I 50 migliori album del 2022 (50-26)

Il 2022 è stato davvero un anno ricco di buona musica. Abbiamo avuto prove di forza da parte di artisti che sono nel gotha del pop (Beyoncé, Taylor Swift, The Weeknd), altri autori e band avevano così tante cose da dire che hanno pubblicato più di un CD (Jack White, Nas, King Gizzard & The Lizard Wizard)… Altri ancora invece hanno preferito pubblicare album doppi che riassumono in modo impeccabile la loro estetica (Big Thief, Beach House). Infine, abbiamo visto emergere artisti di grande talento (Jockstrap, Chat Pile) e altri hanno confermato quanto di buono si dice da loro da anni (Arctic Monkeys, The 1975, Charli XCX).

Insomma, è proprio arrivato il momento di riassumere in due puntate, come di consueto, i 50 migliori album dell’anno. Buona lettura!

50) Nas, “Magic” / “King’s Disease III”

(HIP HOP)

Arrivato la Vigilia di Natale 2021 sui servizi di streaming e sugli scaffali dei negozi di musica, “Magic” lo trova in buona forma, non lontano dai suoi migliori momenti.

Nas è un nome sempre controverso nel mondo hip hop: capace di capolavori come “Illmatic” (1994) così come di flop colossali come “Nastradamus” (1999), negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sorta di sua rinascita artistica, soprattutto a partire da “King’s Disease” (2020). Assistito ancora da Hit-Boy e con ospiti di spessore come A$AP Rocky e DJ Premier, entrambi in Wave Gods, i 29 minuti di durata del CD passano facilmente e aiutano il replay value. L’essere retro nelle sonorità è solo un fattore tra tanti, per alcuni anzi potrebbe anche essere un valore aggiunto.

Liricamente, Nas si conferma rapper capace di scrivere versi feroci (“I’m tellin’ it like it is, you gotta deal with the consequence”, in Speechless) e nostalgico (in Dedicated cita il film Carlito’s Way e Mike Tyson, icone degli anni ‘90), arrogante (“Only thing undefeated is time, the second is the internet, number three is this rhyme”, sempre in Speechless) e dubbioso della capacità di mantenere la fedeltà per molto tempo (“One girl for the rest of your life, is that realistic?”, chiede retoricamente in Wu For The Children). I brani migliori sono Dedicated e Speechless, sotto la media invece The Truth.

In generale, “Magic” conferma una volta in più che, quando Nas è concentrato e senza grilli per la testa, è capace di produrre CD davvero riusciti. Questo, purtroppo per lui e la sua eredità artistica, non è sempre stato il caso, soprattutto nella parte centrale della sua carriera.

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

49) Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

(ROCK)

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

48) Steve Lacy, “Gemini Rights”

(R&B – SOUL)

Il secondo album vero e proprio a firma Steve Lacy (anche parte del collettivo The Internet) è un ottimo CD di neo-soul e R&B. Nulla di innovativo su questi fronti, sia chiaro, ma Lacy si dimostra in grado di brillare anche da solista, dopo fruttuose collaborazioni in passato con Vampire Weekend e Solange Knowles, tra gli altri.

L’esordio “Apollo XXI” (2019) non era un cattivo LP, piuttosto mancava di cura nei particolari e, pertanto, era stato schifato dai critici più pignoli. “Gemini Rights”, da questo punto di vista, è un netto miglioramento, dovuto anche al fatto che questa volta Steve ha registrato il lavoro in uno studio vero e proprio e non, come in passato, attraverso il proprio cellulare o laptop.

La prima parte di “Gemini Rights” è formata da possibili hit: da Mercury a Bad Habit, passando per Buttons, abbiamo alcune tra le più belle canzoni a firma Steve Lacy. Nella parte centrale invece il lavoro perde vigore: ad esempio, il falsetto di Amber era ampiamente evitabile. Buona invece Sunshine, grazie anche alla collaborazione di Foushée.

Anche liricamente il Nostro dimostra una maturità nel parlare dei propri sentimenti che in passato non avevamo colto. Molto del CD ruota accanto ad una rottura sentimentale recentemente patita da Lacy: ad esempio, in Static canta “If you had to stunt your shining for your lover, dump that fucker”, mentre Mercury contiene il seguente verso: “Oh, I know myself, my skin, rolling stones don’t crawl back in”. Helmet possiede il momento più evocativo dell’intero CD: “I tried to play pretend (oh-oh), tried not to see the end (ah-ah), but I couldn’t see you the way you saw me. Now I can feel the waste on me”.

In conclusione, “Gemini Rights” è un buonissimo LP estivo: canzoni leggere, a metà tra soul e R&B, con tocchi funk, che sono ascoltabili tanto in spiaggia quanto nelle feste tra amici. Nulla di radicale, insomma, ma Steve Lacy ha finalmente dato sfoggio del suo talento. Tuttavia, siamo convinti che possa fare ancora meglio: aspettiamo con trepidazione il suo prossimo lavoro.

47) Let’s Eat Grandma, “Two Ribbons”

(POP)

Giunte al terzo album, le due cantautrici inglesi Jenny Hollingworth e Rosa Walton, in arte Let’s Eat Grandma, mantengono lo stile pop alternativo che contraddistingueva “I’m All Ears” (2018), l’album che aveva messo la band sulla bocca di molti. Non tutto funziona a meraviglia, ma la maturità con cui Hollingworth e Walton affrontano temi difficili come la morte prematura di una persona cara e le prime crepe nella loro amicizia ne fa consigliare l’ascolto.

Il primo fatto che balza all’occhio è la concisione del CD: dieci brani, di cui due intermezzi, per 38 minuti complessivi, potrebbero essere considerati da molti fan delle Let’s Eat Grandma non abbastanza, dopo ben quattro anni di assenza. Tuttavia, la coesione del lavoro e la bellezza di pezzi come Hall Of Mirrors e la frizzante Happy New Year sono punti a favore di “Two Ribbons”.

Dicevamo che il lavoro affronta tematiche delicate: Jenny Hollingworth ha visto morire il giovanissimo fidanzato a causa di una rara forma di tumore. Inoltre, Jenny e Rosa si sono progressivamente allontanate durante il tour a supporto del precedente CD “I’m All Ears” e hanno composto le canzoni individualmente per la prima volta nella loro carriera. Non parliamo quindi di un “ordinary pain”, come viene cantato amaramente in Insect Loop; altrove abbiamo immagini di pioggia che cade mentre si è in sala d’attesa all’aeroporto (Hall Of Mirrors) e viaggi lunghi ed epici, coronati dalla spiacevole sensazione di non stare bene con il compagno di viaggio (Sunday).

In conclusione, “Two Ribbons” è un CD importante nella carriera delle Let’s Eat Grandma: Jenny Hollingworth e Rosa Walton sono ormai mature, ma hanno passato delle tragedie che le hanno radicalmente cambiate, tanto da mettere a rischio il futuro della band. Vedremo i prossimi anni dove le condurranno; di certo questo non è un cattivo lavoro. Forse è inferiore a “I’m All Ears”, ma il talento di Jenny e Rosa è indiscutibile.

46) ROSALÍA, “MOTOMAMI”

(POP)

Il terzo disco della cantante spagnola amplia notevolmente i suoi orizzonti: art pop, hip hop… ormai nulla è estraneo all’estetica di ROSALÍA. “MOTOMAMI” non è un album immacolato, ma contiene alcuni dei pezzi più futuristi ascoltati negli ultimi anni.

La giovane artista si era fatta conoscere con “EL MAL QUERER”, nel 2018: un CD che aveva catapultato ROSALÍA nell’Olimpo pop, con una radicale innovazione della musica spagnola più classica, quella con base flamenco, che l’aveva fatta amare tanto dal pubblico quanto dalla critica, prova ne sia il successo di MALAMENTE. “MOTOMAMI” è una creatura diversa: più sperimentale, meno coeso, ma non meno ammaliante. Le 16 canzoni che compongono il CD vanno dal minuto scarso di durata (la title track) ad oltre quattro minuti; affrontano temi leggeri con ironia (CHICKEN TERIYAKI, HENTAI) così come i problemi che la fama ha portato sulla psiche di ROSALÍA (LA FAMA, con The Weeknd).

Le canzoni migliori sono anche le più imprevedibili: SAOKO, BULERÍAS e G3 N15 sono pezzi davvero mozzafiato. Menzione poi per la magnifica voce della Nostra, valore aggiunto lungo l’intero LP. Inferiori sono invece gli intermezzi di breve durata, che alla lunga tolgono linfa al lavoro: MOTOMAMI e Abcdefg ne sono chiari esempi. In generale, la varietà di stili può risultare alienante, ma una domanda ci viene spontanea: quante possono passare indifferentemente dal reggaeton all’hip hop al pop senza perdere un briciolo della loro qualità compositiva?

In generale, “MOTOMAMI” conferma tutto il bene che si diceva di ROSALÍA: ambizioso, basato su temi ed esperienze non facili da assimilare ma capace di slanci pop da Top 40 di Billboard. È un CD perfetto? No, però il futuro della musica pop passa anche da qui.

45) Alex G, “God Save The Animals”

(ROCK)

Il decimo disco di inediti di Alex Giannascoli, tornato a chiamarsi Alex G dopo la breve parentesi col nickname (Sandy) Alex G, prosegue nel solco tracciato dai suoi CD più recenti, vale a dire “Rocket” (2017) e “House Of Sugar” (2019): un indie rock eccentrico, spesso virato sul folk à la Animal Collective (S.D.O.S). I risultati forse non raggiungono le vette dei suoi migliori lavori, ma “God Save The Animals” resta un buon disco indie.

Il titolo del CD può far pensare ad un inno ambientalista, forse contenente riferimenti al sacro. In realtà, come Alex ci ha abituato, “God Save The Animals” ha solo in parte gli animali e la natura al centro del palcoscenico. Troviamo infatti riferimenti più personali, ad esempio in Cross The Sea (“You can believe in me”) e in Ain’t It Easy (“Now you sit with me, I keep you safe”).

Le canzoni, dal canto loro, sono infarcite, spesso anche eccessivamente, di autotune: Alex Giannascoli non si era mai distinto per un uso di questo strumento, ma nel corso di “God Save The Animals” l’autotune diventa la maggiore innovazione nella palette sonora utilizzata dal Nostro. Si ascoltino ad esempio Cross The Sea e la danzereccia No Bitterness. I migliori pezzi sono Runner e Ain’t It Easy, mentre sotto la media restano S.D.O.S e Headroom Piano.

In conclusione, “God Save The Animals” conferma la fama di autore misterioso guadagnata da Alex G lungo una carriera accidentata e prolifica: i testi rimangono criptici, le melodie sguazzano nell’indie per poi virare improvvisamente verso folk ed elettronica… insomma, il lavoro non brilla per coerenza, ma prosegue con successo una carriera sempre più interessante.

44) Sorry, “Anywhere But Here”

(ROCK)

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

43) Pusha T, “It’s Almost Dry”

(HIP HOP)

Il quarto album solista di Pusha T non aggiunge nulla ad un’estetica ormai ben conosciuta: rime dure, basi potenti, testi molto gangsta rap, ospiti scelti con cura. “It’s Almost Dry”, in questo senso, può essere una delusione per coloro che cercano un disco rap avventuroso e sperimentale; ma, del resto, chi ascolta King Push con queste idee in testa al giorno d’oggi?

Il CD segue “Daytona” (2018), da molti riconosciuto come il miglior lavoro a firma Pusha T dai tempi dei Clipse, il duo formato col fratello No Malice con cui si è fatto conoscere nei primi anni ’00. Le sette canzoni, prodotte da Kanye West, erano tanto dure quanto irresistibili; in questo “It’s Almost Dry” è più variegato, potendo contare anche sulla collaborazione di Pharrell Williams, JAY-Z e Kid Cudi tra gli altri, oltre all’amico Kanye.

I risultati, pur leggermente inferiori, sono comunque buoni e paragonabili a “Daytona”, specialmente nei momenti migliori: ad esempio la doppietta iniziale formata da Brambleton e Let The Smokers Shine The Coupes, così come Diet Coke e Neck & Wrist, sono tracce di ottima fattura. Invece inferiori alla media Rock N Roll e Scrape It Off, ma complessivamente i 35 minuti di “It’s Almost Dry” scorrono bene e il CD mostra una coesione e una compattezza non facili da trovare in molti lavori hip hop recenti.

Liricamente, prima accennavamo al fatto che Pusha T sa essere tanto sincero quanto feroce nelle sue canzoni: molti ricorderanno il suo diss con Drake, concluso con la stratosferica The Story Of Adidon. Ebbene, in “It’s Almost Dry” il bersaglio del Nostro è l’ex manager dei Clipse, Anthony Gonzalez, che è stato condannato a otto anni in carcere per aver gestito un cartello della droga da 20 milioni di dollari. In un’intervista del 2020 Gonzalez dichiarò: “il 95% dei brani dei Clipse parlavano della mia vita”. A tal proposito, il verso più potente è racchiuso in Let The Smokers Shine The Coupes: “If I never sold dope for you, then you’re 95 percent of who?”.

In generale, pertanto, “It’s Almost Dry” è un buon CD hip hop vecchio stampo. Il 44enne Pusha T dimostra ancora una volta la propria, pregiata stoffa: non staremo parlando del suo miglior lavoro, ma certamente questo disco merita almeno un ascolto.

42) Earl Sweatshirt, “SICK!”

(HIP HOP)

Il nuovo CD del rapper più misterioso uscito da quella covata di ragazzi prodigi che era la Odd Future apre un nuovo, interessante capitolo nella sua già brillante carriera. Se “Some Rap Songs” (2018) rappresentava il compimento di quel rap jazzato e astratto che aveva contraddistinto la produzione della sua gioventù, “SICK!” è quasi trap nel suo incedere.

Due eventi hanno grande peso nell’economia del lavoro: la pandemia in cui siamo coinvolti da ormai quasi tre anni e la recente nascita del primo figlio di Earl. Se “Feet Of Clay”, il breve EP del 2019, era la chiusura ideale del ciclo di “Some Rap Songs”, il Nostro ha rivelato che prima di pubblicare “SICK!” aveva in mente di dare alla luce un LP di ben 19 canzoni, che però suonavano troppo ottimiste e sono state scartate in favore dei beat più sghembi e jazzati di questo lavoro.

Decisione probabilmente corretta: Sweatshirt dà il meglio sulla breve distanza, come già dimostrato in passato. I 24 minuti del CD scorrono bene, anche grazie a ospiti di spessore come Armand Hammer, il duo formato dai rapper ELUCID e billy woods (presenti in Tabula Rasa), Zelooperz (Vision) e The Alchemist (Lye). I pezzi migliori sono 2010 e Tabula Rasa, leggermente sotto la media la troppo breve Old Friend. Da sottolineare infine la melodia alla base della sognante Vision.

Se un tempo Earl era un maestro delle canzoni potenti, con testi scarni e ironia a piene mani, in “SICK!” notiamo una figura più matura emergere dalle sue canzoni. Le considerazioni sul suo passato sono presenti un po’ ovunque, ma non con la voglia di sfida e rivincita che caratterizzava la sua gioventù. Da notare, a chiusura di Fire In The Hole, queste parole, originariamente pronunciate dal grande Fela Kuti: “As far as Africa is concerned, music cannot be for enjoyment. Music has to be for revolution. Music is the weapon”. In 2010 abbiamo acute considerazioni sulla sua infanzia così come sul futuro prossimo (“We got us a fire to rekindle”), mentre in Old Friend sembra un soldato in guerra: “I came from out the thicket smiling… Link up for some feasible methods to free yourself”.

Earl Sweatshirt si conferma nome imprescindibile per la scena hip hop più sperimentale: le sue canzoni fulminanti ma non trascurate sono piccoli miracoli di ottimo artigianato. Pur non essendo il suo miglior lavoro, “SICK!” apre nuove prospettive in una carriera già piuttosto peculiare.

41) Arcade Fire, “WE”

(ROCK)

Registrato durante la pandemia ed erede del più controverso CD della loro produzione, gli Arcade Fire con “WE” hanno voluto riprendersi l’appellativo di “band migliore del mondo”, che fino al 2017 era spesso associato al loro nome. Ci sono riusciti? Senza dubbio il lavoro è decisamente migliore di “Everything Now” (2017), ma non raggiunge la perfezione di “Funeral” (2004), il fulminante esordio del complesso canadese.

Il CD è diviso in due parti: la prima, “I”, è focalizzata sull’isolamento a cui il Covid ci ha costretto nel corso degli ultimi anni; la seconda, “WE”, che dà il titolo al lavoro, ci riporta invece a sensazioni migliori, di comunità, che purtroppo sono state spesso perdute negli ultimi tempi. Gli Arcade Fire hanno sempre mirato a sentimenti universali, che si trattasse del dramma di perdere i propri cari (“Funeral”) oppure di ripercorrere la propria infanzia di ragazzi di periferia (“The Suburbs” del 2010): anche questa volta, come vediamo, mirano molto in alto.

Bersaglio centrato? Solo in parte. Musicalmente, i canadesi provano a tornare all’indie rock pieno di pathos dei loro esordi, abbandonando i ritmi caraibici e disco visti in “Reflektor” (2013) e il pop da classifica di “Everything Now”. Effetto nostalgia assicurato, ma quando si hanno canzoni belle come Age Of Anxiety I e The Lightning II tutto funziona. Ottima pure la più raccolta Unconditional Love I (Lookout Kid). Delude invece End Of The Empire IV (Sagittarius A*). In generale, la divisione del disco in suite formate da due o più componenti aiuta la coesione complessiva: a parte l’inutile Prelude e la conclusiva title track, infatti, abbiamo Age Of Anxiety, End Of The Empire, The Lightning e Unconditional Love.

Ospitando Peter Gabriel in Unconditional II (Race And Religion) e aiutati dal produttore Nigel Godrich (storico collaboratore dei Radiohead), Win Butler e Régine Chassagne hanno pubblicato un LP gradevole, che nei suoi momenti migliori è inattaccabile. Considerando la recente dipartita dalla band del fratello di Win Butler, Will, e le alte aspettative poste in “WE” dopo il flop di “Everything Now”, probabilmente siamo di fronte al miglior risultato possibile. Sicuramente, negli Arcade Fire è rimasta ancora la voglia di creare quel forte sentimento di comunità col loro pubblico che ne contraddistingue da sempre la carriera; in tempi così grami, non è una brutta cosa.

40) Jenny Hval, “Classic Objects”

(POP)

Il CD dell’artista norvegese rappresenta una gradita novità nella sua estetica. Conosciuta un tempo per le sue composizioni ermetiche, spesso indecifrabili, Jenny Hval si è via via aperta ad influenze art pop, sulla scia di Björk e Kate Bush. Se il precedente LP a suo nome “The Practice Of Love” (2019) aveva solo accennato questa nuova direzione, “Classic Objects” la porta a compimento e si afferma come uno dei migliori lavori pop dell’anno.

Le otto tracce dell’album superano tutte i quattro minuti di lunghezza, eccetto Freedom, peraltro il pezzo più debole del lotto. Non per questo, però, i 42 minuti di “Classic Objects” sono monotoni: anzi, pezzi come American Coffee e Cemetery Of Splendour sarebbero brani eccellenti per qualsiasi artista. La vocalità di Jenny, poi, è parte integrante del successo del lavoro.

In generale, liricamente assistiamo invece ad una conferma dei temi cari alla norvegese: la carnalità e l’importanza della sostanza sulla forma (“And I am holding a disco flashlight, it is meant to make the audience feel like multitudes of colors that belong to nobody in particular, that they share between their bodies”, il bel verso di Year Of Love), la ricerca sulla propria condizione interiore (“Who is she who faces her fears?” si chiede in American Coffee), la sensazione di solitudine, drammaticamente accentuata dal Covid (“I am an abandoned project”, proclama sconsolata in Jupiter).

Se la prima uscita del progetto Lost Girls, che la Nostra condivide con Håvard Volden, “Menneskekollektivet” del 2021, aveva fatto pensare al ritorno della Jenny Hval più sperimentale, “Classic Objects” rappresenta in realtà un notevole passo avanti nella carriera della cantautrice norvegese in direzione di una crescente accessibilità. Ad oggi, è il suo miglior lavoro.

