“Heroes”, il capolavoro di David Bowie

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Una foto di David Bowie risalente al periodo berlinese.

Siamo nel 1977: David Bowie si è trasferito a Berlino per sfuggire all’autodistruzione del periodo americano, dove (parole sue) andava avanti nutrendosi di latte, peperoncini e… cocaina. Insomma, una dieta piuttosto dannosa per il fisico di qualsiasi essere umano. Ma non, musicalmente parlando, per il Duca Bianco: in America compose album ormai cult come “Young Americans” (1975) e il magnifico “Station To Station” (1976).

Dopo il tour seguito a quest’ultimo lavoro, Bowie decise dunque di tornare in Europa, ma non in Gran Bretagna, il suo paese natale. Lui, affascinato dalla cultura tedesca (anche da Hitler), pensò che ritrovare pace e serenità proprio nel cuore del continente gli sarebbe servito a rimettersi in sesto e mantenere l’ispirazione febbrile di quegli anni. Lì nacque, con la collaborazione di Brian Eno, il padre della musica ambient, la celeberrima “trilogia berlinese”. Bowie ed Eno collaborarono infatti in tre dei CD più importanti degli anni ’70, vale a dire “Low”, il già citato “Heroes” (entrambi del 1977) e “Lodger” (1979).

David Bowie era all’apice della creatività e della capacità di mescolare generi in maniera ardita come quasi nessuno aveva fatto fino a quel momento: funk, rock, elettronica, soul… Tutto si ritrova perfettamente calato nella trilogia berlinese. Se “Low” è caratterizzato da brani velocissimi nella prima parte e suite elettroniche nella seconda, rigidamente divise, in “Heroes” troviamo le due componenti più equamente distribuite. Perso l’effetto sorpresa della collaborazione con Eno, David stupisce il pubblico e la critica con la chiamata di Robert Fripp, già nei King Crimson. Le sue schitarrate rendono l’album magnifico strumentalmente; la perfetta voce di Bowie fa il resto.

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L’iconica copertina di “Heroes”.

Ma parliamo delle canzoni: gli amanti del rock saranno pienamente soddisfatti da pezzi magnifici come Beauty And The Beast e Joe The Lion. La title track, beh, non ha bisogno di presentazioni: anche chi odia Bowie non può non inchinarsi di fronte alla limpida bellezza di Heroes, un inno per i più sfortunati e per chi non molla mai, nemmeno di fronte alle peggiori avversità. Può di diritto essere eletto miglior canzone rock del decennio.

Gli amanti del Bowie più sperimentale, tuttavia, non possono dirsi delusi: la seconda parte di “Heroes” traccia il percorso per molta della musica elettronica che verrà. Ricordiamo in particolare V-2 Schneider (già nel titolo tributo ai Kraftwerk) e Moss Garden. I 40 minuti del CD sono poi suggellati dall’ammaliante The Secret Life Of Arabia, sottovalutata ma davvero riuscita.

A 40 anni dall’uscita, “Heroes” mantiene intatto il suo fascino: ascoltandolo, si capisce pienamente l’importanza della figura del Duca Bianco per la musica moderna e la perdita subita il 10 gennaio 2016, giorno della sua morte. Il CD si staglia, non a caso, come uno dei capisaldi della discografia bowieana.

Voto finale: 9.

“Revolver”: l’album che portò i Beatles nell’Olimpo della musica

BEATLES PICTURED IN PHOTO RELEASED BY CAPITOL RECORDS

I Beatles nel 1966, anno della pubblicazione di “Revolver”.

1966: sembra passato chissà quanto tempo! In effetti, di cambiamenti negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo visti molti, alcuni di incalcolabile importanza: progressi tecnologici, invenzioni fondamentali (computer, telefono cellulare)… Anche musicalmente di strada ne è stata fatta parecchia; molto, se non tutto il pop/rock contemporaneo, deriva dai Fab Four.

I Beatles erano già delle celebrità in tutto il mondo: partiti dal comporre canzonette apparentemente ingenue (ma in realtà affascinanti ancora oggi, basti pensare a Love Me Do o Twist And Shout), il quartetto di Liverpool era già arrivato alla settima fatica in studio. Colpisce la continua produzione di singoli e LP da parte dei Beatles: a quei tempi le attese superiori ai due anni significavano quasi sicuramente crisi all’interno del gruppo (anche i Beach Boys, ad esempio, avevano una creatività “torrenziale”). Fatto sta che Paul, John, George e Ringo erano davanti a una svolta nella loro carriera, quella che li avrebbe definitivamente consacrati come dei veri geni musicali.

Con “Rubber Soul” (1965) erano arrivati alla perfezione pop, basti sentire la squisita Michelle o Drive My Car. Con “Revolver”, i Fab Four giungono ad un livello decisamente superiore: in questo CD, ancora oggi pieno di sorprese ad ogni ascolto, troviamo marcate influenze della musica indiana e (addirittura!) tematiche politiche. In Taxman, ad esempio, si critica l’eccessiva imposizione fiscale inglese dell’epoca. Musicalmente, beh, serve almeno un paragrafo a sé stante.

