I 20 migliori album del 2012

Ad A-Rock è ormai tradizione, prima di presentare le liste dei migliori e peggiori dischi dell’anno, fare un salto nel passato, per ripercorrere insieme i CD che più hanno segnato un certo anno.

Quest’anno la nostra attenzione si concentra sul 2012: un anno fondamentale per la scena musicale contemporanea, in cui artisti del calibro di Frank Ocean, Tame Impala e Kendrick Lamar hanno pubblicato i lavori che li hanno definitivamente fatti esplodere a livello di consenso di pubblico e critica. Inoltre, Beach House e Grizzly Bear hanno pubblicato quelli che sono, ad oggi, i migliori LP nella loro già pregiata produzione.

Chi avrà vinto il titolo di miglior disco del 2012? Buona lettura!

20) Miguel, “Kaleidoscope Dream” (R&B)

19) Parquet Courts, “Light Up Gold” (ROCK)

18) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (ROCK)

17) Grimes, “Visions” (POP – ELETTRONICA)

16) Ty Segall, “Slaughterhouse” / ”Hair” / ”Twins” (ROCK)

15) Mac DeMarco, “2” (ROCK)

14) Killer Mike, “R.A.P. Music” (HIP HOP)

13) Chromatics, “Kill For Love” (ELETTRONICA – ROCK)

12) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (ROCK)

11) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (PUNK – ROCK)

10) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (ELETTRONICA)

9) Alt-J, “An Awesome Wave” (ROCK)

8) Burial, “Kindred EP”/ ”Truant / Rough Sleeper EP” (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

7) Death Grips, “The Money Store” (HIP HOP – SPERIMENTALE)

6) Godspeed You! Black Emperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (ROCK – SPERIMENTALE)

5) Kendrick Lamar, “Good Kid, M.A.A.D. City” (HIP HOP)

4) Grizzly Bear, “Shields” (ROCK)

3) Beach House, “Bloom” (POP)

2) Tame Impala, “Lonerism” (ROCK)

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (R&B)

Che ne pensate di questi magnifici 20 album del 2012? Non esitate a lasciare commenti e suggerimenti!

Recap: ottobre 2022

Dopo un settembre davvero denso, anche ottobre non è stato da meno. Oltre agli Arctic Monkeys, a cui abbiamo dedicato un articolo ad hoc, abbiamo infatti recensito album molto attesi da pubblico e critica, come il terzo album degli Alvvays e il ritorno di Carly Rae Jepsen. Inoltre, sul versante pop spazio a Taylor Swift e The 1975. Abbiamo poi il secondo CD del 2022 dei Red Hot Chili Peppers e il ritorno dei Sorry. Spazio, infine, al ritorno dei Dry Cleaning e al secondo EP del 2022 di Burial. Buona lettura!

Alvvays, “Blue Rev”

blue rev

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

Voto finale: 8,5.

The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

Being Funny In A Foreign Language

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

Voto finale: 8.

Taylor Swift, “Midnights”

midnights

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

Voto finale: 8.

Sorry, “Anywhere But Here”

Anywhere But Here

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

Voto finale: 7,5.

Red Hot Chili Peppers, “Return Of The Dream Canteen”

return of the dream canteen

Il secondo album del 2022 dei RHCP, per un totale di 34 brani pubblicati (!), espande quanto già presentato in “Unlimited Love”: la chitarra di John Frusciante in primo piano in quasi tutte le composizioni, testi assurdi oppure nostalgici, una durata tanto eccessiva (75 minuti) quanto generosa per i propri fan… Insomma, siamo di fronte ad un tipico album dei Red Hot Chili Peppers.

Non si pensi, però, che “Return Of The Dream Canteen” sia composto dagli scarti delle sessioni che hanno portato a “Unlimited Love”: anzi, in molte cose i due CD si equivalgono. Ad esempio, Tippa My Tongue e Eddie, canzone tributo al mitico Eddie Van Halen, sono buonissimi pezzi e sono tra gli highlight non solo del disco, ma della produzione di Anthony Kiedis e co. dal 2006 in avanti.

