Recap: novembre 2021

Novembre è, come da tradizione, l’ultimo mese di eleggibilità per la lista dei migliori 50 album di A-Rock. Quasi lo sapessero, molti artisti hanno pubblicato album molto interessanti: abbiamo infatti recensito il ritorno di Courtney Barnett e di Lindsey Jordan aka Snail Mail, così come il secondo album dell’anno di Taylor Swift e l’attesissimo nuovo CD di Adele. In più, abbiamo analizzato il primo CD nato dalla collaborazione di Anderson .Paak e Bruno Mars nota come Silk Sonic e il ritorno solista di Damon Albarn. Infine, spazio al secondo EP del 2021 dei The Horrors e ai nuovi dischi degli IDLES e di Jon Hopkins. Buona lettura!

Silk Sonic, “An Evening With Silk Sonic”

an evening with silk sonic

Ci sono collaborazioni che sembrano fatte apposta per nascere e prosperare: il progetto Silk Sonic, formato da Bruno Mars e Anderson .Paak, ne è un caso emblematico. “An Evening With Silk Sonic” è una piccolo gemma, capace di evocare le atmosfere del soul anni ’70 di Marvin Gaye e Stevie Wonder con delicatezza ma senza suonare un plagio, anzi con hit indelebili che ne fanno un CD imperdibile in questo strano 2021.

Non sempre le partnership fra pesi massimi escono come erano state pensate: se in certi casi era impossibile che fallissero (David Bowie e i Queen, con Under Pressure), in altri hanno prodotto risultati contraddittori (Future e Drake in “What A Time To Be Alive” del 2015) oppure addirittura disastrosi (Lou Reed e i Metallica con “Lulu”, 2011). Beh, Silk Sonic è un caso a sé stante: non per forza Mars e .Paak parevano destinati al successo, ma “An Evening With Silk Sonic” è un piccolo capolavoro, che rende i Silk Sonic maggiori della somma dei singoli interpreti.

Già i singoli di lancio avevano fatto pensare a un lavoro eccellente: Leave The Door Open è un’ottima ballata, Skate è un perfetto brano funk mentre Smoking Out The Window, pur leggermente inferiore agli altri due, è comunque un buonissimo pezzo. Se a questi aggiungiamo After Last Night, con la preziosa collaborazione di Thundercat e del veterano Bootsy Collins, già bassista dei Parliament-Funkadelic, abbiamo metà CD di perle. Il resto del lavoro contiene brani che, seppur discreti, non arrivano a questi livelli, ma il risultato complessivo è in ogni caso ottimo, contando anche la totale mancanza di tracce riempitivo (basti dire che “An Evening With Silk Sonic” dura a malapena 32 minuti), tanto che ci viene da desiderare che ci siano 2-3 canzoni in più per arrivare ai canonici 40 minuti, fatto sempre più raro nel panorama musicale odierno.

In conclusione, il progetto Silk Sonic, pur non brillando a volte di originalità (si senta Put On A Smile), raggiunge risultati davvero squisiti. Anderson .Paak si conferma pronto per il salto definitivo nel mainstream, mentre Bruno Mars, dal canto suo, si conferma infallibile produttore di hit. “An Evening With Silk Sonic”, ad oggi, è il miglior CD pop-soul del decennio oltre che uno dei più belli del 2021.

Voto finale: 8,5.

Taylor Swift, “Red (Taylor’s Version)”

red

Il secondo album ri-registrato da Taylor Swift al fine di prendere il controllo sul suo lavoro riguarda il suo album più elogiato dalla critica nei suoi primi anni, quello che fece scoprire al mondo il suo talento di cantante solidamente pop, togliendo le tracce di country residue nella sua estetica. Un passaggio fondamentale per avere la Taylor Swift odierna.

Al di là del fine ultimo, quello di riguadagnare l’indipendenza a spese di una industria discografica tanto spietata quanto avida di denaro, “Red” del 2021 è molto simile al “Red” del 2012. Certo, la voce di Taylor è più matura, la produzione più precisa e questo contribuisce a migliorare pezzi già ottimi come State Of Grace, la title track e All Too Well. Poco può invece su brutti episodi come Stay Stay Stay e We Are Never Ever Getting Back Together, che anche in questo “remix” suonano decisamente inferiori alla media.

La parte davvero interessante del lavoro è rappresentata però dalle canzoni contrassegnate come “(From The Vault)”, cioè ripescate dagli archivi in cui Swift le aveva messe all’epoca poiché considerate non adatte al disco. Sentite oggi, per alcune è davvero un mistero che sia stata compiuta questa scelta: Come Back… Be Here, Ronan e Nothing New sono buoni pezzi e non avrebbero sfigurato nel “Red” originale. Invece Girl At Home rappresenta, ad essere ottimisti, una b-side.

Ad arricchire un piatto già ricchissimo (130 minuti di musica, 30 canzoni), contribuiscono gli ospiti di spessore invitati da Taylor. Gary Lightbody (Snow Patrol), Ed Sheeran, Chris Stapleton e Phoebe Bridgers rendono ancora più imperdibile questo appuntamento per gli “swifties”, i fan più accaniti della cantautrice americana. Per chiudere, Swift ha pubblicato un mini-film di dieci minuti con la colonna sonora rappresentata da All Too Well (10 Minute Version), appunto la versione deluxe della celebre hit.

In conclusione, “Red (Taylor’s Version)” è un disco imperdibile per gli amanti del pop e, soprattutto, per i fan di Taylor Swift. Certo, la durata può essere dura da sopportare, soprattutto verso la fine, dove emergono i pezzi più deboli, tuttavia è un piacere sentire nove anni dopo delle canzoni che suonano come nuove, non fosse per qualche lirica un po’ datata (22).

Taylor Swift può fare praticamente quello che vuole in questo momento della sua carriera, per noi è un piacere sentirla sia quando compone nuovi dischi (la doppietta “folklore”-“evermore” del 2020 è ancora ben piantata nella nostra memoria) che quando riarrangia dischi per dimostrare a tutti la sua indipendenza.

Voto finale: 8.

Damon Albarn, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”

damon albarn

Il nuovo progetto solista di Damon Albarn, solamente il secondo dopo “Everyday Robots” del 2014, è in realtà un altro capitolo di una storia sempre variegata e di alto livello. “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” è un CD più meditativo rispetto agli ultimi Gorillaz o Blur (entrambe band comandate da Albarn), ispirato dai paesaggi islandesi dove il cantautore ha vissuto per un periodo prima dell’arrivo del Covid e del ritorno a casa nel Devon. Pur non perfetto, rappresenta bene i tempi sospesi in cui viviamo e arricchisce ulteriormente un’eredità sempre più ingombrante.

Solo in certi aspetti il CD riporta alla memoria i momenti più movimentati delle band più celebri di Damon: ad esempio, in Royal Morning Blue e The Tower Of Montevideo. Al contrario, il mood complessivo è molto più raccolto, quasi musica ambient in certi tratti: Albarn ha infatti dichiarato di ispirarsi ai modesti e solitari paesaggi dell’isola. Ne sono esempio la title track e Daft Wader.

Nel corso dei 39 minuti che formano “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”, Damon ci porta in posti diversi, dal vulcano Esja nell’omonima traccia all’Uruguay in The Tower Of Montevideo, evocando i momenti più belli della gioventù (“Youth seemed immortal, so sweet it did weave heaven’s halo around”, The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows) così come la sensazione di paura che tutti abbiamo quando ci sentiamo abbandonati (“Am I imprisoned on this island?”, The Cormorant).

Non tutto musicalmente gira alla perfezione, ad esempio Giraffe Trumpet Sea è confusa e Combustion è debole, ma in generale il CD conquista con la sua grazia e cura dei dettagli. Damon Albarn si conferma cantautore pressoché unico, capace di spaziare riguardo temi politici (in “Merrie Land” dei The Good, The Bad & The Queen criticava la Brexit, nel 2018) così come di portarci in Africa con il progetto Africa Express e di rappresentare l’Inghilterra anni ’90 coi Blur. Abbiamo una sola richiesta: Damon, per favore tagliati quel mullet!

Voto finale: 7,5.

Snail Mail, “Valentine”

valentine

Il secondo disco, per molti, è un ostacolo insormontabile e si rivela un peso dopo un esordio elogiato dalla critica e, magari, anche da larghe fette di pubblico. Questo poteva essere il caso per Lindsey Jordan, la giovane cantautrice dietro il progetto Snail Mail. “Lush”, il suo primo disco del 2018, era stato visto da molti come l’inizio di una carriera brillante nel mondo indie rock. A-Rock, dal canto suo, l’aveva inserita in una puntata della rubrica Rising e “Lush” era entrato nella lista dei 50 migliori lavori dell’anno. Pertanto, l’attesa era tanta.

I singoli di lancio del CD avevano contribuito a fare di “Valentine” uno dei più attesi dell’anno: la title track è un irresistibile pezzo indie rock, Ben Franklin è più melodico ma non meno riuscito, così come Madonna. Aggiungiamo poi una lunghezza per una volta adeguata: 32 minuti presuppongono, auspicabilmente, poco spazio per le tracce filler tipiche dei dischi più lunghi. A tutto ciò aggiungiamo la produzione di Brad Cook, in passato collaboratore di altre “indie darlings” come Waxahatchee e Indigo De Souza, per una ricetta potenzialmente squisita.

I risultati sono lusinghieri, in effetti: Snail Mail si conferma nome di crescente peso nel panorama rock e canzoni come Valentine e la conclusiva Mia farebbero la fortuna di molti. Peccato solo per la presenza di un paio di brani inferiori alla media, come Forever (Sailing) e Automate, altrimenti il voto complessivo sarebbe ancora maggiore.

Anche liricamente “Valentine” conferma il talento di Lindsey Jordan nel trasmettere sentimenti che molti hanno provato con parole semplici ma toccanti. Chi non ha mai avuto il cuore infranto oppure provato invidia vedendo la vecchia fiamma accompagnata da un’altra persona? La Jordan è però candida nelle sue ammissioni, quasi al limite della sfrontatezza, ma è un tratto che apprezziamo in versi come “Those parasitic cameras, don’t they stop to stare at you?” (Valentine) e “I wanna wake up early every day just to be awake in the same world as you” (Light Blue). Altrove emerge l’ironia della Nostra: “Got money, I don’t care about sex” (Ben Franklin).

In conclusione, il CD non stravolge il mondo dell’indie, come alcuni vorrebbero credere. Nondimeno, Lindsey Jordan conferma la sua duttilità nel passare da brani più movimentati (Glory) ad altri più rilassati (c. et al.), che le apre la strada per un futuro radioso. Staremo a vedere in futuro dove andrà a parare, ma il progetto Snail Mail pare qui per restare.

Voto finale: 7,5.

IDLES, “CRAWLER”

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Il quarto album in quattro anni dei britannici IDLES vede il gruppo capitanato da Joe Talbot virare verso un’estetica più sperimentale rispetto al passato. Se il precedente “Ultra Mono” (2020) era l’inizio della fine per quel punk sparato a mille all’ora e con testi che sembravano una raccolta di slogan trovati su Twitter, “CRAWLER” flirta con l’art rock e la musica industrial, creando un CD magari non perfetto, ma certamente intrigante e che apre strade inedite per gli IDLES.

La band stessa, del resto, in varie interviste ha dichiarato che “Ultra Mono” non li aveva soddisfatti e che erano alla ricerca di un sound diverso. A questo, “CRAWLER” aggiunge delle tematiche delicate per il frontman del complesso: Talbot, infatti, in passato ha lottato con la dipendenza da droghe e ha subito un incidente molto grave. In molte canzoni troviamo riferimenti a questi temi: basti citare MTT 420 RR, Car Crash e Meds.

Musicalmente, il CD è, come già accennato, caratterizzato da una forte voglia di sfidare le convenzioni a cui i fan degli IDLES erano abituati. Kenny Beats, il celebre produttore hip hop, collabora con il gruppo: malgrado un accostamento a prima vista ardito, i risultati sono interessanti.  The Wheel è un pezzo punk, ma decisamente più dark del passato degli IDLES, pare quasi di sentire un pezzo dei Joy Division. The Beachland Ballroom invece è quasi art rock ed è, inoltre, un ottimo pezzo, fra i migliori dell’album. Tra gli altri highlights abbiamo Car Crash, che pare un brano dei primi Nine Inch Nails, mentre i brevi intermezzi Kelechi e Wizz sono inutili ai fini del risultato finale.

In conclusione, “CRAWLER” è un buon disco: se fino al 2020 gli IDLES potevano essere facilmente etichettati come una tipica band post-punk, con buone intenzioni e i temi giusti portati avanti ma urlati in modo fin troppo smaccato, questo lavoro smentisce le previsioni della vigilia e si rivela sorprendente a quasi ogni incrocio. Potrà non piacere a tutti i fan del gruppo, ma rappresenta una svolta importante in un’estetica che cominciava a farsi un po’ ripetitiva.