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La copertina di “Revolver”.

Love You To è la più “indianeggiante” delle canzoni e anticipa l’inarrivabile capolavoro del complesso inglese, quel “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) da molti definito “il miglior album di tutti i tempi”. Poi abbiamo le gemme più pop: la celeberrima Yellow Submarine, la super-ottimistica Good Day Sunshine e la bellissima She Said She Said racchiudono l’intera discografia degli Oasis. Eleanor Rigby sembra quasi una canzone da camera, con quegli archi così prominenti: una volta in più il genio compositivo di McCartney viene messo in evidenza. Non male anche la più rockettara Doctor Robert. La conclusiva Tomorrow Never Knows è ancora oggi per certi versi misteriosa: come hanno fatto questi quattro a comporre un pezzo così avanti sui tempi e mantenere un tale successo popolare, cosa che per esempio non successe ai Beach Boys con il pur magnifico “Pet Sounds”? Probabilmente perché il pubblico, anche quello più semplice, non poteva resistere al fascino delle melodie di questi quattro (ok, tre più Ringo) geni musicali.

Ecco perché “Revolver” è ancora oggi un CD fortemente consigliato, uno di quelli davvero cruciali per capire il rock e il pop successivo. Le influenze sugli artisti successivi sono immense: dai Blur ai già citati Oasis, dai Verve ai Pulp… Insomma, tutti (o quasi) hanno dovuto fare i conti con questo capolavoro. Semplicemente, uno degli album più importanti della storia della musica moderna.

Voto finale: 10.

“Is This It” e la rinascita del rock

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Gli Strokes come apparivano nel 2001: giovani e sfrontati.

Siamo nell’estate 2001: a New York è sindaco Rudy Giuliani, il presidente americano è George W. Bush, le Torri Gemelle sono ancora in piedi… Insomma, erano tempi decisamente differenti da quelli odierni. Musicalmente parlando, l’anno precedente aveva visto l’uscita del fondamentale “Kid A” dei Radiohead, destinato a cambiare radicalmente lo scenario musicale. Il rock di una volta (quello dei Velvet Underground e dei Led Zeppelin, tanto per capirsi) pareva ormai morto e sepolto, a causa dell’invasione di elettronica e rock sperimentale, oltre che di imitatori dei Radiohead (vero Coldplay e Muse?); l’hip hop non era ancora inflazionato come adesso.

Cinque ragazzi newyorkesi, di buona famiglia, decisero che le cose non dovevano andare così. Dopo essersi fatti conoscere con il breve EP “The Modern Age” (contenente la omonima celebre canzone), gli Strokes diedero una scossa clamorosa all’indie rock con l’uscita dell’album di esordio “Is This It”, la cui copertina già anticipava alcune delle caratteristiche peculiari della band.

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La celeberrima copertina dell’album.

Foto in bianco e nero di quello che pare il fondoschiena nudo di una donna: l’obiettivo di rifarsi al rock d’antan risultando affascinanti anche per le giovani generazioni, non solo maschili, era evidente. Musicalmente, gli Strokes non inventano nulla di nuovo: il loro è un rock veloce, preciso e tremendamente efficace. I mentori sono Lou Reed, Television e i Ramones più commerciali. La cosa ironica è che il CD, pur sembrando “tirato via”, quasi registrato live, presenta brani pressoché perfetti, incastonati l’uno nell’altro e tutti con testi che descrivono la New York più alternativa (il testo di New York City Cops, ad esempio, prende in giro la polizia di NY).

“Is This It” inoltre contiene alcuni brani iconici, tra i migliori della produzione della band newyorkese: Someday e Last Nite sono magnifiche, Hard To Explain già dal titolo è più seria ma non meno bella. Altre perle sono le conclusive Trying Your Luck e Take It Or Leave It, dove i due chitarristi Albert Hammond Jr e Nick Valensi sono in grande evidenza. Menzione finale per la bella voce del cantante Julian Casablancas, che serve da perfetto contraltare ai toni e ai ritmi delle canzoni della band.

Non è un caso che gli Strokes non siano riusciti a replicare il grande successo di critica e pubblico di “Is This It”: dopo aver cercato di copiarne la formula vincente con il successivo “Room On Fire” (riuscendoci solo in parte), i cinque ragazzi hanno tentato nuove strade, dal pop anni ’80 al rock simil-Talking Heads, con risultati alterni.

Non possiamo non finire citando i motivi che ci spingono ad iniziare questa nuova rubrica proprio con questo LP. Ebbene, avete presente Franz Ferdinand, Bloc Party e Arctic Monkeys? Ecco, forse senza un apripista del livello di “Is This It” non ne avremmo mai sentito parlare. Non un merito da poco. E poi: com’è possibile che a 15 anni dall’uscita suoni ancora così fresco?! Saranno anche stati uomini da “un CD e via”, ma i meriti degli Strokes sono infiniti.

Voto finale: 9.