Recap: gennaio 2019

È già tempo di recap ad A-Rock. Gennaio è stato un mese molto interessante per la musica, caratterizzato dai nuovi lavori di artisti del calibro di Deerhunter, James Blake, Sharon Van Etten e Charlotte Gainsbourg.

Deerhunter, “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?”

deerhunter

Giunti ad un punto ormai dove molte band loro coetanee si sono già sciolte (i Walkmen, ad esempio) oppure vivacchiano con tentativi di reinventarsi più o meno riusciti (si vedano Bloc Party e Strokes), i Deerhunter si sono guadagnati un posto apprezzabile nel pantheon delle band indie rock. Sempre pronti a esplorare nuovi territori, capitanati dall’indomito Bradford Cox, i Deerhunter hanno saputo entrare nel cuore dei fans grazie a lavori superlativi come “Microcastle” (2008) ed “Halcyon Digest” (2010).

Il precedente lavoro “Fading Frontier” del 2015 aveva fatto intravedere il lato più dream pop del gruppo. Parlando della “nuova vita” capitatagli dopo il terribile incidente d’auto dell’anno prima che lo aveva quasi ucciso, Cox aveva trovato anche il modo di affrontare temi a lui molto cari: la discriminazione per le persone omosessuali, la solitudine… il tutto però con melodie più dolci del 95% delle canzoni precedenti dei Deerhunter.

Il nuovo lavoro “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?” prosegue sulla falsariga tracciata da “Fading Frontier”, approfondendo il lato psichedelico dei Deerhunter. Ciò è evidente in brani come la strumentale Greenpoint Gothic e Tarnung. I pezzi più riusciti sono, però, quelli più accostabili ai capolavori del gruppo, in cui l’abilità strumentale dei membri dei Deerhunter può venire allo scoperto: il primo singolo Death In Midsummer è ottimo, così come No One’s Sleeping, con bellissima coda strumentale capitanata dal chitarrista Lockett Pundt. Degna di nota anche What Happens To People?. L’unica traccia davvero debole è la confusa Détournement, ma i risultati restano complessivamente buoni.

Liricamente, Cox ritorna su sentieri già percorsi, ma mai in maniera banale: in Death In Midsummer riprende il tema della morte, questa volta degli amici, cantando “They were in hills, they were in factories. They are in graves now”. Il pessimismo ritorna in What Happens To People?: “What happens to people? They quit holding on. What happens to people? Their dreams turn to dark”. Ma è in Détournement che abbiamo la lirica più drammatica: “Your struggles won’t be long and there will be no sorrow on the other side.”

In conclusione, abbiamo già un pretendente alla lista dei migliori 50 album del 2019: i Deerhunter si confermano band affidabile in termini di qualità compositiva, con una discografia davvero eccellente e varia. Complimenti, Bradford & co.

Voto finale: 8.

Sharon Van Etten, “Remind Me Tomorrow”

sharon van etten

Il quinto album non autoprodotto dell’artista americana Sharon Van Etten è una reinvenzione artistica di alto livello: alzando il volume dei sintetizzatori, Sharon compie una svolta simile a quella dei Tame Impala ai tempi di “Currents”, con ottimi risultati.

La Van Etten era assente dalla scena musicale da 4 anni: al 2015 risale infatti l’EP “I Don’t Want To Let You Down”. Tuttavia, questi non erano stati anni di letargo per lei: nel 2017 aveva fatto una comparsata in Twin Peaks, la serie cult di David Lynch. Inoltre, è diventata mamma e ha finalmente trovato una relazione stabile, riuscendo a dimenticare quella vissuta in gioventù che aveva formato molti dei riferimenti dei suoi CD precedenti, fatta di abusi e continue umiliazioni.

Il disco si apre con la lenta ballad I Told You Everything, un inizio non trascendentale ma che prepara bene il terreno per il bellissimo secondo brano, No One’s Easy To Love, uno degli highlight di “Remind Me Tomorrow”. Comeback Kid ricorda da vicino le ultime incarnazioni di Annie Clark, mentre Jupiter 4 è una dolce nenia che alla lunga conquista. Molto interessante You Shadow, meno Malibu. La chiusura dell’album è epica: Hands è potente al punto giusto, Stay invece è una ballata che ricorda la vecchia Sharon.