Date queste premesse, aspettarsi un capolavoro di fine carriera da parte dei Red Hot Chili Peppers sarebbe un azzardo; tuttavia, alcuni momenti resisteranno alla prova del tempo e, probabilmente, saranno dei capisaldi dei concerti dei Nostri. Oltre alle già ricordate Eddie e Tippa My Tongue, non sono per niente male Peace And Love e Reach Out. Invece alcune melodie sanno eccessivamente di già sentito: è questo il caso di Roulette e La La La La La La La La. Interessante poi l’esperimento di Frusciante al sax in My Cigarette.

In conclusione, “Return Of The Dream Canteen” è un altro solido CD a firma Red Hot Chili Peppers: Kiedis, Chad Smith, Flea e il “figliol prodigo” John Frusciante hanno dimostrato ancora una volta la loro capacità di navigare le acque del rock alternativo e del funk con qualità, pur mancando l’inventiva e le scintille che hanno portato “Californication” (1998) a diventare un classico.

Voto finale: 7,5.

Dry Cleaning, “Stumpwork”

stumpwork

Il secondo album dei britannici Dry Cleaning, oltre ad avere una delle cover più strambe degli ultimi tempi, espande quello che era il suono del loro esordio “New Long Leg” (2021), oggetto anche di un profilo Rising del nostro blog per il suo strano mix di post-punk e una voce tanto piatta quanto capace di descrivere la quotidianità con nitidezza.

“Stumpwork” riprende quanto intravisto con “New Long Leg”, cercando però di creare dinamiche diverse, che a volte richiamano addirittura il dream pop (Conservative Hell) e il post-rock (Liberty Log). A colpire, come già anticipato, è il modo in cui la frontwoman Florence Shaw approccia il suo ruolo: voce inespressiva, quasi come si fosse davanti alla voce del Tom Tom o del traduttore. Può piacere o meno, ma è un tratto caratteristico del gruppo, che lo associa a leggende del passato come i Sonic Youth, senza però la loro stessa furia iconoclasta.

Come sempre, i testi sono il pezzo forte dei lavori dei Dry Cleaning: Shaw riesce a farci scordare la durezza degli scorsi due anni parlandoci della sua tartaruga, Gary Ashby, fuggita di casa nell’omonima Gary Ashby. Altrove abbiamo buoni consigli di vita (“For a happy and exciting life… stay interested in the world around you” canta Florence in Icebergs) e più o meno gentili richieste di lasciarla stare mentre gioca al computer (“Just don’t touch my gaming mouse”, Don’t Press Me). Il verso migliore è però contenuto nella notevole No Decent Shoes For Rain: “Oh, you drink wine and go on holiday now? OK! Well, OK, well, OK well” suona contemporaneamente arrabbiato e assurdo.

Oltre alla già menzionata No Decent Shoes For Rain, anche Hot Penny Day e la più raccolta Conservative Hell sono convincenti. Sotto la media invece Gary Ashby e la troppo breve Don’t Press Me.

Il CD può apparire difficile da digerire, soprattutto per i non fan del cosiddetto spoken-word, ossia quel modo di cantare che quasi equivale al tono colloquiale. Tuttavia, diamo atto ai Dry Cleaning di avere una propria identità in un’affollatissima scena post-punk britannica. “Stumpwork”, anche grazie alla produzione del veterano John Parish (in passato collaboratore di PJ Harvey), riesce a convincere anche nei suoi momenti meno ispirati. Non parliamo di un capolavoro, ma sicuramente di un buon LP post-punk.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Streetlands”

streetlands

Non sono stati solo Jack White e i Red Hot Chili Peppers a pubblicare due lavori nel corso del 2022 (lasciamo da parte i King Gizzard & The Lizard Wizard, giunti addirittura a cinque!). Burial, il misterioso musicista inglese, segue “Antidawn” con questo “Streetlands”, secondo EP dell’anno per lui. I risultati restano discreti, ma nulla più: ribadiamo che i suoni ambient sembrano adattarsi meno rispetto al dubstep al Nostro.

