo, la chitarra è più presente che in passato, l’elettronica di fondo presente specialmente in “Modern Vampires Of The City” e “Contra” è scomparsa e i VW hanno aperto a influenze country e R&B, ma complessivamente “Father Of The Bride” è un buon LP.

A parte l’evitabile Rich Man, infatti, la lunghezza del CD non è un peso, anzi permette al complesso statunitense di affrontare disparati generi, come già accennato, ma anche di valorizzare i numerosi ospiti; da Danielle Haim a David Longstreth (Dirty Projectors), passando per Steve Lacy (The Internet) e il redivivo Batmanglij, tutti danno una mano ai Vampire Weekend per fare di “Father Of The Bride” un altro intrigante capitolo della loro produzione.

I migliori pezzi sono la trascinante Harmony Hall e la beatlesiana This Life, che fanno pensare quasi che il disco sia un omaggio alla creatività senza freni del “White Album” della band inglese più famosa della storia della musica. Buone anche Unbearably White e la frenetica Sunflower. Come dicevamo, non riuscita invece Rich Man, anche My Mistake non convince appieno. La palma di canzone più eccentrica va a Simpathy, una sorta di flamenco jazzato con batteria di Chris Tomson in fortissima evidenza, che quasi riporta alla memoria i migliori Gipsy King.

Liricamente, il CD si conferma più leggero di alcuni precedenti lavori del gruppo: ad esempio sono assenti i riferimenti all’Olocausto e all’inesorabile passare del tempo che caratterizzavano “Modern Vampires Of The City”, così come i rimandi alla rivoluzione del Nicaragua di “Contra”. Adesso, oltre al ritmo e al tono delle canzoni, Koenig ha rilassato anche i testi: si notano riferimenti all’estate (Sunflower, Married In A Gold Rush), all’origine dei membri della band (Unbearably White), all’amore (We Belong Together). Quest’ultimo tema è probabilmente stato incentivato dalla nascita del primo figlio di Koenig, avvenuta lo scorso anno.

In conclusione, “Father Of The Bride” marca la rinascita dei Vampire Weekend. È bello come “Modern Vampires Of The City”? No. Allo stesso tempo, nondimeno, Ezra Koenig e compagni hanno dimostrato che non sempre i cambiamenti, anche radicali, portano al fallimento. Anzi, è proprio da momenti come questi che a volte si ricavano le energie e la spinta per aprirsi a nuovi mondi e collaborare con gli altri.

13) Aldous Harding, “Designer”

(FOLK)

Il terzo album della talentuosa compositrice neozelandese (sì, il nome trae in inganno) è il suo lavoro più compiuto. Accanto al folk classico delle origini, ora la Harding ha inserito anche sassofoni e alcune tastiere di sottofondo, tanto da creare un CD coeso eppure mai prevedibile o peggio monotono.

Fin dall’apertura, la graziosa Fixture Picture, notiamo sia i tratti ormai caratteristici di Aldous sia le novità: i ritmi, specialmente delle percussioni, sono più sostenuti che in passato, ma allo stesso tempo le liriche continuano ad essere per lo più inintelligibili. Qui ad esempio si dice “In the corner in blue is my name”, quasi parlassimo di un quadro. Altrove, è vero, compaiono temi più compiuti: il più rilevante è la paura di assumersi responsabilità, sia verso un partner che un figlio, un timore che in effetti prende molti giovani. In The Barrel si dice “When you have a child, so begins the braiding and in that braid you stay.” In Damn riappare il tema, quando la Harding si sente delle catene attorno al corpo che le impediscono di spiccare il volo.

Musicalmente, il mondo indie femminile continua a rivoluzionare il rock. Accanto alla già citata Fixture Picture abbiamo altre ottime tracce come The Barrel e Designer; le uniche eccezioni sono Treasure e Damn, ma restano comunque buone e inserite perfettamente nel contesto di “Designer”.