Voto finale: 7,5.

Jon Hopkins, “Music For Psychedelic Therapy”

music for psychedelic therapy

Il nuovo album del produttore e musicista britannico Jon Hopkins è stato composto a seguito di un viaggio nella foresta amazzonica, nella sua parte ecuadoregna, nel 2018. Il risultato è un lavoro che mescola sapientemente musica ambient, new age e registrazioni dell’ambiente circostante, creando un continuum sonoro lungo 68 minuti, rilassante e coeso. Pur staccandosi dalla techno che ne ha fatto la fortuna in passato, Hopkins conferma il suo talento una volta di più.

Il titolo del CD, “Music For Psychedelic Therapy”, è indicativo del suo scopo: Hopkins ha composto una suite sonora divisa in nove movimenti al fine di guidare i pazienti dei centri di cura nelle loro escursioni psichedeliche prodotte da LSD e simili sostanze, pratica legale in alcuni Stati. Notiamo che, a chiusura del lavoro, in Sit Around The Fire, è contenuto un discorso del guru new age Ram Dass, scomparso nel 2019, in cui quest’ultimo fa dichiarazioni rassicuranti del tipo “You don’t need doubt because you already know” oppure “You don’t need loneliness”, che fungono da chiusura adeguata al CD.

Il disco, soprattutto nella parte centrale, diventa un po’ monotono, ad esempio in Tayos Caves Ecuador, III. Invece buone Tayos Caves Ecuador, II e Deep In The Glowing Heart. In generale, un po’ come avveniva anche in “Promises”, il lavoro collaborativo di Floating Points e Pharoah Sanders con la London Symphony Orchestra, l’unità della composizione è notevole, così come la produzione, sempre impeccabile.

In conclusione, “Music For Psychedelic Therapy” è un lavoro più che discreto, con uno scopo nobile e una qualità media elevata. Certo, magari alcuni rimpiangono le epiche suite elettroniche e techno che caratterizzavano le migliori prove di Jon Hopkins, “Immunity” (2013) e “Singularity” (2018), ma non per questo occorre sottovalutare questo LP.

Voto finale: 7,5.

The Horrors, “Against The Blade”

against the blade

Il breve EP “Against The Blade” della band inglese segue l’altrettanto conciso “Lout” di marzo 2021 ed è il secondo di una serie di tre EP, stando a quanto dichiarato da Faris Badwan e compagni. Il genere che caratterizza le tre canzoni di “Against The Blade” è sempre un industrial rock massiccio, sanguigno, che ricorda molto i Nine Inch Nails dei primi anni ’90.

Rispetto a “Lout”, ai The Horrors manca l’effetto sorpresa, ma i Nostri sembrano aver preso maggior maestria col genere e nessuno dei tre pezzi è fuori posto. Partiamo con la potente title track, miglior canzone del lotto; poi abbiamo Twisted Skin, forse la più debole composizione del terzetto, mentre a chiudere abbiamo la lunga e complessa cavalcata I Took A Deep Breath And I Kept My Mouth Shut, che quasi riporta alla mente i The Prodigy.

I risultati sono generalmente interessanti e lasciano credere che, se i The Horrors seguiranno la pista dell’industrial rock in un CD vero e proprio, ne vedremo delle belle. Abbiamo aspettative moderatamente positive sul terzo ed ultimo EP della serie.

Voto finale: 7,5.

Adele, “30”

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L’attesissimo quarto CD di Adele arriva dopo ben sei anni dal precedente “25” ed è stato influenzato da molte cose accadute nella vita della cantante inglese dal 2015 ad oggi. Giusto per citarne alcune: il tour di grande successo a supporto di “25”; il matrimonio e il successivo divorzio con Simon Konecki; la crescita del figlio Angelo, che oggi ha 9 anni; il ritorno alla vita dopo la depressione e i lockdown pandemici.

Tutti sarebbero sconvolti da una serie di avvenimenti di questo tipo; Adele è umana, come tutti noi, ma è anche una talentuosa cantautrice e “30” ne è un’ulteriore dimostrazione. Non tutto funziona, ma la potenza della sua meravigliosa voce e qualche esperimento in più rispetto al passato sono da premiare.

Il singolo di lancio, Easy On Me, aveva in realtà anticipato la versione di Adele che tutti ci aspetteremmo: liriche strappalacrime, pianoforte in primo piano a dar risalto alla splendida voce della Nostra… tutto ok, ma zero innovazione. Invece, con My Little Love abbiamo quasi dei sentori neo-soul e il brano è un assoluto highlight del disco. Tra le altre perle ricordiamo Strangers By Nature, che ricorda Lana Del Rey, e I Drink Wine; mentre Can I Get It, malgrado la produzione del rinomato Max Martin, è l’episodio più debole del CD.

“30”, come già accennato, non è il solito disco di Adele: se l’influenza dei precedenti suoi lavori è evidente, sia musicalmente che testualmente ci sono novità rilevanti. Spesso sentiamo Adele enunciare proclami motivazionali nel corso di “30”: “When you’re in doubt, go at your own pace” (Cry Your Heart Out), “I’ll never learn if I never leap” (To Be Loved). Dal punto di vista sonoro, la presenza di produttori innovativi come Inflo e Ludwig Göransson ha aiutato Adele ad andare fuori dalla propria comfort zone, circostanza evidente in Cry Your Heart Out e Love Is A Game.

Se c’è un problema nel CD, è il sequenziamento: la gran parte dei brani più lunghi e impegnativi, come le ballate Hold On e Love Is A Game, sono piazzate a fine tracklist, rendendo un po’ pesante la parte finale del lavoro. Il risultato complessivo, tuttavia, non ne risente troppo e la qualità generale delle canzoni è alto.

Malgrado si stia parlando chiaramente di un album malinconico, derivante da un fatto traumatico come un divorzio, “30” è allo stesso tempo il lavoro più avventuroso a firma Adele. In una carriera iniziata con l’acerbo “19” (2008) e proseguita con i grandi successi di vendite di “21” (2011) e “25” (2015), “30” rappresenta l’album della maturità. Non sarà il suo più bello, forse, ma certamente rappresenta una tappa importante nella carriera di un’artista che per molti è “quella col vocione e le canzoni tristi”. Beh, Adele ci ha mostrato un’altra delle sue facce e ci è piaciuta; vedremo in futuro quali aspetti della sua estetica vorrà approfondire.

Voto finale: 7.

Courtney Barnett, “Things Take Time, Take Time”

things take time take time

Il nuovo album della cantautrice australiana arriva in un periodo non fortunato per lei: la recente rottura con la partner Jen Cloher, la sensazione di burnout al termine del precedente tour e la pandemia hanno influito fortemente sulla sua psiche e il CD ne è una diretta conseguenza. Più calmo, privo della frenesia dei suoi migliori momenti ma non per questo monotono: “Things Take Time, Take Time”, come il titolo anticipa, richiede alcuni ascolti, ma rivela dettagli ad ogni replay.

Il lavoro arriva a tre anni da “Tell Me How You Really Feel” (2018), un secondo album che aveva in qualche modo evitato la sindrome che spesso colpisce gli artisti di successo già all’esordio, anche se non era riuscito a replicare completamente la bellezza di “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” (2015). Questo “Things Take Time, Take Time” è ancora più raccolto del precedente e questo non sarebbe per forza un difetto, non fosse per la presenza di brani palesemente inferiori (Before You Gotta Go) che impattano sui risultati complessivi del CD.

Peccato, perché nei momenti migliori “Things Take Time, Take Time” è anche un buon prodotto: Turning Green e If I Don’t Hear From You Tonight sono buoni pezzi, che riportano con la mente alla Courtney Barnett degli esordi. Non male anche Write A List Of Things To Look Forward To. Peccato poi ci siano delusioni come la già menzionata Before You Gotta Go e Splendour che frenano il ritmo del disco.

Anche liricamente abbiamo dei momenti felici, ad esempio quando la cantautrice mormora: “All our candles, hopes n prayers, though well-meaning they don’t mean a thing, unless we see some change… I might change my sheets today” (Rae Street), oppure: “Don’t stick that knife in the toaster”, premio “verso più assurdo di novembre” (Take It Day By Day).

In conclusione, “Things Take Time, Take Time” è ad oggi il CD più debole della produzione di Courtney Barnett. Se da un lato è positivo che la cantautrice cerchi nuovi ritmi e contaminazioni, dall’altro servono risultati più coerenti e all’altezza del passato per non perdere il favore della critica e del pubblico. Abbiamo l’impressione che il prossimo LP sarà quello della verità per Courtney: non resta che farle un “in bocca al lupo!”.

Voto finale: 6,5.

Recap: settembre 2020

Settembre è ormai terminato. È stato un mese ricco di uscite interessanti, in cui segnaliamo in particolare i nuovi lavori di Sufjan Stevens, Bill Callahan e degli IDLES. Abbiamo poi il ritorno degli Everything Everything, il terzo EP del 2020 dei Dirty Projectors e il CD pubblicato a sorpresa dai Fleet Foxes.

Fleet Foxes, “Shore”

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Il quarto album dei Fleet Foxes, probabilmente la più osannata band folk degli scorsi quindici anni, è un trionfo. “Shore” prende le parti migliori di ogni disco precedente del gruppo per creare un CD coeso e brillante, che dà sollievo in questi tempi così difficili a causa del Coronavirus. Robin Pecknold ha infatti sfruttato questi mesi di reclusione per portare a compimento un lavoro che lui stesso aveva decretato ormai fuori gioco e i risultati, ancora una volta, gli danno ragione.

La storia dei Fleet Foxes non è stata tutta rose e fiori: se il primo disco “Fleet Foxes” (2008) era stato un immediato successo e il secondo “Helplessness Blues” (2011) un erede ambizioso, l’abbandono del batterista Josh Tillman (poi divenuto celebre col nome d’arte di Father John Misty) aveva portato il progetto ad un punto morto, superato solo sei anni dopo con il maestoso “Crack-Up”, eletto miglior album del 2017 da A-Rock. È pertanto sorprendente che “Shore” arrivi solo tre anni dopo, senza alcuna campagna di lancio e nessun singolo. Il lavoro, va detto, beneficia di questo trattamento: l’effetto sorpresa è garantito e la coesione del CD non richiede pezzi di lancio per far risaltare il resto del disco.

“Shore” è un disco molto personale: Pecknold ha composto la totalità delle canzoni praticamente in assoluta solitudine a causa del lockdown, cercando di trasporre nei brani le sensazioni contrastanti che ne derivano. Da un lato abbiamo la tristezza per gli amici musicisti e gli idoli di gioventù che se ne vanno (da John Prine a Richard Swift, passando per Elliott Smith e David Berman), che in canzoni come la pur godibile Sunblind è in evidenza. Abbiamo però, dall’altro, la vita: la cosa più preziosa di ogni uomo, che fa esclamare “Oh devil walk by. I never want to die” in Quiet Air / Gioia.

Nei 15 brani del CD non ci sono veri punti deboli: magari in alcuni episodi i Fleet Foxes tendono a ripetere con meno successo la ricetta del passato (si senta Thymia), ma in generale il livello medio dei brani è altissimo: Sunblind, Can I Believe You e Jara sono capolavori fatti e finiti, fra le migliori melodie mai composte da Pecknold e compagni. Da non trascurare anche Cradling Mother, Cradling Woman.

I Fleet Foxes sono ormai un gruppo riconosciuto a livello mondiale, un pilastro dell’indie rock; le armonie vocali che rendono anche il loro pezzo più convenzionale imperdibile non si sono mai rassegnate al passare del tempo, tanto che “Shore” pare un logico erede di “Fleet Foxes”. Non fossero passati dodici anni potremmo scommettere che ne siano trascorsi solo due. Questo, che potrebbe rivelarsi un limite, in realtà è il vero punto di forza della band: raffinamento, piuttosto che  rivoluzione, è la parola d’ordine di Robin Pecknold. Finché i risultati saranno tanto magnifici quanto “Shore” i Fleet Foxes potranno continuare a godere della stima di critica e pubblico; non si vede perché tutto ciò non possa continuare in eterno.

Voto finale: 9.

Sufjan Stevens, “The Ascension”

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Il nuovo CD del musicista americano è una svolta radicale nella sua estetica: se consideriamo che il suo ultimo disco solista, lo straziante “Carrie & Lowell” (2015), era un magnifico lavoro folk, intimista ed essenziale, mentre “The Ascension” è un lavoro prevalentemente elettronico, capiamo che Sufjan ha voluto rivoluzionare la sua visione. Non sempre i risultati sono ottimi, ma nel complesso gli 80 minuti di “The Ascension” valgono il prezzo del biglietto e rappresentano un’aggiunta di spessore alla discografia di Stevens.