L’EP si compone di tre tracce: Hospital Chapel, la title track ed Exokind. La prima è la più breve, arrivando ad otto minuti scarsi; invece, le seguenti melodie superano abbondantemente i dieci minuti. In generale, si conferma l’estetica complessiva del Burial più recente: panorami desertici evocati attraverso il minimo indispensabile, quasi fossimo in una colonna sonora di un film horror. A colpire è, inoltre, la totale assenza di percussioni: il musicista che aveva rivoluzionato la scena elettronica con l’ormai classico “Untrue” (2007) sembra ormai scomparso.

La traccia migliore è Streetlands, mentre è fin troppo monotona, pur essendo la più breve del lotto, Hospital Chapel. Il mood misterioso è quindi garantito dalla coerenza delle tre canzoni tra loro, ma i risultati complessivi sono appena sufficienti.

“Streetlands” conferma un Burial alla ricerca del prossimo step per la sua carriera: abbandonata (almeno apparentemente) la scena dubstep, il produttore britannico sta però faticando a trovare ispirazione nell’ambient. Vedremo se in futuro continuerà su questa strada oppure proverà a ripetere il miracolo più dubstep degli inizi di carriera.

Voto finale: 6,5.

Carly Rae Jepsen, “The Loneliest Time”

the loneliest time

Il nuovo album di Carly Rae Jepsen prosegue il percorso pop intrapreso ormai dieci anni fa, fatto di canzoni frizzanti, tastiere sempre in evidenza e testi spesso sospesi tra amori infranti e il desiderio di evadere dalla realtà. Tuttavia, se da un lato abbiamo alcune canzoni davvero poco ispirate, altre sembrano preludere ad un leggero cambio di estetica, che potrebbe giovare nel medio termine alla canadese.

“The Loneliest Time”, già dal titolo, sembra anticipare un CD più intimo rispetto alla doppietta “Dedicated” (2019) e “Dedicated Side B” (2020); e in effetti il primo singolo scelto da Jepsen per lanciare il lavoro, Western Wind (che vanta la collaborazione di Rostam Batmanglij, ex Vampire Weekend), è quasi cantautorale ed è uno degli highlight del disco. Invece altri episodi sono davvero deboli e forse non è un caso che siano le canzoni che più “suonano” come ci si aspetterebbe da Carly Rae Jepsen: sia Beach House che Joshua Tree sono infatti brani pop vuoti e per nulla interessanti. Altre buone prove sono invece Surrender My Heart e Bends. Citiamo infine la title track, che vanta la collaborazione di Rufus Wainwright.

In conclusione, “The Loneliest Time” non è certo il miglior lavoro dell’autrice della celeberrima Call Me Maybe: quel posto è probabilmente occupato da “E•MO•TION” (2015). Allo stesso tempo, pur essendo probabilmente un album di transizione, il CD contiene alcune tracce di un possibile futuro alternativo rispetto a quello da popstar che tutti conosciamo, che potrebbe contenere un risvolto imprevisto ma roseo per Jepsen.

Voto finale: 6,5.

Recap: gennaio 2022

Il 2022 è cominciato col botto: basti dire che uno dei CD più rilevanti usciti durante il mese di gennaio è stato il nuovo lavoro della superstar canadese The Weeknd. Abbiamo poi i nuovi dischi di Nas, Earl Sweatshirt e FKA twigs. Inoltre, Burial ha pubblicato un nuovo EP. Buona lettura!

The Weeknd, “Dawn FM”

dawn fm

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura, il primo grande CD del 2022.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è il primo grande album pop del 2022; ne parleremo ancora a lungo, possiamo starne certi.

Voto finale: 8.

Earl Sweatshirt, “SICK!”

sick!

Il nuovo CD del rapper più misterioso uscito da quella covata di ragazzi prodigi che era la Odd Future apre un nuovo, interessante capitolo nella sua già brillante carriera. Se “Some Rap Songs” (2018) rappresentava il compimento di quel rap jazzato e astratto che aveva contraddistinto la produzione della sua gioventù, “SICK!” è quasi trap nel suo incedere.