In conclusione, questo terzo LP a firma Aldous Harding ne conferma il talento e la volontà di espandere il proprio sound di riferimento, rifiutando una comfort zone che per altri sarebbe stato un rifugio benvenuto.

12) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il nuovo doppio album di Nick Cave, come sempre assieme ai fidati Bad Seeds, chiude la trilogia idealmente iniziata con “Push The Sky Away” (2013). Gli ultimi anni non sono stati facili per la band australiana: nel 2015 il figlio di Nick, Arthur, è tragicamente morto a causa di una caduta da una scogliera, mentre l’anno scorso il pianista della band Conway Savage è deceduto a causa di un tumore.

Insomma, gli antecedenti di “Ghosteen” facevano pensare ad un lavoro ancora più tragico e disperato del precedente “Skeleton Tree” (2016), che già era carico di significato essendo stato composto appena dopo la morte di Arthur. Nick Cave sceglie di procedere nelle sonorità quasi ambient dei due CD precedenti, convogliando però anche messaggi positivi, di accettazione della morte e di ricerca di una vita dopo la tragedia, quasi un contraltare ideale al pessimismo devastante di “Skeleton Tree”.

Il grande cantautore ha descritto il primo disco come “i figli”, mentre i tre lunghi brani che creano la suite conclusiva (e l’intero secondo capitolo) sono “i padri”. Come non riconoscere un rimando alla tragica situazione di Nick Cave? Del resto, i testi contengono riferimenti numerosi alla vicenda e in generale alla storia recente della band: in Hollywood, che chiude il secondo CD, si narra la fiaba indiana di Kisa, una donna a cui muore il figlio e che cerca in ogni modo di riportarlo in vita, sia affidandosi alla religione buddhista che alle credenze popolari. Alla fine del brano arriva l’ammissione più candida: “It’s a long way to go to find peace of mind”.

Altrove però, dicevamo, Nick e soci trovano conforto nella vicinanza degli altri: in Waiting For You lui e la moglie analizzano le differenti prospettive di far fronte alla morte di una persona cara, con il cantautore che dichiara “I just want to stay in the business of making you happy”. Una dichiarazione d’amore fortissima e delicata. Infine, in altre parti del monumentale doppio album (11 pezzi per 73 minuti), troviamo riflessioni sul potere dell’arte (Spinning Song) e come sognare un mondo diverso da quello che abbiamo ereditato non sia una debolezza (Bright Horses).

In conclusione, non è facile entrare nel discorso di Nick Cave & The Bad Seeds, specialmente se si è neofiti del gruppo, uno dei più importanti degli ultimi decenni in campo rock. Giunto al 40° (!!) anno di una carriera trionfale, Nick Cave è ancora un uomo tormentato, ma per motivi diametralmente diversi rispetto alla gioventù. Il fatto che sappia scrivere testimonianze così personali e toccanti, mantenendo un’integrità artistica totale, è segno che siamo di fronte ad un vero genio della musica. “Ghosteen” non sarà il suo miglior CD, ma si aggiunge ad un’eredità già colossale non peggiorandola. Non un risultato di poco conto.

11) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!”

(R&B – SOUL)

Il secondo album della talentuosa Jamila Woods è un trionfo per gli amanti di R&B e soul. Facendo riferimento ai maestri del passato e ripercorrendo le vite di grandi artisti di colore de passato e del presente, la Woods ha composto uno dei migliori album di black music dell’anno.

Il disco è perfetto per sequenziamento e lunghezza, contando 13 canzoni per 49 minuti di durata, con nessun brano fuori posto. In questo la giovane americana è migliorata rispetto all’esordio “HEAVN” (2016), mostrando maturità e consapevolezza di sé. Il CD tuttavia non è solamente un ottimo estratto di influenze legate alla musica nera: con titoli di per sé evocativi come MILES e BASQUIAT, l’intento di Jamila è evidente: rievocare le figure storiche del passato che hanno reso i neri degni di attenzione non solo socialmente ma anche artisticamente, gli eroi che hanno aperto la strada agli artisti di colore di oggi.