39) Charli XCX, “CRASH”

(POP)

“CRASH” viene dopo “how i’m feeling now” (2020), l’album inciso da Charli XCX durante il lockdown pandemico, che ne aveva fatto intravedere il lato più intimo, nascosto in passato dalle melodie pop che ne contraddistinguono l’estetica. “CRASH” è un CD decisamente più ballabile, il primo puramente pop della cantautrice inglese, che è da sempre portavoce dell’hyperpop. I risultati sono generalmente ottimi e fanno presagire un futuro radioso per la Nostra.

I singoli che hanno anticipato la pubblicazione dell’LP hanno dato fin da subito l’idea di una svolta per Charlotte Aitchison: Good Ones è un inno pop pieno di rimpianti per le passate storie d’amore vissute dall’inglese, New Shapes conta sulla collaborazione di Christine And The Queens e Caroline Polachek (ex Chairlift) ed è un highlight immediato del disco. Abbiamo poi Beg For You, in cui Charli duetta con Rina Sawayama, e la più raccolta Every Rule (prodotta da A.G. Cook e Daniel Lopatin), unica vera ballata di “CRASH”. Altrove nel disco abbiamo un ritorno al passato, ad esempio in Constant Repeat (bubblegum bass al suo meglio) e Yuck, quest’ultima non molto convincente.

Se qualcuno pensava che la conclusione dell’accordo stretto in giovane età con la Atlantic spingesse Charli a “sabotare” questo ultimo lavoro, date le parole  dure rivolte dalla Nostra in più occasioni per alcuni atteggiamenti dei manager dell’etichetta vissuti come un abuso nei suoi confronti, il presentimento si è rivelato decisamente sbagliato: il CD è variegato il giusto da non sembrare derivativo, la cura nello scegliere gli ospiti è al solito massima e la qualità media delle canzoni è invidiabile.

“CRASH” ha però un difetto: il livello medio delle composizioni peggiora verso la fine del lavoro (esemplare la prevedibile Used To Know Me), rendendo il risultato leggermente poco bilanciato. Tuttavia, in generale siamo di fronte ad un buonissimo lavoro pop, capace di rievocare gli anni ’80 così come di dare sfogo agli impulsi più sperimentali di Charli XCX. È il suo miglior lavoro? Difficile dirlo, sicuramente merita più di un ascolto.

38) Taylor Swift, “Midnights”

(POP)

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

37) Denzel Curry, “Melt My Eyez, See Your Future”

(HIP HOP)

Il nuovo album del rapper americano è un altro tassello di valore in una carriera sempre più interessante. Dopo un 2020 molto impegnativo, che lo ha visto pubblicare ben due mixtape, nel 2021 Curry ha pubblicato un album di remix. In generale, possiamo dire che Denzel Curry ha cambiato parzialmente il proprio stile in “Melt My Eyez, See Your Future”: meno aggressività, più attenzione alla melodia e all’introspezione. I risultati, pur diversi dal solito Denzel, sono comunque buoni.

“Melt My Eyez, See Your Future” è il successore di “ZUU” (2019), il lavoro che aveva ampliato la platea di fan del Nostro ma aveva anche rappresentato un parziale arretramento, in termini di qualità, rispetto al magnifico “TA13OO” (2018), ad oggi il suo miglior LP. Questo disco si avvicina più al lato pop del mondo hip hop, con esempi di valore come Walkin e Melt Session #1. Altrove troviamo anche brani più simili al “vecchio” Denzel Curry, come Zatoichi e Ain’t No Way, ma paradossalmente con rendimenti inferiori rispetto al passato.

Menzione poi per il parco ospiti di questo CD: “Melt My Eyez, See Your Future” è un divertimento puro per gli amanti della black music, sia della nuova generazione (slowthai, Rico Nasty, 6LACK, JID) che di quella precedente (T-Pain, Robert Glasper). I brani migliori del lotto sono le già citate Walkin e Melt Session #1, ma buona anche Angelz. Invece inferiori X-Wing e la troppo breve The Smell Of Death.

Denzel Curry è sempre stato attento anche all’aspetto testuale, dato particolare visibile nelle tracce più oscure di “TA1300” ma non solo. In “Melt My Eyez, See Your Future”, come prevedibile, l’influenza dei due anni pandemici si fa sentire: “Watching people dying got me being honest” proclama drammaticamente in The Last. Altrove emerge il senso di solitudine che tutti abbiamo percepito, più o meno spesso, in questi ultimi tempi: “Walking with my back to the sun, keep my head to the sky, me against the world, it’s me, myself and I” (Walkin). È un peccato grave, quindi, che in Zatoichi ci sia un verso inutilmente volgare come “Life is short, like a dwarf”, che rovina un po’ il quadro lirico generale.

In conclusione, non siamo di fronte ad un CD perfetto, tuttavia “Melt My Eyez, See Your Future” conferma lo status di Denzel Curry come rapper di rilievo. Senza qualche inciampo sia musicale che lirico saremmo probabilmente di fronte al suo miglior lavoro; tuttavia, anche così abbiamo un LP di assoluto valore.

36) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Omnium Gatherum” / “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”

(ROCK)

Anche nel 2022 i KG&TLW hanno fatto le cose decisamente in grande: cinque CD pubblicati rappresentano un benchmark difficilmente replicabile per qualsiasi altro artista nel panorama musicale. Ad A-Rock abbiamo scelto di privilegiare i due più riusciti: “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”.

“Omnium Gatherum”, il ventesimo album in dieci anni (sì, è proprio così) della band australiana, è, come da titolo, un coacervo di generi disparati: psichedelia (The Dripping Tap, Persistence), metal (Gaia, Predator X), funk (Ambergris), hip hop (Sadie Sorceress, The Grim Reaper)… una vera e propria odissea, che va avanti per ben 80 minuti! I risultati, come prevedibile, non sono sempre all’altezza, ma “Omnium Gatherum” resta un album godibile, il cui minutaggio non influenza eccessivamente il prodotto finale.

L’intera prima facciata del vinile di “Omnium Gatherum” (traducibile dal latino come “il contenitore che raccoglie tutto”) è occupata da The Dripping Tap: un inno ambientalista di stampo psichedelico di ben 18 minuti, in cui tutta la band dà il meglio e che è, a tutti gli effetti, uno dei migliori brani mai scritti dai King Gizzard & The Lizard Wizard. Il CD però, come già detto, non segue la traiettoria tracciata da The Dripping Tap: se è vero che le seguenti, ottime Magenta Mountain e Kepler-22b sono psichedeliche al punto giusto, abbiamo poi un potente pezzo thrash metal come Gaia e, da lì in poi, suona una sorta di liberi tutti per gli australiani.

I brani migliori sono le già citate The Dripping Tap e Magenta Mountain, buone anche Kepler-22b e Presumptuous, mentre deludono The Garden Goblin e Blame It On The Weather. In molte canzoni fanno capolino le istanze ambientaliste tipiche del complesso aussie, ad esempio Evilest Man se la prende con l’australiano che maggiormente inquina il mondo, vale a dire Rupert Murdoch. Invece Ambergris è narrata dalla prospettiva di una balena che preferisce essere arpionata piuttosto che nuotare negli oceani inquinati che la circondano.

D’altro canto, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

In generale, il gruppo australiano ha chiaramente fatto piazza pulita dei propri archivi nel corso del 2022, che resta quindi una summa di quanto i King Gizzard & The Lizard Wizard sanno fare meglio: rock and roll senza freni, sperimentando qualsiasi ritmo e sound di loro gusto. Non staremo parlando di album che hanno fatto la storia della musica come “London Calling” oppure “Sign O’ The Times”, ma “Omnium Gatherum” e “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” restano due dei migliori LP rock del 2022.

35) Yeah Yeah Yeahs, “Cool It Down”

(ROCK)

Il primo CD in nove anni per la storica band newyorkese, una delle più autorevoli ad emergere nei primi anni ’00, è una ventata di aria fresca in una carriera che pareva aver dato il meglio. “Mosquito” (2013), l’ultimo album di inediti prima di “Cool It Down”, è visto infatti da molti come il peggiore della loro produzione; è un piacere che “Cool It Down” riesca dal canto suo a rinverdire i fasti del complesso capeggiato da Karen O.

I due singoli di lancio del lavoro erano del resto davvero invitanti: sia Spitting Off The Edge Of The World (che vanta la collaborazione di Perfume Genius) che Burning sono infatti ottimi pezzi indie rock, il primo reminiscente dei migliori M83 e il secondo invece dell’indie di inizio millennio. Non tutto gira a meraviglia nel CD nel suo complesso, ma i 32 minuti di “Cool It Down” scorrono piacevolmente, rendendolo imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

La prima parte dell’album è pressoché impeccabile: oltre alle già citate Spitting Off The Edge Of The World e Burning, le due tracce Wolf e Fleez, tra le più danzerecce del lotto, fanno il loro lavoro e rendono il CD dinamico e variegato. I problemi cominciano con Different Today, in cui la cantante degli Yeah Yeah Yeahs Karen O si limita a ripetere il titolo senza molto costrutto. Peccato poi per la conclusiva Mars, quasi troncata, che fa terminare il lavoro in modo non soddisfacente.

Questi difetti non sono, tuttavia, dirimenti per il giudizio complessivo su “Cool It Down”. Il CD ristabilisce gli Yeah Yeah Yeahs tra gli alfieri dell’indie rock, dopo anni in cui davamo la band per morta. Karen O e compagni non saranno al top della forma, per esempio ai livelli dell’esordio “Fever To Tell” (2003) o di “It’s Blitz” (2009), però “Cool It Down” è a pieno titolo un buon rientro nella scena musicale.

34) Florence + The Machine, “Dance Fever”

(POP – ROCK)

Il quinto lavoro del progetto Florence + The Machine, “Dance Fever”, è un album pandemico sui generis: non riguarda infatti le conseguenze che il lockdown ha avuto sulla psiche di Florence Welch, o almeno non solo, quanto piuttosto quel senso di liberazione che pervade l’essere umano alla fine di grandi piaghe e tragedie del passato.

Il titolo prende direttamente spunto dal tarantismo (anche noto come “ballo di San Vito”), un morbo medievale che spingeva le persone a danzare sfrenatamente fino allo sfinimento o, nei casi più estremi, alla morte. Florence dedica quindi questo CD ad una malattia, che però sa quasi di libertà dalle restrizioni imposte dal Covid. Non sempre però le parti migliori del lavoro sono quelle più danzerecce.

“Dance Fever” era stato anticipato da alcuni singoli di grandissima qualità: King, Free e My Love sono tra le migliori canzoni recenti del gruppo inglese, trascinanti al punto giusto e curate nei minimi particolari, anche grazie alla produzione di Jack Antonoff. Solo Heaven Is Here deludeva le attese e rimane anche col CD completo uno dei momenti più deboli del lotto. Buona invece Choreomania, invece evitabile Daffodil.

Anche dal punto di vista testuale Florence e co. si dimostrano pieni di sorprese: abbiamo infatti l’inno femminista King, con il potente verso “I am no mother, I am no bride… I am king”. Altrove invece emergono pensieri più drammatici: “Every song I wrote became an escape rope tied around my neck to pull me up to heaven” (Heaven Is Here). Abbiamo infine il tema dell’amore che fa capolino in Girls Against God: “What a thing to admit, but when someone looks at me with real love, I don’t like it very much”.

In generale, comunque, “Dance Fever” sa di ripartenza per Welch: tanto più che è preceduto da un LP non all’altezza dei precedenti a firma Florence + The Machine come “High As Hope” (2018) e da incertezze su come proseguire il proprio percorso artistico. Potremmo anzi spingerci a dire che sia uno dei migliori dischi pubblicati da Florence Welch, ai livelli dell’ottimo esordio “Lungs” (2009). Peccato solo per alcuni episodi a centro disco che lasciano a desiderare, come Back In Town e la troppo breve Prayer Factory, abbassando la media complessiva, ma i risultati sono comunque più che buoni.

In conclusione, “Dance Fever” è uno dei migliori CD pop rock dell’anno: Florence + The Machine si conferma nome irrinunciabile della scena europea. Parlare così bene di una band con ormai quasi quindici anni di carriera alle spalle vuol dire una cosa sola: il talento è notevole e la voglia di mettersi in gioco, anche liricamente, sempre presente.

33) Father John Misty, “Chloë And The Next 20th Century”

(ROCK – POP)

Il quinto CD di Josh Tillman firmato con il nome d’arte di Father John Misty è una reinvenzione radicale: il cantautore folk-rock sbruffone e logorroico che abbiamo imparato a conoscere e amare (oppure disprezzare) negli scorsi anni in CD come “I Love You, Honeybear” (2015) e “Pure Comedy” (2017) lascia il posto ad un narratore che fa degli anni ’50 il suo riferimento. Siamo in piena atmosfera golden age hollywoodiana: big band, swing e jazz sono i tre generi che, inaspettatamente, spesso affiorano nel corso di “Chloë And The Next 20th Century”, si senta Chloë a riguardo per un assaggio.

Ci eravamo lasciati con “God’s Favourite Customer” (2018), un CD più semplice del passato e pensavamo che la parabola di FJM sarebbe proseguita sulla stessa traiettoria; invece, “Chloë And The Next 20th Century” apre prospettive nuovissime per Tillman. Già il titolo è un tuffo nel passato: cosa intende Tillman con la menzione del ventesimo secolo? In realtà, studiando attentamente i testi e immergendosi nelle atmosfere oniriche del CD, il riferimento è più chiaro. Il futuro, secondo Father John Misty, non esiste; anzi, meglio non pensarci, visto il drammatico momento storico che stiamo vivendo… quasi come se fossimo ancora nel XX secolo, quello delle due guerre mondiali e di svariate altre tragedie.

La Chloë citata spesso nel corso del lavoro è, in fondo, solo uno dei tanti personaggi dissoluti che abitano le undici canzoni che formano “Chloë And The Next 20th Century”: una starlet del mondo cinematografico, il cui partner precedente è tragicamente deceduto. Ben sei morti arrivano nel corso del CD, di cui una, la più toccante, è quella del gatto del narratore, oggetto della bellissima Goodbye Mr Blue.

Se abbiamo highlights come la citata Goodbye Mr Blue, Funny Girl e Q4, non tutto il resto dell’album gira a meraviglia: ad esempio, Kiss Me (I Loved You) e We Could Be Strangers sono inferiori alla media dei componimenti del lavoro. Tuttavia, l’ambizione di Father John Misty, completamente calato in questa nuova surreale atmosfera, rende anche questi momenti in qualche modo memorabili. Menzione, infine, per Olvidado (Otro Momento), il momento bossa nova (!!) che nessuno si aspettava da Josh Tillman.

“Chloë And The Next 20th Century”, in conclusione, è il meno “tillmaniano” degli LP a firma Father John Misty. I risultati non sono perfetti, ma tengono alta la bandiera del cantautorato più ricercato e creano nuovi, inesplorati spazi per la carriera futura di uno dei più talentuosi musicisti americani della sua generazione.

32) Conway The Machine, “God Don’t Make Mistakes”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di Conway The Machine è un concentrato di ottimo gangsta rap. Spesso appoggiato da ospiti di spessore, tra cui ricordiamo Rick Ross, Lil Wayne e T.I., oltre che dalla produzione di The Alchemist, il rapper originario di Buffalo ha prodotto uno dei migliori CD hip hop del 2022.

Il risultato è possibile grazie principalmente a due fattori: basi potenti, spesso con lo sguardo puntato sul passato piuttosto che sulle ultime tendenze musicali; e testi candidi, che aprono prospettive sulle molte tragedie affrontate da Conway nel corso di una vita davvero difficile, caratterizzata da crimine, abuso di droghe e morti di persone a lui vicine.

Prova ne sia Guilty, che contiene il seguente, scioccante verso: “No feeling in my legs, I took a bullet in the head, nigga”; invece Stressed contiene parole più desolate e pessimiste: “Life is ‘bout trials and tribulations and overcomin’ obstacles, but I’m tired of shit I’m facin’”. In generale, Conway si inserisce abilmente in quel filone di rap “revivalista” della scuderia Griselda, fondata dal fratello Westside Gunn, che mantiene alta la bandiera del rap East Coast: i risultati non saranno ovviamente innovativi, ma “God Don’t Make Mistakes” resta un buon CD.

In conclusione, il 2022 è stato un anno interessante per l’hip hop: se nel versante più commerciale abbiamo assistito a grandi successi di pubblico, di qualità non sempre accettabile (Drake, Jack Harlow), il lato più “conscious” ha avuto highlight come il nuovo Kendrick Lamar e Conway The Machine. “God Don’t Make Mistakes” non è un capolavoro, ma brani come Piano Love e John Woo Flick non lasciano indifferenti.

31) Sudan Archives, “Natural Brown Prom Queen”

(R&B – ELETTRONICA)

Il secondo CD dell’artista Brittney Parks, meglio nota col nome d’arte Sudan Archives, è un ottimo esempio di R&B alternativo. Brittney usa infatti basi molto elettroniche, che poco hanno a che spartire col pop, creando un insieme di composizioni coeso e, nei suoi momenti migliori, irresistibile.

La violinista e cantautrice si era fatta conoscere negli anni scorsi grazie ad EP di ottima fattura, come “Sudan Archives” (2017) e “Sink” (2018). L’esordio “Athena” del 2019 non aveva fatto altro che ribadire il grande talento della Nostra. “Natural Brown Prom Queen” rifinisce ulteriormente questo sound: va detto che, in questa nicchia di R&B, nessuna suona come lei.

Abbiamo infatti altri artisti, come Kelela e Steve Lacy, entrambi catalogabili come R&B alternativo e dotati di una propria identità, la prima più misteriosa e il secondo invece mainstream; nessuno dei due, tuttavia, suona come Sudan Archives. Merito di una continua voglia di sperimentare, con bassi potenti sempre in evidenza e canzoni polimorfe come OMG BRITT e ChevyS10, che sorprendono anche dopo ripetuti ascolti.

Anche testualmente, “Natural Brown Prom Queen” ricalca alcune tematiche care a Parks: l’empowerment (“I’m not average” ripete ossessivamente in NBPQ (Topless)), polemiche sulle differenze di trattamento tra ragazze nere e bianche (“Sometimes I think that if I was light-skinned then I would get into all the parties, win all the Grammys, make the boys happy”, sempre in NBPQ (Topless)).

Se vogliamo trovare un difetto a “Natural Brown Prom Queen”, è l’eccessiva lunghezza: alcune canzoni, soprattutto verso il finale (Flue, Homesick (Gorgeous & Arrogant)), sono evitabili e non aggiungono nulla al CD. D’altra parte, pezzi come Home Maker e Selfish Soul sono highlight assoluti e rendono questo lavoro imprescindibile per gli amanti della musica nera.

In conclusione, Sudan Archives si conferma artista di grande talento: Brittney Parks è un nome ancora poco noto, ma ha tutte le carte in regola per costruirsi una più che solida fanbase.

30) SAULT, “AIR”

(SPERIMENTALE)

Il sesto album in tre anni del collettivo inglese, oltre a denotare una produttività davvero notevole, amplia drasticamente la loro palette sonora: se nel passato i SAULT erano conosciuti per un solido mix di funk, R&B e soul, con grande attenzione alla storia e cultura black in senso lato nelle loro liriche, “AIR” è un CD puramente strumentale, o quasi.

I SAULT, in effetti, flirtano con la musica classica: il lavoro pare quasi una colonna sonora per un film (ancora?) non prodotto. È un po’ come se i Coldplay componessero un LP hard rock: ok la sperimentazione e l’ambizione, ma i risultati sono accettabili?

La risposta è un convinto sì. Pur suonando davvero sorprendente a chi conosce i SAULT fin dalle loro origini, “AIR” è un bel CD, coraggioso ma non per questo eccessivamente ardito, a tratti davvero magistrale. I migliori pezzi sono Heart e la title track, mentre sotto la media è Solar, un po’ troppo tirata per le lunghe.