Dal punto di vista testuale, “Remind Me Tomorrow” sembra ripartire da dove ci eravamo lasciati con “Are We There” (2014): I Told You Everything infatti inizia con “You said, ‘Holy shit, you almost died’”, riferendosi probabilmente al fidanzato violento cui avevamo già accennato. Altrove, però, il tono di Sharon è più minaccioso: “You’ll run” urla in Memorial Day. La Van Etten, tuttavia, non ha certezze di come il tutto finirà: “I don’t know how it ends” canta in Stay, una sensazione che purtroppo tutti proviamo di fronte all’amore.

In generale, il forte cambiamento impresso da Sharon al suo iconico stile, che aveva ispirato artiste come Phoebe Bridgers e Julien Baker, rappresenta un beneficio per lei dal punto di vista artistico. Avere una maggiore versatilità è sempre fondamentale per garantirsi una lunga e prolifica carriera; se poi la qualità resta così alta, non possiamo che esserne felici.

Voto finale: 8.

James Blake, “Assume Form”

james blake

Il quarto CD del talentuoso produttore e musicista inglese James Blake è un deciso cambio di direzione. Mentre infatti agli esordi James si distingueva per un’elettronica d’avanguardia, mescolata abilmente con R&B e pop da camera, “Assume Form” vira decisamente verso il lato più pop della sua palette sonora. Vantando collaborazioni del calibro di Travis Scott e Moses Sumney, fra le varie presenti nel disco, James Blake è quindi diventato un cantautore vero e proprio, con forti influenze R&B e hip hop (!).

La title track, che apre l’album, in realtà richiama più le atmosfere di “Overgrown” (2013): pianoforte in primo piano, atmosfere raffinate e produzione impeccabile. La prima vera sorpresa arriva con Mile High, ottimo pezzo che vanta i featuring di Scott e Metro Boomin: sembra quasi di sentire un pezzo trap ma con sonorità decisamente più eteree e meno tamarre. Insomma, un possibile filone di un hip hop per un pubblico più raffinato. Buona anche la seguente Tell Them, con Metro Boomin di nuovo coinvolto, stavolta insieme all’astro nascente dell’R&B Moses Sumney. “Assume Form” non a caso è il primo LP a firma James Blake dove le collaborazioni sono numerose: oltre ai già menzionati Scott, Sumney e Metro Boomin abbiamo anche la promettente Rosalia e André 3000 (ex Outkast).

Accanto alla forte influenza della musica black, ritorna il James più malinconico, che pervadeva i precedenti dischi, soprattutto “The Colour In Anything” (2016): la chiusura Lullaby For My Insomniac ricorda quasi un brano gospel mescolato con Meet You In The Maze o Measurements, mentre Are You In Love? è una ballata molto romantica, così come Don’t Miss It. Non convince appieno Into The Red, mentre la spagnoleggiante Barefoot In The Park è un esperimento stranamente affascinante. Buona Power On, che come il titolo annuncia dà un po’ di energia ad un finale altrimenti troppo monocorde.

Una grande novità risiede anche nella parte testuale di “Assume Form”: Blake è finalmente pronto a condividere molti più dettagli della sua vita personale, tanto che già nella title track dichiara: “I will be touchable, I will be reachable”, lasciando da parte finalmente quell’alterità rispetto al mondo circostante che spesso pervadeva i suoi passati lavori. Anche se a volte anche lui capisce che essere al centro dell’attenzione può essere pesante (“Everything is about me, I am the most important thing” canta in Don’t Miss It), l’abbandono della timidezza è un fatto positivo e ci fa intravedere il lato più intimo del cantante inglese.

In conclusione, “Assume Form” non è decisamente il miglior LP della discografia di James Blake, tuttavia apre nuove interessanti prospettive per l’ancora giovane cantante britannico. Se in futuro ritornerà l’innovatore che è stato finora, potremo star certi che la sua carriera potrà brillare ancora per molti anni.

Voto finale: 7,5.

Charlotte Gainsbourg, “Take 2”

take 2

La cantante e attrice francese Charlotte Gainsbourg, figlia del grande Serge e di Jane Birkin, era tornata nel 2017 dopo ben otto anni di assenza dalla scena musicale. “Rest” era dedicato alla sorellastra Kate, suicidatasi nel 2013 buttandosi da un balcone. Lo shock aveva spinto Charlotte a cantare tutti i bei momenti passati con lei, creando un CD pop ma allo stesso tempo denso di contenuti non facili.