Nei cinque anni trascorsi fra “Carrie & Lowell” e il suo erede, in realtà Sufjan non ha tenuto le mani in mano: ha collaborato a colonne sonore per film (Chiamami Col Tuo Nome del 2017) e balletti (The Decalogue del 2019). Inoltre ha composto gli album collaborativi “Planetarium” (2017) e “Aporia” (2020). In questi lavori si vedevano tracce di uno sperimentalismo a cui Stevens non è estraneo, ma che aveva rappresentato solo un diversivo nei momenti migliori della sua carriera, come “Illinois” (2005). Solo “The Age Of Adz” (2010) è in qualche modo simile a “The Ascension”, anche se in quest’ultimo mancano i cori celestiali che pervadevano i suoi passati LP.

La prolificità non è mai andata a scapito della qualità, con Sufjan Stevens; tuttavia gli 80 minuti di “The Ascension” tendono ad assomigliarsi, tranne nel bellissimo finale rappresentato dalla title track e da America. Gli altri pezzi da ricordare sono l’iniziale Make Me An Offer I Cannot Refuse e Landslide, mentre deludono Die Happy e Ativan, che quasi ricorda Aphex Twin.

Un artista come Sufjan Stevens avrà sempre il rispetto della critica e del pubblico più aperto alla sperimentazione: il suo incedere tra folk, indie ed elettronica lo ha reso un unicum nella scena cantautorale americana e un maestro per tanti giovani artisti. “The Ascension” potrà non essere il suo migliore LP, ma rappresenta un altro passo avanti in un’estetica in continua evoluzione. Ad A-Rock siamo davvero curiosi di continuare a seguirlo nelle sue peripezie.

Voto finale: 7,5.

Bill Callahan, “Gold Record”

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Il nuovo CD del cantautore americano Bill Callahan segue di solo un anno il celebrato “Shepherd In A Sheepskin Vest”, entrato con pieno merito nella top 50 di A-Rock. Mentre il precedente lavoro era un’impegnativa raccolta di 20 canzoni per 63 minuti complessivi, “Gold Record” è un disco agile, che ammonta a dieci canzoni e 40 minuti di durata. Non per questo va considerato un lavoro minore: Bill Callahan conferma la sua abilità lirica malgrado una palette sonora ridotta davvero all’osso.

Il minimalismo di Callahan del resto è un tratto caratteristico della sua estetica: la chitarra e la voce hanno sempre il proscenio, solo raramente abbiamo la batteria in sottofondo. Diciamo che rispetto agli esordi col nome d’arte di Smog il Nostro ha abbandonato lo sperimentalismo per dare spazio al Bob Dylan che è in lui. “Gold Record” è infatti un album austero con la calda e profonda voce di Callahan in primo piano a narrare storie di quadretti famigliari ma anche immagini più poetiche e sognanti. Ne è un chiaro esempio The Mackenzies, in cui si narra la disavventura di un giovane solitario con una famiglia a cui era morto il figlio.

L’aspetto lirico, come già accennato, è sempre centrale nella poetica di Bill Callahan: in 35 descrive una luna tale che “the moon can make a false love feel true”; invece in Pigeons accompagna attraverso il deserto due neosposi consigliandoli su come vivere in famiglia e come superare le avversità. Infine il CD contiene anche un tributo a Ry Cooder, il cantautore country che Callahan considera il suo maestro.

In conclusione, non tutto in “Gold Record” gira alla perfezione: al disco manca l’ambizione di descrivere in ogni aspetto la vita di “Shepherd In A Sheepskin Vest”, ma la brevità aiuta a smaltire la monotonia di alcuni brani sotto la media, come ad esempio Protest Song. D’altra parte, canzoni belle come The Mackenzies sono un toccasana per tutti gli amanti del folk. Bill Callahan è ormai a tutti gli effetti uno dei migliori cantautori americani: “Gold Record” ne è una prova ulteriore.

Voto finale: 7,5.

Everything Everything, “RE-ANIMATOR”

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Il quinto album della band inglese è per certi versi il loro CD più convenzionale; allo stesso tempo tuttavia gli Everything Everything trovano il modo, pur omaggiando in maniera sfacciata alcuni dei loro idoli, di suonare “nuovi” rispetto al passato. Non una cosa da poco per una band entrata nella sua seconda decade, contando che l’esordio “Man Alive” risale all’ormai lontano 2010.

Il pop eccentrico e infarcito di elementi di elettronica e rock della band di Manchester vira verso territori molto vicini ai Radiohead di “Hail To The Thief” (2003) e “In Rainbows” (2007): sia Moonlight che l’ancor più sfacciata It Was A Monstering sono quasi dei plagi dei momenti più raccolti del gruppo capitanato da Thom Yorke. Nondimeno, va detto che mai gli Everything Everything in passato erano accostabili così chiaramente ad una band presente o passata: ecco dove risiede la novità di “RE-ANIMATOR”, un disco prevedibile da una band imprevedibile.

I bei momenti non mancano, a conferma del grande talento del gruppo: Jonathan Higgs & co. hanno lavorato a stretto contatto col produttore John Congleton (già collaboratore di St. Vincent, Angel Olsen e Future Islands) per quindici giorni, un periodo intenso e fruttuoso, con i picchi della cavalcata che chiude il lavoro, quella Violent Sun che è un highlight della carriera recente degli Everything Everything. Buone anche Lost Powers e Arch Enemy, mentre sono sotto media Planets e Big Climb.

In conclusione, gli Everything Everything si confermano nome interessante della scena art pop mondiale. Il loro muoversi agilmente fra generi disparati, vero punto di forza nel passato, nel 2020 del Coronavirus è stato affiancato da un’attenzione maggiore alla coesione del CD: la mossa potrà non piacere ai fans più avanguardisti della band, ma chissà che la svolta verso l’indie rock più “tradizionale” non possa giovare nel lungo termine agli Everything Everything. Per ora godiamoci “RE-ANIMATOR”, un buon LP che pare una transizione verso lidi inesplorati. Vedremo il futuro dove condurrà il complesso britannico.

Voto finale: 7,5.

IDLES, “Ultra Mono”

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Il terzo album della band punk era atteso da tanti: i primi due lavori avevano permesso a Joe Talbot e compagni di ampliare notevolmente il proprio pubblico, grazie a canzoni potenti, spietate e senza compromessi. Un punk muscolare e straziante, che non poteva lasciare indifferenti in un senso o nell’altro. “Ultra Mono” prosegue musicalmente nel percorso tracciato da “Brutalism” (2017) e “Joy As An Act Of Resistance” (2018), senza tuttavia trovare la stessa efficacia sia liricamente che melodicamente.

Le canzoni che compongono il CD passano da ottime (Model Village) a mediocri (Ne Touche Pas Moi) nel giro di cinque minuti: se nella prima Talbot inveisce ironicamente contro il razzismo strisciante delle cittadine britanniche e sull’esito conseguente (la Brexit), nella seconda la cantante delle Savages Jehnny Beth inveisce contro il maschilismo in maniera quanto mai scontata e monotona, creando a tutti gli effetti la peggior canzone degli IDLES. Il disco prosegue in queste montagne russe: abbiamo la potentissima Grounds e la scialba Anxiety, l’inutile chiusura Danke e l’efficace Mr. Motivator… Il risultato non è neanche lontanamente paragonabile alla compattezza estrema di “Joy As An Act Of Resistance”.

Tuttavia, il CD non è un completo fiasco grazie all’abilità del frontman Joe Talbot e alla base ritmica travolgente del gruppo inglese, che anima anche le canzoni più prevedibili. “Ultra Mono” è quindi il disco peggiore degli IDLES, nondimeno mantiene delle canzoni che faranno la loro fortuna live (se mai torneremo ai concerti) e cresceranno nella considerazione degli ascoltatori. Per un LP capolavoro si prega di ripassare prossimamente.

Voto finale: 7.

Dirty Projectors, “Super João”

super joao

Il terzo EP del prolifico 2020 dei Dirty Projectors si ispira, almeno nelle intenzioni, alla bossa nova del grande João Gilberto. Non sempre il gruppo statunitense riesce a cogliere appieno i frutti dei propri esperimenti, ma questo lavoro è un’ulteriore prova che la creatività è ancora abbondante nei Dirty Projectors.

L’inizio è molto promettente: Holy Mackerel è una traccia deliziosa, in cui la calda voce di David Longstreth, tornato al timone delle band dopo aver lasciato spazio alle giovani donne che lo affiancano nei precedenti EP “Windows Open” e “Flight Tower”, si esalta. Invece la successiva I Get Carried Away è un pezzo folk davvero strano, stonato e fuori ritmo che però non cade nell’eccessiva sofisticazione. Il terzo dei quattro brani in scaletta è la delicata You Create Yourself, che apre le porte alla bella chiusura Moon, If Ever, un brano sognante in cui la capacità evocativa di Longstreth è al massimo splendore.

In conclusione, questo terzo EP del 2020 trova i Dirty Projectors che si crogiolano nel lato più acustico della loro estetica. Questo continuo divagare fra generi disparati come folk e R&B potrà disorientare i fans più mainstream del gruppo, ma mostra che Longstreth & co. non hanno ancora perso il fuoco che li anima ormai da quasi vent’anni. “Super João” è finora il miglior EP a firma Dirty Projectors in quest’anno disgraziato: chissà che prima del 31 dicembre non arrivi una piccola perla.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2020

L’anno, anzi la decade, sta per finire. Tuttavia, ad A-Rock guardiamo sempre al futuro e siamo pronti per un 2020 stellare. Andiamo a vedere insieme i CD più attesi da critica e pubblico: il nuovo anno si preannuncia ricco di ritorni attesissimi.

Peraltro, la tendenza a vedere nei primi anni della decade uno spartiacque viene suffragata da tre dati: “Nevermind” dei Nirvana, “Kid A” dei Radiohead e “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West sono stati incisi rispettivamente nel 1991, 2000 e 2010. Nessuno può negare l’influenza che questi classici hanno avuto sugli anni successivi, pertanto prepariamoci ai fuochi d’artificio.

Se nel gennaio 2019 avevamo eletto come artista più atteso i Vampire Weekend, ben ripagati dal pregevole “Father Of The Bride”, nel 2020 abbiamo due gruppi pronti a dare una svolta alla loro già prospera carriera: The 1975 e Tame Impala. In realtà entrambi avevano promesso di far uscire gli eredi di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Currents” (2015) nell’anno che sta per finire, ma entrambi vedranno la luce solamente nel 2020. Se da un lato, con i The 1975, abbiamo probabilmente la band rock di maggior successo fra i giovani, i Tame Impala hanno rivoluzionato il concetto stesso di psichedelia. Inutile dire che da “Notes On A Conditional Form” (dei britannici The 1975) e “The Slow Rush” (degli australiani Tame Impala) ci aspettiamo molto.

Se concentriamo la nostra attenzione sul mondo rock, notiamo che oltre The 1975 e Tame Impala, abbiamo altri beneamati artisti pronti a pubblicare nuovi dischi. Ad esempio, Dan Bejar aka Destroyer ha già annunciato che il nuovo lavoro del progetto, “Have We Met”, vedrà la luce il 31 gennaio. Anche gli IDLES, gruppo punk inglese osannato Oltremanica, pubblicherà il seguito di “Joy As An Act Of Resistance” (2017), intitolato provvisoriamente “Toneland”, l’anno prossimo. Vi sono poi tre gruppi ormai veterani dell’indie rock, ovvero Phoenix, Spoon e Real Estate, che dovranno confermare i precedenti lodevoli CD per restare sulla cresta dell’onda. Il mondo pop-punk (con venature emo) è poi giustamente in fermento per i ritorno di due fra le band più amate del movimento: i Green Day e i My Chemical Romance. Specialmente per i secondi, riunitisi dopo 7 anni, l’attesa è fortissima. Chiudiamo poi con due nomi conosciutissimi: The Killers e Red Hot Chili Peppers. Di loro non si hanno notizie certe, nondimeno gustare il seguito di “Wonderful Wonderful” e il nuovo LP dei RHCP con John Frusciante di nuovo nel gruppo varrebbe davvero tantissimo.

È tuttavia il mondo del pop a destare maggior curiosità: attesi al varco abbiamo pezzi da 90 del calibro di Frank Ocean, The Weeknd e Rihanna. Stiamo parlando di tre fra i più celebri artisti dei nostri anni, che vengono dai migliori lavori della carriera (RiRi e Frank) oppure da anni bui creativamente parlando (il canadese Abel Tesfaye). Ma non finisce qui: pare che anche Lady Gaga sia pronta a pubblicare il seguito di “Joanne” (2016), annunciato già nel 2019 ma poi posticipato per gli impegni cinematografici della Nostra.