I risultati, sia liricamente che come composizioni e arrangiamenti, sono sfarzosi ma mai sovraccarichi o fini a sé stessi: pezzi come GIOVANNI e BETTY sono grandiosi, ma nessuno come già accennato è superfluo.

In conclusione, Jamila Woods si conferma un’artista dal potenziale immenso, forse ancora non completamente sfruttato. “LEGACY! LEGACY!” è un trionfo, un LP da assaporare e che rivela sempre nuovi dettagli seducenti. In poche parole, anche questo album farà parte della legacy degli artisti di colore del futuro.

10) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana”

(HIP HOP)

Una delle collaborazioni più anticipate nel mondo rap, “Bandana” trova sia il rapper Freddie Gibbs che il produttore Madlib al meglio. Il CD è un’ottima fusione di hip hop, jazz e inserti di funk, che lo rendono imprescindibile per gli amanti della black music.

“Piñata” (2014), la precedente creazione del duo, era stata una rivelazione: i beat sempre nostalgici e sbilenchi di Madlib si sarebbero adattati al gangsta rap di Gibbs? Beh, la risposta era stata un fortissimo sì. “Bandana” da questo punto di vista non innova particolarmente lo stile dei due, pare piuttosto un miglioramento incrementale della chimica fra i due e nelle scelte di produzione.

Mentre infatti spesso Madlib in passato aveva privilegiato una produzione scarna, a volte addirittura lo-fi, in “Bandana” ogni canzone è immacolata e fluisce spesso nella successiva senza soluzione di continuità. Dal canto suo, Freddie Gibbs si conferma a ottimi livelli, capace di parlare di Allen Iverson, grande cestista del passato (Practice) così come della tratta degli schiavi (Flat Tummy Tea), passando per la morte di Tupac (Massage Seats). Insomma, di tutto un po’.

Il disco può infine contare su alcune collaborazioni di spessore: Pusha-T, Anderson .Paak e Killer Mike (metà dei Run The Jewels) arricchiscono ulteriormente la formula di “Bandana” in Palmolive e Giannis. Insomma, il CD è davvero riuscito sotto tutti i punti di vista. I pezzi migliori sono la scatenata Half Manne Half Cocaine e Crime Pays, mentre leggermente sotto la media sono l’intro iniziale Obrigado e Fake Names.

In conclusione, Freddie Gibbs e Madlib si confermano una volta di più essere fatti l’uno per l’altro, musicalmente parlando; “Bandana” rispetta pienamente l’hype che percorreva Internet ed è uno dei migliori album hip hop dell’anno.

9) Tyler, The Creator, “IGOR”

(HIP HOP)

Il sesto lavoro tra mixtape e CD veri e propri, non contando L’EP natalizio a tema Grinch uscito l’anno scorso, è un trionfo per Tyler, The Creator. Mescolando abilmente soul e hip hop, con strutture delle canzoni sempre innovative, Tyler ha prodotto il suo LP di maggior rilievo, forse anche superiore a quel “Flower Boy” (2017) che gli aveva dato definitivamente la fama.

Tyler, The Creator ne ha fatta di strada rispetto agli esordi, prima con gli Odd Future e poi come solista: se prima i suoi testi erano fortemente violenti, spesso amaramente ironici e omofobi, già in “Flower Boy” avevamo intravisto il suo lato più gentile e aperto, con annessa confessione di essere omosessuale che è stata francamente una rivelazione dato il suo passato.

Questo background è importante per comprendere appieno “IGOR”: l’album si articola in 12 brani per 39 minuti, quindi un lavoro compatto. Tyler narra una storia, in cui il suo alter ego Igor cerca di salvare la propria relazione con un altro uomo, prima suo amante ma poi incerto se tornare dalla sua fidanzata. Tyler canta in molte parti del disco versi commoventi nel loro candore: in EARFQUAKE “Don’t leave, it’s my fault”, mentre in RUNNING OUT OF TIME cerca di convincere il partner: “Stop lyin’ to yourself, I know the real you”. Quando però capisce che la storia è finita, in GONE, GONE / THANK YOU, ammette “Thank you for the love, thank you for the joy”.