“Take 2” è quindi uno stretto compagno di “Rest”: le sonorità dei tre inediti sono vicine a quelle del disco vero e proprio, mentre le due versioni live (una cover di Runaway di Kanye West e Deadly Valentine) fanno capire quanto efficace sappia essere la Gainsbourg anche su un palco.

L’EP si apre con Such A Remarkable Day, un semplice brano french pop molto adatto ad esaltare le abilità canore e interpretative di Charlotte; Bombs Away è invece un brano più electropop, il meno riuscito del lotto. Lost Lenore sarebbe invece stata benissimo in “Rest”, essendo pomposa ma evocativa al punto giusto.

Runaway è il pezzo migliore del breve lavoro: la Gainsbourg reinterpreta la stupenda canzone di Kanye in maniera decisamente più intimista, con risultati davvero ottimi. Infine, Deadly Valentine si conferma uno dei pezzi più belli di “Rest”.

In conclusione, “Take 2” è un EP immancabile per gli amanti dell’artista francese, che si conferma degna erede di Serge Gainsbourg e Jane Birkin.

Voto finale: 7,5.

Recap: novembre 2017

Novembre, come da tradizione ad A-Rock, è l’ultimo mese eleggibile per quanto riguarda la lista dei migliori 50 album dell’anno. Dunque, i dischi usciti a dicembre meritevoli di menzione entreranno nella lista dell’anno successivo (come successe a D’Angelo). Nel mese appena finito, le cantanti l’hanno fatta da padrone: abbiamo infatti i nuovi album di Julien Baker e Fever Ray. Inoltre, recensiremo anche Björk, Charlotte Gainsbourg, Angel Olsen e Taylor Swift. L’unico maschietto è Noel Gallagher, con i suoi Noel Gallagher’s High Flying Birds. Buona lettura!

Fever Ray, “Plunge”

Plunge

Erano otto anni che Karin Dreijer non produceva un album solista; la metà femminile dei Knife (l’altra era il fratello Olof), con l’esordio solista “Fever Ray” (2009), aveva fatto capire che, anche senza i Knife, per lei un radioso futuro nel mondo della musica era possibile. “Plunge” conferma ulteriormente questo fatto: attraverso canzoni a volte complesse, altre quasi pop, Karin appare in splendida forma, tanto da produrre uno dei migliori album di musica elettronica dell’anno.

I temi trattati dalla cantante svedese riguardano soprattutto l’amore e il sesso; accanto ad essi, però, un messaggio politico non può mancare. Spesso infatti anche i Knife avevano affrontato temi legati alla sfera pubblica, per esempio i diritti degli omosessuali o le storture del capitalismo. Fever Ray, parlando dell’amore carnale, denuncia la non parità dei diritti fra maschi e femmine e le violenze a cui le donne sono sottoposte da parte di uomini prepotenti, questione quanto mai attuale in queste settimane.

I pezzi migliori sono Must’t Hurry, This Country e Red Trails. Convincono meno Falling, IDK About You e la parte centrale del disco, tuttavia i risultati complessivi sono apprezzabili. Restano superiori i due LP più maturi dei Knife, “Silent Shout” (2006) e Shaking The Habitual” (2013). Tuttavia, l’eclettismo e la cura maniacale di “Plunge” lo rendono imprescindibile per gli amanti dell’elettronica e dei Knife.

Voto finale: 8.

Julien Baker, “Turn Out The Lights”

julien baker

Il secondo album della giovane cantante americana Julien Baker è un ottimo esempio della nouvelle vague del mondo indie, caratterizzata da una più massiccia presenza di donne rispetto al passato. Ricordiamo ad esempio Courtney Barnett e Angel Olsen; adesso anche la Baker fa parte del gruppo.

“Turn Out The Lights” combina piacevolmente pianoforte e chitarre, con la bella voce di Julien a fare da collante alle canzoni. La prima vera traccia del disco, dopo la breve intro Over, è già espressiva del tono del disco: Appointments ha un mood fortemente malinconico, batterie e basso sono completamente assenti e il testo parla di appuntamenti falliti e relazioni finite. Su questa falsariga si sviluppa poi tutto il disco.