Due eventi hanno grande peso nell’economia del lavoro: la pandemia in cui siamo coinvolti da ormai due anni e la recente nascita del primo figlio di Earl. Se “Feet Of Clay”, il breve EP del 2019, era la chiusura ideale del ciclo di “Some Rap Songs”, il Nostro ha rivelato che prima di pubblicare “SICK!” aveva in mente di dare alla luce un LP di ben 19 canzoni, che però suonavano troppo ottimiste e sono state scartate in favore dei beat più sghembi e jazzati di questo lavoro.

Decisione probabilmente corretta: Sweatshirt dà il meglio sulla breve distanza, come già dimostrato in passato. I 24 minuti del CD scorrono bene, anche grazie a ospiti di spessore come Armand Hammer, il duo formato dai rapper ELUCID e billy woods (presenti in Tabula Rasa), Zelooperz (Vision) e The Alchemist (Lye). I pezzi migliori sono 2010 e Tabula Rasa, leggermente sotto la media la troppo breve Old Friend. Da sottolineare infine la melodia alla base della sognante Vision.

Se un tempo Earl era un maestro delle canzoni potenti, con testi scarni e ironia a piene mani, in “SICK!” notiamo una figura più matura emergere dalle sue canzoni. Le considerazioni sul suo passato sono presenti un po’ ovunque, ma non con la voglia di sfida e rivincita che caratterizzava la sua gioventù. Da notare, a chiusura di Fire In The Hole, queste parole, originariamente pronunciate dal grande Fela Kuti: “As far as Africa is concerned, music cannot be for enjoyment. Music has to be for revolution. Music is the weapon”. In 2010 abbiamo acute considerazioni sulla sua infanzia così come sul futuro prossimo (“We got us a fire to rekindle”), mentre in Old Friend sembra un soldato in guerra: “I came from out the thicket smiling… Link up for some feasible methods to free yourself”.

Earl Sweatshirt si conferma nome imprescindibile per la scena hip hop più sperimentale: le sue canzoni fulminanti ma non trascurate sono piccoli miracoli di ottimo artigianato. Pur non essendo il suo miglior lavoro, “SICK!” apre nuove prospettive in una carriera già piuttosto peculiare.

Voto finale: 8.

Nas, “Magic”

magic

Arrivato la Vigilia di Natale sui servizi di streaming e sugli scaffali dei negozi di musica, l’ennesimo CD del celebre rapper newyorkese lo trova in buona forma, non lontano dai suoi migliori momenti. In attesa di “King’s Disease III”, che dovrebbe chiudere la trilogia, “Magic” è un buon antipasto.

Nas è un nome sempre controverso nel mondo hip hop: capace di capolavori come “Illmatic” (1994) così come di flop colossali come “Nastradamus” (1999), negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sorta di sua rinascita artistica, soprattutto a partire da “King’s Disease” (2020). Assistito ancora da Hit-Boy e con ospiti di spessore come A$AP Rocky e DJ Premier, entrambi in Wave Gods, i 29 minuti di durata del CD passano facilmente e aiutano il replay value. L’essere retro nelle sonorità è solo un fattore tra tanti, per alcuni anzi potrebbe anche essere un valore aggiunto.

Liricamente, Nas si conferma rapper capace di scrivere versi feroci (“I’m tellin’ it like it is, you gotta deal with the consequence”, in Speechless) e nostalgico (in Dedicated cita il film Carlito’s Way e Mike Tyson, icone degli anni ‘90), arrogante (“Only thing undefeated is time, the second is the internet, number three is this rhyme”, sempre in Speechless) e dubbioso della capacità di mantenere la fedeltà per molto tempo (“One girl for the rest of your life, is that realistic?”, chiede retoricamente in Wu For The Children). I brani migliori sono Dedicated e Speechless, sotto la media invece The Truth.

In generale, “Magic” conferma una volta in più che, quando Nas è concentrato e senza grilli per la testa, è capace di produrre CD davvero riusciti. Questo, purtroppo per lui e la sua eredità artistica, non è sempre stato il caso, soprattutto nella parte centrale della sua carriera. Tuttavia, giunto ai 48 anni, pare proprio che Nas sia pronto a regalarci ancora momenti da ricordare. Se “Magic” è solo l’antipasto, aspettiamo trepidanti la portata principale.