In generale, dunque, i SAULT si confermano tanto misteriosi quanto creativamente al top. Il misterioso gruppo inglese, capeggiato dal produttore Inflo, ha creato con “AIR” un lavoro non per tutti, ma che merita sicuramente almeno un ascolto.

29) Chat Pile, “God’s Country”

(METAL – ROCK)

I Chat Pile sono un quartetto statunitense, proveniente da uno degli Stati americani più desolati, l’Oklahoma. Tratti peculiari: terra di minatori, città abbandonate, gravi disuguaglianze… insomma, un incubo, secondo quanto descritto dalla band.

“God’s Country” è un CD potente: metal, noise rock e punk si mescolano in molte tracce, grazie ad una base strumentale sempre efficace ed aggressiva e alla voce di Raygun Busch, a volte cupissima e altre espressiva come quella del miglior Trent Reznor.

Abbiamo poi canzoni che parlano di macellerie, ma forse accennano anche alle stragi compiute con sempre maggiore frequenza (Slaughterhouse); inni di protesta contro i crescenti problemi ad avere una casa propria (Why); Pamela, infine, tratta di un padre che, nell’illusione di poter tornare con la moglie, ammazza il proprio figlio. Menzione da questo punto di vista per alcuni versi contenuti nelle tracce che compongono “God’s Country”: “All the blood, all the blood… And the fuckin’ sound, man” (Slaughterhouse); “Broken faces and jamming fingers and goddamn dust in my eyes for the rest of my life” (The Mask); e infine “It’s the sound of a fuckin’ gun, it’s the sound of your world collapsing” (Anywhere).

Insomma, un LP non per deboli di cuore, sia musicalmente che liricamente. I Chat Pile, del resto, non vogliono scrivere canzoni commerciali, malgrado pezzi come Anywhere e Pamela siano, tutto sommato, appetibili anche ad un pubblico non di nicchia. Lo scopo della band, come dichiarato in varie interviste, è in realtà quello di catturare l’ansia e la paura di vedere il mondo che si autodistrugge, a causa dell’attività umana. Menzione, infine, per la folle cavalcata finale di grimace_smoking_weed_jpeg; meno comprensibile, invece, il momento intimista di I Don’t Care If I Burn.

Il 2022 è stato, in effetti, un anno tragico sotto vari punti di vista, non ultimo quello ambientale, che ha fatto capire una volta per tutte i danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla nostra vita di tutti i giorni. “God’s Country”, pur essendo un titolo molto americano, in realtà è riferibile a molti Paesi: i Chat Pile, pur con un sound ancora da raffinare e una rabbia che terrà lontano il pubblico più mainstream, lo hanno capito e hanno composto una colonna sonora terribile, ma proprio per questo azzeccata.

28) Suede, “Autofiction”

(ROCK)

Il nuovo album dei britannici Suede, band un tempo simbolo del britpop assieme ai più noti Oasis e Blur, è un’iniezione di energia nella loro estetica: post-punk e rock alternativo fanno capolino più di una volta nel corso delle 11 canzoni che compongono “Autofiction”, rendendolo un CD tradizionale per molti, ma innovativo per i Suede. Non male, per un complesso sulla cresta dell’onda da trent’anni.

Il quarto album dopo la reunion del 2013 è uno dei migliori della loro produzione: compatto, con base ritmica in bella vista, la voce di Brett Anderson al meglio… In più mettiamoci melodie vincenti come She Still Leads Me On e 15 Again e abbiamo un quadro più che roseo. L’usuale attenzione all’estetica glam rock è affiancata, come già accennato, da generi più muscolari; sono proprio i brani più britpop, come That Boy On The Stage e Drive Myself Home, ad essere inferiori alla media. Tuttavia, i risultati restano complessivamente buoni.

I Suede si confermano quindi gruppo imprescindibile per la scena rock britannica: Anderson e compagni sono sopravvissuti a molti eventi potenzialmente devastanti nel loro passato, tra cui l’abbandono del primo chitarrista Bernard Butler negli anni ’90 e una prima spaccatura della band nei primi anni ’00. “Autofiction” è un documento di artisti al picco delle proprie capacità: forse non siamo ai livelli di “Suede” (1993) o “Dog Man Star” (1994), ma il CD resta davvero riuscito.

27) The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

(POP – ROCK)

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

26) Beyoncé, “RENAISSANCE”

(POP)

Da dove cominciamo? “RENAISSANCE” segna il ritorno della vera regina del pop degli ultimi 10 anni, se escludiamo il CD collaborativo col marito JAY-Z “Everything Is Love” (2018) e il CD-video live “Homecoming” del 2019. Queen Bey pare decisa a far rinascere in noi la voglia di ballare: il sound del disco è apertamente dance e house, con le consuete inflessioni R&B (PLASTIC OFF THE SOFA) e hip hop, soprattutto in certe basi (CHURCH GIRL).

Sia chiaro: stiamo parlando di un disco pop, ma la tracklist da 16 canzoni e 62 minuti lascia inevitabilmente spazio ad episodi più deboli (ENERGY). In generale, però, resta da ammirare la presenza di Beyoncé: la voce è ai suoi livelli migliori, la produzione immacolata, la varietà di suoni invidiabile. Non tutto gira a meraviglia, ma i risultati di “RENAISSANCE” restano impressionanti.

“Lemonade” aveva del tutto travolto la scena pop nell’ormai lontano 2016: Beyoncé aveva messo in musica il senso di tradimento patito a seguito dei numerosi flirt del marito JAY-Z, con canzoni indimenticabili come Sorry e Don’t Hurt Yourself. Da questo punto di vista, “RENAISSANCE” suona molto più rilassato: i testi spesso sono solamente degli appoggi per delle irresistibili melodie house (BREAK MY SOUL) e funk (VIRGO’S GROOVE).

Se proprio vogliamo trovare un fil rouge, è la celebrazione della black music in ogni sua espressione: dalle collaborazioni con nomi importanti come The-Game e Grace Jones, passando per nomi più oscuri come Kilo Ali e Lidell Townsell. In più, abbiamo la menzione di figure della musica underground come l’artista trans Honey Dijon, che fanno capire l’intenzione di schierarsi a favore di ogni tipo di diversità da parte di Queen Bey, già emersa nei suoi passati LP e in numerose dichiarazioni pubbliche.

I pezzi migliori sono la doppietta VIRGO’S GROOVEMOVE, piazzate a centro disco ma non per questo trascurabili; buone anche PURE/HONEY, CUFF IT e SUMMER RENAISSANCE. Invece sotto la media ENERGY e CHURCH GIRL. Menzione finale per il parco ospiti e collaboratori: oltre alle figure già citate, abbiamo superstar come Drake, Skrillex, JAY-Z e A.G. Cook del collettivo PC Music.

La conclusione? Non stiamo forse parlando del miglior lavoro a firma Beyoncé, ma “RENAISSANCE” conferma tutto il talento della popstar statunitense. Considerando che, in vari post apparsi sui suoi social a seguito della pubblicazione del lavoro, si parla di una trilogia di cui “RENAISSANCE” sarebbe il primo capitolo, la trepidazione per i nuovi lavori della regina del pop moderno è altissima.

Eccoci arrivati alla fine della prima parte dei 50 album più riusciti del 2022: chi si sarà aggiudicato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento ai prossimi giorni.

Recap: marzo 2022

Anche marzo è terminato. Un mese interessante musicalmente parlando, che ha visto le nuove uscite di Nilüfer Yanya, Benny The Butcher, The Weather Station e Jenny Hval. Inoltre, abbiamo il primo greatest hits a firma Franz Ferdinand e il nuovo CD delle popstar Charli XCX e ROSALÍA. Infine, abbiamo recensito il ritorno dei Destroyer, del rapper Denzel Curry e di Aldous Harding. Buona lettura!

Destroyer, “LABYRINTHITIS”

LABYRINTHITIS

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band. Chapeau.

Voto finale: 8,5.

Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

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“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è ad oggi il miglior disco indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

Voto finale: 8.

Charli XCX, “CRASH”

crash

“CRASH” viene dopo “how i’m feeling now” (2020), l’album inciso da Charli XCX durante il lockdown pandemico, che ne aveva fatto intravedere il lato più intimo, nascosto in passato dalle melodie pop che ne contraddistinguono l’estetica. “CRASH” è un CD decisamente più ballabile, il primo puramente pop della cantautrice inglese, che è da sempre portavoce dell’hyperpop. I risultati sono generalmente ottimi e fanno presagire un futuro radioso per la Nostra.

I singoli che hanno anticipato la pubblicazione dell’LP hanno dato fin da subito l’idea di una svolta per Charlotte Aitchison: Good Ones è un inno pop pieno di rimpianti per le passate storie d’amore vissute dall’inglese, New Shapes conta sulla collaborazione di Christine And The Queens e Caroline Polachek (ex Chairlift) ed è un highlight immediato del disco. Abbiamo poi Beg For You, in cui Charli duetta con Rina Sawayama, e la più raccolta Every Rule (prodotta da A.G. Cook e Daniel Lopatin), unica vera ballata di “CRASH”. Altrove nel disco abbiamo un ritorno al passato, ad esempio in Constant Repeat (bubblegum bass al suo meglio) e Yuck, quest’ultima non molto convincente.

Se qualcuno pensava che la conclusione dell’accordo stretto in giovane età con la Atlantic spingesse Charli a “sabotare” questo ultimo lavoro, date le parole  dure rivolte dalla Nostra in più occasioni per alcuni atteggiamenti dei manager dell’etichetta vissuti come un abuso nei suoi confronti, il presentimento si è rivelato decisamente sbagliato: il CD è variegato il giusto da non sembrare derivativo, la cura nello scegliere gli ospiti è al solito massima e la qualità media delle canzoni è invidiabile.

“CRASH” ha però un difetto: il livello medio delle composizioni peggiora verso la fine del lavoro (esemplare la prevedibile Used To Know Me), rendendo il risultato leggermente poco bilanciato. Tuttavia, in generale siamo di fronte ad un buonissimo lavoro pop, capace di rievocare gli anni ’80 così come di dare sfogo agli impulsi più sperimentali di Charli XCX. È il suo miglior lavoro? Difficile dirlo, sicuramente merita più di un ascolto.

Voto finale: 8.

Franz Ferdinand, “Hits To The Head”

hits to the head

Le raccolte dei brani migliori di un gruppo sono spesso il momento di fare un bilancio: la carriera ha seguito un percorso lineare o discendente? Gli eventuali avvicendamenti hanno indebolito la qualità delle canzoni? C’è un futuro per l’artista in questione?

I Franz Ferdinand, una delle poche band dei primi anni del nuovo millennio che sia arrivata ad oggi in buona forma, sono passati attraverso addii dolorosi (Paul Thomson e Nick McCarthy) e tentativi di cambi di pelle, non sempre azzeccati. Il saldo di una carriera che dura ormai da 21 anni è comunque più che positivo.

“Hits To The Head”, il primo greatest hits dei Franz Ferdinand, è un’efficace macchina del tempo per riportarci ai primi anni ’00, quando gli scozzesi esplodevano grazie a singoli indimenticabili come Take Me Out e Do You Want To, contenuti in CD ormai classici come l’esordio eponimo del 2004 e “You Could Have It So Much Better” (2005). Abbiamo, in ordine cronologico, anche un discreto spazio concesso ai dischi della mezza età come “Tonight” (2009) e “Right Thoughts, Right Words, Right Action” (2013), con brani come Ulysses e Love Illumination. Invece Always Ascending e Glimpse Of Love sono prese dall’ultima raccolta di inediti, “Always Ascending” del 2018.

Le sorprese sono i nuovi mix di This Fire, Walk Away e The Fallen, oltre ai due inediti Curious e Billy Goodbye: nulla di trascendentale, ma ci fanno capire che c’è ancora carburante nei Franz Ferdinand.

In conclusione, “Hits To The Head” rappresenta un buon modo per i fan più accaniti di tornare alla loro gioventù attraverso brani leggeri ma mai banali, mentre per i neofiti è un’ottima introduzione al sound di una delle band di maggior successo del mondo indie rock degli ultimi due decenni.

Voto finale: 8.

Jenny Hval, “Classic Objects”

classic objects

Il CD dell’artista norvegese rappresenta una gradita novità nella sua estetica. Conosciuta un tempo per le sue composizioni ermetiche, spesso indecifrabili, Jenny Hval si è via via aperta ad influenze art pop, sulla scia di Björk e Kate Bush. Se il precedente LP a suo nome “The Practice Of Love” (2019) aveva solo accennato questa nuova direzione, “Classic Objects” la porta a compimento e si afferma, al momento, come uno dei migliori lavori pop dell’anno.

Le otto tracce dell’album superano tutte i quattro minuti di lunghezza, eccetto Freedom, peraltro il pezzo più debole del lotto. Non per questo, però, i 42 minuti di “Classic Objects” sono monotoni: anzi, pezzi come American Coffee e Cemetery Of Splendour sarebbero brani eccellenti per qualsiasi artista. La vocalità di Jenny, poi, è parte integrante del successo del lavoro.

In generale, liricamente assistiamo invece ad una conferma dei temi cari alla norvegese: la carnalità e l’importanza della sostanza sulla forma (“And I am holding a disco flashlight, it is meant to make the audience feel like multitudes of colors that belong to nobody in particular, that they share between their bodies”, il bel verso di Year Of Love), la ricerca sulla propria condizione interiore (“Who is she who faces her fears?” si chiede in American Coffee), la sensazione di solitudine, drammaticamente accentuata dal Covid (“I am an abandoned project”, proclama sconsolata in Jupiter).

Se la prima uscita del progetto Lost Girls, che la Nostra condivide con Håvard Volden, “Menneskekollektivet” del 2021, aveva fatto pensare al ritorno della Jenny Hval più sperimentale, “Classic Objects” rappresenta in realtà un notevole passo avanti nella carriera della cantautrice norvegese in direzione di una crescente accessibilità. Ad oggi, è il suo miglior lavoro.

Voto finale: 8.

Denzel Curry, “Melt My Eyez, See Your Future”

melt my eyez see your future

Il nuovo album del rapper americano è un altro tassello di valore in una carriera sempre più interessante. Dopo un 2020 molto impegnativo, che lo ha visto pubblicare ben due mixtape, nel 2021 Curry ha pubblicato un album di remix. In generale, possiamo dire che Denzel Curry ha cambiato parzialmente il proprio stile in “Melt My Eyez, See Your Future”: meno aggressività, più attenzione alla melodia e all’introspezione. I risultati, pur diversi dal solito Denzel, sono comunque buoni.

“Melt My Eyez, See Your Future” è il successore di “ZUU” (2019), il lavoro che aveva ampliato la platea di fan del Nostro ma aveva anche rappresentato un parziale arretramento, in termini di qualità, rispetto al magnifico “TA13OO” (2018), ad oggi il suo miglior LP. Questo disco si avvicina più al lato pop del mondo hip hop, con esempi di valore come Walkin e Melt Session #1. Altrove troviamo anche brani più simili al “vecchio” Denzel Curry, come Zatoichi e Ain’t No Way, ma paradossalmente con rendimenti inferiori rispetto al passato.

Menzione poi per il parco ospiti di questo CD: “Melt My Eyez, See Your Future” è un divertimento puro per gli amanti della black music, sia della nuova generazione (slowthai, Rico Nasty, 6LACK, J.I.D) che di quella precedente (T-Pain, Robert Glasper). I brani migliori del lotto sono le già citate Walkin e Melt Session #1, ma buona anche Angelz. Invece inferiori X-Wing e la troppo breve The Smell Of Death.

Denzel Curry è sempre stato attento anche all’aspetto testuale, dato particolare visibile nelle tracce più oscure di “TA1300” ma non solo. In “Melt My Eyez, See Your Future”, come prevedibile, l’influenza dei due anni pandemici si fa sentire: “Watching people dying got me being honest” proclama drammaticamente in The Last. Altrove emerge il senso di solitudine che tutti abbiamo percepito, più o meno spesso, in questi ultimi tempi: “Walking with my back to the sun, keep my head to the sky, me against the world, it’s me, myself and I” (Walkin). È un peccato grave, quindi, che in Zatoichi ci sia un verso inutilmente volgare come “Life is short, like a dwarf”, che rovina un po’ il quadro lirico generale.

In conclusione, non siamo di fronte ad un CD perfetto, tuttavia “Melt My Eyez, See Your Future” conferma lo status di Denzel Curry come rapper di rilievo. Senza qualche inciampo sia musicale che lirico saremmo probabilmente di fronte al suo miglior lavoro; tuttavia, anche così abbiamo un LP di assoluto valore.

Voto finale: 8.

ROSALÍA, “MOTOMAMI”

motomami

Il terzo disco della cantante spagnola amplia notevolmente i suoi orizzonti: art pop, hip hop… ormai nulla è estraneo all’estetica di ROSALÍA. “MOTOMAMI” non è un album immacolato, ma contiene alcuni dei pezzi più futuristi ascoltati negli ultimi anni.

La giovane artista si era fatta conoscere con “EL MAL QUERER”, nel 2018: un CD che aveva catapultato ROSALÍA nell’Olimpo pop, con una radicale innovazione della musica spagnola più classica, quella con base flamenco, che l’aveva fatta amare tanto dal pubblico quanto dalla critica, prova ne sia il successo di MALAMENTE. “MOTOMAMI” è una creatura diversa: più sperimentale, meno coeso, ma non meno ammaliante. Le 16 canzoni che compongono il CD vanno dal minuto scarso di durata (la title track) ad oltre quattro minuti; affrontano temi leggeri con ironia (CHICKEN TERIYAKI, HENTAI) così come i problemi che la fama ha portato sulla psiche di ROSALÍA (LA FAMA, con The Weeknd).

Le canzoni migliori sono anche le più imprevedibili: SAOKO, BULERÍAS e G3 N15 sono pezzi davvero mozzafiato. Menzione poi per la magnifica voce della Nostra, valore aggiunto lungo l’intero LP. Inferiori sono invece gli intermezzi di breve durata, che alla lunga tolgono linfa al lavoro: MOTOMAMI e Abcdefg ne sono chiari esempi. In generale, la varietà di stili alla lunga può risultare alienante, ma una domanda ci viene spontanea: quante possono passare indifferentemente dal reggaeton all’hip hop al pop senza perdere un briciolo della loro qualità compositiva?

In generale, “MOTOMAMI” conferma tutto il bene che si diceva di ROSALÍA: ambizioso, basato su temi ed esperienze non facili da assimilare ma capace di slanci pop da Top 40 di Billboard. È un CD perfetto? No, però il futuro della musica pop passa anche da qui.

Voto finale: 7,5.

Aldous Harding, “Warm Chris”

warm chris

Il quarto album della cantautrice neozelandese segue il riuscitissimo “Designer” (2019), inserito da A-Rock tra i migliori 50 CD dell’anno e tra i migliori 200 della decade 2010-2019. Inutile dire che l’attesa per il nuovo lavoro di Harding era elevata.

“Warm Chris” prosegue in buona parte il percorso intrapreso dal precedente LP; tuttavia, predilige un folk quasi psichedelico e ritmi più soffusi rispetto a “Designer”. Le canzoni sono quindi meno accessibili, ma non per questo ermetiche o eccessivamente fini a sé stesse. Anzi, pezzi come Lawn e Tick Tock non raggiungeranno probabilmente la popolarità di The Barrel, però sono buoni ingranaggi di un CD tutto sommato gradevole. Menzione poi per la squisita voce di Aldous, vero valore aggiunto di molte melodie. Inferiori alla media solamente Staring At The Henry Moore e Bubbles, che rendono il finale un po’ monotono.

A colpire, come sempre in un disco di Aldous Harding, sono i testi: l’associazione libera di immagini la fa da padrone e non ci sono canzoni a cui gli ascoltatori possano dare un significato univoco. “Here comes life with his leathery whip! Here comes life with his leathery leathery!” proclama la Nostra in Leathery Whip con l’aiuto di Jason Williamson (Sleaford Mods); in Lawn invece abbiamo “They don’t mean a thing to me… All these lamps are free”.