I testi, dunque, sono molto pessimisti: già nell’esordio “Sprained Ankle” avevamo notato questo male di vivere nella Baker, sentimento che sembra essersi acuito in “Turn Out The Lights”. Le liriche, infatti, contengono versi come “Do I deserve to be here? Will I ever be ok?” oppure “There’s more whiskey than blood in my veins”. Insomma, si accenna a tendenze suicide ed alcolismo senza mezzi termini. La disperazione tuttavia non angustia le melodie, che restano potenti e toccanti allo stesso tempo.

La Baker si inserisce, musicalmente parlando, a cavallo fra dream pop e indie rock: un po’ Beach House e un po’ Wolf Alice, diciamo. Niente di radicale, quindi, ma il CD resta davvero bellissimo e degno di più di un ascolto. Fra le tracce migliori abbiamo la già citata Appointments e la title track; buona anche la conclusiva Claws In Your Back. Meno riuscite Shadowboxing e Sour Breath (da segnalare comunque per le tristissime liriche “The harder I swim, the faster I sink”), ma il risultato complessivo resta ottimo.

In conclusione, il talento di Julien Baker sembra essere definitivamente sbocciato: con una voce così, poi, tutto diventa più facile. Speriamo che la disperazione che sembra pervadere la giovane cantante non si riveli troppo pesante per la sua apparentemente fragile anima.

Voto finale: 8.

Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?”

Who Built The Moon

Noel è giunto ormai al terzo album con la sua nuova band, gli High Flying Birds. La sua è stata una graduale evoluzione: partito nel primo CD della sua nuova avventura con canzoni molto simili agli Oasis, già in “Chasing Yesterday” (2015) si erano intraviste aperture verso rock à la Strokes e psichedelia del tutto inedite per lui. Questo “Who Built The Moon?” è il miglior disco a firma Noel Gallagher da tanti anni: oltre a proporre nuovi generi musicali ad un pubblico che era abituato al britpop vecchia maniera, Noel produce tre-quattro canzoni davvero notevoli, che entrano di buon diritto fra le sue migliori.

L’inizio è sorprendente: Fort Knox è un pezzo molto duro, quasi progressive, per un ex Oasis come lui. Ma le sorprese non sono finite: il più anziano dei due fratelli coltelli degli Oasis infatti si avventura nel glam rock (Keep On Reaching), utilizzando poi in altri pezzi addirittura il vocoder e mescolando influenze jazz (Holy Mountain). Le tastiere, poi, hanno un discreto peso. Insomma, un LP così ambizioso e innovativo da un cinquantenne non ce lo aspettavamo proprio. Merito anche del produttore, David Holmes, noto anche come musicista ardito e innovatore nel campo dell’elettronica.

Menzione finale per Dead In The Water, pezzo non incluso nella tracklist ufficiale ma acquistabile come traccia bonus: ricorda molto le b-sides migliori degli Oasis, in particolare Talk Tonight e Half The World Away. Ottime anche It’s A Beautiful World e She Taught Me How To Fly. Da non trascurare anche Black & White Sunshine. Meno riuscite Be Careful What You Wish For e If Love Is The Law, ma non intaccano eccessivamente il risultato complessivo.

In conclusione, il 2017 ha visto sfidarsi i fratelli Gallagher, oltre che con gli soliti insulti via social o via intervista, anche musicalmente: mentre Liam, con “As You Were”, ha pubblicato un CD “conservatore”, chiaramente destinato ai fan prima maniera degli Oasis, Noel sembra aver trovato una sua nicchia più interessante, ma forse più rischiosa a fini puramente economici. Tuttavia, non si può non elogiare la voglia di sperimentare di uno degli artisti inglesi apparentemente più rigidi nelle loro posizioni degli ultimi venticinque anni. Aspettiamo con grande interesse la sua prossima prova.

Voto finale: 8.

Charlotte Gainsbourg, “Rest”

rest

“Rest” è il quinto album della figlia del grande Serge Gainsbourg e di Jane Birkin, il primo in studio dopo 7 anni, infatti “IRM” risaliva al 2010. Nel periodo fra i due lavori, Charlotte Gainsbourg si è dedicata principalmente alla sua carriera di attrice, recitando ad esempio nei due capitoli di “Nymphomaniac”. La necessità per lei di tornare a scrivere musica deriva dall’improvvisa morte della sorella Kate, suicida nel 2013. La disperazione per la sua morte pervade i testi delle 11 canzoni di “Rest”, cantate per lo più in francese. Il genere affrontato è un french pop classico, nella scia di Air e Phoenix, ma con una malinconia di fondo tipica di album derivanti da lutti personali: basti pensare alla desolazione degli ultimi lavori di Sufjan Stevens, Nick Cave e Mount Eerie, tutti artisti colpiti da morti di familiari.