Dicevamo della struttura delle canzoni: aiutato da gente del calibro di Kanye West, Pharrell e Cee-Lo Green, fra gli altri, Tyler mantiene la peculiarità di saper mescolare abilmente vari generi musicali: dal rap al funk, passando per soul e R&B, “IGOR” è un trionfo. Certo, la narrativa e la struttura non coincidono, a volte le canzoni finiscono improvvisamente e si intersecano con le successive, ma il CD mantiene un suo fascino innegabile. Inoltre, iniziare il lavoro con una suite strumentale come IGOR’S THEME non è una scelta facile, ma è lodevole e in fondo riuscita.

I pezzi migliori sono EARFQUAKE, la ballabile I THINK e la folle WHAT’S GOOD, in cui risplende tutta l’abilità di Tyler, The Creator nel creare canzoni davvero articolate. Buona anche la potente NEW MAGIC WAND. Se vogliamo trovare un brano inferiore alla media è forse GONE, GONE / THANK YOU, un po’ troppo lungo e pop.

In conclusione, “IGOR” è il lavoro che posiziona Tyler, The Creator nell’Olimpo dell’hip hop contemporaneo. Come molti dei suoi vecchi compagni degli Odd Future, Tyler ha saputo imporsi, malgrado alcuni passaggi a vuoto specialmente ad inizio carriera. Vedremo dove lo porterà il futuro, certo “IGOR” è fino ad ora il suo miglior LP.

8) Fontaines D.C., “Dogrel”

(PUNK – ROCK)

Il punk sembra essere decisamente tornato di moda: negli anni scorsi abbiamo visto nascere numerose band che si rifanno ai grandi maestri degli anni ’80, ad esempio Shame, IDLES, Protomartyr e Parquet Courts. Tutte queste band, con diverse sfumature e tematiche affrontate nel corso della loro carriera, hanno riportato l’attenzione del mondo su un genere che pareva morto e sepolto, preda di istinti pop ben impersonati da Blink-182 e Green Day.

I Fontaines D.C. hanno sfruttato appieno l’onda lunga che le band menzionate sopra hanno provocato e, più in generale, il malessere che pervade il mondo occidentale: disuguaglianze, razzismo, globalizzazione incontrollata e politici senza scrupoli hanno prodotto cambiamenti giganteschi nelle nostre società, impoverendo grandi masse della popolazione e provocando risentimento nelle fasce più deboli.

Il complesso irlandese descrive una Dublino che è voluta diventare grande troppo in fretta, causando la perdita di tutto ciò che rendeva la città caratteristica. Ad esempio, il quintetto non è per niente contento della trasformazione in polo tecnologico della città, resa possibile da una riduzione marcata della pressione fiscale la quale a sua volta ha aggravato i problemi delle fasce più povere, favorendo contemporaneamente i più ricchi. In Hurricane Laughter ad esempio il vocalist Grian Chatten si chiede provocatoriamente “Are there any connections available?”.

Liricamente i Fontaines D.C. in “Dogrel” toccano vari temi, spesso in maniera molto acuta: in Big si affronta il tema già menzionato della trasformazione di Dublino in metropoli all’avanguardia, “My childhood was small, but I’m going to be big!” canta Chatten, una frase che ricorda anche Rock’n’Roll Star degli Oasis. Invece un pessimismo totale permea Sha Sha Sha: “Now here comes the sun. That’s another one done”.