Insomma, lo humour strampalato non deve farci prendere “Warm Chris” per un CD trascurabile: Aldous Harding, anche grazie alla produzione di John Parish (in passato collaboratore di PJ Harvey e Jenny Hval), ha dato un degno erede a “Designer”. Forse i risultati sono inferiori, ma questo album mantiene comunque un fascino che viene progressivamente svelato. Merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

Benny The Butcher, “Tana Talk 4”

tana talk 4

Il nuovo album del prolifico rapper statunitense è la quarta uscita nella sua serie “Tana Talk”, iniziata addirittura nel lontano 2004. Benny non offre nulla in termini di innovazione della sua estetica; tuttavia, “Tana Talk 4” continua ad ampliare il suo pubblico e gli ospiti, che questa volta includono pezzi da 90 come Diddy (10 More Commandments) e J. Cole (Johnny P’s Caddy). Come sottovalutare infine il contributo di The Alchemist in pezzi come Thowy’s Revenge e Bust A Brick Nick?

Sono proprio i pezzi con ospiti che in varie occasioni rappresentano degli highlights del lavoro: oltre ai due già citati, buonissima è la collaborazione col cugino di Benny The Butcher, Conway The Machine, intitolata Tyson vs. Ali. Al contrario, Uncle Bun e Guerrero rappresentano i brani più prevedibili del lotto e, non per caso, deludono.

In generale, “Tana Talk 4” sembra più un viatico di Benny per esorcizzare fatti avvenuti in passato: ad esempio, in Bust A Brick Nick descrive il suo trentaseiesimo compleanno, passato su una sedia a rotelle dopo essere scampato ad una rapina. Il verso “Being honest, this could be karma I probably deserve in the first place” è uno dei più sentiti e malinconici della sua intera produzione. In Super Plug invece parla di quando, da giovane, nascondeva la droga nel divano si suo padre. Non sono temi nuovi per Benny, ma sono narrati con rinnovata sensibilità.

In conclusione, “Tana Talk 4” è un’altra aggiunta di spessore in una discografia di crescente successo. Benny The Butcher è ormai uno dei maggiori nomi del gangsta rap vecchio stampo, aggiornato al XXI secolo; presto potrebbe arrivare il momento di dare una rinfrescata alla propria estetica, ma per il momento va bene così.

Voto finale: 7,5.

The Weather Station, “How Is It That I Should Look At The Stars”

how is it that i should look at the stars

Il nuovo CD del progetto canadese di Tamara Lindeman è l’album fratello di “Ignorance” del 2021, uno dei più lodati dalla critica di recente. The Weather Station è pertanto diventato negli ultimi tempi sinonimo di cantautorato di qualità, impegnato contro il cambiamento climatico e capace di esprimere concetti difficili in canzoni apparentemente semplici.

“How Is It That I Should Look At The Stars” continua nel percorso intrapreso dal precedente LP: basi rappresentate soprattutto dal pianoforte, forte unità interna del lavoro, durata ragionevole. Purtroppo, se “Ignorance”, pur nella sua sostanziale coesione, aveva dei colpi a sorpresa e brani di alto livello (su tutti Robber e Atlantic), questo lavoro è inferiore: nulla di davvero brutto, ma alla lunga un po’ di monotonia appare evidente.

I brani migliori sono Ignorance ed Endless Time, mentre deludono Stars e Marsh. Testualmente, Lindeman tratta temi legati all’amore (“You never wanted to be good, you nеver really wanted to bе understood… You wanted to be the one who held the cards” canta in Sleight Of Hand), ma anche una sorta di tramonto dell’umanità in Endless Time. In Stars abbiamo infine il verso più delicato e commovente: “I swear to God, this world will break my heart”.

In conclusione, “How Is It That I Should Look At The Stars” è un discreto CD “di accompagnamento”, ma nulla più; il piatto forte di questi ultimi due anni a firma The Weather Station era senza dubbio “Ignorance”. Vedremo in futuro dove l’ispirazione condurrà Tamara Lindeman: una rinfrescata al sound del progetto potrebbe essere una buona strada per mantenere le cose davvero interessanti.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

I 50 migliori album del 2020 (50-26)

Il 2020 sta (finalmente) per finire. Un anno tragico per molti aspetti, ma che almeno ha visto un panorama musicale vivo e ricco di uscite che resteranno un caposaldo anche nei prossimi anni: abbiamo infatti scoperto artisti emergenti molto interessanti (Doglee ed Amaarae, per esempio), Bob Dylan ha confermato di essere un gigante e che l’età è un concetto relativo, abbiamo visto ritorni inattesi da parte di artisti che mancavano da molto dalla scena musicale come i Tame Impala e Fiona Apple… insomma, chi più ne ha più ne metta!

Partiamo oggi con la prima parte della lista dei 50 migliori CD dell’anno, nei prossimi giorni pubblicheremo la sezione dedicata ai migliori 25. Buona lettura!

50) Freddie Gibbs feat. The Alchemist, “Alfredo”

(HIP HOP)

Fin dal titolo e dalla copertina “Alfredo” di Freddie Gibbs, realizzato in collaborazione col produttore The Alchemist, è chiaramente ispirato ai personaggi della mafia italo-americana. Alfredo infatti è uno dei figli di Don Vito Corleone nella saga de Il Padrino, mentre la cover è il simbolo cinematografico dell’epopea della famiglia Corleone.

In effetti Freddie Gibbs è unanimemente riconosciuto come uno dei migliori gangsta rap della sua generazione: testi affilati, flow efficace su ogni base (specialmente quelle jazzate) e una produzione abbondante, che lo ha visto pubblicare ben cinque CD negli ultimi tre anni, fra collaborazioni con produttori di grido (oltre a The Alchemist abbiamo avuto “Bandana” con Madlib nel 2019) e prove soliste.

“Alfredo” percorre sentieri conosciuti per il veterano della scena hip hop statunitense: i beats di The Alchemist sono molto vecchio stampo, ricordando il rap anni ’90. Freddie Gibbs, dal canto suo, aggiunge la sua solita efficacia nel raccontare storie dure con tocchi di umanità inattesi; esemplare al riguardo questo verso contenuto in Skinny Huge: “Man, my uncle died off a overdose… And the fucked up part about that is, I know who supplied the nigga that sold it”. Altrove invece emerge la sua passione per le storie di mafia: Baby $hit campiona una frase del boss impersonato da Chazz Palminteri in una celebre serie tv americana, Godfather Of Harlem.

I risultati sono, come usuale con Gibbs, molto interessanti, specialmente in quei pezzi dove il Nostro non si trattiene e, grazie anche a ospiti di spessore, riesce a tirare fuori il meglio di sé: è il caso di Something To Rap About, con il fondamentale supporto di Tyler, The Creator. Altra ottima canzone è God Is Perfect. Convincono meno invece i momenti più introspettivi del lavoro, da 1985 a Look At Me, che spezzano il flusso del CD.

In generale, “Alfredo” è un’altra aggiunta di livello ad una discografia tanto frastagliata quanto in crescendo; Freddie Gibbs ha ormai trovato la sua dimensione e pare in grado, come già accennato in apertura, di rappare su ogni tipo di base, pur prediligendo quelle vecchio stile. Non siamo di fronte a un nuovo “Bandana”, ma il disco è godibile e perfettamente intonato a tempi in cui l’hip hop incarna la voglia di cambiamento della società.

49) Bruce Springsteen, “Letter To You”

(ROCK)

Il ventesimo CD del Boss non poteva che essere un evento: cadendo nel 2020, i riferimenti al numero 20 sono già numerosi. Va poi aggiunto che Springsteen ha composto alcune delle canzoni che sono entrate in “Letter To You” in giovane età (si tratta di Janey Needs A Shooter, Burnin’ Train e Ghosts), probabilmente proprio nei suoi vent’anni.

Finita la parte di “statistica e curiosità”, passiamo all’analisi dell’album: composto in pochi giorni in sessioni infuocate con la E Street Band, “Letter To You” riporta nei suoi momenti migliori con la mente ai capolavori della collaborazione, come “Darkness On The Edge Of Town” (1978) e “Born In The U.S.A.” (1984). Alcune melodie superano addirittura i sei minuti di durata: tra di esse l’epica Janey Needs A Shooter e If I Was The Priest. In realtà la prima canzone in scaletta, la deliziosa One Minute You’re Here, è una ballata raccolta che ricorda “Nebraska” (1982), ma è un falso allarme. Il resto del disco infatti si muove sui territori più conosciuti per i fans del Boss, quel rock potente e nostalgico di cui è il massimo interprete e maestro (vero The War On Drugs?). Non fosse per dei piccoli passi falsi come le troppo prevedibili House Of A Thousand Guitars e Rainmaker, avremmo davanti a noi un capolavoro dell’età matura di Springsteen.

Nei testi di “Letter To You” si evince una malinconia per gli anni che passano e gli amici di una vita che, giorno dopo giorno, abbandonano questo mondo: George Theiss, il frontman della primissima band in cui militò Bruce, i Castiles, è scomparso nel 2018 e ciò portò Springsteen a voler comporre nuovi pezzi e recuperarne degli altri dalla propria gioventù. Successivamente, come sappiamo, il Boss diede alle stampe il più sereno “Western Stars” (2019) e “Letter To You” è slittato al 2020, un anno in cui la morte è più presente che mai e in cui i testi delle canzoni sono più evocativi di quanto lo sarebbero stati in tempi migliori.

Ne sono esempi “We’ll meet and live and laugh again… for death is not the end” (I’ll See You In My Dreams), “Forget about the old friends and the old times” (If I Was The Priest) e “Sometimes folks need to believe in something so bad” (Rainmaker). Quest’ultimo, oltreché in chiave religiosa, può essere interpretato come monito per i politici populisti e il desiderio delle persone di sentirsi guidate da figure che, spesso, sono veri e propri criminali, come confermato dallo stesso Springsteen.

In conclusione, “Letter To You” non raggiunge le vette di capolavori come “Born In The U.S.A.” e “Darkness On The Edge Of Town”, nondimeno renderà felici i numerosi fans del Boss, capace ancora di scrivere canzoni forti e a tratti commoventi, come solo i veri fuoriclasse sanno fare. A 71 anni e con ormai 50 anni di carriera alle spalle, Springsteen è ancora oggi uno degli artisti più rilevanti del mondo rock.

48) Troye Sivan, “In A Dream”

(POP – ELETTRONICA)

Il nuovo EP del cantautore australiano è una piccola delizia. Mescolando le melodie che lo hanno reso una popstar con episodi decisamente più sperimentali, Troye Sivan si conferma volto sempre più interessante della musica contemporanea.

“In A Dream” segue l’acclamato “Bloom” (2018), album che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e gli ha permesso di collaborare con star come Charli XCX e Ariana Grande, ampliando notevolmente il suo pubblico. L’EP non è tuttavia una semplice continuazione di “Bloom”, quanto un modo per Troye di sperimentare nuove sonorità, che spaziano dalla techno (!) al dream pop, senza tuttavia mai perdere la bussola.

Fin dal primo singolo, Take Yourself Home, capiamo che “In A Dream” rappresenta un episodio importante per la discografia di Sivan: la canzone sarebbe di per sé carina, un’ottima melodia pop mescolata alla bella voce di Troye, ma la coda techno, che pare una creazione di Aphex Twin, è incredibile e anche ripetuti ascolti non fanno capire fino in fondo da dove sbuchi. È decisamente una delle più belle canzoni a firma Troye Sivan. Anche la successiva Easy è molto accattivante: non imprevedibile come la precedente, ma non meno riuscita. L’elettronica prepotente ritorna anche nella trascinante STUD, altro pezzo notevole del lavoro. L’unica inferiore alla media (alta) dell’EP è la fin troppo breve could cry just thinkin about you, ma i risultati restano ottimi, anche grazie all’ottima chiusura rappresentata dalla title track.

In conclusione, le sei canzoni di “In A Dream” sono un passo in avanti importante per Troye Sivan: l’australiano ha affiancato collaborazioni illustri a un’estetica in continua evoluzione, che lo rende una delle figure meno inquadrabili del mondo pop. Il prossimo album sarà il vero banco di prova, ad A-Rock siamo davvero impazienti di sentirlo.

47) Amaarae, “THE ANGEL YOU DON’T KNOW”

(R&B – POP)

Nata Ama Serwah Genfi, nel Bronx, Amaarae ha in realtà una cultura davvero varia: ha vissuto in varie parti d’America e ora vive con la famiglia in Ghana, un posto apparentemente poco convenzionale per comporre musica che ambisce alle classifiche e a comparire nelle playlist di grido di Spotify. Tuttavia, l’Africa sta diventando un mercato sempre più ambito dalle multinazionali e, allo stesso tempo, la musica africana sta conquistando i fans di mezzo mondo.

Il genere afrobeats in realtà è assimilabile a R&B e hip hop per molti versi e non è un caso che la sua affermazione coincida con l’impero del rap nelle classifiche. Amaarae, dal canto suo, cerca di stare in equilibrio fra generi apparentemente diversi come R&B, pop e funk, creando con “THE ANGEL YOU DON’T KNOW” un CD breve (soli 35 minuti) ma vario, con picchi notevoli e pezzi più interlocutori. Il talento c’è, ma la Nostra deve ancora affinare la sua estetica per renderla davvero unica.

Le 14 canzoni dell’album vengono introdotte dalla breve D*A*N*G*E*R*O*U*S, uno dei molti intermezzi che popolano il disco. FANCY è già un highlight del CD, fra trap e R&B; altri pezzi da ricordare sono FANTASY e PARTY SAD FACE/CRAZY WURLD, con coda addirittura punk; invece mediocre HELLZ ANGEL. In tutte le canzoni tuttavia svetta, comprensibilmente, la voce da bambina di Amaarae, che ad alcuni potrà sembrare eccessivamente sdolcinata ma in realtà è un valore aggiunto nella maggior parte delle melodie.

In conclusione, “THE ANGEL YOU DON’T KNOW” è un LP molto interessante, che richiede più di un ascolto per essere compreso appieno. La brevità aiuta l’assimilazione rapida delle canzoni, la varietà di generi affrontati con successo da Amaarae garantisce replay value; insomma, se non fosse per i troppi intermezzi e alcuni episodi non all’altezza, avremmo davanti un esordio coi fiocchi. Ma già così Amaarae si candida ad un ruolo di primo piano nel panorama musicale dei prossimi anni.

46) Harry Styles, “Fine Line”

(POP – ROCK)

Questo secondo album a firma Harry Styles, ex membro degli One Direction, conferma l’impressione suscitata da “Harry Styles” del 2017: è lui il più talentuoso tra gli ex appartenenti alla boy band. Mentre infatti sia Liam Payne che Zayn Malik hanno deluso alla prova solista, Harry dimostra un’abilità non comune nel panorama pop-rock, prendendo spunto da artisti come The 1975 e Coldplay ma riuscendo a non suonare scontato.

“Fine Line” parte subito forte: Golden è un pezzo molto solare, perfetto per iniziare col piede giusto un CD dichiaratamente “amichevole” ma non per questo monotono. Altro ottimo brano è Adore, non a caso scelto anche per lanciare il lavoro. Invece Watermelon Sugar è un po’ banale e non rende giustizia alla bella voce di Styles.

Interessante è poi la voglia di sperimentare dell’ex One Direction, che si avventura in territori folk (Cherry) così come negli assoli rock quasi prog (She). I risultati non sono sempre perfetti, ma denotano un coraggio non comune. Non è un caso che l’artista britannico dichiari di ispirarsi a David Bowie; ce ne vuole per raggiungere le vette creative del Duca Bianco, ma Harry Styles ha tutto per costruirsi una solida carriera.

“Fine Line” non è ancora il CD definitivo del giovane cantante, ma mostra un Harry Styles in gran forma e pronto ad essere il Robbie Williams degli anni ’20: l’unico sopravvissuto a buoni livelli di una ex boyband. Basta sostituire i Take That con gli One Direction e il gioco è fatto.

45) Stormzy, “Heavy Is The Head”

(HIP HOP)

Il secondo album rappresenta come ben sappiamo sempre una prova ardua da superare, soprattutto per artisti che hanno trovato il successo al primo colpo. Stormzy, superstar della scena grime inglese, la supera brillantemente, mantenendo le qualità messe in mostra nell’esordio “Gang Signs & Prayer” del 2017 e diventando una voce generazionale vera e propria per la gioventù britannica.

Il CD, uscito a fine 2019, mescola come già “Gang Signs & Prayer” vari generi: dalla trap al gospel, passando per il rap più duro e diretto, conosciuto Oltremanica come grime. Questa grande varietà rappresenta sia un limite che un’opportunità per il giovane artista: se da un lato Stormzy infatti crea un CD fin troppo diversificato (con ospiti tanto diversi da comprendere Ed Sheeran e Burna Boy nella stessa canzone), dall’altro la sua innata abilità a spaziare fra ritmi e sonorità così diverse dimostra un talento enorme.

Come sempre in un album hip hop, i testi rivestono un’importanza notevole. Stormzy non ha mai fatto mistero di voler diventare portavoce della generazione che in Inghilterra ha assistito alla Brexit e all’ascesa dei Tory, con tutte le polemiche che ne sono seguite. In Audacity si domanda: “come diavolo ho fatto a salire così presto?”, mentre in One Second escono le contraddizioni a cui deve far fronte: “ Mummy always said if there’s a cause then I should fight for it, so yeah I understand, but I don’t think that I’m all right with it”, che non necessita di traduzione. Altrove invece appaiono temi più personali: in Lessons, per esempio, Stormzy conferma le voci che lo vedevano traditore della ex fidanzata Maya Jama.

In generale, il disco scorre bene, i featuring aggiungono spessore ai brani e Stormzy si conferma rapper molto talentuoso, sia vocalmente che liricamente. “Heavy Is The Head” sarà anche una dichiarazione spavalda, specialmente verso la concorrenza, ma questa arroganza è meritata.

44) Denzel Curry, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX” / “UNLOCKED”

(HIP HOP)

I due brevi EP pubblicati nel giro di un mese dal rapper di Miami Denzel Curry, astro nascente della scena trap più alternativa, mostrano un artista al top: le basi sono durissime, in questo ricordando “TA13OO” (2018), il CD che fece conoscere Denzel a un pubblico ampio. A ciò aggiungiamo collaborazioni efficaci e abbiamo due fra gli EP più eccitanti degli ultimi anni.

Il primo ad essere pubblicato in ordine temporale, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, è davvero breve: 8 pezzi che arrivano a malapena ai 13 minuti di durata, spesso connessi uno con l’altro tanto che è difficile dire dove uno finisce e il nuovo inizia. A colpire sono specialmente la durissima XX – CHARLIE SHEEN – XX, con la collaborazione di Ghostemane, e la più dolce XX – WELCOME TO THE FUTURE – XX. Nessuna però è scarsa, tanto da creare un disco quasi punk: potente, immediato e breve, che impone ascolti in serie.

Il secondo EP è intitolato “UNLOCKED” e vanta la collaborazione di Kenny Beats, da molti riconosciuto come il nuovo Madlib: che Denzel Curry sia il suo Freddie Gibbs? Non siamo di fronte ad un nuovo “Bandana” (2019), ma senza dubbio il CD è riuscito: meno aspro rispetto a “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, mantiene però alto il livello delle basi con inserti jazz che rendono l’insieme imprevedibile. I pezzi migliori sono Take_it_Back_v2 e Track07, poi in generale valgono le considerazioni fatte anche per il precedente lavoro: la brevità rende necessario più di un ascolto per apprezzare appieno i dettagli delle poche ma intricate canzoni.

In poche parole, Denzel Curry è destinato a scrivere pagine importanti dell’hip hop degli anni ’20 del XXI secolo: questi due EP ne sono un’ulteriore dimostrazione.

43) Hayley Williams, “Petals For Armor”

(ROCK – POP)

Il primo disco solista della cantante dei Paramore arriva a tre anni da “After Laughter”, il CD che aveva rappresentato una svolta importante per il gruppo statunitense, decisamente più pop e new wave rispetto al passato. Hayley evolve ulteriormente il sound sperimentato in “After Laughter”, creando un lungo lavoro innovativo ma accessibile, che flirta col pop ma anche col post-rock.