Passando all’hip hop, ormai il genere dominante nelle classifiche di mezzo mondo, i nomi da tenere d’occhio sono due: Drake e Kendrick Lamar. Parliamo di due veri pesi massimi del panorama musicale contemporaneo: se il primo ha saziato i fans nel 2019 con la raccolta “Care Package”, è lecito aspettarsi il seguito del deludente “Scorpion” nel 2020? Pare di sì. Il contrario vale per K-Dot: dopo tre album clamorosi e il premio Pulitzer (!), saprà tenere testa a critica e pubblico con un altro lavoro altrettanto riuscito? Da non sottovalutare poi Travis Scott: il giovane rapper, reduce dallo strepitoso successo di “ASTROWORLD”, saprà creare un altro blockbuster di quel livello? Menzione infine per i Run The Jewels: il quarto capitolo della loro discografia, annunciato per il 2019, non ha ancora visto la luce. Ok, seguire “RTJ3” (2016) non è semplice, però anche illudere così i propri fans non è comportamento trasparente!

L’elettronica ha vissuto nel 2019 un anno interlocutorio: il 2020 però pare destinato a vedere il ritorno di artisti del calibro di The Avalanches, Caribou e Grimes. Soprattutto quest’ultima è davvero attesa al varco: dopo il buon successo di “Art Angels” (2015) e la sfilza di singoli pubblicati nel corso del 2019, cosa dobbiamo aspettarsi da “Miss Anthropocene”? Nome poi da tenere sott’occhio è Neon Indian: il progetto di Alan Palomo sembra finalmente pronto a pubblicare il follow-up di “VEGA INTL. Night School” (2015). Come sempre avvolto nel mistero il destino di “Dear Tommy” dei Chromatics: il 2020 sarà l’anno in cui l’ormai mitico album vedrà la luce?

Chiudiamo con una lista di artisti che hanno seminato indizi, ma su cui non abbiamo certezze: Fleet Foxes, Parquet Courts e Iceage fanno sicuramente parte di quei gruppi che hanno dato tanto alla musica degli anni ’10 e che siamo impazienti di sentire con pezzi inediti. Stesso dicasi per Strokes, St. Vincent e Car Seat Headrest. I primi vengono da tre anni d’inattività e Julian Casablancas pare concentrato sul progetto parallelo dei Voidz, ma mai dire mai giusto? Annie Clark invece ha remixato acusticamente il pregevole “MASSEDUCTION” (2017) l’anno seguente, ma pare pronta a riprendere l’attività là dove si era interrotta: brani indie pop, con improvvisi squarci di chitarra elettrica e testi corrosivi. Infine Will Toledo e compagni: loro vengono dal meraviglioso “Twin Fantasy” (2018) e, sebbene non vi siano certezze al riguardo, un suo erede pare probabile.

Insomma, il 2020 si annuncia un anno esplosivo, con molte promesse pronte a sbocciare e veterani che vogliono mantenere il comando delle operazioni. State sintonizzati: A-Rock proverà, al meglio delle sue possibilità, a guidarvi nel mare magno che è diventato il panorama musicale contemporaneo!

I 50 migliori album del 2018 (50-26)

Il 2018 sta per terminare; un anno molto competitivo musicalmente parlando, con molti graditi ritorni da parte di artisti che erano stati a lungo ai margini della scena musicale (Arctic Monkeys, MGMT, Robyn) e talenti che hanno mostrato tutto il loro potenziale (IDLES, Snail Mail e Helena Hauff, per esempio). Questa è la prima parte della lista compilata da A-Rock sui 50 migliori album del 2018: in generale, possiamo dire che è stato un anno positivo per elettronica, punk e rock, meno per rap e folk, che invece avevano imperversato nel 2017. Buona lettura!

50) MGMT, “Little Dark Age”

(POP – ELETTRONICA)

Per gli inglesi MGMT, “Little Dark Age” è stato un parto travagliato. Il CD arriva ben cinque anni dopo l’omonimo “MGMT” del 2013, che aveva fatto storcere il naso a molti loro fans. Il nuovo lavoro rappresenta dunque un passo importante per il duo formato da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser: “Little Dark Age” è il ritorno alle origini che molti speravano o un radicale cambio di passo? Beh, possiamo dire che nessuna delle due risposte è del tutto corretta. Pur introducendo decisi cambi di direzione nel sound della band, qualcosa dei vecchi MGMT resta comunque. Ma andiamo con ordine.

Già dalle prime canzoni capiamo che il pop la fa da padrone: in particolare, i riferimenti al pop anni ’80 di Duran Duran e Police, oltre a M83 e Neon Indian, è presente. Il riferimento a Neon Indian non è casuale: “Little Dark Age” contiene elementi elettronici e chillwave, che arricchiscono ulteriormente la formula degli MGMT (James). Tuttavia, non dobbiamo pensare che il disco sia poco coeso. Anzi, musicalmente è forse il più coerente dopo lo stellare esordio del 2007, quell’”Oracular Spectacular” che conteneva successi planetari come Kids, Time To Pretend e Electric Feel.

I brani migliori sono la title track, la trascinante Me And Michael (con voce à la Liam Gallagher da parte di VanWyngarden) e la più intimista Hand It Over, che chiude magistralmente il disco. Non male anche One Thing Left To Try e When You’re Small. Monotona invece When You Die e poco coinvolgente She Works Out Too Much, ma non danneggiano eccessivamente i risultati complessivi.

In conclusione, non parliamo di un capolavoro, ma nel complesso “Little Dark Age” è un LP riuscito, capace di regalare soddisfazioni ai fans del gruppo. Se la svolta pop sarà compiuta definitivamente nel prossimo futuro, la carriera degli MGMT potrà forse tornare allo splendore dei primi anni.

49) Travis Scott, “ASTROWORLD”

(HIP HOP)

Il terzo album del rapper statunitense Travis Scott ha scatenato una quantità di hype sorprendente nel mercato musicale. Non è tuttavia un evento del tutto inatteso: accanto alla crescente fanbase di Travis, occorre nominare le numerose collaborazioni presenti nel disco. Basti dire che “ASTROWORLD” conta collaborazioni di Frank Ocean, Stevie Wonder, Tame Impala, Kid Cudi, Drake, Migos, The Weeknd e Pharrell Williams: praticamente tutto il gotha del mondo hip hop, R&B, pop e rock. Travis gioca non casualmente il ruolo di collante fra tutte queste numerose influenze, cercando di non essere sempre oscurato dagli illustri ospiti e con l’intento di creare un CD coeso.

Il bello è che, per la prima volta in carriera, Scott riesce pienamente nel suo intento: “ASTROWORLD” è il primo vero LP riuscito del giovane rapper. L’inizio è convincente: STARGAZING è un ottimo mix fra trap e hip hop classico, con Travis privo di ospiti ingombranti che può dare un saggio delle sue qualità. Ottima poi SICKO MODE, che conta la convincente collaborazione di Drake. Meno riuscita CAROUSEL, malgrado la presenza di Frank Ocean.

Anche nella seconda parte del lungo CD (17 brani per 59 minuti) non mancano gli highlights: ottime R.I.P. SCREW e il duo di brevi canzoni NC-17 e ASTROTHUNDER. Del resto, però, SKELETONS convince meno, tuttavia non intacca il risultato complessivo di “ASTROWORLD”, che si conferma anche dopo svariati ascolti un LP ricco di dettagli ricercati e mai banale. COFFEE BEAN, ad esempio, migliora ad ogni ascolto.

Liricamente, Scott a volte dimostra immaturità con liriche volgari e inutilmente allusive (ad esempio canta “If you take your girl out, do you expect sex? If she take her titties out, do you expect checks?” in SKELETONS), ma in altre parti affronta tematiche non banali, come la paternità inattesa e la difficile relazione con Kylie Jenner (in COFFIE BEAN sentiamo Travis dire “Your family told you I’m a bad move. Plus, I’m already a black dude”).

Insomma, la maturazione di Scott procede bene: malgrado le accuse spesso rivoltegli di copiare spudoratamente gli altri rapper (su tutti si nota una forte influenza di Kanye West), il giovane rapper procede per la sua strada; e il successo di pubblico pare premiare questo suo atteggiamento. Sebbene non stiamo parlando di un disco perfetto, “ASTROWORLD” dimostra tutta l’abilità di Travis Scott di circondarsi di collaboratori di valore e produttori capaci di evocare sempre atmosfere diverse, fattori che rendono il CD imprescindibile per gli amanti della trap e, in generale, della black music.

48) Low, “Double Negative”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il dodicesimo album dei veterani del rock alternativo Low è anche uno dei loro più bei CD degli ultimi anni. Malgrado sia attivo da ben 25 anni, il gruppo sembra più vitale che mai, mantenendo alto il livello compositivo e la voglia di sperimentare.

“Double Negative”, infatti, non si limita a ripercorrere i generi che hanno reso celebri i Low: ricordiamo infatti che le origini del complesso statunitense vanno ricondotte al mondo del metal, sebbene melodico e a volte quasi dream pop. Loro sono in effetti fra i fondatori di una corrente musicale chiamata slowcore: ritmi lenti, bassi in grande evidenza, voci spesso inintelligibili. Una sorta di shoegaze ancora più opprimente, diciamo. Beh, in “Double Negative” ritroviamo molti di questi tratti, ma anche delle incursioni ambient davvero intriganti e riuscite: più o meno tutti i pezzi del disco hanno code o intro di questo tipo, addirittura The Son, The Sun è solo musica ambient, degna del miglior Brian Eno. Non male anche la conclusione della sognante Fly.

Certo, l’album non è per nulla commerciale, anzi rischia di inimicare la frangia meno sperimentale del pubblico dei Low. Tuttavia, dopo aver compreso la loro estetica ed essere entrati appieno nel mood del CD, pezzi come Tempest e Always Up non possono non conquistare l’ascoltatore. Non sarà certamente il disco dell’anno, ma insomma di band così creativamente ardite al loro terzo decennio di vita se ne contano davvero poche.

Menzione finale per i testi (laddove comprensibili): il gruppo si è dichiarato più volte acerrimo nemico di Donald Trump e non esita a ribadire il concetto nel corso degli 11 brani che compongono “Double Negative”. Ad esempio, in Dancing And Fire il frontman Alan Sparhawk canta “It’s not the end, it’s just the end of hope”, mentre in Disarray “Before it falls into total disarray, you’ll have to learn to live a different way”.

Insomma, un LP certo non facile, ma che merita almeno un ascolto. I Low non sono mai stati tanto liberi e privi di preoccupazioni legate al successo o meno di un loro disco, motivo per cui suonano più ambiziosi che mai. Già questo sarebbe una buona ragione; inoltre, il livello dei brani è generalmente alto. Cosa volete di più?

47) Helena Hauff, “Qualm”

(ELETTRONICA)

La DJ tedesca Helena Hauff conferma che la scena della musica elettronica in Germania resta molto fertile. Dopo il ritorno sulle scene del maestro della musica ambient Wolfgang Voigt, in arte Gas, e l’affermazione di star come Paul Kalkbrenner, la scena ora è interessata a nuovi nomi, ad esempio quello della Hauff. Dopo il brillante esordio del 2015 “Discreet Desires”, la giovane artista tedesca ritorna ai ritmi e ai suoni che l’hanno resa famosa: musica compatta, produzione lo-fi e bassi molto potenti. Insomma, una techno sporca, con piccoli inserti di ambient che servono a rallentare il ritmo nelle fasi più calde.

“Qualm” non è un disco facile, anzi probabilmente gli amanti dell’elettronica più danzereccia potrebbero essere sconcertati dai ritmi tesi e, per certi versi, duri imposti dalla Hauff. Tuttavia, ripetuti ascolti premiano il pubblico più attento: la produzione scarna e “imprecisa” della Hauff non è dovuta a disattenzione o scarso budget, quanto ad una precisa scelta stilistica. Pertanto, la sua visione potrà piacere o meno, ma non si può negare la coerenza finora dimostrata dalla giovane DJ tedesca.

L’inizio imprime subito un’impronta netta al disco: sia Barrow Boot Boys che Lifestyle Guru ricalcano le caratteristiche del suono della Hauff menzionate precedentemente. Invece, la dolce Entropy Created You And Me è una pausa necessaria per concludere il primo terzo dell’album. Altri brani degni di nota sono la tesissima Fag Butts In The Fire Bucket e la trascinante Hyper-Intelligent Genetically Enriched Cyborg; meno riuscite The Smell Of Suds And Steel, troppo lunga, e Primordial Sludge, ma il risultato complessivo resta buono.