Voto finale: 7,5.

FKA twigs, “CAPRISONGS”

caprisongs

Il nuovo lavoro della cantante inglese è etichettato come un mixtape, quindi un componimento libero da impegni in termini di temi alla base del prodotto o narrazioni impegnative. Rispetto al precedente “MAGDALENE” (2019), quindi, che invece trattava argomenti come gli abusi subiti da FKA twigs durante una precedente relazione, “CAPRISONGS” è caratterizzato da melodie e testi più accessibili, ma anche da alcune canzoni meno profonde e meticolose.

Non stiamo parlando della parentesi propriamente pop di FKA twigs; malgrado la presenza di ospiti come The Weeknd (tears in the club), Jorja Smith (darjeeling) e Daniel Caesar (careless), che sono inquadrabili in questo genere, “CAPRISONGS” mescola anche elementi hip hop, dancehall ed elettronici. Ricordiamo infatti che alla produzione abbiamo anche contributi di Arca (thank you song), così come tra gli ospiti annoveriamo Shygirl (papi bones) e Pa Salieu (honda): insomma, una gamma davvero ampia.

Non sempre, tuttavia, i risultati sono convincenti: se anche sorvoliamo sugli intermezzi, che nulla aggiungono in termini di liriche e anzi contribuiscono all’incoerenza del lavoro, pezzi come pamplemousse e lightbeamers sono deboli. A bilanciarli ci pensano ride the dragon e thank you song, che invece sono di buona fattura; in generale, “CAPRISONGS” non è il miglior lavoro della Nostra.

FKA twigs si è contraddistinta, nel corso di una carriera ancora giovane, per essere un’artista decisamente perfezionista, la più credibile erede del pop elettronico e sofisticato di Bjork. “CAPRISONGS” suona come una boccata d’ossigeno tra un CD e l’altro; vedremo se l’impressione è giusta. Complessivamente, il mixtape non è malaccio: probabilmente, però, ci eravamo abituati troppo bene.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Antidawn”

antidawn

Questa pubblicazione da parte del leggendario produttore inglese è la più elaborata dai tempi di “Untrue” (2007), il capolavoro che ha reso Burial il nome per eccellenza della scena dubstep. “Antidawn”, tuttavia, non segue i dettami della scuola dubstep, al contrario il lavoro è composto da cinque composizioni di musica d’ambiente, sporche e misteriose ma mai preda delle sfuriate techno e dance del primo Burial.

Questo, a seconda dei gusti, può essere un cambiamento benvenuto oppure l’inizio della fine: se infatti i fan più incalliti di William Bevan sono pronti ad ascoltare qualsiasi cosa il loro beniamino pubblichi, i discepoli dei dubstep anni ’00 saranno probabilmente delusi. Va detto, ad ogni modo, che se un erede di “Untrue” ancora non è apparso, un motivo ci sarà: probabilmente Burial vuole trovare il momento giusto e far maturare tutte le influenze della sua estetica, per arrivare ad un risultato altrettanto impeccabile.

Anche se non arrivasse mai questo CD, godiamoci “Antidawn” per quello che è: un buon lavoro di musica ambient, che ci ricorda che Bevan può comporre sia EP fulminanti come “Kindred” (2012) e “Rival Dealer” (2013) che prodotti più riservati come quest’ultimo disco. I brani migliori sono Strange Neighbourhood e Shadow Paradise, mentre è troppo astratta la title track.

Da notare infine le voci eteree che di tanto in tanto appaiono nel corso dell’album: Strange Neighbourhood inizia con un colpo di tosse, poi qualcuno mormora “Hold me” e un altro gli risponde “Nowhere To Go”. In Upstairs Flat le voci sembrano narrare una sorta di storia d’amore: “You came my way”, “Somewhere in the darkest night”, “When you’re alone” e “Here I am”.

In generale, Burial si conferma abile come sempre a mischiare le carte e a cambiare la sua estetica quel tanto che basta da non suonare mai ripetitivo. “Antidawn” non è un EP perfetto, ma non intacca la sua eredità artistica.

Voto finale: 7.