Il CD è inoltre decisamente personale: la Williams ha infatti da poco divorziato dal partner con cui aveva condiviso gli ultimi dieci anni di vita, un momento quindi non facile per lei. Nelle liriche troviamo infatti spesso riferimenti a questo e alle conseguenze che ha avuto su di lei: in Leave It Alone canta “If you know how to love, best prepare to grieve”, mentre in Rose/Lotus/Violet/Iris, dove collaborano anche le boygenius (cioè Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridgers), “he loves me now, he loves me not” pare echeggiare il gioco che tutti da bambini abbiamo fatto.

Il tono del disco è insolitamente dimesso: mentre i Paramore ci avevano abituato a CD di rock alternativo che invitavano a ballare l’ascoltatore, Hayley Williams in “Petals For Armor” raramente si concede momenti leggeri. Sudden Desire alterna toni lievi a versi più intimisti, mentre Simmer e Leave It Alone rappresentano un’ottima doppietta iniziale ma non proprio accessibile, con quegli echi di Sigur Ros qua e là.

“Petals For Armor” era stato concepito inizialmente come un triplo EP, fatto ben rappresentato dalla struttura del lavoro: il primo terzo è riflessivo, il secondo accessibile e l’ultimo è un’affermazione della forza di Hayley Williams malgrado il tumulto passato nell’ultimo anno, tanto da concludersi con la bella frase “Won’t Give In To The Fear” in Crystal Clear. La promozione del CD è stata frammentaria proprio per questa confusione di fondo sulla struttura del lavoro, ma i risultati sono buoni.

“Petals For Armor” infatti contiene brani adatti ad ogni occasione: raccolti, ballabili, sperimentali e mainstream… Hayley Williams ha deciso di riversare molti dei suoi riferimenti musicali in questo LP, creando un aggregato magari non efficace in ogni sua parte ma certo non disprezzabile.

42) MIKE, “Weight Of The World”

(HIP HOP)

Il giovane ma già affermato rapper newyorkese MIKE, con “Weight Of The World”, prosegue la strada tracciata nel fortunato album precedente, “tears of joy” (2019). Dal canto nostro, ad A-Rock avevamo già messo gli occhi su di lui, inserendolo in un profilo della rubrica “Rising”, dedicata ai giovani talenti, e nella lista dei migliori CD dell’anno.

L’hip hop astratto e delicato di MIKE è infatti davvero riuscito nelle sue parti migliori (basti sentirsi No, No e Da Screets), evocando il miglior MF Doom ed Earl Sweatshirt, che in un certo senso ha ricambiato la stima del Nostro collaborando in Allstar. Il disco prosegue idealmente quanto fatto in “tears of joy”: MIKE è ancora devastato dalla morte prematura della madre, che viene continuamente evocata in “Weight Of The World”. Anche musicalmente non vi sono innovazioni particolari, anzi possiamo dire che il talentuoso rapper approfondisce la formula vincente del precedente LP, riducendone la frammentarietà (siamo a 16 brani per 35 minuti); solo due canzoni superano i tre minuti, Coat Of Many Colors e Weight Of The Word*.

I testi, come già si sarà capito, sono il pezzo forte del lavoro: in delicate descrive un’infanzia travagliata, “We used to freeze up in the winter, the summers, we rose” canta malinconicamente. In alert* affronta il tema della depressione: “Papa knows it’s doom I need to work through” è un verso chiarissimo. Tuttavia, la palma di lirica più devastante la vince “Walked her out the Earth, just me, a couple nurses”, contenuta in 222: un commiato asciutto ma davvero toccante dalla madre da poco defunta.

Il CD, come già accennato, non rinnova l’estetica di MIKE, nondimeno serve a rinforzare una discografia già interessante e a renderlo un volto riconoscibile, verrebbe quasi da dire irrinunciabile, per l’hip hop sperimentale.

41) Charli XCX, “how i’m feeling now”

(POP)

Il nuovo album della popstar inglese Charli XCX è un documento che, in futuro, sarà un rimando alla vita durante il lockdown. Mescolando i suoi soliti beats quasi industrial con melodie pop e voci robotiche, Charli ha creato un CD non perfetto, ma certo godibile, considerando anche le circostanze in cui è stato composto (in quarantena e in un periodo di tempo volutamente limitato).

Charlotte Aitchison (questo il vero nome dell’artista britannica), con “how i’m feeling now”, segue di un solo anno il riuscito “Charli” (2019), in cui grazie accanto a ospiti di spessore, da Sky Ferreira a Lizzo passando per Troye Sivan, era riuscita a dare un senso al “pop del futuro” di cui è stata spesso tacciata di essere un’anticipatrice. In “how i’m feeling now” capiamo subito che, accanto al livello puramente musicale, le liriche assumono un’importanza cruciale: accanto al tema dell’inquietudine emergono i temi dell’amore per il fidanzato e di come concepire la musica in questo periodo certo non facile.

Ne sono chiari esempi questi versi contenuti in anthems: “I’m so bored… Wake up late, eat some cereal, try my best to be physical, lose myself in a TV show, staring out to oblivion… all my friends are invisible”, oppure in detonate: “When I start to see fear it gets real bad”. Altrove, come già accennato, emergono temi più sereni, come in forever, dove Charli canta “I will always love you, I love you forever, I know in the future we won’t see each other.”

Musicalmente, il lavoro alterna pezzi più sperimentali (come pink diamond) ad altri più ballabili, quasi EDM (detonate). I risultati sono ragguardevoli, specialmente in enemy e la dolce 7 years, inoltre la brevità del CD (11 brani per 37 minuti complessivi) lo aiuta a mantenersi di buona qualità per tutta la sua durata.

Charli XCX si è anno dopo anno affermata come una delle popstar più aperte all’innovazione in un genere spesso accusato di essere fin troppo attento alla forma e poco alla sostanza. “how i’m feeling now”, oltre ad essere un’efficace testimonianza di come il Covid-19 ha impattato la psiche di tutti, è anche un buon LP. Cosa chiedere di più?

40) Kelly Lee Owens, “Inner Song”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista gallese è un gradito ritorno alla formula che l’ha resa apprezzata fin dal primo disco “Kelly Lee Owens” del 2017: un punto d’incontro felice fra techno e dream pop, che raggiunge dei picchi notevoli ad esempio in Melt!. Ma nulla è superfluo nel lavoro, che catapulta definitivamente Kelly Lee Owens nel novero delle artiste da tenere d’occhio.

Il disco si apre con la cover di Weird Fishes / Arpeggi dei Radiohead, qua intitolata semplicemente Arpeggi: va notato che il 2020 segna l’uscita di ben due cover della stessa canzone in dischi molto lodati, infatti anche Lianne La Havas ha inserito la sua versione del brano menzionato (Weird Fishes, manco a farlo apposta) nel suo lavoro di qualche mese fa. Arpeggi è un sobrio brano solo strumentale, capace però di raccogliere la magia dell’originale pur senza la voce a supportare gli strumenti.

Il CD poi si snoda fra brani più elettronici (come On e Night) e altri in cui invece il pop, a volte addirittura l’R&B, sono preponderanti (si sentano Re-Wild e L.I.N.E.). I risultati non sempre sono eccellenti, ma quando Kelly Lee Owens azzecca il beat i risultati sono trascinanti: Melt! è forse il miglior pezzo techno dell’anno, ottima anche Flow. Invece meno riuscita Jeanette. Segnaliamo infine la collaborazione col mitico John Cale (ex Velvet Underground) nella lunga ma non monotona Corner Of My Sky.

Se vogliamo trovare un punto d’incontro tra le liriche del disco è la questione ambientale: sia Melt! che Corner Of My Sky toccano l’importanza che il surriscaldamento globale ha sulla natura. Del resto, tuttavia, in un disco prevalentemente elettronico sono più importanti le atmosfere create dalla musica piuttosto che i messaggi espliciti trasmessi dall’artista.

In conclusione, “Inner Song” è un altro passo avanti nella già brillante carriera di Kelly Lee Owens, una delle cantanti più interessanti della sua generazione, capace di mescolare generi apparentemente lontani in maniera sempre intrigante. L’impressione è che il suo capolavoro non sia ancora arrivato, staremo a vedere il futuro cosa avrà in serbo per lei.

39) Dua Lipa, “Future Nostalgia”

(POP)

L’artista di origini kosovare e albanesi, ma nata in Inghilterra, mescola pop, funk e disco anni ’80, per creare con “Future Nostalgia” un impasto sonoro effettivamente nostalgico, ma mai banale.

Pregio non da poco è la concisione del lavoro: con 11 brani e 37 minuti Dua Lipa non ha tempo per i riempitivi, notizia benvenuta e a dire il vero sempre più rara nel mondo pop e rap, sempre alla ricerca dei record di streaming. L’intento dell’artista britannica è quindi chiaro: conseguire il successo non tramite mezzucci ma solo con il talento. Anche liricamente ciò è evidente: in Future Nostalgia sentiamo Dua Lipa cantare “No matter what you do, I’m gonna get it without ya. I know you ain’t used to a female alpha”.

In effetti pezzi accattivanti come la title track, Don’t Start Now e Physical aiutano a tenere lontano i pensieri in questi tempi non facili. Nessuno, come già accennato, è davvero superfluo: inferiore alla media solamente Pretty Please e l’orchestrale Boys Will Be Boys.

Dua Lipa è riuscita nella non facile missione di fondere l’estetica di Kylie Minogue, Madonna e Christine And The Queens creando qualcosa di retrò ma allo stesso tempo futuristico. Raramente titolo di un LP si è dimostrato più profetico.

38) Matt Berninger, “Serpentine Prison”

(ROCK)

Il cantante dei The National ha prodotto il secondo album al di fuori del suo gruppo principale dopo l’esperimento “El Vy” del 2015, che lo vedeva collaborare con Brent Knopf: un mezzo fiasco, che aveva fatto pensare che Berninger non si sentisse a suo agio nei panni di unico interprete e senza i fidati fratelli Dessner e Davendorf al suo fianco. “Serpentine Prison” ribalta la prospettiva: se il CD non innova radicalmente l’estetica a cui Matt ci ha abituato, dall’altro i risultati sono più che buoni e fanno pensare che la sua dimensione sia magari ridotta come palette sonora, ma non soffocante.

Va detto che il lavoro non è interamente appannaggio di Berninger: aiutato da ospiti di spessore come Andrew Bird, Gail Ann Dorsey (che aveva già collaborato nell’ultimo LP dei The National “I Am Easy To Find” del 2019) e il produttore Booker T. Jones, il Nostro ha composto dieci canzoni estremamente coese, prive di guizzi particolari ma senza dubbio gradevoli. Andiamo da brani molto simili ai The National (Loved So Little) a pezzi invece più ispirati agli U2 (Distant Axis) e infine altri molto raccolti, che fanno pensare al pop da camera (Silver Springs). In generale, quindi, l’estetica di Berninger è confacente a quel tono di voce affascinante ma a tratti ferito che tutti gli riconoscono, così come le liriche.

Abbiamo infatti ad esempio versi come “The way we talked last night… It felt like a different kind of fight” (Boiler Plate) e “I feel like an impersonation of you… Or am I doing another version of you doing me?” (la title track). Il paesaggio tratteggiato da Matt è quindi fosco, un pomeriggio di pioggia verrebbe da dire; certo non una novità per i fans dei The National. I pezzi interessanti non mancano: dalla progressione di All For Nothing a Distant Axis, passando per Serpenine Prison, il CD brilla spesso. Il solo brano sottotono è Loved So Little, ma non intacca i risultati complessivi del disco.

In conclusione, conosciamo tutti Berninger per essere un cantautore prolifico: basti pensare che fra 2017 e 2020 è stato coinvolto in ben tre CD, due a firma The National e uno solista. La qualità tuttavia non ha mai risentito di questo output abbondante, anzi “Sleep Well Beast” (2017) ha vinto il Grammy come miglior album di musica alternativa. “Serpentine Prison” non è un capolavoro, ma arricchisce il canzoniere di Matt Berninger di altre canzoni che non sfigurano al cospetto di capolavori come quelle contenute in “Trouble Will Find Me” (2013).

37) Caribou, “Suddenly”

(ELETTRONICA)

Il settimo CD a firma Caribou arriva dopo ben sei anni dal precedente “Our Love”: un intervallo di tempo così lungo non è tuttavia stato speso inutilmente da Dan Snaith, colui che si cela dietro il progetto Caribou. Daphni, infatti, altro alter ego del musicista canadese, aveva pubblicato “Joli Mai” nel 2017; un album che tuttavia non raggiungeva le vette dei migliori lavori a firma Caribou, come ad esempio “Swim” (2010) e lo stesso “Our Love” (2014).

“Suddenly” è l’album più stilisticamente vario di Snaith: pop, elettronica, rock e rap si trovano qua e là nel corso del CD, così come brevi parentesi jazz e psichedeliche. Ciò tuttavia non va a detrimento della qualità: il marchio Caribou ha sempre mantenuto alto il livello, è vero, ma “Suddenly” certamente ne tiene alto il nome.

Accanto a tutto ciò, forse per la prima volta in un disco di Caribou le liriche non sono semplici echi di voci lontane poste su basi house o psichedeliche: adesso la voce di Dan è spesso alta nel mix, così come quella dei numerosi ospiti presenti nei samples dei vari brani. Basti pensare a Home e Sunny’s Time, dove per la prima volta l’hip hop la fa da padrone. Potrà piacere o meno, ma denota una crescita e un coraggio nel produttore e cantautore Dan Snaith che non sono banali.

La lirica più commovente è cantata però da Dan stesso: “I’m broken, so tired of crying… Just hold me close to you”, in Cloud Song, è il simbolo di un uomo fragile, debilitato da esperienze drammatiche (il divorzio, la morte di persone care). Un’ammissione certamente non facile, per Dan, ma commovente.

Musicalmente, “Suddenly” è, come già accennato, un’aggiunta di spessore ad un catalogo ingombrante: non c’è forse un’altra Odessa o Can’t Do Without You, ma pezzi come You And I e Ravi (che pare un pezzo sanificato dei Prodigy) sono comunque notevoli. Invece troppo breve il pur affascinante intermezzo Filtered Grand Piano.

“Suddenly” non è un lavoro perfetto, ma rappresenta nonostante tutto un passo avanti importante per il musicista canadese. Dan Snaith non è mai suonato così libero eppure così fragile (in varie interviste ha detto di aver prodotto negli scorsi cinque anni ben 900 potenziali pezzi, fra campionamenti e melodie vere e proprie). Vedremo dove le prossime incarnazioni del progetto Caribou lo porteranno, ma sappiamo che resterà fedele a un motto: meglio pochi (LP) ma buoni.

36) Jay Electronica, “A Written Testimony” / “Act II: Patents Of Nobility”

(HIP HOP)

L’esordio dell’ormai maturo rapper statunitense (43 anni) ha rappresentato un fulmine a ciel sereno per tutti. Jay Electronica infatti era quasi una figura mitica nel mondo della musica: collaborazioni eccellenti (Chance The Rapper, Kendrick Lamar, Nas) e alcuni singoli di grido nella decade 2000-2009 (!) avevano creato un’attesa enorme per il suo primo CD.

Partiamo da “A Written Testimony”. Accanto a Jay troviamo altri ospiti davvero illustri, su tutti un JAY-Z in grande forma, senza dimenticare Travis Scott e James Blake, che rendono “A Written Testimony” imperdibile. I beat sono decisamente old school, rimandando ai dischi hip hop del secolo passato, ma mai fuori fuoco o fini a sé stessi. In 10 canzoni e 39 minuti, infatti, Jay Electronica copre molto territorio, mescolando al rap anche soul e jazz, per creare un prodotto coeso.

Va ricordato che JAY-Z dà una mano fondamentale all’omonimo Jay Electronica nel corso del CD, tanto da metterlo quasi in ombra in certi tratti: basti sentirsi The Blinding e Universal Soldier, per capire quanto ancora mister Carter abbia da dare alla musica. Come già accennato, tuttavia, nessun brano è scadente (solo Ezekiel’s Wheel è un po’ troppo lento); Jay Electronica anzi pare davvero in ottima condizione e molto affiatato con gli ospiti presenti nel disco.

Testualmente, “A Written Testimony” affronta temi da sempre cari alla musica hip hop: la condizione della gente di colore, la scalata al potere di persone esemplari (su tutti, guarda caso, proprio JAY-Z) e l’eredità degli schiavi afroamericani del passato. Accanto a tutto ciò emerge la forte fede musulmana di Jay Electronica, uno dei tratti fondanti della sua vita e della sua poetica.

“A Written Testimony” quindi, malgrado la sua brevità, non è un disco assimilabile al primo colpo. Ripetuti ascolti tuttavia trasmettono molto, soprattutto una cosa: l’età, anche in un mondo sempre affamato di nuove facce come quello musicale (in special modo l’hip hop), non è necessariamente un freno. Soprattutto se coinvolgi nello stesso progetto Jay Electronica e JAY-Z.

Il 2020 del misterioso rapper conosciuto come Jay Electronica non è tuttavia terminato qui: ha visto la luce infatti anche il suo “album perduto”, un CD che pareva sul punto di essere pubblicato addirittura nel 2012!

I motivi che hanno spinto Jay a ritardare così tanto la pubblicazione (peraltro dovuta, pare, a un leak emerso su Internet qualche giorno prima del passaggio sul servizio streaming Tidal) sono tuttora ignoti. Il CD in realtà, pur essendo ancora bisognoso di ritocchi in termini di lunghezza e produzione, è riuscito: immaginandone la pubblicazione nell’ormai lontano 2012, avremmo probabilmente strabuzzato gli occhi sentendo brani avventurosi come Shiny Suit Theory e i pezzi del “periodo francese”, Bonnie And Clyde (che campiona Serge Gainsbourg) e Dinner At Tiffany’s, con la figlia di quest’ultimo, Charlotte.

Il Nostro campiona anche Ronald Reagan in ben due brani: Real Magic e Road To Perdition, a testimonianza di una conoscenza molto ampia e di una curiosità senza limiti. Da migliorare invece, come già ricordato, il sequenziamento e la produzione di alcuni pezzi: i numerosi intermezzi iniziali rovinano il ritmo e la chiusura affidata a brani deboli come Rough Love e Run And Hide non convince.

In conclusione, se da un lato ci fa piacere finalmente ascoltare “Act II: Patents Of Nobility”, dall’altro ci resta quasi un amaro in bocca: la storia dell’hip hop sarebbe cambiata se otto anni fa fosse stato pubblicato questo disco? Nessuno può dirlo. Speriamo che Jay Electronica abbia trovato la serenità che gli è mancata quando la hype dei media era troppo pesante per lui e che possa riprendere una carriera che pareva lanciatissima e che, chissà, potrebbe darci ancora tante soddisfazioni.

35) Rina Sawayama, “SAWAYAMA”

(POP – ROCK)

Il debutto di Rina Sawayama era molto atteso: l’EP del 2017 “RINA” aveva attirato l’attenzione su questa giovane artista dalla voce sinuosa e ispirata al “future pop” di Charli XCX ma anche dagli anni ’00 del XX secolo, basti pensare ai rimandi a Britney Spears e Christina Aguilera. “SAWAYAMA” riparte da dove “RINA” era finito: canzoni ballabili, ritmi sincopati spesso intervallati da brani quasi metal, che richiamano Linkin Park e Limp Bizkit, ma anche gli Evanescence.

Il primo singolo di lancio del disco, STFU! (che sta per “shut the fuck up!”), ne era un chiaro indizio: fino al ritornello pare davvero di essere tornati ai primi anni 2000, con quel nu-metal che rimbomba nelle orecchie. Il ritornello invece è pop ben fatto, capace in tempi normali di trascinare a ballare un buon numero di persone. I rimandi al rock duro non sono certo finiti qua: abbiamo per esempio anche XS in cui riff di chitarra pesante si intervallano a ritmi più rilassati, così come in brevi tratti dell’iniziale Dynasty.

Il CD come tale non offre momenti di pausa, creando un’esperienza davvero interessante per l’ascoltatore. Certo, non brilla per coesione, ma non è comune avere un disco che passa in maniera spesso efficace dal pop da classifica al metal, spesso nella breve durata di una canzone. Sono infatti proprio le canzoni più convenzionali, ad esempio Love Me 4 Me e Bad Friend, a essere le meno riuscite del lotto, pur mantenendo una qualità sempre accettabile.