I testi sono, come detto, molto drammatici e toccanti: in Rest (che in italiano significa “riposo”), la title track, Charlotte pronuncia “reste”, cioè “resta” in francese, in cui la canzone è cantata; anche musicalmente, la traccia è un highlight del CD. Molto belle anche Deadly Valentine e I’m A Lie; Kate, già dal titolo, è dedicata alla sorella e contiene il verso forse più triste: “on devait vieillir ensemble”, cioè “dovevamo invecchiare insieme”. Riuscita, infine, la lunghissima Les Oxalis, che chiude l’album. Convincono meno Lying With You e Silvia Says, ma non intaccano eccessivamente il risultato complessivo.

Da sottolineare, infine, il parco ospiti di rilievo presente nel disco: da Guy-Manuel de Homem-Christo dei Daft Punk a Paul McCartney, passando per Owen Pallett, “Rest” è il CD di Charlotte Gainsbourg più ricco di star della musica.

In conclusione, “Rest” non è un LP facile, ma era difficile auspicare il contrario. Pur non toccando le vette di disperata bellezza di un Sufjan Stevens, Charlotte Gainsbourg rende omaggio nel modo migliore alla sorella, sottolineando una volta di più che il talento compositivo, nella famiglia Gainsbourg, è passato direttamente dal padre Serge a lei.

Voto finale: 7,5.

Björk, “Utopia”

utopia

“Utopia” rappresenta un ritorno alle origini per Björk. L’artista islandese, conosciuta per la sua grande creatività, dipanata non solo nell’arte musicale, suona una musica davvero particolare: a metà fra elettronica e pop, con tracce però sempre sperimentali e mai del tutto mainstream. I suoi ultimi lavori, almeno fino a “Vulnicura” (2015), erano contraddistinti da melodie più astratte e ancora meno immediate. “Vulnicura” aveva rappresentato un CD sofferto per Björk, essendo dedicato alla rottura con il compagno di lunga data Matthew Barney. Il lavoro era davvero triste rispetto alla solita Björk, ma non per questo meno efficace.

Questo “Utopia” segna quindi il ritorno a sonorità più conosciute per lei, come già anticipato. La lunghezza eccessiva può spaventare gli ascoltatori casuali, ma i fan della cantante islandese troveranno sicuramente delle chicche: a partire dal singolo The Gate, passando per Future Forever e Blissing Me, Björk aggiunge al suo canone degli ottimi innesti. Meno convincente la parte centrale del disco, fin troppo autoreferenziale e non avvincente. Ne sono esempio Body Memory, troppo lunga, e Loss.

Peccato, perché “Utopia”, pur non arrivando ai livelli di “Homogenic” e “Post”, i due capolavori anni ’90 di Björk, è comunque un buon LP. Con 2-3 canzoni/intermezzi in meno, il voto sarebbe stato ancora maggiore. Ma da un’artista che da più di 30 anni ci allieta, non possiamo aspettarci sempre radicali e riuscite innovazioni, no?

Voto finale: 7.

Angel Olsen, “Phases”

phases

“Phases” è il quarto album di Angel Olsen, una delle artiste indie rock più quotate al momento. La sua voce, davvero magnifica, è probabilmente il suo miglior asset; tuttavia, specialmente con i suoi precedenti CD “Burn Your Fire For No Witness” (2014) e “My Woman” (2016), anche la sua sicurezza e abilità nello scrivere canzoni varie e ambiziose erano cresciute notevolmente.

“Phases” non è da considerarsi propriamente un LP di inediti: raccoglie infatti b-sides e demo di canzoni registrate durante le sessions dei due dischi citati precedentemente. È quindi un’operazione simile a quella fatta dai Beach House quest’estate con “B-Sides And Rarities”: Olsen vuole probabilmente aggiornare i suoi fans su come è arrivata a comporre i due CD che l’hanno resa famosa e amata da pubblico e critica.