Musicalmente, accanto al post-punk caro a Joy Division e Fall, troviamo anche pezzi più melodici come Roy’s Tune, davvero riuscita, oltre alla conclusiva Dublin City Sky: diciamo che gli Strokes incontrano gli IDLES e i Clash in questi pezzi, portando nuova linfa in un genere ormai alquanto trafficato. Bella anche Boys In The Better Land. Le uniche pecche in un CD altrimenti perfetto sono proprio Dublin City Sky e Hurricane Laughter, ma non intaccano troppo il risultato finale.

In conclusione, “Dogrel” è senza dubbio il disco punk più riuscito dell’anno e uno dei migliori della decade. Malgrado il post-punk sia un genere ormai inflazionato e con maestri forse inarrivabili, i Fontaines D.C. si sono ritagliati abilmente una nicchia tutta per loro, con ritmica tagliente, voce espressiva e testi mai scontati.

7) Dave, “Psychodrama”

(HIP HOP)

Con Dave abbiamo davanti un prodigio vero e proprio: infatti lui è nato nel 1998 ed è anche un ottimo pianista, come dimostra nel corso di “Psychodrama”. Il disco d’esordio del talentuoso rapper britannico è un concentrato di tutte le caratteristiche migliori del rap d’Oltremanica: basi potenti, temi importanti affrontati con onestà e durezza, poca attenzione al lato commerciale (quindi CD concisi e diretti).

Rispetto ai suoi colleghi, David Orobosa Omoregie (questo il vero nome di Dave) come accennavamo introduce il pianoforte all’interno delle sue canzoni: non una caratteristica comune fra i rapper, specialmente quelli inglesi. I temi trattati al contrario sono già stati affrontati, ma mai come se si trattasse di una seduta psichiatrica. Il disco infatti si apre con Psycho e si chiude con Drama, guarda caso le parole che compongono “Psychodrama”; Dave inscena una sorta di seduta in cui lui narra le numerose disavventure vissute (o raccontategli) nel corso della sua breve vita: avere un fratello in carcere per il resto della vita (tema affrontato in Drama), persone abusate dal proprio partner (Lesley), violenza contro le persone di colore (Black). Specialmente toccante e duro il testo di quest’ultima canzone: Dave canta con la sua voce a metà fra Kid Cudi e Tyler, The Creator: “A kid dies, the blacker the killer, the sweeter the news. And if he’s white, you give him a chance, he’s ill and confused; if he’s black he’s probably armed, you see him and shoot”.

I brani migliori sono Psycho, Black e la lunghissima Lesley, vero pilastro che regge l’intero album; forse meno convincente la troppo melodica Voices, ma non intacca l’eccellente risultato complessivo.

In conclusione, Dave è davvero un ragazzo prodigio: dotato di voce imperiosa e grande talento compositivo e lirico, il futuro sembra fatto apposta per lui. “Psychodrama” è già un ottimo lavoro, nulla ci vieta di sperare che in futuro si possa assistere a LP ancora migliori da parte sua.

6) The National, “I Am Easy To Find”

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

Liricamente, Berninger (aiutato anche dalla moglie Carin Besser) non abbandona la sua fama di persona sensibile ma mai passiva di fronte alle disgrazie, soprattutto personali: nella title track canta di una coppia troppo divisa per stare insieme ma anche tanto consuetudinaria da non avere il coraggio di lasciarsi. Invece in Not In Kansas denuncia la deriva politica dell’America, citando il caso dei neonazisti. Allo stesso tempo, però, l’amore è sempre il centro dei suoi pensieri: “There’s never really any safety in it!” afferma perentorio in Hey Rosey, una frase quanto mai veritiera. Tuttavia, forse il verso più significativo dell’intero album è contenuta in Where Is Her Head: “And I will not come back the same” canta Berninger. Una dichiarazione di intenti chiarissima.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un ritorno in grande stile per i nativi di Brooklyn. Il disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National si candidano, chissà, ad un altro Grammy? Possibile, certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

5) Bon Iver, “i,i”

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura e l’impatto sugli ascoltatori potrebbe risultare a primo impatto deludente. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa.