In conclusione, “SAWAYAMA” è un lavoro molto promettente da parte di un nuovo volto della musica pop più innovativa e, verrebbe da dire, sperimentale. Vedremo se la giovane cantante inglese manterrà in futuro le aspettative, di certo ad oggi pare che Rina Sawayama potrebbe essere uno dei simboli più brillanti del pop degli anni a venire.

34) HAIM, “Women In Music Pt. III”

(ROCK – POP)

Le sorelle Haim, rispettivamente Danielle (voce principale e chitarra), Alana (chitarra) ed Este (basso) hanno costruito con “Women In Music Pt. III” il loro miglior disco. Ripartendo dal loro tradizionale pop-rock sfrontato e ottimista, la band californiana ha introdotto elementi di folk ed elettronica che ne hanno ampliato la palette sonora, mettendo in mostra un desiderio di sperimentare benvenuto dopo il mezzo passo falso di “Something To Tell You” (2017).

Ripetuti ascolti, nel caso di “Women In Music Pt. III”, non mettono in evidenza le debolezze del lavoro, come spesso accadeva nel passato per le tre Haim; al contrario, la delicata bellezza di Summer Girl e l’irresistibilità di Los Angeles ne vengono esaltate. È vero, ancora la voglia di strafare costringe le sorelle a produrre brani deboli come la scontata I Don’t Wanna e l’inutile intermezzo Man From The Magazine, ma aiutate dai consigli sapienti di Rostam Batmanglij e Ariel Rechtshaid (quest’ultimo è anche partner di Danielle) le Nostre riescono ad evitare cadute di stile.

Anche testualmente le sorelle Haim compiono passi avanti rispetto al passato: se fino al secondo CD “Something To Tell You” i loro testi erano prevalentemente frivoli, perfettamente allineati ai ritmi estivi e sereni delle canzoni, in questo lavoro i toni sono a volte decisamente più raccolti, basti citare la già menzionata Summer Girl. Danielle, inoltre, ha dovuto supportare il fidanzato quando il cancro alla prostata lo ha colpito nel 2015; Este invece convive col diabete da tempo, mentre Alana ha visto morire recentemente un suo caro amico. Insomma, non sono stati anni facili per le HAIM; a questo aggiungiamoci il Coronavirus e il panorama è decisamente più tetro rispetto a qualche tempo fa. Basti questo verso tratto da I’ve Been Down: “But I ain’t dead yet”.

In generale, “Women In Music Pt. III” è il disco più compiuto finora nella carriera delle HAIM; la varietà stilistica non va a scapito della qualità del CD, che anzi mescola abilmente generi disparati e amplierà probabilmente il pubblico della band.

33) Laura Marling, “Song For Our Daughter”

(FOLK)

L’artista inglese si conferma una delle migliori cantautrici dei nostri tempi. Mescolando Joni Mitchell e Bob Dylan con una spruzzata di Leonard Cohen, Laura Marling riesce in “Song For Our Daughter” a mantenere fede alla nomea di “ragazza prodigio” con un CD folk coeso e suonato magnificamente, che rivaleggia con il lavoro dello scorso anno di Aldous Harding, “Designer”, come miglior disco di folk contemporaneo degli ultimi anni.

In realtà il titolo è ingannevole: Laura Marling, da poco entrata nei 30 anni, non ha una figlia, tuttavia sentiva il bisogno di dedicare queste melodie alle più giovani, inserendo nelle liriche riferimenti alla condizione femminile e speranze per gli anni a venire. La sentiamo cantare in Only The Strong “I won’t write a woman with a man on my mind… Hope that doesn’t sound too unkind”, ma anche “I love you goodbye, now let me live my life” in The End Of The Affair. I risultati, lo ripetiamo, sono ottimi: “Song For Our Daughter” mescola abilmente pezzi più rock (Held Down) con ballate solo piano e strumenti classici come il violino (Blow By Blow) in maniera egregia.

I pezzi migliori del lotto sono la vibrante Alexandra, che apre magnificamente il lavoro, e la title track; ma sono molto belle anche Held Down e la simpatica Strange Girl. Invece leggermente inferiore alla media Fortune, un po’ prevedibile. Ma nessun brano è fuori posto, tanto da far passare i 36 minuti del CD in maniera leggera e serena.

“Song For Our Daughter” non reinventa il genere, come magari invece aveva fatto il CD dei Fleet Foxes “Crack Up” (2017), ma è piuttosto il culmine di una produzione sempre più raffinata. Laura Marling aveva impressionato il mondo già 18enne con l’esordio “Alas, I Cannot Swim” (2008) e aveva poi continuato a produrre LP di qualità e giustamente premiati anche dalla critica. Mentre il precedente “Semper Femina” (2017) era più combattivo, sia come sonorità che come liriche, “Song For Our Daughter” è una piccola perla di semplicità e grazia. Qualità davvero fondamentali in un CD pubblicato in periodo di quarantena forzata.

32) Dogleg, “Melee”

(PUNK)

Cosa aspettarsi da un gruppo punk il cui esordio si intitola “zuffa”? Beh, nulla di più di alcune canzoni energiche, chitarre al massimo e testi potenti. I Dogleg riescono a raggiungere tutti questi obiettivi con apparente semplicità, iscrivendosi di diritto in una scena punk-rock mondiale che ultimamente ha visto nascere numerose nuove voci (Shame, IDLES e PUP solo per citare le più note).

I 10 brani del CD sono in effetti davvero brutali in molte parti: la doppietta iniziale formata da Kawasaki Backflip e Bueno resterà impressa per molto tempo nella mente e nelle orecchie degli ascoltatori, così come Hotlines. Solo in certi tratti emergono accenti diversi, più spostati sul ramo emo del genere, si ascoltino ad esempio Headfirst e Fox.

In realtà l’ispirazione dei Dogleg va ricercata negli Iceage: l’esordio “A New Brigade” (2011) era in effetti un ottimo album quasi hardcore in certi tratti, così come il durissimo “You’re Nothing” (2013). Vedremo il percorso futuro dei Dogleg come sarà, certamente il talento pare esserci. Anche testualmente il lavoro non è banale: emergono temi che, anche in questo caso, ricordano le band emo del passato (American Football su tutte), affrontando la depressione all’inizio del disco come alla fine, tanto che il CD inizia e finisce con Alex Stoitsiadis (il frontman della band) malinconicamente seduto a terra supino.

In generale, dunque, “Melee” non reinventa la storia del rock; tuttavia rappresenta una sferzata d’aria fresca necessaria in tempi come questi.

31) Moses Sumney, “græ”

(POP – ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo album del musicista statunitense Moses Sumney ha avuto un rilascio decisamente strano. “græ” (da pronunciarsi “grey”) è infatti un doppio album, di cui Sumney ha dapprima rilasciato la prima metà (il 21 febbraio) e solo il 15 maggio la seconda. Questa decisione di marketing non è certamente usuale, però ha avuto il merito di tenere i riflettori puntati sul giovane talento per più tempo.

“græ” segue di tre anni “Aromanticism”, che era entrato anche nella rubrica “Rising” di A-Rock per la sua capacità di essere minimalista ma allo stesso tempo capace di ispirarsi ai grandi del pop e del rock, da Prince in giù. Il nuovo doppio album a firma Moses Sumney non si limita a rivangare questi percorsi, anzi è decisamente più massimalista come ambizione e sonorità. Mescolando parti recitate (come insula e also also also and and and) con composizioni decisamente intricate e non riassumibili in un solo genere (si senta In Bloom), Moses si candida a volto decisivo del pop più sperimentale della nuova decade, sulla scia di Bjork.

La prima metà, come già ricordato pubblicata a febbraio, aveva fatto intravedere il potenziale capolavoro: pezzi come la conclusiva Polly e Virile lasciano di stucco per la loro bellezza, mentre altri come Cut Me richiedono più ascolti prima di entrare sottopelle e non lasciare più l’ascoltatore. Il tutto viene aiutato dalla voce di Moses Sumney, ancora più duttile che nell’esordio. Come ciliegina sulla torta citiamo i numerosi collaboratori: da Daniel Lopatin a Thundercat, passando per James Blake, il Nostro ha raccolto il meglio della scena pop/elettronica.

La seconda parte del lavoro è più autobiografica della prima. Sia Two Dogs che Me In 20 Years narrano episodi del passato di Sumney per proiettarlo poi nel futuro, mentre and so I come to isolation riprende insula per le tematiche di isolamento e solitudine che affronta, laddove la prima metà affrontava prevalentemente i temi della mascolinità tossica (Virile) e dell’identità (also also also and and and). I brani che spiccano sono le delicate Lucky Me e Keeps Me Alive, senza dimenticare Bless Me, ma nessuno è fuori posto.

In conclusione, malgrado la struttura a volte schizofrenica e la smodata ambizione di “græ” (che consta complessivamente di 20 brani per 65 minuti), che a volte può risultare indigesta, il CD è un concentrato di tutte le doti del promettente cantautore americano: inventiva, voce flessibile come poche e ritmiche imprevedibili. Se in futuro Moses riuscirà a smussare gli angoli più acuminati e inutilmente sperimentali della sua estetica, avremo un capolavoro fatto e finito.

30) Kaytranada, “BUBBA”

(ELETTRONICA – R&B)

Il secondo album del canadese Kaytranada è in realtà arrivato a metà dicembre 2019, ma sarebbe stato un peccato sorvolare su un disco così riuscito. Mescolando abilmente R&B e dance, infatti, Kaytranada costruisce un album davvero interessante, che si ispira a Jai Paul e Anderson .Paak (per non scomodare Prince) ma riesce a non suonare troppo plagiato.

La complessa struttura del CD (17 canzoni per 51 minuti di durata) potrebbe far pensare ad un oggetto di difficile lettura, almeno a primo acchito. In realtà il musicista canadese, aiutato anche da un parco ospiti di tutto rispetto (Pharrell Williams, Kali Uchis e SiR fra gli altri), riesce a creare un prodotto coeso e mai scontato. Spiccano in particolare 10% e Midsection, ma nessun brano è davvero fuori posto. L’unico un po’ inferiore alla media è Need It, ma non intacca i risultati complessivi di “BUBBA”.

Qualcuno aveva gridato al miracolo con l’esordio “99.9%” (2016), per il suo mescolare senza difficoltà funk, R&B ed elettronica; questo “BUBBA” è un perfezionamento di una formula vincente, Kaytranada suona sicuro di sé e pronto a spiccare definitivamente il volo verso l’Olimpo del mondo pop.

29) Nicolas Jaar, “Cenizas” / “Telas”

(ELETTRONICA)

“Cenizas”, il terzo CD vero e proprio a firma Nicolas Jaar, arriva a nemmeno due mesi da “2017-2019”, il disco dell’altro progetto tuttora attivo del produttore di origine cilena, A.A.L. (Against All Logic). Mentre quest’ultimo è focalizzato sulla house e dance music, Nicolas Jaar è maestro di sonorità più delicate, minimali tanto da essere considerato anche esponente della musica ambient.

La quantità in questo caso non è nemica della qualità: “Cenizas” è infatti un lavoro decisamente sperimentale, tanto che possiamo trovarci elementi elettronici ma anche jazz e ambient. La coesione è quindi una mancanza evidente nel corso delle 13 canzoni che compongono il CD, ma viene compensata da una varietà stilistica e timbrica notevole, sempre però nel segno di una malinconia esistenziale più forte che mai in un compositore peraltro mai particolarmente ottimista.

“Cenizas” (da tradursi in “ceneri”) è quindi un LP molto intimo, non facile ma non per questo da buttare. Anzi, ripetuti ascolti premiano l’ascoltatore, catapultato in un mondo parallelo magari inquietante ma allo stesso tempo affascinante e raffinato, come tipico ormai dello stile Jaar. Spiccano particolarmente Gocce e Garden, mentre Menysid è forse troppo astratta, quasi solo rumore bianco.

A tutto questo si aggiungono delle liriche, quando presenti, sempre inquisitorie e mai banali: in Faith Made Of Silk Nicolas canta “A peak is just the way towards a descent, you have nowhere to look. Look around not ahead”. Altrove troviamo riferimenti al concetto di peccato (Sunder) così come titoli molto evocativi della voglia del Nostro, semplicemente, di scomparire (Vanish, Mud).

“Cenizas” non è un CD per tutte le stagioni, ma pare particolarmente adatto a quella presente, fatta di inquietudine, paura del contagio e pulsioni ambientaliste che cercano di salvare il pianeta dall’Uomo stesso. È probabilmente il lavoro più sperimentale di Nicolas Jaar, ma forse anche il più profondo, segno di un produttore che non ha terminato la voglia di addentrarsi in nuovi territori e oltrepassare i confini di come che un disco di musica elettronica dovrebbe suonare.

“Telas” dal canto suo si compone di quattro lunghe tracce, molto complesse e articolate: il CD infatti arriva quasi a 60 minuti di durata! Sommati ai 53 minuti di “Cenizas”, abbiamo un trattato di due ore di elettronica contemporanea, musica da camera che però sa comunicare sensazioni forti, purtroppo intonata al clima da lockdown che ancora pervade molta parte del mondo. Telahora comincia quasi come una canzone di Tom Waits, con ottoni in primo piano e toni dissonanti, per poi evolvere in eterea musica d’ambiente intervallata da momenti più percussivi. Telencima invece ricorda da vicino le atmosfere dell’ambient di Brian Eno, con sonorità più dolci rispetto a Telahora. Telahumo, invece, è una sorta di combinazione fra le due precedenti: serena ma allo stesso tempo imprevedibile. Infine Telallás, la canzone più “breve” del lotto (“soli” 13 minuti), è una conclusione tanto misteriosa quanto giusta per “Telas”, un lavoro che rivela dettagli preziosi ad ogni ascolto.

Le quattro composizioni possono apparire disgiunte e poco coerenti l’una con l’altra, in realtà raccontano di un musicista in continua evoluzione, un maestro dell’elettronica capace di passare da un sottogenere all’altro nell’arco di pochi mesi e produrre sempre LP accattivanti. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, l’ascolto di “Telas” conferma che Nicolas Jaar è il migliore della sua generazione per quanto riguarda la musica elettronica.

28) Jessie Ware, “What’s Your Pleasure?”

(POP)

Il ritorno della cantautrice inglese è un romantico rimando agli anni ’70-’80 del secolo scorso, in cui la dance di Donna Summer e il funk di Prince trionfavano sulla pista da ballo e in classifica. “What’s Your Pleasure?” è un disco davvero interessante, coeso e mai ridondante, in cui Jessie mette in mostra il suo talento e contribuisce a riportare la disco al centro dell’attenzione, sulla scia del clamoroso successo ottenuto da Dua Lipa con “Future Nostalgia”. Col prezioso supporto alla produzione di James Ford (già collaboratore di Arctic Monkeys e Foals fra gli altri), i risultati sono davvero imperdibili.

Fin dall’inizio capiamo che “What’s Your Pleasure?” è un disco che ritorna a “Devotion” (2012), l’esordio che aveva fatto conoscere Jessie Ware al mondo: atmosfere sexy e ballabili, retrò ma mai scopiazzate dai giganti del genere. Spotlight è il brano migliore del disco e potrebbe andare avanti ben oltre i cinque minuti della sua durata. Ottima poi la title track; da menzionare poi Ooh La La, che riporta alla memoria il funk di Sly & The Family Stone e il Prince degli esordi.

Se dobbiamo trovare una pecca al CD è a volte la similitudine fra una canzone e l’altra, ad esempio Step Into My Life è una ripetizione delle atmosfere ballabili già assaporate per la durata del lavoro, ma insomma i risultati complessivi sono davvero gradevoli.

Jessie Ware aveva esplorato il proprio lato più pop e intimista nei suoi ultimi LP, soprattutto “Glasshouse” del 2017; questo album da un lato è un ritorno al mondo ottimista e discotecaro degli anni ‘70-‘80, senza dubbio, ma la britannica riesce a non suonare scontata e il CD ha reso l’estate migliore (o almeno più sopportabile) per tutti noi.

27) Grimes, “Miss Anthropocene”

(POP – ELETTRONICA)

Il quinto disco della cantautrice canadese Claire Boucher, in arte Grimes, la trova ad un passaggio fondamentale non solo della propria carriera, ma dell’intera sua vita: fidanzata di Elon Musk, uno dei più noti miliardari del mondo, nonché incinta di otto mesi dell’inventore della Tesla, in che condizione avremmo trovato Grimes in “Miss Anthropocene”?

Il CD arriva a cinque anni dal pluripremiato “Art Angels”, uno dei dischi pop più eccentrici degli ultimi anni, caratterizzato da vocine da bamboline, collaborazioni eccellenti (Janelle Monáe su tutti) e sterzate su generi diversi rispetto al pop etereo e sognante che caratterizzava “Visions” (2012), il primo vero LP di successo a firma Grimes. “Miss Anthropocene” da questo punto di vista continua la sperimentazione, con riferimenti a nu metal, folk ed elettronica da rave che parevano lontane dalla Grimes che avevamo lasciato nel 2015.

Tematicamente, “Miss Anthropocene” già dal titolo ci fa capire il messaggio fondamentale che l’artista canadese vuole trasmettere: il global warming è pericoloso, ci vorrebbe una dea che cadesse sulla Terra per sanare le dispute inutili fra noi umani e salvare il pianeta. We Appreciate Power, primo singolo poi non inserito nella versione ufficiale del disco (ma presente in quella deluxe), presentava addirittura una Intelligenza Artificiale che avrebbe soggiogato l’Uomo per renderlo finalmente in grado di capire le conseguenze delle proprie azioni sul pianeta.

Una visione quindi controversa, che non sarà apprezzata da molti; tuttavia Grimes, ormai personalità pop ben in vista e rispettata da pubblico e critica, ha sempre fatto le cose a modo suo, senza curarsi delle reazioni degli altri. Basti ripensare a Oblivion, in cui cantava senza paura dello stupro subito in giovanissima età, evento che l’ha segnata indelebilmente.

Musicalmente, “Miss Anthropocene” è un trionfo: pur essendo una logica continuazione di “Art Angels”, come già detto, Grimes non lesina con gli esperimenti, cercando di stupire in ogni momento l’ascoltatore durante i circa 40 minuti di durata del disco. Brani come l’iniziale So Heavy I Fell Through The Earth e Darkseid, quasi hip hop, sono highlights immediati; ma anche il singolo Violence e 4ÆM sono notevoli. Leggermente inferiore My Name Is Dark, troppo dura come atmosfere per mescolarsi alla vocetta da cartoon di Claire Boucher.

In generale, tuttavia, Grimes si conferma nome fondamentale della scena pop alternativa del XXI secolo. “Miss Anthropocene” è un’aggiunta di valore a un catalogo ormai di spessore.

26) The Soft Pink Truth, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?”

(ELETTRONICA)

Il nuovo CD del progetto The Soft Pink Truth, capeggiato da una metà dei Matmos (Drew Daniel), si staglia come un album di musica elettronica davvero particolare. Diviso in due chiare metà, con le canzoni che prendono i propri titoli dalla frase che dà il nome al lavoro, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” è un LP raccolto ma allo stesso tempo accessibile.

The Soft Pink Truth rappresenta una valvola di sfogo per Daniel: mentre infatti nei Matmos prevalgono da sempre istinti avanguardisti, nei tempi morti il Nostro si dedica a remixare successi black metal (“Why Do The Heathen Rage?” del 2014) o a raccontare il lato gay del punk (“Do You Want New Wave Or Do You Want The Soft Pink Truth?” del 2004). Questo CD invece vuole essere un mezzo per protestare, seppur velatamente, contro la condizione politica attuale del mondo, sempre più capeggiato da leader inconsistenti e di estrema destra secondo Daniel.

La preghiera che dà il titolo al CD è un passo delle lettere di San Paolo ai Romani e dà forma ad un lavoro ambizioso: due suite di musica elettronica, impreziosite da sassofoni, pianoforte, atmosfere ambient e angeliche voci femminili. Drew Daniel vuole infatti trasmettere serenità, pur in un periodo non felice per il mondo, e ci riesce grazie a canzoni lunghe (spesso oltre i 5 minuti) ma mai monotone, sulla falsariga di altri artisti come Four Tet e DJ Koze. Ne sono esempi Grace e May Increase.