In conclusione, Helena Hauff conferma che il 2018 resterà nella storia come un ottimo anno per la musica elettronica: dopo i graditi ritorni di Jon Hopkins, Aphex Twin e Gas (senza dimenticare DJ Koze), adesso anche una nuova voce si fa sentire forte e chiara. L’elettronica si conferma quindi un genere vitale, pronto a scoprire nuovi lidi e a restare significativo anche in un mondo della musica sempre più dominato da rap e R&B.

46) boygenius, “boygenius”

(ROCK)

Questo breve EP è il primo prodotto della collaborazione fra Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus, vale a dire tre fra le più promettenti figure dell’indie rock mondiale. Il disco è un perfetto esempio di come a volte le collaborazioni riescano a replicare, se non in certi casi migliorare, le abilità dei singoli artisti che ne fanno parte.

I sei brani che compongono “boygenius” sono tutti significativi per la riuscita del lavoro: le voci delle tre artiste sono integrate perfettamente, specialmente in Me & My Dog e Stay Down. Nessuna inoltre suona fuori posto oppure tale che una tra Phoebe, Julien e Lucy prevalga sulle altre. Ciò è evidente già in Bite Hard, che apre l’EP, ma è una costante dell’intero album.

Liricamente, il progetto boygenius ricalca alcune delle tematiche affrontate dalle tre componenti nei loro lavori singoli: ad esempio, in Bite Hard la Dacus ricalca le traversie amorose che pervadono i suoi CD, cantando “I can’t love you how you want me to”, mentre il senso di solitudine che influenza da sempre la Baker esplode in Stay Down: “I look at you and you look at a screen” esprime perfettamente le conseguenze della presenza ossessiva degli smartphone sulle relazioni interpersonali. Infine, Phoebe Bridgers emerge nella ballata Ketchum, ID, in cui canta placidamente le bellezze di questo stato americano e il perché vivere in un posto quieto le aggraderebbe (essenzialmente, stare spesso da sola).

In conclusione, “boygenius” è fino ad ora l’EP dell’anno, un concentrato delle abilità delle protagoniste del progetto boygenius e ben più di un passatempo fra un album vero e proprio e l’altro. Questo almeno è quello che noi amanti dell’indie rock speriamo: avere un LP a nome boygenius sarebbe davvero intrigante, le potenzialità per un lavoro rilevante ci sono tutte.

45) Kids See Ghosts, “Kids See Ghosts”

(HIP HOP)

Kids See Ghosts è il supergruppo formato da Kid Cudi e Kanye West: non è la prima volta che i due collaborano, ma è la prima volta che la cosa avviene su un piano totalmente paritario. Entrambi sono infatti parte attiva nelle canzoni e produttori. La presenza di ospiti di spessore come Pusha-T e Ty Dolla $ign rende poi il CD ancora più intrigante.

Il lavoro è molto breve: abbiamo sette canzoni in 24 minuti di durata complessiva. Detto questo, mai Kid Cudi era suonato così sicuro di sé e con questo tono così caldo e vibrante, segno che forse la definitiva maturazione artistica è giunta anche per lui.

Liricamente, visti anche i personaggi coinvolti, “Kids See Ghosts” non poteva che essere un lavoro profondamente personale: sia Cudi che Ye ne hanno passate di cotte e di crude negli ultimi tempi, pertanto esorcizzare i propri demoni è più che legittimo da parte loro. Yeezy da un lato in Reborn afferma perentorio “What an awesome thing, engulfed in shame. I want all the pain, I want all the smoke, I want all the blame”, affrontando di petto le recenti controversie che lo riguardano; Cudi invece è più ottimista, sempre in Reborn, quando dice “Keep moving forward”, quasi un incitamento a sé stesso, a lasciarsi alle spalle le tendenze suicide e i problemi di droga degli ultimi mesi. In Cudi Montage Kanye riprende la polemica sul suo supporto a Trump, dicendo “Everybody want world peace until your niece gets shot in dome piece”. In generale, dunque, sembra quasi innestarsi una dinamica poliziotto buono/poliziotto cattivo fra i due rapper, con Kanye ad incendiare gli animi e Cudi a calmarli.

Musicalmente, le tracce sono varie ma con un filo logico che le collega, i due artisti sono a loro agio e la produzione di West è come sempre eccellente. I pezzi migliori sono 4th Dimension e Reborn, mentre è troppo confusionaria l’apertura di Feel The Love. I risultati sono comunque buoni, eccezionali in certi tratti; da elogiare il fatto che Kanye ha ancora una volta tirato fuori il meglio da Kid Cudi, che non suonava così centrato dagli esordi di “Man On The Moon: The End Of Day” (2009). Il progetto, in conclusione, ha tutto per essere replicato in futuro.

44) Preoccupations, “New Material”

(PUNK)

I Preoccupations, giunti al secondo album dopo l’ennesimo cambio di nome, si confermano fra i più talentuosi artisti punk della scena musicale contemporanea. Gli ex Women e Viet Cong, infatti, mantengono intatti i tratti caratteristici del loro sound, comprese le tematiche affrontate nei loro testi, ma aggiornano la formula quel tanto da non apparire ripetitivi rispetto al passato.

Rispetto a “Preoccupations” (2016), i riferimenti ai grandi del post-punk, su tutti i Joy Division, si fanno più evidenti; contemporaneamente, quel suono quasi ambient e industrial che caratterizzava il precedente CD viene confermato e reso forse un po’ più accessibile. Niente di commerciale, sia chiaro, però in “New Material” le ritmiche sono meno oppressive che in passati lavori di Flegel e compagni.

Ne sono esempio i migliori pezzi dell’album: su tutti Disarray, ma buona anche Decompose. Le percussioni di Espionage riportano vividamente alla memoria “Closer” dei Joy Division. Meno riuscita la conclusiva Compliance, traccia strumentale poco coinvolgente. Tuttavia, va elogiata l’ardita scelta dei Preoccupations di voler sempre sfidare l’ascoltatore, pur restando nel consueto territorio punk.

Liricamente, come dicevamo, i Preoccupations affrontano temi non nuovi per loro, ma sempre delicati: autodistruzione, dubbio, odio per sé stessi. Per esempio, in Disarray Flegel canta con voce calda “It’s easy to see why everything you’ve ever been told is a lie”, probabile riferimento al corrente contesto di fake news; un altro riferimento a ciò arriva in Antidote, dove si parla di “information overdose”. Manipulation, come già il titolo anticipa, tratta il potere di alcune persone di plagiare gli individui più fragili. Insomma, non temi facili, ma affrontati con onestà e preoccupazione. Il nome del gruppo si conferma azzeccato.

In conclusione, ogni ascolto rivela nuovi dettagli, mai banali, circostanza che rende il disco riascoltabile molte volte. Non una cosa da poco, in un panorama musicale spesso sovraccarico di citazioni e LP monotoni allo sfinimento (si veda il nuovo album dei Migos).

43) Cloud Nothings, “Last Building Burning”

(PUNK)

Il quinto album della band americana, capitanata dallo scatenato Dylan Baldi, è il loro lavoro più feroce. Ed è tutto dire per una band punk come i Cloud Nothings, autrice di capolavori del genere come “Attack On Memory” (2012) e “Here And Nowhere Else” (2014).

Il CD arriva solo un anno e mezzo dopo “Life Without Sound”, l’album più quieto del gruppo originario di Cleveland: brani pur ottimi come Enter Entirely e Up To The Surface ce li saremmo aspettati dagli Arctic Monkeys o dai Bloc Party delle origini, non da una solida band punk. In effetti sia critica che pubblico erano stati tiepidi; non è un caso che la radicale inversione di rotta arrivi dopo così breve tempo.

L’inizio è devastante: On An Edge presenta liriche praticamente incomprensibili, sopra una base potentissima, quasi metal. Gli altri sei brani che compongono questo breve ma compattissimo disco non frenano poi molto l’irruenza della prima traccia; anche testualmente Baldi riporta alla memoria la rabbia dei suoi dischi di maggior successo. Ad esempio, in In Shame canta “They won’t remember my name, I’ll be alone in my shame!”, mentre in Offer An End abbiamo un pessimismo ancora più universale: “Nothing’s gonna change!”. Infine, in So Right So Clean se la prende con una ex partner ormai abbandonata: “I wish I could believe in your dream” le urla Baldi.

I sette brani che compongono “Last Building Burning” sono molto veloci e generalmente al di sotto dei quattro minuti di durata; solo la colossale Dissolution ha una durata anomala (supera i 10 minuti) ed è un preciso rimando al vero capolavoro della band, Wasted Days. Le migliori canzoni sono Offer An End e So Right So Clean; meno convincente la troppo violenta On An Edge.

In conclusione, i Cloud Nothings sono tornati alle loro radici, a quel punk sporco e diretto che li aveva fatti conoscere al mondo. I risultati forse non raggiungeranno le vette di “Attack On Memory” e “Here And Nowhere Else”, ma la band è più viva che mai. Chissà che il loro prossimo grande CD non stia per arrivare…

42) Interpol, “Marauder”

(ROCK)

Il sesto album degli Interpol, celebre band rock originaria di New York, percorre molti dei sentieri preferiti da Paul Banks e compagni, ma riesce a mantenere gli Interpol sui binari giusti, senza rimasticare i brani di successi come “Turn On The Bright Lights” (2002) o “Antics” (2004).

L’inizio è decisamente convincente: sia If You Really Love Nothing che The Rover sono ottimi pezzi tipicamente Interpol, che sarebbero stati benissimo nei migliori dischi del gruppo. Aiuta probabilmente la presenza, per la prima volta nella ventennale storia della band, di un produttore esterno: abbiamo infatti a condurre le danze Dave Fridmann, che ha collaborato in passato con MGMT, Tame Impala e Spoon fra gli altri. Convincono meno brani troppo scontati come Complications e i due Interlude, ma anche in questi casi gli Interpol riescono a non deragliare, così che “Marauder” risulta un CD gradevole, anche con ascolti numerosi. Anzi, pezzi come Flight Of Fancy e Surveillance acquistano rilevanza ad ogni ascolto.

In conclusione, non possiamo certo pretendere che un complesso che ha calcato più o meno gli stessi territori a metà fra indie rock e post-punk nel corso di cinque album di successo si rinnovi radicalmente al sesto. Nondimeno, il fatto di porre in copertina Elliot Richardson, il procuratore generale che si dimise a seguito della richiesta di Richard Nixon di licenziare il magistrato che indagava sullo scandalo Watergate, presenta un preciso messaggio politico, benvenuto in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo. Una dimostrazione di maturità da elogiare in un gruppo finalmente consapevole della sua posizione nel panorama musicale e dell’importanza che questi messaggi possono avere. Bentornati, Interpol.

41) Anna Calvi, “Hunter”

(ROCK)

La talentuosa cantante pop-rock inglese di chiare origini italiane Anna Calvi ha trovato la definitiva maturità nell’intrigante “Hunter”, terzo suo album e primo dopo quattro anni di assenza dalle scene. La Calvi affronta con decisione il tema della sessualità e della discriminazione a cui gli omosessuali sono sottoposti, componendo un vero e proprio manifesto per la liberazione da qualsiasi costrizione.

Anna Calvi dimostra di aver appreso appieno la lezione di maestri del rock oscuro come Nick Cave: la sua voce è profonda come mai, la virtuosità chitarristica dei passati lavori lascia posto ad accompagnamenti lugubri e ossessivi. Non parliamo insomma di un disco facile, nondimeno il fascino di tracce come As A Man e la title track è innegabile. Colpiscono positivamente anche Don’t Beat The Girl Out Of My Boy, davvero trascinante e non a caso scelta come singolo di lancio, e l’inquietante Chain, in cui Anna parla esplicitamente di fantasie sadomaso.

Dicevamo che la bella Anna Calvi si schiera apertamente a favore della totale parità di diritti per le persone omosessuali e della libera scelta riguardo al sesso: essere maschio o femmina per lei non conta, l’importante è sentirsi in pace con sé stessi. Posizione condivisibile o meno, ma legittima e motivata da testi forti, già nei titoli. Insomma, un attestato di maturità artistica e personale.

In conclusione, dopo due nomination ai Mercury Prize, i premi musicali più importanti della stampa d’Oltremanica, “Hunter” potrebbe rappresentare la definitiva consacrazione per la Calvi. Peccato, perché senza pezzi sotto la media come Swimming Pool e Away parleremo di un CD fantastico. Così è “solamente” un buon album, ma certamente ci fa apprezzare appieno le potenzialità dell’ancora giovane artista inglese.

40) The Good, The Bad & The Queen, “Merrie Land”

(ROCK)

La seconda metà degli anni ’10 si sta rivelando davvero prolifica per Damon Albarn. Il celebre musicista inglese, frontman di band del calibro di Blur e Gorillaz, ha pubblicato il seguito di “The Good, The Bad & The Queen” (2007), l’omonimo album del supergruppo formato con Simon Tong, Paul Simonon e Tony Allen (rispettivamente ex membri di Verve, Clash e Fela Kuti).