L’inizio è ottimo: sia Fly On Your Wall che Special sarebbero state benissimo in un disco vero e proprio della Olsen e sarebbero buoni singoli di lancio per molti artisti. La parte centrale si fa più acustica, quasi folk, tanto che sembra di tornare alle origini, quando cioè la giovane cantante si dilettava con folk e country. Ciò culmina nel finale di Endless Road, ballata acustica molto breve e raccolta, bella chiusura di un disco certamente non perfetto, ma comunque gradevole.

Tra i 12 brani che compongono il CD, spiccano una cover di Bruce Springsteen (Tougher Than The Rest) e una riedizione di For You di Roky Erickson. Meno bella California, contenuta nella parte mediana del disco.

Succede molto di rado che un album di b-sides possa essere accostato ai dischi veri e propri della produzione di un’artista: forse solo Oasis e U2 ai tempi d’oro potevano vantarsi di ciò. Ciononostante, Angel Olsen prova ancora una volta la sua apparente facilità di scrittura: se le canzoni scartate sono così, non resta che aspettare il suo nuovo LP, certi che qualsiasi direzione la bella Angel prenderà sarà un successo.

Voto finale: 7.

Taylor Swift, “Reputation”

Taylor Swift

Questo è già il sesto album a firma Taylor Swift, una delle pop star più famose al mondo. Partita mescolando country e pop, i suoi primi tre lavori non erano memorabili, malgrado il crescente successo. Da “Red” (2012) in poi, però, anche la critica ha cominciato a riconoscerne le doti compositive; ciò è sottolineato dal successo di “1989” (2014), che anche i critici riconoscono come un moderno classico per gli amanti del pop. Per questo “Reputation” era molto atteso: il primo singolo non aveva per nulla convinto, Look What You Made Me Do sembrava infatti un pessimo anticipo per il CD e ne rappresenta il brano peggiore. Invece, non tutto è da buttare nel disco: probabilmente l’abbraccio di Taylor al pop più carico e “smaccato” non ha avuto il successo sperato, tuttavia il risultato complessivo è discreto.

La partenza è buona: …Ready For It? è un’ottima intro al disco, che si caratterizza come già anticipato per basi molto potenti, più simili all’hip hop e all’R&B che al pop di Lorde o St. Vincent. La seconda traccia sgancia già i due super ospiti presenti nel disco, Ed Sheeran e Future; la canzone, End Game, non è indimenticabile. Delicate, invece, è una ballata minimale e riuscita, più vicina a “1989”; lo stesso dicasi per Dress.

Il problema con “Reputation” è rappresentato soprattutto dall’elevato numero di canzoni presenti, 15, e dalla durata, 55 minuti, che sono chiaro segnale della presenza di tracce filler, quindi evitabili, cosa che non accadeva ad esempio in “1989”. Ne sono esempio So It Goes… e Don’t Blame Me. Non riuscita nemmeno This Is Why We Can’t Have Nice Things, troppo prevedibile. Gradevoli invece Gorgeous, che se non altro ha un ritmo ballabilissimo pur non essendo tamarra, e Getaway Car, potenziale singolo.

I temi affrontati in “Reputation”, come già il titolo indica, hanno soprattutto a che fare con la percezione che Taylor ha della sua fama e di come il pubblico la vede: come semidea oppure come ennesimo prodotto dello star system. Del resto, lei non ha fatto molto per smentire la seconda opinione: tra le liti con Kanye West e i flirt con attori e cantanti famosi, tutto nella sua vita sembra finto e fatto solo per far parlare di sé. Ognuno continuerà a vederla in un modo o nell’altro, anche dopo questo CD: è comunque da elogiare la sua volontà di aprirsi e narrare (onestamente?) i propri sentimenti.

In conclusione, “Reputation” è un altro passo in avanti nella discografia di Taylor Swift: il passaggio dal country al pop è definitivamente compiuto, tanto che spesso sembra di sentire una canzone di The Weeknd o Flume piuttosto che la vecchia Taylor (evidente tutto ciò in Dancing With Our Hands Tied). Il risultato finale non è certamente un capolavoro, ma nemmeno il fiasco che alcuni preventivavano: diciamo che ci fa sperare di sentire meno tracce riempitivo e più ballate da parte della bella artista americana. Non è un caso che la seconda parte del disco, più acustica, sia migliore della prima. Solo allora potremmo davvero parlare di capolavoro.

Voto finale: 6,5.