Nulla però è fuori posto, va detto, tanto che “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” si afferma come uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno.

La prima parte della lista si conclude qui. Chi saranno i 25 artisti capaci di entrare nella parte alta della classifica? Appuntamento fra pochi giorni per scoprirlo. Stay tuned!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (100-1)

Siamo alla seconda e ultima puntata delle 200 migliori canzoni degli anni ’10; quella più calda, dove si decreterà la migliore della decade secondo A-Rock. Frank Ocean, Arctic Monkeys, Bon Iver, Lana Del Rey… i big sono tutti presenti: chi avrà vinto la palma di miglior pezzo degli anni 2010-2019? Buona lettura!

100) The War On Drugs, An Ocean In Between The Waves (2014)

99) Neon Indian, Slumlord (2015)

98) Car Seat Headrest, Nervous Young Inhumans (2018)

97) Darkside, Paper Trails (2013)

96) Mac DeMarco, Ode To Viceroy (2012)

95) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Round And Round (2010)

94) A.A.L. (Against All Logic), This Old House Is All I Have (2018)

93) Grizzly Bear, Speak In Rounds (2012)

92) Real Estate, All The Same (2011)

91) Neon Indian, Annie (2015)

90) Alt-J, Breezeblocks (2012)

89) Car Seat Headrest, Fill In The Blank (2016)

88) Sia, Chandelier (2014)

87) The National, Graceless (2013)

86) Earl Sweatshirt feat. Vince Staples and Casey Veggies, Hive (2013)

85) Sufjan Stevens, Impossible Soul (2010)

84) Queens Of The Stone Age, My God Is The Sun (2013)

83) Adele, Rolling In The Deep (2011)

82) Icona Pop feat. Charli XCX, I Love It (2012)

81) Coldplay, Orphans (2019)

80) Broken Social Scene, World Sick (2010)

79) Beach House, Norway (2010)

78) Radiohead, Lift (2017)

77) Lorde, Royals (2013)

76) Cloud Nothings, Wasted Days (2012)

75) Justin Timberlake feat. JAY-Z, Suit & Tie (2013)

74) Kendrick Lamar, DNA. (2017)

73) Sufjan Stevens, Should Have Known Better (2015)

72) Nick Cave & The Bad Seeds feat. Else Torp, Distant Sky (2016)

71) Kings Of Leon, Pyro (2010)

70) Mac DeMarco, My Kind Of Woman (2012)

69) The 1975, It’s Not Living (If It’s Not With You) (2018)

68) Deerhunter, Memory Boy (2010)

67) The 1975, Sex (2013)

66) The Weeknd feat. Daft Punk, Starboy (2016)

65) Darkside, Golden Arrow (2013)

64) Coldplay, Paradise (2011)

63) Travis Scott feat. Drake, SICKO MODE (2018)

62) Justin Timberlake, Mirrors (2013)

61) Lorde, Green Light (2017)

60) Drake feat. Majid Jordan, Hold On, We’re Going Home (2015)

59) Earl Sweatshirt, Mantra (2015)

58) Blood Orange feat. A$AP Rocky and Project Pat, Chewing Gum (2018)

57) Gorillaz feat. Little Dragon, Empire Ants (2010)

56) LCD Soundsystem, call the police (2017)

55) King Krule, Czech One (2017)

54) The War On Drugs, Red Eyes (2014)

53) Vampire Weekend, Step (2013)

52) Daft Punk feat. Pharrell Williams, Get Lucky (2013)

51) Lana Del Rey, Mariners Apartment Complex (2019)

50) Kendrick Lamar, Sing To Me, I’m Dying Of Thirst (2012)

49) Sufjan Stevens, Fourth Of July (2015)

48) Gorillaz, On Melancholy Hill (2010)

47) Arctic Monkeys, Arabella (2013)

46) Drake, Over My Dead Body (2011)

45) Girls, Carolina (2010)

44) Fleet Foxes, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar (2017)

43) Arctic Monkeys, R U Mine? (2013)

42) Drake, Nice For What (2018)

41) Flume feat. JPEGMAFIA, How To Build A Relationship (2019)

40) Vince Staples, Lift Me Up (2015)

39) Frank Ocean, Ivy (2016)

38) Billie Eilish, bad guy (2019)

37) Jamie xx feat. Romy, Loud Places (2015)

36) Tame Impala, Elephant (2012)

35) Beach House, Myth (2012)

34) Bon Iver, Sh’Diah (2019)

33) Drake, Hotline Bling (2016)

32) Grimes, Oblivion (2012)

31) The National, Sorrow (2010)

30) St. Vincent, Champagne Year (2011)

29) Drake, Marvin’s Room (2011)

28) Frank Ocean, Nikes (2016)

27) Kanye West, I Am A God (2013)

26) Fleet Foxes, Third Of May / Ōdaigahara (2017)

25) The War On Drugs, Strangest Thing (2017)

24) Florence + The Machine, Shake It Out (2011)

23) King Krule, Dum Surfer (2017)

22) David Bowie, Lazarus (2016)

21) Bon Iver, Perth (2011)

20) Vampire Weekend, Hannah Hunt (2013)

19) The 1975, Love It If We Made It (2018)

18) Grimes, Realiti (2015)

17) Deerhunter, Helicopter (2010)

16) Tame Impala, Eventually (2015)

15) Frank Ocean, Thinkin Bout You (2012)

14) Tame Impala, Feels Like We Only Go Backwards (2012)

13) Arcade Fire, We Exist (2013)

12) Lana Del Rey, Venice Beach (2019)

11) Beach House, Dive (2018)

10) Robyn, Dancing On My Own (2010)

9) Kendrick Lamar, Alright (2015)

8) Bon Iver, Holocene (2011)

7) Kanye West, POWER (2010)

6) M83, Midnight City (2011)

5) Arcade Fire, Reflektor (2013)

4) FKA twigs, cellophane (2019)

3) Frank Ocean, Pyramids (2012)

2) Kanye West feat. Pusha T, Runaway (2010)

1) Tame Impala, Let It Happen (2015)

La nostra lunga cavalcata è finita: Let It Happen dei Tame Impala è meritatamente il più bel pezzo degli anni ’10 secondo A-Rock. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con le nostre scelte? Non esitate a lasciare commenti!

Recap: maggio 2020

Maggio è stato un mese piuttosto intenso per il mondo musicale. Abbiamo infatti assistito ai ritorni di Little Simz, Moses Sumney, Perfume Genius e The Soft Pink Truth. In più abbiamo l’esordio da solista della cantante dei Paramore Hayley Williams e il nuovo brevissimo EP a firma serpentwithfeet. Infine abbiamo recensito i lavori, usciti a sorpresa, delle stelline del pop Charli XCX e Carly Rae Jepsen. Buona lettura!

Perfume Genius, “Set My Heart On Fire Immediately”

perfume

Il quinto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un altro passo in avanti in una crescita che pare inarrestabile. Partito da un pop da camera molto timido, quasi solo pianoforte e voce, Perfume Genius si è aperto col tempo a generi come glam rock e art pop, raggiungendo vette altissime in “No Shape” (2017) e in questo “Set My Heart To Fire Immediately”, ad oggi il suo miglior CD.

La copertina farebbe pensare ad un disco minimale, in cui Hadreas si mette a nudo; è però anche vero che nei precedenti lavori non erano mancate introspezione e confessioni dolorose, basti pensare a “Too Bright” (2014). In realtà il lavoro è molto profondo e richiede diversi ascolti per essere apprezzato pienamente in tutta la sua bellezza. Alternando toni dimessi con pezzi decisamente intensi, infatti, Perfume Genius ha prodotto un lavoro complesso ma non per questo disprezzabile.

Infatti, la delicatezza di Just A Touch abbinata al rock quasi shoegaze di Describe fanno di “Set My Heart To Fire Immediately” un LP variegato come mai nella discografia di Hadreas, con risultati spesso sconvolgenti. I testi come sempre toccanti aggiungono ulteriore spessore al lavoro: On The Floor riguarda un sogno erotico che pare tanto reale da far dire al Nostro “I’m trying, but still I close my eyes… The dreaming bringing his face to mind”. In Describe parla della malattia di Crohn che lo perseguita ormai da tempo, mentre in Your Body Changes Everything emerge la sua fragilità: “Give me your weight, I’m solid. Hold me up, I’m falling down”. Infine, la produzione affidata a Blake Mills, che ha lavorato in passato anche con Laura Marling e Fiona Apple, corona un disco sontuoso.

In conclusione, Mike Hadreas pare aver raggiunto la piena maturità artistica. È un piacere sentirlo destreggiarsi così agilmente fra generi tanto diversi e con risultati quasi sempre ottimi. Perfume Genius è un progetto entrato a tutti gli effetti nell’Olimpo del pop.

Voto finale: 8,5.

Moses Sumney, “græ”

moses

Il nuovo album del musicista statunitense Moses Sumney ha avuto un rilascio decisamente strano. “græ (da pronunciarsi “grey”) è infatti un doppio album, di cui Sumney ha dapprima rilasciato la prima metà (il 21 febbraio) e solo il 15 maggio la seconda. Questa decisione di marketing non è certamente usuale, però ha avuto il merito di tenere i riflettori puntati sul giovane talento per più tempo.

“græ” segue di tre anni “Aromanticism”, che era entrato anche nella rubrica “Rising” di A-Rock per la sua capacità di essere minimalista ma allo stesso tempo capace di ispirarsi ai grandi del pop e del rock, da Prince in giù. Il nuovo doppio album a firma Moses Sumney non si limita a rivangare questi percorsi, anzi è decisamente più massimalista come ambizione e sonorità. Mescolando parti recitate (come insula e also also also and and and) con composizioni decisamente intricate e non riassumibili in un solo genere (si senta In Bloom), Moses si candida a volto decisivo del pop più sperimentale della nuova decade, sulla scia di Bjork.

La prima metà, come già ricordato pubblicata a febbraio, aveva fatto intravedere il potenziale capolavoro: pezzi come la conclusiva Polly e Virile lasciano di stucco per la loro bellezza, mentre altri come Cut Me richiedono più ascolti prima di entrare sottopelle e non lasciare più l’ascoltatore. Il tutto viene aiutato dalla voce di Moses Sumney, ancora più duttile che nell’esordio. Come ciliegina sulla torta citiamo i numerosi collaboratori: da Daniel Lopatin a Thundercat, passando per James Blake, il Nostro ha raccolto il meglio della scena pop/elettronica.

La seconda parte del lavoro è più autobiografica della prima. Sia Two Dogs che Me In 20 Years narrano episodi del passato di Sumney per proiettarlo poi nel futuro, mentre and so I come to isolation riprende insula per le tematiche di isolamento e solitudine che affronta, laddove la prima metà affrontava prevalentemente i temi della mascolinità tossica (Virile) e dell’identità (also also also and and and). I brani che spiccano sono le delicate Lucky Me e Keeps Me Alive, senza dimenticare Bless Me, ma nessuno è fuori posto.

In conclusione, malgrado la struttura a volte schizofrenica e la smodata ambizione di “græ” (che consta complessivamente di 20 brani per 65 minuti), che a volte può risultare indigesta, il CD è un concentrato di tutte le doti del promettente cantautore americano: inventiva, voce flessibile come poche e ritmiche imprevedibili. Se in futuro Moses riuscirà a smussare gli angoli più acuminati e inutilmente sperimentali della sua estetica, avremo un capolavoro fatto e finito.

Voto finale: 8.

Charli XCX, “how I’m feeling now”

charli

Il nuovo album della popstar inglese Charli XCX è un documento che, in futuro, sarà un rimando alla vita durante il lockdown. Mescolando i suoi soliti beats quasi industrial con melodie pop e voci robotiche, Charli ha creato un CD non perfetto, ma certo godibile, considerando anche le circostanze in cui è stato composto (in quarantena e in un periodo di tempo volutamente limitato).

Charlotte Aitchison (questo il vero nome dell’artista britannica), con “how i’m feeling now”, segue di un solo anno il riuscito “Charli” (2019), in cui grazie accanto a ospiti di spessore, da Sky Ferreira a Lizzo passando per Troye Sivan, era riuscita a dare un senso al “pop del futuro” di cui è stata spesso tacciata di essere un’anticipatrice. In “how i’m feeling now” capiamo subito che, accanto al livello puramente musicale, le liriche assumono un’importanza cruciale: accanto al tema dell’inquietudine emergono i temi dell’amore per il fidanzato e di come concepire la musica in questo periodo certo non facile.

Ne sono chiari esempi questi versi contenuti in anthems: “I’m so bored… Wake up late, eat some cereal, try my best to be physical, lose myself in a TV show, staring out to oblivion… all my friends are invisible”, oppure in detonate: “When I start to see fear it gets real bad”. Altrove, come già accennato, emergono temi più sereni, come in forever, dove Charli canta “I will always love you, I love you forever, I know in the future we won’t see each other.”

Musicalmente, il lavoro alterna pezzi più sperimentali (come pink diamond) ad altri più ballabili, quasi EDM (detonate). I risultati sono ragguardevoli, specialmente in enemy e la dolce 7 years, inoltre la brevità del CD (11 brani per 37 minuti complessivi) lo aiuta a mantenersi di buona qualità per tutta la sua durata.

Charli XCX si è anno dopo anno affermata come una delle popstar più aperte all’innovazione in un genere spesso accusato di essere fin troppo attento alla forma e poco alla sostanza. “how i’m feeling now”, oltre ad essere un’efficace testimonianza di come il Covid-19 ha impattato la psiche di tutti, è anche un buon LP. Cosa chiedere di più?

Voto finale: 8.

The Soft Pink Truth, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?”

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Il nuovo CD del progetto The Soft Pink Truth, capeggiato da una metà dei Matmos (Drew Daniel), si staglia come un album di musica elettronica davvero particolare. Diviso in due chiare metà, con le canzoni che prendono i propri titoli dalla frase che dà il nome al lavoro, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” è un LP raccolto ma allo stesso tempo accessibile.

The Soft Pink Truth rappresenta una valvola di sfogo per Daniel: mentre infatti nei Matmos prevalgono da sempre istinti avanguardisti, nei tempi morti il Nostro si dedica a remixare successi black metal (“Why Do The Heathen Rage?” del 2014) o a raccontare il lato gay del punk (“Do You Want New Wave Or Do You Want The Soft Pink Truth?” del 2004). Questo CD invece vuole essere un mezzo per protestare, seppur velatamente, contro la condizione politica attuale del mondo, sempre più capeggiato da leader inconsistenti e di estrema destra secondo Daniel.

La preghiera che dà il titolo al CD è un passo delle lettere di San Paolo ai Romani e dà forma ad un lavoro ambizioso: due suite di musica elettronica, impreziosite da sassofoni, pianoforte, atmosfere ambient e angeliche voci femminili. Drew Daniel vuole infatti trasmettere serenità, pur in un periodo non felice per il mondo, e ci riesce grazie a canzoni lunghe (spesso oltre i 5 minuti) ma mai monotone, sulla falsariga di altri artisti come Four Tet e DJ Koze. Ne sono esempi Grace e May Increase.

Nulla però è fuori posto, va detto, tanto che “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” si afferma come uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno.

Voto finale: 8.

Hayley Williams, “Petals For Armor”

petals

Il primo disco solista della cantante dei Paramore arriva a tre anni da “After Laughter”, il CD che aveva rappresentato una svolta importante per il gruppo statunitense, decisamente più pop e new wave rispetto al passato. Hayley evolve ulteriormente il sound sperimentato in “After Laughter”, creando un lungo lavoro innovativo ma accessibile, che flirta col pop ma anche col post-rock.

Il CD è inoltre decisamente personale: la Williams ha infatti da poco divorziato dal partner con cui aveva condiviso gli ultimi dieci anni di vita, un momento quindi non facile per lei. Nelle liriche troviamo infatti spesso riferimenti a questo e alle conseguenze che ha avuto su di lei: in Leave It Alone canta “If you know how to love, best prepare to grieve”, mentre in Rose/Lotus/Violet/Iris, dove collaborano anche le boygenius (cioè Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridges), “he loves me now, he loves me not” pare echeggiare il gioco che tutti da bambini abbiamo fatto.

Il tono del disco è insolitamente dimesso: mentre i Paramore ci avevano abituato a CD di rock alternativo che invitavano a ballare l’ascoltatore, Hayley Williams in “Petals For Armor” raramente si concede momenti leggeri. Sudden Desire alterna toni leggeri a versi più intimisti, mentre Simmer e Leave It Alone rappresentano un’ottima doppietta iniziale ma non proprio accessibile, con quegli echi di Sigur Ros qua e là.

“Petals For Armor” era stato concepito inizialmente come un triplo EP, fatto ben rappresentato dalla struttura del lavoro: il primo terzo è riflessivo, il secondo accessibile e l’ultimo è un’affermazione della forza di Hayley Williams malgrado il tumulto passato nell’ultimo anno, tanto da concludersi con la bella frase “Won’t Give In To The Fear” in Crystal Clear. La promozione del CD è stata frammentaria proprio per questa confusione di fondo sulla struttura del lavoro, ma i risultati sono buoni.

“Petals For Armor” infatti contiene brani adatti ad ogni occasione: raccolti, ballabili, sperimentali e mainstream… Hayley Williams ha deciso di riversare molti dei suoi riferimenti musicali in questo LP, creando un aggregato magari non efficace in ogni sua parte ma certo non disprezzabile.

Voto finale: 7,5.

serpentwithfeet, “Apparition”

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Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, pare avere abbandonato il look “estremo” di qualche tempo fa. Lontani sono i piercing, la barba multicolor e l’assenza di capelli: adesso Wise si presenta al naturale, senza finzioni o maschere.

Anche musicalmente il brevissimo EP “Apparition” si distacca dal precedente CD “soil” (2018): i tre brani per complessivi 8 minuti sono puro pop, intervallato da momenti più R&B che quasi ricordano il Prince anni ‘80 o il primo Michael Jackson.

Specialmente da elogiare è Psychic, che chiude magnificamente il lavoro. Anche le altre due tracce, del resto, sono buone: A Comma si apre su un dolce pianoforte per poi essere rinforzata dalla bella voce di serpentwithfeet, mentre This Hill è una bella ballata.

In conclusione, “Apparition” è un regalo ai fans in tempi non facili, un bel gesto da parte di Josiah Wise, che con questo EP si candida una volta di più a scrivere pagine importanti dell’R&B degli anni ‘20 del XXI secolo.

Voto finale: 7,5.

Carly Rae Jepsen, “Dedicated Side B”

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L’artista canadese Carly Rae Jepsen, diventata enormemente famosa qualche anno fa con la hit Call Me Maybe, ha da quel momento cercato di essere rispettata anche dalla critica: attraverso CD efficaci come “E•MO•TION” (2015) e “Dedicated” (2019) Carly si è ritagliata una nicchia rilevante per i fans del pop non convenzionale, raccogliendo anche recensioni lusinghiere da pubblicazioni molto lontane fra loro come NME e Pitchfork.

Già con “E•MO•TION: Side B” (2016) la Jepsen aveva proposto una raccolta di b-sides molto intriganti, operazione ripetuta con “Dedicated Side B”. Le 12 tracce contenute nel disco non paiono per nulla scarti della lavorazione di “Dedicated”, tanto che paradossalmente il CD è per certi versi addirittura più riuscito del precedente LP.

Pezzi efficaci come l’introduttiva This Love Isn’t Crazy e Let’s Sort The Whole Thing Out sono fra i migliori mai scritti dalla cantautrice canadese, ma in realtà nessuno è fuori posto (addirittura con Summer Love si evocano i Tame Impala). Carly Rae Jepsen si conferma perciò artista davvero talentuosa, capace di sfornare hit su hit restando però integra e sorprendendo il proprio pubblico in ogni occasione.

“Dedicated Side B” si staglia pertanto come uno dei migliori lavori pop dell’anno, tramite un minutaggio perfetto e la capacità di consolarci in tempi di Covid-19 con melodie accattivanti ma mai scontate.