Se il precedente CD era più che altro un divertissement, “Merrie Land” è decisamente calato nei nostri tumultuosi tempi. Albarn ha infatti dichiarato che il disco era già pronto nel 2014, ma che la Brexit ha costretto i quattro a riscrivere l’intero album. Ciò è particolarmente evidente nelle tematiche affrontate: numerosi sono i riferimenti alla Brexit, naturalmente, offerti non in modo snobistico, ma anzi molto tenero e mai scontato. Damon canta “This is not rhetoric, it comes from my heart. I love this country” nella title track, ma l’ammissione di nostalgia più forte arriva in Nineteen Seventeen: “I see myself moving backwards in time today from a place we can’t remain close to anymore. My heart is heavy, because it looks just like my home.”

Musicalmente, i The Good, The Bad & The Queen si rifanno al sound del loro primo LP: un rock leggero, con frequenti richiami folk ed elettronici, perfetto per il tono malinconico dei pezzi e i testi decisamente pessimisti. Spiccano Gun To The Head e Nineteen Seventeen, ma va detto che il CD è compatto e coeso, nessun pezzo fuori posto e l’abilità strumentale dei componenti risalta. Interessante il momento più mosso del lavoro, Drifters & Trawlers; inferiore alla media invece The Truce Of Twilight, un po’ troppo pomposa.

Insomma, non stiamo parlando del capolavoro di una vita, ma certamente Damon Albarn e compagni hanno prodotto un disco che non fa rimpiangere la loro discografia passata. “Merrie Land” si staglia quindi come un altro tassello prezioso in una carriera, quella di Damon Albarn, sempre più stupefacente per livello medio e varietà di generi affrontati, quasi sempre con successo.

39) Snail Mail, “Lush”

(ROCK)

Fa effetto dire che gli Snail Mail sono capitanati da una cantante 18enne, però questi sono i fatti. Non a caso, molta stampa specializzata d’Oltreoceano li ha già bollati come “il futuro del rock”. Etichetta che ha portato bene per alcuni (vedi gli Arctic Monkeys), meno per altri (qualcuno ricorda i Gallows?). Nondimeno, se anche in Gran Bretagna ammettono che Lindsey Jordan & co. hanno davvero talento, un motivo deve esserci. In effetti, “Lush” è un ottimo disco d’esordio: non perfetto, ma dimostra un enorme potenziale, che speriamo potrà essere pienamente messo in mostra in futuro.

L’inizio è lento: la Intro serve a chiarire che non dobbiamo aspettarci chissà quali novità, fatto ulteriormente confermato da Pristine, prima canzone vera e propria dell’album. Tuttavia, due cose sono interessanti: primo, la produzione è pulita, fatto che allontana decisamente i paragoni con artisti lo-fi come Ty Segall ed Elliott Smith. Secondo, la Jordan parla molto limpidamente dei propri problemi adolescenziali, tra amori non corrisposti e incertezze sul futuro, mettendo in mostra la propria fragilità con molta trasparenza. Ad aggiungere ulteriore pepe ad una ricetta già intrigante è la grande abilità della Jordan con la chitarra, che disegna traiettorie sempre varie nel corso di “Lush”.

Musicalmente, dunque, nessuna rivoluzione: possiamo dire che Snail Mail è un mix riuscito fra Frankie Cosmos e Courtney Barnett, con pizzichi di Julien Baker ed Angel Olsen qua e là. I brani migliori sono Heat Wave, Speaking Terms e Pristine, mentre le canzoni più lente del disco sono meno avvincenti, ad esempio Deep Sea non convince appieno. Liricamente, invece, è interessante il modo di porsi di Lindsey verso gli ascoltatori: le canzoni sono piene di domande dirette, del tipo “do you love me?” o “Who’s your type of girl?”, ma due sono i momenti davvero notevoli: in Full Control esclama “I’m in full control, I’m not lost. Even when it’s love, even when it’s not”, mentre in Heat Wave la sentiamo dire “I’m not into sometimes”, segno che per lei le relazioni vere sono di lunga durata e che non è decisamente portata per le attività saltuarie. Diciamo che la ragazza, pur avendo solo 18 anni, ha le idee piuttosto chiare.

In generale, tuttavia, la coesione di “Lush” lo rende un ascolto non banale: i 39 minuti passano sereni e alcuni momenti sono davvero ottimi. Certo, non parliamo ancora del “manifesto” della band, però le premesse per una carriera di successo ci sono tutte.

38) Soccer Mommy, “Clean”

(ROCK)

“Clean”, il terzo LP a firma Soccer Mommy, richiama molto da vicino le atmosfere trovate nel bell’album dello scorso anno di Julien Baker, quel “Turn Off The Lights” che mescolava abilmente rock, pianoforte e ballate strappalacrime. Rispetto a Julien Baker, tuttavia, la Allison si focalizza maggiormente sulla parte rock e lascia intravedere un lato folk di cui Mount Eerie e Leonard Cohen andrebbero fieri, come in Blossom (Wasting All My Time) e Wildflowers.

La partenza è decisamente malinconica, a tratti disperata: Soccer Mommy in Still Clean parla di ex fidanzati che letteralmente la divorano, richiamando le immagini di partner violenti al centro delle proteste delle donne negli ultimi tempi. Le due tracce successive, Cool e Your Dog, fra le migliori del disco, rappresentano un estratto di come scrivere due perfetti pezzi indie rock. Ai più attenti non sarà sfuggito il riferimento a I Wanna Be Your Dog degli Stooges, ma qui Iggy Pop e compagni contano poco; anzi, il messaggio è ribaltato. Sophie Allison, infatti, dichiara di non voler essere il fedele cagnolino di nessuno: altro forte messaggio di indipendenza femminile.

Altre canzoni riuscite sono Last Girl e Scorpio Rising; meno bella Skin ed evitabile il breve Interlude, ma i risultati restano comunque notevoli. Con Soccer Mommy, dunque, la scena indie statunitense sembra aver trovato una nuova promessa: se la Allison metterà a fuoco compiutamente le tante qualità che abbiamo cominciato ad apprezzare in “Clean”, un lavoro che in soli 35 minuti fornisce all’ascoltatore liriche e brani mai banali, il prossimo album potrebbe essere la definitiva consacrazione della cantante originaria di Nashville.

37) DJ Koze, “Knock Knock”

(ELETTRONICA)

Il dj tedesco Stefan Kozalla, in arte DJ Koze, fra dischi veri e propri e remix è stato molto attivo negli scorsi anni. Molti lo hanno scoperto grazie al suo “breakthrough album” del 2013, “Amigdala”, un mix sapiente di dance e psichedelia. “Knock Knock” riprende quella formula, allargando però il campo di gioco alla techno e all’elettronica minimal di The Field e Aphex Twin. Ne sono esempio pezzi come Bonfire (con un azzeccato sample di Bon Iver mentre canta Calgary) e Club Der Ewigkeiten. Dunque, un CD molto vario ed eclettico, quasi troppo: i 79 minuti sono davvero tanti. Diciamo che, con 2-3 canzoni in meno (ad esempio Moving In A Liquid e Planet Hase), i risultati sarebbero stati ancora migliori.

Non è da buttare, però, questo “Knock Knock”; anzi, è molto probabile che ci troveremo a ballare nelle discoteche e nei club sui pezzi di DJ Koze. I brani migliori, come Colors Of Autumn e Music On My Teeth, sono infatti quasi perfetti e rappresentano il picco per qualsiasi artista di musica elettronica. Infine, menzioniamo lo sterminato parco ospiti presenti in “Knock Knock”: José Gonzalez, Róisín Murphy, Kurt Wagner dei Lambchop e Sophia Kennedy sono solo i più famosi. Molti compaiono più volte, a dimostrazione della fiducia che avevano nel progetto di DJ Koze e della volontà di quest’ultimo di creare un lavoro coeso.

Perciò, in conclusione, Kozalla ha pubblicato quello che fino ad ora è il suo lavoro più riuscito: vario, differenziato e molto divertente. Sarà difficile in futuro fare di meglio, ma le sue capacità compositive sembrano in costante crescita. Un fatto che ci fa decisamente ben sperare per i prossimi suoi dischi.

36) Kali Uchis, “Isolation”

(POP – SOUL)

Il primo album vero e proprio della cantante colombiana segue l’EP del 2015 “Por Vida” e dimostra un deciso passo in avanti in termini di scrittura e ricchezza espressiva. Kali ora, infatti, passa senza problemi dal pop latino al soul, dal reggae al funk, per creare un ensemble che ricorda Prince e Solange Knowles.

“Isolation”, infatti, è un trionfo: non si direbbe proprio che questo sia un album di esordio. La sicurezza con cui la giovane colombiana passa attraverso generi così disparati è disarmante. È pur vero che Kali Uchis è un nome che già da sei anni circola: il suo primo mixtape è infatti del 2012. Lei ha inoltre collaborato nell’album “War & Leisure” di Miguel, uno dei cantanti soul più in vista del momento. Insomma, aver convinto a collaborare a questo LP giganti come Kevin Parker dei Tame Impala e Damon Albarn (Blur, Gorillaz), oltre a Tyler The Creator e Thundercat, non è casuale.

Anche liricamente il CD non è banale: in Your Teeth In My Neck canta “What do you do it for, rich man keeps getting richer taking from the poor”, riferendosi alla crescente disuguaglianza all’interno dei paesi sviluppati. Questo pessimismo è ulteriormente espresso in In My Dreams, dove Kali afferma “Everything is just wonderful here in my dreams”, implicitamente dicendo che la sua vita non è tutta rose e fiori. Infine, in Miami parla della condizione dei migranti e delle grandi (spesso false) speranze che loro hanno arrivando negli Stati Uniti, quando canta “Why would I be Kim, I could be Kanye in the land of opportunity and palm trees”.

I pezzi migliori sono In My Dreams, Miami e la sexy Tomorrow, mentre convincono meno Dead To Me e After The Storm. In generale, tuttavia, come già detto all’inizio, Kali Uchis sorprende l’ascoltatore con melodie sempre nuove e ritmi differenti, generando un disco davvero ricercato e mai banale. Se questo è solo l’inizio, c’è da credere che ne sentiremo parlare ancora a lungo.

35) Gas, “Rausch”

(ELETTRONICA)

La carriera del compositore tedesco Wolfgang Voigt, emblema della musica ambient da ormai più di vent’anni, è molto strana: al colmo della fama, dopo album di grande spessore come “Königforst” (1999) e “Pop” (2000), il progetto Gas venne messo in soffitta per oltre quindici anni. Il ritorno avvenne infatti solo nel 2017, con “Narkopop”: un CD che riprendeva le tipiche sonorità di Voigt, vale a dire canzoni molto lunghe, a tratti apparentemente monotone, ma dalla grande intensità e capacità evocativa. Non a caso, era entrato con merito nella top 50 degli album di A-Rock.

Il sesto disco con il nome Gas di Voigt, “Rausch”, arriva quindi a pochi mesi da “Narkopop”: molto strano, per un artista al sesto lavoro in 22 anni di attività. L’urgenza di pubblicare questo nuovo LP deriva forse dalla temperie politica: Voigt ha infatti creato un CD molto cupo, forse il più oscuro come ritmi e sonorità della sua produzione. Forse un riferimento alla politica tedesca, dove l’estrema destra sembra tornata a farsi sentire? In effetti, i 60 minuti di “Rausch” sarebbero la perfetta colonna sonora per questi tempi grami ed incerti.

L’inizio non è neppure troppo pessimista: Rausch 1 è molto dolce ed evoca paesaggi misteriosi, come solo la miglior musica ambient riesce a fare. Tuttavia, già dalla seconda delle sette canzoni che compongono il lavoro, le cose cambiano: Rausch 2 e Rausch 3, infatti, sono davvero opprimenti e compongono il nocciolo dell’intero CD. Non si tratta, lo avrete capito, di un ascolto facile: per apprezzarne appieno le sfumature occorrono svariati ascolti e molta attenzione, ma il disco resta uno dei migliori del 2018 per quanto riguarda la musica elettronica. Belle in particolare Rausch 1 e Rausch 5; troppo lunga invece Rausch 3.

Potranno piacere o meno, ma queste lunghe canzoni dove ben poco cambia riescono comunque a trasmettere il senso di irrequietudine dell’artista: non un pregio da poco in tempi (musicali se non altro) dove la superficialità sembra farla sempre più da padrona.