La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Liricamente, come sempre, la band comunica più tramite immagini che con frasi definite e compiute: affiorano a volte sentimenti di amore (“I like you and that ain’t nothing new” canta Vernon in iMi), mentre in RABi compare in modo insolitamente chiaro il tema della morte: “Well, it’s all just scared of dying”.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

4) FKA twigs, “MAGDALENE”

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Il CD, molto atteso da critica e pubblico, era stato anticipato da singoli molto diversi fra loro: la meravigliosa cellophane è il più bel brano mai creato da FKA twigs, una delicata ballata solo voce e piano, con synth solo accennati. Invece holy terrain, con Future, era quasi trap; infine sad day e home with you si rifacevano, nello stile e nel ritmo, all’esordio di Tahliah, “LP1” (2014).

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD sono fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come la già citata cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

Menzioniamo infine l’aspetto testuale: in “MAGDALENE” l’artista inglese evoca, già nel titolo, la figura di Maria Maddalena, una delle più dibattute nei Vangeli. In alcuni brani emerge il ricordo della storia appena finita con Pattinson: in thousand eyes si sente “if I walk out the door it starts our last goodbye”, mentre sad day evoca il giorno in cui Tahliah ha capito che era finita. Altrove invece appare lo smarrimento che ha colpito la talentuosa performer nei momenti peggiori della sua vita: “I’m searching for a light to take me home and guide me out”, un verso desolante di fallen alien, ne è un esempio chiaro.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

3) Little Simz, “GREY Area”

(HIP HOP)

Simbiatu “Simbi” Abisola Abiola Ajikawo, in arte Little Simz, ha scritto già canzoni interessanti anche se ai più sconosciute. Lei infatti registra album sin dal 2013, quindi dai suoi 19 anni! Un talento davvero precoce, che è definitivamente sbocciato nell’eccellente “GREY Area”.

Se spesso infatti i suoi passati lavori erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), adesso l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque e si evita finalmente di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap dell’anno.

2) black midi, “Schlagenheim”

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; come sempre a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

1) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!”

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi 10 minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

I singoli che avevano anticipato il lavoro erano già invitanti e allo stesso tempo rischiosi: Venice Bitch è un pezzo a metà fra folk e dream pop lungo quasi 10 minuti, Mariners Apartment Complex una canzone pressoché perfetta che avvicina Lana a Joni Mitchell e Leonard Cohen. The Greatest è invece una canzone ambientalista, che scopre anche un lato impegnato politicamente di Lana che non conoscevamo. Infine contiamo Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It, già nel titolo una dichiarazione d’intenti, e la cover dei Sublime Doin’ Time. Insomma, un insieme eclettico ed estremamente coraggioso.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola.

È quasi un peccato terminare il CD, ci si rende conto che “Norman Fucking Rockwell!” è un punto nodale non solo per la carriera di Lana Del Rey, ma probabilmente del pop in generale, specialmente quello degli anni che verranno. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero un qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

Lana inoltre, lo sappiamo, ha sempre posto attenzione alle liriche. La sua estetica quasi lynchiana, mescolata a testi spesso molto introspettivi e deprimenti, l’avevano resa un’eroina degli adolescenti problematici. Adesso quest’immagine ingenua della cantautrice è destinata ad essere spazzata via: in California arrivano frasi di autoconvincimento, “You don’t ever have to be stronger than you really are… I shouldn’t have done it but I read it in your letter. You said to a friend that you wished you were doing better”, destinate forse più a sé stessa che ad un tu esterno. Altrove i testi sono esplicitamente introspettivi: “You took my sadness out of context” e “They mistook my kindness for weakness”, contenuti in Mariners Apartment Complex, sono versi più che schietti.

Nella conclusiva Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It troviamo tuttavia l’esclamazione più bella: “I have it!”. Lana dà finalmente un messaggio di speranza agli ascoltatori, alla fine di un CD (e al culmine di una carriera) piena di pensieri malinconici e depressi. “Hope is a dangerous thing for a woman with my past” canta Lana, ma se i risultati di questo ritrovato ottimismo sono così straordinari, speriamo che la sua vita continui ad essere serena. “Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente premiato come disco dell’anno.