Voto finale: 7,5.

Little Simz, “Drop 6”

drop 6

La giovane rapper Little Simz continua la striscia vincente iniziata l’anno scorso con il bellissimo “GREY Area” con il conciso EP “Drop 6”, che come da titolo continua la serie “Drop” inaugurata nel 2014 con “Age 101: Drop 1”.

Il risultato non è trascendentale, come prevedibile, ma rappresenta la perfetta immagine di un’artista che, al picco delle proprie capacità, non si capacita di doversi fermare a causa del Coronavirus, reagendo come meglio sa: scrivendo canzoni. La frustrazione della rapper britannica è evidente in you should call mum: “Guess life forced me to calm down, get my mind right… Bored out of my mind. How many naps can I take? How many songs can I write?”. In might bang, might not invece il tono è decisamente più sfrontato ed ironico: “You ain’t seen no one like me since Lauryn Hill back in the ’90s”, mentre nella conclusiva where’s my lighter dichiara perentoria “I’m focusin’ on my next masterpiece”.

Frasi forti, ma pronunciate da chi ha già dimostrato di possedere un talento fuori dal comune. Va detto che questa attenzione ai testi è dovuta anche a basi decisamente più raccolte del solito, non espansive come in “GREY Area”. I beat sono infatti scheletrici, sia nei brani più mossi come might bang, might not che in quelli più tranquilli (where’s my lighter).

Little Simz si conferma un nome da tenere d’occhio nella scena hip hop britannica. “Drop 6” è un EP tanto breve quanto gradevole, capace di intrattenere i suoi fans in tempi certo non facili e bisognosi di svago.

Voto finale: 7.

Recap: settembre 2019

Settembre ci ha regalato CD davvero interessanti. Ad A-Rock recensiremo i nuovi lavori di Natasha Khan aka Bat For Lashes, JPEGMAFIA e (Sandy) Alex G. Abbiamo poi il ritorno di Charli XCX e di Jenny Hval. Ma non finisce qui: ci sono anche il nuovo disco di Liam Gallagher, degli M83 e l’esordio solista di Brittany Howard, la cantante degli Alabama Shakes.

(Sandy) Alex G, “House Of Sugar”

alex g

L’ultimo album del prolifico cantautore americano, “House Of Sugar”, è il suo CD più completo. Dopo il cambio di nome da Alex G a (Sandy) Alex G, al fine di evitare scambi di persona con uno youtuber suo omonimo, il talentuoso Alex Giannascoli ha ampliato costantemente la propria palette sonora, aggiungendo elementi psichedelici e addirittura country prima ridotti all’osso nei vari dischi lo-fi da lui prodotti in passato.

“House Of Sugar” è un titolo particolare, che richiama le fiabe di Andersen, in particolare “Hansel e Gretel”; non è quindi un caso che una delle migliori canzoni della tracklist si intitoli proprio Gretel. Altrove troviamo invece riferimenti testuali a fatti di vita vera o, almeno, verosimile: in Hope Alex rimpiange un coetaneo morto, “He was a good friend of mine, he died. Why write about it now? Gotta honor him somehow”, si domanda e si risponde. Dopo però la scena diventa improvvisamente piena di vita, “In the house they were calling out his name all night, taking turns on the bed, throwing bottles from the windows of the home on Hope Street”. Non sappiamo se veramente il nome della via fosse Hope Street, ma il riferimento non pare casuale.

Accanto a questi franchi racconti di episodi della propria vita, però, Giannascoli affianca un sound interessante quanto misterioso: all’indie rock si sommano forti influenze degli Animal Collective, specialmente negli inserti più misteriosi, come Taking e Sugar. (Sandy) Alex G finisce quindi per suonare strano ma allo stesso tempo accessibile: brani come Gretel, la tenera Southern Sky e In My Arms non possono lasciare indifferenti. La doppietta CowCrime rimanda ai migliori Real Estate.

In conclusione, “House Of Sugar” è, come da titolo, un lavoro fondamentalmente dolce, ma infarcito degli elementi particolari e stranianti tipici di Alex Giannascoli. Dopo 8 CD fra Bandcamp, autoprodotti e ora la Domino, con in mezzo svariati EP, il giovane cantautore statunitense pare aver trovato la definitiva maturità. “House Of Sugar” è il suo album più completo e affascinante, un “must-listen” per gli amanti dell’indie rock più eccentrico.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA, “All My Heroes Are Cornballs”

jpegmafia

Al terzo album e dopo l’esplosione da cantante di nicchia a rapper venerato da un largo seguito, JPEGMAFIA è tornato. “Veteran” (2018) non è stato un evento casuale: il rap caotico ed eternamente creativo di Barrington DeVaughn Hendricks si conferma una forza motrice devastante, facendo di “All My Heroes Are Cornballs” uno degli album di rap sperimentale migliori dell’anno.

Partiamo intanto dall’analisi della copertina e dei titoli della tracklist: il CD si annuncia lungo e non semplice da assimilare, con canzoni a volte sotto il minuto di durata e altre invece più articolate. Nella cover JPEGMAFIA ha vestiti quasi femminili, circostanza che in effetti si sposa bene col titolo del lavoro e del singolo di lancio: “tutti i miei eroi sono sdolcinati” e Perdonami Gesù, sono una facile rispettivamente. Insomma, le supposizioni sull’identità sessuale del Nostro possono partire, ma Hendricks è sempre stato molto riservato al riguardo e neanche in “All My Heroes Are Cornballs” trapelano indiscrezioni.

Gossip a parte, l’hip hop altamente innovativo e imprevedibile di JPEGMAFIA si conferma efficace: i pezzi più compiuti, come il già citato Jesus Forgive Me, I Am A Thot e Kenan vs. Kel, sono davvero ottimi. La struttura spezzettata del CD può risultare indigesta per alcuni, comprensibilmente (intermezzi come DOTS FREESTYLE REMIX e JPEGMAFIA TYPE BEAT sono fin troppo rumorosi), ma denota una creatività sempre all’erta non banale nello stereotipato panorama mondiale.

Testualmente, i riferimenti di JPEGMAFIA restano tanto vari quanto inclassificabili: troviamo rimandi a Bane, Michael Jackson (entrambi in Rap Grow Old & Die x No Child Left Behind), i Beatles (Post Verified Lifestyle), Brian Wilson dei Beach Boys (BBW), polemiche contro l’uso della forza da parte della polizia (PTSD) e a Gesù (Jesus Forgive Me, I Am A Thot e BUTTERMILK JESUS TYPE BEAT). In tutti i casi però resta indelebile l’abilità di JPEGMAFIA di assemblare brani credibili pur nel caos da lui stesso prodotto.

Il disco a volte risulta davvero difficile da seguire, ma ripetuti ascolti premiano gli ascoltatori. Mentre MIKE qualche mese fa aveva prodotto un CD sperimentale con un tema di fondo (la morte della madre), Hendricks si conferma tanto imprevedibile quanto incapace di dare coerenza ai suoi lavori. Ma proprio qui sta il bello no?

Voto finale: 8.

Brittany Howard, “Jaime”

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L’esordio solista della cantante degli Alabama Shakes arriva a quattro anni da “Sound & Color”, il lavoro che fece conoscere il gruppo americano al mondo intero, facendogli anche vincere tre Grammy Awards. La Howard si distacca dal blues-rock che ha reso celebri gli Alabama Shakes, dando spazio alla sua vena soul e non disdegnando incursioni nel synthpop.

“Jaime” è dedicato alla sorella di Brittany, morta all’età di 13 anni a causa di un cancro all’occhio. Questo evento ha tragicamente segnato l’infanzia della cantautrice statunitense, che essendo una donna omosessuale di colore nel sud degli Stati Uniti non ha mai avuto vita facile. Tutto questo substrato di esperienze è la base che tiene insieme le canzoni di “Jaime”: 11 brani tra loro diversi e variegati, ma con tematiche comuni. Ad esempio, in History Repeats la Nostra mette in guardia dal ripetersi della storia, se non staremo attenti. Invece altrove affiorano temi legati all’amore: Georgia tratteggia l’amore di una ragazzina per una più grande, Stay High sogna di vivere per l’eternità con l’amore della vita. 13th Century Metal è però la canzone più ricca di frasi significative: “I am dedicated to oppose those whose will is to divide us and who are determined to keep us in the dark ages of fear… I don’t know about you, but I’m tired of this bullshit and I wanna try to do the best that I can”.

Musicalmente, dicevamo all’inizio, il CD è diverso dalla proposta degli Alabama Shakes: mentre infatti il sound della band si caratterizza per essere retrò (non a caso piace molto a Jack White), Brittany Howard ha sempre un occhio per il passato della musica (evidenti le influenze di D’Angelo e Prince), ma riesce a suonare attuale soprattutto per le tematiche affrontate e il mix musicale che è “Jaime”, pieno di rimandi a soul, jazz, pop e rock. Stupiscono favorevolmente la romantica Georgia e la potente 13th Century Metal, mentre sono inferiori Presence e History Repeats.

Il disco non brilla quindi per coerenza, ma proprio qui risiede il fascino di “Jaime”: accanto a temi delicati la Howard riesce a non suonare mai pesante o monotona, creando un insieme vario ma anche discretamente organico. Non un’impresa facile.

Voto finale: 7,5.

Charli XCX, “Charli”

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Il terzo album ufficiale della nascente popstar Charli XCX arriva a ben cinque anni da “Sucker”. Non è però per niente vero che la giovane cantautrice britannica sia stata inattiva in questo lungo periodo: il 2017 l’ha vista produrre ben due mixtape, fra le opere migliori della sua produzione, “Number 1 Angel” e “Pop 2”.

Charli XCX è amata, oltre che dal pubblico, anche dalla critica: il suo ibrido fra pop da classifica, percussioni quasi punk e basi elettroniche rappresenta un passo avanti notevole per il pop. Non per questo però Charli ha mai rinunciato alle charts: le famosissime I Love It e Doing It, cedute rispettivamente alle Icona Pop e a Iggy Azalea, portano la sua firma. Può sembrare strana questa caratteristica di Charli XCX di essere d’avanguardia e mainstream allo stesso tempo, ma probabilmente è proprio qui che risiede il suo fascino.

Il CD, già dal titolo, si annuncia più introspettivo rispetto al passato: mentre in LP precedenti i temi principali erano rappresentati da party, serate travolgenti e l’amore in ogni sua sfumatura, in “Charli” la cantautrice nata Charlotte Aitchison analizza le parti più nascoste di sé. In Gone, ad esempio, con l’aiuto di Héloïse Letissier aka Christine And The Queens, Charli dichiara: “I feel so unstable, fucking hate these people”, la prima ammissione di vera fragilità da parte sua. In February 2017 invece si sente: “Sorry ’bout Grammy night, was lying on my mind, was in a different place, tortured and drifting by”. Il contrasto tra la ricerca della fama e l’inquietudine che ne deriva è evidente.

Musicalmente, il lavoro è un mix di tutte le influenze che hanno caratterizzato la carriera di Charli: dal pop elettronico e robotico di Next Level Charli, alla tropicalia di Warm (con le sorelle Haim più pop che mai), passando per la trap accennata di Click e le ballate Blame It On Your Love (con Lizzo) e Official, “Charli” pare quasi un modo di chiudere una pagina e aprirne un’altra. A brillare particolarmente è Sorry For You, grazie anche alla preziosa collaborazione di Sky Ferreira; invece Shake It è l’unica traccia veramente sbagliata. Non tutto fila, ma non si può non premiare il coraggio sia a livello musicale che testuale di Charli XCX, destinata con ogni probabilità a trovare il definitivo successo con “Charli”.

Voto finale: 7,5.

Bat For Lashes, “Lost Girls”

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Il quinto album del progetto Bat For Lashes trova Natasha Khan in piena nostalgia degli anni ’80. Il CD, centrato attorno alla storia di un personaggio immaginario (Nikki Pink) e delle sue compagne di avventure, ha quel retrogusto cinematografico che anche il precedente “The Bride” (2016) possedeva, ma rispetto a quest’ultimo spinge ancora di più sulle tastiere, per creare un album synthpop coerente e breve al punto giusto (38 minuti).

Partiamo subito da un assunto: l’innovazione dei lavori più ispirati della Khan, come “The Haunted man” (2012), manca in questo “Lost Girls”, tanto che il lavoro potrebbe benissimo essere una colonna sonora di Stranger Things. Ciò tuttavia non toglie fascino all’album, che anzi fiorisce pienamente proprio nei suoi pezzi più nostalgici, come l’iniziale Kids In The Dark e Feel For You, pezzi a metà fra Eurythmics e Chic.

Dicevamo prima che il CD è breve al tempo giusto: 10 brani per una durata inferiore ai 40 minuti generano un ascolto gradevole fin dal primo giro, con un replay value garantito dalla grande abilità vocale e di arrangiatrice di Natasha Khan. Ad esempio, canzoni apparentemente più ovvie come Desert Man e Jasmine guadagnano spessore dopo ripetute sessioni di “Lost Girls”. Vampires, il pezzo più inquietante della tracklist, ricorda i Cure. Il disco perde qualcosa in termini di qualità solo nel finale, ma i risultati restano buoni.

La cantautrice inglese, ormai quarantenne, in “Lost Girls” ha trovato la definitiva maturità artistica. La sua abilità di spaziare fra pop più commerciale e paesaggi quasi psichedelici la rendono un outlier nel panorama musicale, ma anche una maestra per artiste come Weyes Blood e Julia Holter. Il treno per il grande successo di pubblico potrebbe essere passato, ma Natasha Khan non ha alcuna intenzione di smettere di creare mondi paurosi ma allo stesso tempo affascinanti.

Voto finale: 7,5.

Liam Gallagher, “Why Me? Why Not.”

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Il secondo album solista dell’ex cantante degli Oasis prosegue nel solco tracciato dal precedente “As You Were” (2017): puro rock’n’roll, la voce di Liam al centro del mixaggio e melodie semplici quanto accattivanti. Mentre il fratello-coltello Noel negli ultimi lavori ha dato sfogo alla sua vena sperimentale, il più giovane dei Gallagher ha sempre mantenuto profilo e atteggiamento da rockstar. Era proprio per questa dualità del resto che gli Oasis ebbero tanto successo a cavallo fra i due millenni.

Le due tracce che aprono “Why Me? Why Not.” sono rimandi chiari e legittimi al glorioso passato di Liam: mentre Shockwave richiama i Rolling Stones, la tenera One Of Us è probabilmente la più bella ballata a firma Liam Gallagher dopo I’m Outta Time, tanto lennoniana quanto riuscita. Once è invece più prevedibile, mentre il pop-rock di Now That I’ve Found You riporta con la mente agli Oasis di inizio XXI secolo.

Le 11 tracce di “Why Me? Why Not.” sono sempre godibili; chi venisse qui per arrangiamenti rivoluzionari (ma perché farlo?) sarebbe deluso, ma i fan dei due Gallagher non possono chiedere di meglio. Sì, perché c’è pure un brano quasi sperimentale: Meadow pare ispirato da un consiglio di Noel, non fosse che la cosa pare altamente improbabile. Anche il piano sbilenco di Halo, d’altro canto, introduce elementi nuovi nella palette di Liam.

“Why Me? Why Not.”, già dal titolo e dalle interviste di lancio, era stato catalogato da Our Kid come un CD più rock, quasi punk. Beh, diciamo che la promessa è mantenuta solo a metà: non mancano i brani energici, ma anche le ballate sono ben rappresentate e, a dire il vero, Liam sembra più a suo agio in queste ultime. Ne è esempio, oltre a Once e One Of Us, anche Alright Now. Tra i brani rock più efficaci abbiamo Shockwave e Halo. Inferiori alla media invece Be Still e The River.

Liricamente, il lavoro è un mix di frasi motivazionali (“You’ve got to hold your head up high if you want to break the chains from your past life” canta in Meadow) e apparenti allusioni al fratello Noel: “You’re a snake” urla LG in Shockwave, ma altrove pare meno spavaldo, “At times I wonder if you’re listening” sentiamo dirgli in Alright Now.

Questo LP prosegue efficacemente il ritorno di Liam Gallagher dopo i non fastosi anni dei Beady Eye: mescolando rock classico con elementi più innovativi “Why Me? Why Not.” manca dell’effetto sorpresa di “As You Were”, ma senza dubbio sarà apprezzato dalla sua fanbase e manterrà alta la bandiera degli Oasis ancora per qualche tempo.

Voto finale: 7,5.

M83, “DSVII”

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Il nuovo CD degli M83, la band del francese ormai americanizzato Anthony Gonzalez, arriva a tre anni da “Junk”, il più deludente album mai pubblicato dal gruppo, e 12 anni dopo “Digital Shades Vol. 1”, il vero predecessore di “DSVII”. Anche qui infatti trovano spazio le composizioni ambient care a Gonzalez non inserite in un LP vero e proprio del gruppo. Tuttavia, mentre il primo volume era una vera e propria raccolta di b-sides, questo “DSVII” sembra quasi narrare una storia: pare infatti la colonna sonora di un videogioco di ruolo vecchio stampo, con atmosfere evocative e titoli come Meet The Friends e Temple Of Sorrow.

Il CD, molto articolato (15 canzoni per 57 minuti), non è però per questo pesante; anzi, Gonzalez e compagni riescono a creare melodie sempre accattivanti, retrò ma mai eccessivamente nostalgiche o fini a sé stesse. Ne sono esempio l’introduttiva Hell Riders, che illustra fin da subito il mood del lavoro, così come A Bit Of Sweetness. Altrove, è vero, troviamo pezzi meno riusciti come Colonies, troppo lenta, ma non rovinano il risultato complessivo del disco in maniera eccessiva.

In conclusione, la passione per le soundtrack di Anthony Gonzalez è cosa nota: tra 2007 e 2019 (l’intervallo di tempo intercorso fra “Digital Shades Vol. 1” e “DSVII”) ha composto tanti LP quante colonne sonore (3). Questo album è il perfetto punto d’incontro fra le due tendenze degli M83 e un deciso passo avanti rispetto al pessimo “Junk”. Certo, chi si aspettasse di trovare in “DSVII” altre hit trascinanti come Midnight City o Graveyard Girl resterà deluso, ma il disco è convincente e gli amanti dell’ambient ne saranno entusiasti.

Voto finale: 7,5.

Jenny Hval, “The Practice Of Love”

jenny hval

Il nuovo lavoro della cantautrice norvegese Jenny Hval è il suo album più accessibile. Lei, un tempo nota per il suo “estremismo pop” fatto di ricerca e uso dell’elettronica più d’avanguardia, pare più propensa a piacere che a piacersi in questo “The Practice Of Love”; un cambiamento non da poco, ma senza dubbio apprezzabile.

Il CD è snello (8 canzoni per 34 minuti) e per questo facile da digerire già al primo ascolto: mentre però fino a “Blood Bitch” (2016) i dischi di Jenny erano ostici e sperimentali, ma proprio per questo innovativi, in “The Practice Of Love” l’artista norvegese, come già accennato, cerca il consenso del pubblico più che dei critici. Pezzi come High Alice, ad esempio, sono quasi mainstream; Accident l’avvicina a Julia Holter. Nella title track ritorna invece la vena più sperimentale della Hval, dove varie voci si sovrappongono sullo sfondo di tastiere sognanti.

The Practice Of Love è il baricentro di un disco per altri versi davvero notevole: Ashes To Ashes è un bel pezzo quasi anni ’80, Thumbsucker è dolcemente sospesa fra spirito pop e sperimentalismo, la già ricordata High Alice è un altro highlight. A convincere meno è Six Red Cannas, ma non intacca eccessivamente il risultato finale. In certe parti del disco si arriva addirittura a flirtare con la trance music, segno che Jenny Hval ha ancora voglia di testare il proprio pubblico con proposte eccentriche ma mai campate in aria.

In conclusione, Jenny Hval compie un deciso passo avanti in una carriera già molto interessante: “The Practice Of Love” è un CD non perfetto, ma certo affascinante e fa presagire un futuro ricco di successo per la giovane cantautrice norvegese.

Voto finale: 7,5.