34) Robyn, “Honey”

(POP)

Dopo un’attività discografica relativamente scarna nel corso degli ultimi otto anni, Robyn è tornata. La popstar svedese, in effetti, dopo la fortunata serie “Body Talk” del 2010, si era limitata a occasionali collaborazioni, di solito sotto forma di brevi EP (una nel 2014 con Röyksopp e una l’anno seguente con i francesi La Bagatelle Magique). Beh, possiamo dire che l’attesa è stata infine ripagata: “Honey” è un album composto da poche ma complesse melodie, che creano un CD coeso e profondo, degno della discografia passata di Robyn e che rinforza la sua fama di talento purissimo del mondo dance e pop.

L’apertura è “sintetica”: Missing U riporta alle menti le sonorità dance di “Body Talk” ma con un piglio che ricorda i Vampire Weekend di “Contra”, ossia un pop quasi di plastica, non finto ma anzi artatamente, plasticamente elaborato. Già in Human Being (che ricorda Grimes) Robyn ritorna a voler far ballare il suo pubblico, fatto rinforzato da altri pezzi, ad esempio la trascinante Honey e Beach2k20. Più romantica la ballata Baby Forgive Me, ma non per questo fuori contesto.

Liricamente, Robyn spiega le ragioni principali dietro la sua lunga assenza dalle scene: negli ultimi anni l’artista scandinava ha perso l’amico di lunga data Christian Falk e ha avuto una crisi (ma anche una riconciliazione) con il suo fidanzato. Entrambe queste storie non facili per Robyn sono esplicitate nel corso dei nove brani di “Honey”: ad esempio, in Missing U parla di un “empty space you left behind” e non capiamo se si riferisce alla morte dell’amico o alla rottura col fidanzato. In Because It’s In The Music Robyn rinnega la canzone condivisa con l’ex (ancora per poco) innamorato, mentre in Send To Robin Immediately e Honey finalmente i due innamorati si rimettono insieme, tanto che Robyn può cantare “Every breath that whispers your name it’s like emeralds on the pavement”. Il CD è quindi stato strutturato in forma diaristica, un’altra trovata non banale di Robyn.

In conclusione, molti aspettavano un successore al superlativo “Body Talk”; “Honey” forse non raggiunge quelle vette (Between The Lines e Beach2k20 non sono perfette), ma Robyn si conferma una popstar a sé, che vive in un mondo tutto suo fatto di brani dance e perfette perle pop. Non un fatto banale, in un mondo musicale sempre più stereotipato.

33) Stephen Malkmus And The Jicks, “Sparkle Hard”

(ROCK)

Chi apprezza l’indie rock non può non venerare Stephen Malkmus, un artista che ha fatto la storia di questo genere con i Pavement negli anni ’90 del secolo scorso. Nondimeno, la sua carriera non si esaurì con lo scioglimento del gruppo: Malkmus ha poi cominciato una fiorente carriera alternativa con il suo nuovo complesso, i Jicks, non limitandosi a prendere ispirazione dai Pavement, ma anzi cercando sempre nuove sperimentazioni.

Ne è un’ulteriore dimostrazione questo “Sparkle Hard”, settimo CD di Stephen Malkmus assieme ai Jicks: accanto al classico indie rock che da lui ci aspetteremmo troviamo infatti uso diffuso del pianoforte e dell’autotune, che tanto va di moda oggi. Inoltre, Kim Gordon (ex Sonic Youth) fa una comparsata molto efficace in Refute.

I testi delle 11 canzoni dell’album poi sono molto attuali: in Bike Lane Malkmus fa riferimento all’uccisione da parte della polizia di Freddie Gray, un caso che ha destato molto scalpore negli USA; in Middle America si schiera a fianco del movimento #MeToo, cantando che “Men are scum, I won’t deny it”. Non spesso si sente un artista di mezz’età cantare cose così forti: un merito in più di Stephen Malkmus.

I pezzi migliori sono Cast Off, la sognante Middle America e l’energica Shiggy; convincono meno Brethren e Difficulties – Let Them Eat Vowels, ma non sono in ogni caso pezzi da buttare. Diciamo che, se Ty Segall canterà ancora nel 2028, ci aspettiamo di sentirlo cantare così: intenso, ma consapevole che il tempo è passato e che, accanto all’energia delle origini, devono trovare spazio anche riflessioni più profonde sulla società e su quello che non va.

In conclusione, “Sparkle Hard” non è un LP che cambierà i destini del rock; del resto, Malkmus ne ha già prodotti almeno un paio con i Pavement, basti citare “Slanted, Enchanted” oppure “Crooked Rain, Crooked Rain”. Allo stesso tempo, però, si sentiva nel mercato la necessità che vedesse la luce un disco indie rock impegnato. Ben fatto, Stephen.

32) Amen Dunes, “Freedom”

(ROCK)

“Freedom” è il quinto lavoro del cantautore americano Damon McMahon, in arte Amen Dunes; ed è probabilmente quello destinato ad ottenere il maggior successo. McMahon infatti, per la prima volta, si affida ad un rock molto orecchiabile, abbandonando le influenze ambient e sperimentali che caratterizzavano i suoi precedenti CD, per rifarsi a classici come Bob Dylan e Neil Young.

Già la prima traccia vera e propria, dopo la sognante Intro, è testimonianza forte di questo cambiamento: Blue Rose è un pezzo delicato, apparentemente facile, ma che in realtà migliora ad ogni ascolto, un po’ come tutto il disco. Ma i brani riusciti non sono certo finiti qui: il nucleo del CD è Believe, pezzo di quasi sei minuti ma per nulla monotono. Buona anche Skipping School. Risultano invece meno belle Calling Paul The Suffering e L.A., troppo lunga. In generale, tuttavia, come già accennato, “Freedom” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli, anche grazie all’ottima produzione.

Liricamente, “Freedom” tratta il tema della perdita di una persona cara: la madre di Damon è morta di cancro alcuni anni fa, proprio mentre lui stava componendo il disco, che dunque riflette questa tragica perdita. Non a caso, predominano temi religiosi: Believe lo fa intuire già dal titolo, mentre in Blue Rose canta “We play religious music. Don’t think you understand, man”. Nondimeno, il disco è più affascinante per le sonorità che per i testi, spesso infatti la voce di Damon è soffusa e le parole inintelligibili, sulla falsariga di Panda Bear o Bradford Cox dei Deerhunter, per intendersi.

In conclusione, siamo di fronte ad una “rivoluzione conservatrice”, verrebbe da dire: McMahon, partito da lidi sperimentali, è finito per approdare a suoni e ritmi più accessibili, fra folk e rock. Anche una mossa del genere denota coraggio; quando poi i risultati sono così eccellenti, non si può non lodarla.

31) U.S. Girls, “In A Poem Unlimited”

(POP)

Meghan Remy, che si presenta musicalmente con il nome U.S. Girls, ha prodotto il CD migliore della sua carriera. Giunto al sesto album di inediti, il progetto U.S. Girls ha trovato nuova linfa nei movimenti che promuovono la parità uomo-donna, ad esempio #MeToo. In effetti, questo “In A Poem Unlimited” è un disco fortemente politico, a testimonianza che si può parlare di temi scottanti anche attraverso la musica pop. I temi toccati da Remy sono la violenza sulle donne, gli effetti devastanti per chi subisce stupri, le conseguenze dell’amore malato… Insomma, tematiche molto attuali nel mondo contemporaneo, specialmente negli Stati Uniti, ulteriormente evidenziati dall’autoritratto presente sulla cover del disco, che ritrae una Remy piangente.

Musicalmente, il CD si inserisce nel filone pop che caratterizza la produzione di Meghan Remy, affinando le caratteristiche già individuate nei precedenti suoi lavori: rimandi chiari agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, con improvvise schitarrate à la St. Vincent e Prince che rendono la ricetta sempre innovativa e intrigante.

I pezzi migliori sono M.A.H., Rosebud (riferimento a “Quarto Potere”) e Pearly Gates, decisamente il brano migliore del lavoro; non male anche Time. Non convincono appieno gli inutili intermezzi Why Do I Lose My Voice When I Have Something To Say e Traviata, oltre a L-Over. In generale, tuttavia, i risultati sono eccellenti: raramente infatti abbiamo sentito LP pop così coraggiosi, politicamente ma anche musicalmente.

30) Death Grips, “Year Of The Snitch”

(SPERIMENTALE – HIP HOP)

Il sesto album dei Death Grips, uno dei gruppi più estremi del panorama rap, è davvero incredibile. Il trio originario di Sacramento, infatti, riesce a produrre il suo lavoro più astratto e allo stesso tempo più accessibile. Certo, l’effetto novità è finito un attimo dopo aver ascoltato “The Money Store” del 2012, il loro scioccante album d’esordio, ma questo “Year Of The Snitch” è altrettanto innovativo in termini di generi affrontati. Fondendo spesso generi disparati come rap, rock, metal e techno, i Death Grips mantengono la loro freschezza e la capacità di scioccare l’ascoltatore.

Accanto a brani dal sapore shoegaze, quasi pop come Death Grips Is Online e Linda’s In Custody, abbiamo infatti pezzi decisamente duri come Black Paint e Shitshow, che a tratti sono puro rumore di sottofondo, con le liriche di MC Ride del tutto inintelligibili. I Death Grips scioccano tuttavia anche con le scelte visuali e liriche: la voglia di sconcertare o inorridire il pubblico non è terminata. Basti dire che il titolo del disco richiama la figura di Linda Kasabian, ex sodale di Charles Manson che poi però ha deciso di fare la spia e consegnare la setta (“Snitch” in inglese significa infatti “spia” e il CD è uscito per il compleanno della controversa donna). Il video di Shitshow, invece, è stato bannato da Youtube a causa dei suoi contenuti troppo violenti.

Il bello è che, malgrado questi nemmeno troppo velati tentativi di sabotare la propria carriera, il terzetto mantiene una fanbase leale, anche grazie ad una produzione abbondante ma sempre di qualità, a suo modo. A “Year Of The Snitch” collabora anche il bassista dei Tool Justin Chancellor, non un ospite di poco conto per un gruppo oscuro come i Death Grips, segno che il terzetto è stimato nel mondo della musica alternativa.

I pezzi migliori sono le già citate Black Paint, Linda’s In Custody e Death Grips Is Online; convincono invece molto meno Shitshow e Little Richard, troppo confusionarie. Inutili gli intermezzi Outro e The Horn Section. Ancora una volta, un album dei Death Grips è troppo lungo per essere totalmente convincente (la parte finale perde molto vigore); soprattutto, non è chiaro verso chi o che cosa sia rivolta la rabbia che pervade il gruppo. Il dubbio è che l’anarchia sia proprio la condizione desiderata dai Death Grips, espressa molto chiaramente negli ormai quasi dieci anni di carriera.

In conclusione, una volta di più i Death Grips si confermano gli artisti più divisivi nel panorama hip hop contemporaneo: molti sono legittimamente schifati dall’apparenza e dai messaggi trasmessi dal gruppo. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può non ammirare la completa libertà espressiva presente nei Death Grips: lo spirito pionieristico del gruppo non si è estinto, fatto che, dopo una carriera così estrema, non è per nulla banale.

29) Kurt Vile, “Bottle It In”

(ROCK)

Il settimo LP solista di Kurt Vile (ottavo considerando “Lotta Sea Lice”, inciso con Courtney Barnett nel 2017) mostra il nostro slacker preferito mantenere alta la bandiera del folk-rock che lo ha reso celebre, dapprima con i The War On Drugs, poi nella sua carriera solista.

Rispetto al passato, Kurt cambia leggermente la ricetta: il CD è infatti il più lungo della sua prolifica produzione (quasi 80 minuti) e sono numerosi gli ospiti, i più rilevanti dei quali sono Kim Gordon (Sonic Youth) e il cantautore country Cass McCombs. I brani sono spesso molto articolati: in quattro casi superano i 7 minuti, in due addirittura i 10!

Ciò detto, il 38enne statunitense riesce quasi sempre a mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore, grazie alla consueta abilità nel mescolare melodie sicuramente già sentite, ma assemblate in maniera mai banale. Basti ascoltarsi l’iniziale Loading Zones: forse Neil Young, forse Bob Dylan, certo qualcuno aveva prodotto qualche cosa di simile in passato, ma Kurt riesce ad adattare il tutto al XXI secolo in maniera furba. Altro brano degno di nota è l’ipnotica suite Bassackwards, uno dei pezzi migliori mai creati da Vile; buone anche la lunghissima Skinny Mini e Rollin With The Flow. Deludono invece la title track e Come Again, ma sono errori accettabili in un lavoro lungo come “Bottle It In”.

Liricamente, come sempre, Kurt non dispensa mai grandi insegnamenti, ma il suo spirito di osservazione riesce a volte a esprimere concetti semplici ma non così scontati oggigiorno: “I think things were way easier with a regular telephone” proclama calmo in Mutinies, mentre in Bassackwards “Just the way things is these days, just the way things come out”. Quest’ultimo è in effetti il primo momento in cui Kurt sembra davvero insoddisfatto del presente, lui che dell’osservazione placida del mondo circostante aveva fatto una bandiera.