Ebbene sì, Lana Del Rey si aggiudica il premio di miglior LP del 2019, in un podio peraltro per due terzi femminile: un segnale che, anche nella musica, quello che un tempo veniva chiamato odiosamente “sesso debole” è fonte di creatività senza eguali.

Cosa ci aspetta nel 2020? Beh, di certo la decade che sta per iniziare si preannuncia piena di cambiamenti radicali, sia musicalmente parlando che nelle tecniche di fruizione della musica: avremo con tutta probabilità uno streaming dominante, con artisti fai-da-te capaci di arrivare in pochissimo tempo nel mainstream, si vedano Billie Eilish e il social del momento, Tik Tok, da cui vedremo nascere sicuramente prima o poi qualche “stellina”.

State collegati, ad ogni modo: A-Rock sta già preparando un articolo sui CD più attesi dell’anno che sta per cominciare. Si parlerà, fra gli altri, di Tame Impala e The 1975: servono altri motivi per correre a leggerlo?

Rising: black midi & Hatchie

Quest’oggi la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti propone il ritratto dei black midi, un giovane gruppo britannico che suona un rock davvero particolare, con ricche influenze di jazz e metal. Insomma, tutto meno che il pop che va tanto di moda.  Accanto ai black midi abbiamo poi Hatchie, nuova stellina australiana del dream pop. Ma andiamo con ordine.

black midi, “Schlagenheim”

schlagenheim

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. Come già accennato, i black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti sfrenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? Allora, l’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; come sempre a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

Voto finale: 8,5.

Hatchie, “Keepsake”

keepsake

L’Australia si conferma terra fertile per il rock. Nella decade che sta per terminare abbiamo avuto l’affermazione di progetti del calibro di Tame Impala, King Gizzard & The Lizard Wizard e Alvvays; Hatchie si inserisce al confine tra pop e rock, creando con il suo CD d’esordio “Keepsake” un interessante ibrido di dream pop e shoegaze, mai però troppo sperimentale o fuori dagli schemi.

Questa è forse la critica maggiore ad un disco altrimenti pregevole: abbiamo influenze chiare degli Stone Roses e degli Smiths, tanto per citare due pilastri del rock anni ’80-’90 del secolo scorso. A colpire è soprattutto la capacità di Hatchie di proporre brani fondamentalmente pop con quello sguardo alla modernità che, se non presente, la renderebbe puramente una copia degli artisti sopra citati.

Come già ribadito, chi si aspettasse un album rivoluzionario rimarrà deluso; tuttavia l’hype che circonda la giovane australiana non è del tutto immeritata. Certo, brani scontati come Without A Blush starebbero meglio nelle mani di gente come Carly Rae Jepsen o Charli XCX, ma altri come l’iniziale Not That Kind e Unwanted Guest sono perle vere.

Liricamente, il lavoro è uno dei tanti breakup album usciti ultimamente nel mondo pop-rock, non ultimi quelli di Julia Jacklin e Sharon Van Etten: sentiamo Harriette Pilbeam (questo il vero nome di Hatchie) cantare in Secret “Just for a while, let’s reconcile”, ma anche altrove emergono sentimenti contrastanti verso l’ex partner. Insomma, anche sul versante testuale nessuna novità di rilievo.

In conclusione, “Keepsake” è una parziale delusione: chi si aspettava il CD-manifesto della promettente artista australiana dovrà pazientare ancora qualche anno. I momenti interessanti non  mancano, ma Hatchie deve ancora farne di strada per arrivare a risultati davvero eccezionali. L’impressione è che le riescano meglio le canzoni più aderenti allo shoegaze, staremo a vedere dove la porterà il prosieguo della carriera.

Voto finale: 6,5.