In conclusione, “Bottle It In” è una gradevole aggiunta ad una discografia già abbondante e di buona qualità media. Malgrado l’eccessiva lunghezza e alcuni momenti di stallo, il CD conferma Kurt Vile tra le voci (e i chitarristi) più importanti del panorama rock moderno. Non una cosa scontata, dopo una carriera che è iniziata nell’ormai lontano 2003 e continua ad essere rilevante anche quindici anni dopo.

28) Aphex Twin, “Collapse”

(ELETTRONICA)

Richard D. James, meglio conosciuto col nome d’arte Aphex Twin, è uno dei maggiori interpreti di musica elettronica degli ultimi trent’anni. Sì, non è un errore di battitura: la carriera di James coinvolge ormai quattro decadi, essendo iniziata nel 1985. Al suo attivo vanta capolavori della musica ambient e IDM (Intelligent Dance Music) come le due raccolte di “Selected Ambient Works” e il clamoroso ritorno del 2014 “Syro”.

Basterebbe questo a meritarsi una onorevole pensione, invece Aphex Twin, dal suo ritorno sulle scene musicali, ha dimostrato una voglia di sperimentare davvero insistente e ambiziosa, pubblicando una raccolta di inediti ogni anno. Solo nel 2017 si è preso una breve pausa, evidentemente necessaria per pubblicare l’efficacissimo EP “Collapse”.

L’inizio è travolgente: T69 Collapse è fantastica, con percussioni in primo piano e un ritmo trascinante, degno del miglior Aphex Twin. Anche le tracce più tranquille del lavoro, tuttavia, fanno un’ottima impressione, anche dopo ripetuti ascolti: 1st 44 inizia lenta, per poi esplorare ritmi techno e big beat che ricordano i Prodigy. Degna di nota anche MT1 t29r2 (ebbene sì, i titoli assurdi di James continuano a imperversare).

In conclusione, “Collapse” finisce quasi troppo presto: data l’efficacia e la coesione interna posseduta dall’EP, sembrerebbe che Aphex Twin sia tornato al top della condizione, malgrado un’età non più verde e una scena elettronica sempre più piena di DJ che cercano di imitarne lo stile. Nondimeno, Richard D. James si conferma inimitabile. Una cosa non da poco, alla soglia dei 50 anni.

27) Pusha-T, “Daytona”

(HIP HOP)

Si può definire CD un lavoro formato da sette canzoni per soli 21 minuti di durata? Il dubbio è legittimo, tuttavia non conta troppo analizzando “Daytona”. Pusha-T, infatti, grazie anche all’aiuto di Kanye West alla produzione e di alcuni importanti ospiti (su tutti lo stesso Kanye e Rick Ross), ha prodotto un disco compatto ma molto efficace, forse il migliore della sua produzione solista.

Lui infatti fino alla fine degli anni ’00 era parte dei Clipse, duo molto popolare all’epoca. La sua carriera solista era iniziata in maniera incerta, ma gli ultimi due suoi lavori (“My Name Is My Name” del 2013 e “Darkest Before Dawn” del 2016) avevano denotato una crescita costante e lo hanno visto infine tornare ai livelli raggiunti nei Clipse in “Daytona”.

Liricamente, Pusha-T non le ha mai mandate a dire, anche se spesso in passato i suoi testi parlavano dei temi tipici del gangsta rap: droga, sesso e violenza. Tuttavia, “Daytona” vede una svolta anche su questo versante: sono presenti versi molto duri su due mostri sacri del rap come Lil Wayne e Drake, accusati rispettivamente di essere pronti alla pensione (il primo) e di sfruttare il lavoro dei ghostwriter per il proprio successo (il secondo). Contiamo anche una canzone dedicata a Meek Mill, amico del rapper che è stato in carcere negli ultimi tempi (What Would Meek Do?).

Le canzoni migliori sono Santeria, con base trap molto potente; If You Know You Know e Infrared, che aprono e chiudono magistralmente l’album; e Come Back Baby. Unica nota stonata è Hard Piano, ma il contributo di Rick Ross salva la baracca.

In generale, dunque, il contributo di West ha senza dubbio aiutato Pusha-T a proporre un disco avvolgente e che difficilmente abbandoniamo di nostra volontà; il problema è che, due anni e mezzo dopo “Darkest Before Dawn”, finire con sole sette canzoni è un po’ una delusione. Nondimeno, Pusha-T si conferma ormai tornato ad alti livelli. Siamo davvero curiosi di vedere dove lo porteranno i suoi prossimi lavori.

26) IDLES, “Joy As An Act Of Resistance”

(PUNK)

Gli IDLES sono probabilmente il gruppo punk britannico più hot del momento: i due album pubblicati nel corso di soli due anni, “Brutalism” nel 2017 e “Joy As An Act Of Resistance” quest’anno, sono stati lodati come moderni capolavori del genere, capaci di rifarsi ai maestri del passato (soprattutto Clash) ma perfettamente calati nel mondo moderno. Aiuta molto il fatto che il gruppo guidato da Joe Talbot parli di temi decisamente attuali: la rabbia per un mondo sempre più ingiusto, l’odio per coloro che tramite la Brexit hanno staccato la Gran Bretagna dall’Europa… insomma, tematiche molto sentite e non puramente british.

La musica degli IDLES in realtà non è rivoluzionaria, ma come potrebbe esserlo del resto in un genere chiuso come il post-punk? Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente è l’energia che il complesso britannico mette in ogni canzone: il frontman Talbot, con il suo vocione, ricorda un King Krule meno raffinato, mentre la base ritmica fornita dal batterista Jon Beavis e dai chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan è solida. Vi sono in effetti tutti gli ingredienti per avere un ottimo disco punk.

Cosa puntualmente confermata: “Joy As An Act Of Resistance” è senza ombra di dubbio uno dei dischi punk più convincenti dell’anno. Il titolo può tuttavia trarre in inganno: di gioia, sia nei testi che nelle canzoni degli IDLES, ne troviamo ben poca. Basti dire che uno dei temi che permea il CD è l’avere un figlio nato morto: “Baby shoes for sale: never worn” canta Talbot in June, un verso apparentemente innocuo ma in realtà devastante. Eloquente poi il titolo della furiosa I’m Scum, ma i veri capolavori sono altri: le tesissime Never Fight A Man With A Perm e Danny Nedelko sono pezzi punk riuscitissimi, che ricordano i migliori Cloud Nothings e Preoccupations. Ottima anche Love Song. Convince meno la parte finale dell’album, inferiore alla media ad esempio Television; ma i risultati restano complessivamente lodevoli.

In conclusione, gli IDLES hanno alzato ancora la posta, producendo un album che dimostra un potenziale immenso: starà a loro riuscire a sfruttarlo appieno. “Joy As An Act Of Resistance” infatti non è ancora il loro “Big One”, ma se riusciranno a replicare per 30-35 minuti l’intensità di pezzi come Danny Nedelko avremo di fronte il nuovo “Unknown Pleasures”. Missione difficilissima certo, ma perché non sperarci?

La prima parte dei 50 migliori album del 2018 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento domani con la seconda parte della lista. Stay tuned!

Rising: IDLES & Noname

La rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti affronta due CD che hanno contribuito a rendere il settembre appena passato un mese incandescente. Gli IDLES sono un giovane gruppo che punta a scrivere pagine indelebili del punk del futuro; invece Noname è un’artista che mescola efficacemente hip hop, jazz e soul, per riscrivere le regole del gioco della black music. Ma andiamo con ordine.

IDLES, “Joy As An Act Of Resistance”

joy

Gli IDLES sono probabilmente il gruppo punk britannico più hot del momento: i due album pubblicati nel corso di soli due anni, “Brutalism” nel 2017 e “Joy As An Act Of Resistance” quest’anno, sono stati lodati come moderni capolavori del genere, capaci di rifarsi ai maestri del passato (soprattutto Clash) ma perfettamente calati nel mondo moderno. Aiuta molto il fatto che il gruppo guidato da Joe Talbot parli di temi decisamente attuali: la rabbia per un mondo sempre più ingiusto, l’odio per coloro che tramite la Brexit hanno staccato la Gran Bretagna dall’Europa… insomma, tematiche molto sentite e non puramente british.

La musica degli IDLES in realtà non è rivoluzionaria, ma come potrebbe esserlo del resto in un genere chiuso come il post-punk? Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente è l’energia che il complesso britannico mette in ogni canzone: il frontman Talbot, con il suo vocione, ricorda un King Krule meno raffinato, mentre la base ritmica fornita dal batterista Jon Beavis e dai chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan è solida. Vi sono in effetti tutti gli ingredienti per avere un ottimo disco punk.

Cosa puntualmente confermata: “Joy As An Act Of Resistance” è senza ombra di dubbio uno dei dischi punk più convincenti dell’anno, testa a testa con l’esordio degli Shame “Songs Of Praise”. Il titolo può tuttavia trarre in inganno: di gioia, sia nei testi che nelle canzoni degli IDLES, ne troviamo ben poca. Basti dire che uno dei temi che permea il CD è l’avere un figlio nato morto: “Baby shoes for sale: never worn” canta Talbot in June, un verso apparentemente innocuo ma in realtà devastante. Eloquente poi il titolo della furiosa I’m Scum, ma i veri capolavori sono altri: le tesissime Never Fight A Man With A Perm e Danny Nedelko sono pezzi punk riuscitissimi, che ricordano i migliori Cloud Nothings e Preoccupations. Ottima anche Love Song. Convince meno la parte finale dell’album, inferiore alla media ad esempio Television; ma i risultati restano complessivamente lodevoli.

In conclusione, gli IDLES hanno alzato ancora la posta, producendo un album che dimostra un potenziale immenso: starà a loro riuscire a sfruttarlo appieno. “Joy As An Act Of Resistance” infatti non è ancora il loro “Big One”, ma se riusciranno a replicare per 30-35 minuti l’intensità di pezzi come Danny Nedelko avremo di fronte il nuovo “Unknown Pleasures”. Missione difficilissima certo, ma perché non sperarci?

Voto finale: 8.

Noname, “Room 25”

room 25

Il primo album vero e proprio di Fatimah Nyeema Warner, in arte Noname, segue il fortunato mixtape “Telefone” del 2016. Già nel precedente lavoro la ventisettenne aveva mostrato qualità non banali, soprattutto per l’innata abilità di fondere fra loro generi come rap, funk e soul. In “Room 25” Noname amplia la propria tavolozza, inglobando elementi di neo-soul degni del miglior D’Angelo e affrontando temi delicati come la scoperta della propria sessualità in maniera sincera, a volte addirittura sfacciata.

“Room 25” si apre con Self, che contiene uno dei versi più riusciti dell’anno: “My pussy teachin’ ninth-grade English. My pussy wrote a thesis on colonialism”. Beh, una dichiarazione d’intenti niente male, condita da un’ironia non comune. I riferimenti alla propria sessualità sono poi sparsi qua e là nel corso del breve ma efficace album, ad esempio in Window Noname canta “I know you never loved me but I fucked you anyway. I guess a bitch like to gamble”. Tuttavia, le liriche così esplicite (che riportano alla mente “CTRL” di SZA del 2017) non sono la parte migliore dell’album. Infatti, la Warner, in soli 35 minuti, condensa circa vent’anni di musica nera: trovando un precario punto d’incontro fra jazz, hip hop e soul, “Room 25” diventa un LP irrinunciabile per gli amanti della black music. Noname è consapevole dei giganti che sta citando, non a caso in Don’t Forget About Me dice “Somebody hit D’Angelo, I think I need him for this one”, nondimeno non si lascia intimorire e forgia un lavoro pregevole nelle sue parti migliori.

Infatti, non è facile a resistere a belle canzoni come Ace (che vanta la collaborazione di Saba, altro rapper emergente) e la dolce Prayer Song. Se vogliamo trovare un difetto al disco è l’eccessiva frammentarietà: la brevità è un pregio, ma molti pezzi non arrivano nemmeno ai canonici tre minuti, fatto che alla lunga può stufare. In generale, però, ripetuti ascolti attenuano questa caratteristica ed anzi esaltano la grande varietà di ritmi e generi affrontati dall’artista.

In conclusione, “Room 25” è un ottimo disco d’esordio per la giovane Noname, che promette di occupare un posto importante nel panorama hip hop degli anni a venire. Il fatto poi che rinunci addirittura a possedere un nome d’arte e non abbia (ancora) alcuna rivalità con le superstar femminili del rap contemporaneo la rendono umile e pronta a sbocciare definitivamente.

Voto finale: 8.