I 50 migliori album del 2021 (50-26)

Ci siamo: è tempo di pubblicare la lista dei migliori 50 album dell’anno di A-Rock! Come ormai è consuetudine, pubblichiamo oggi la prima parte e nei prossimi giorni la seconda e più ambita. Il 2021 è stato un anno strano: non più costretti a lockdown devastanti per le nostre vite sociali e l’economia, abbiamo forse avuto meno tempo per ascoltare musica, per fortuna sotto tanti punti di vista.

Quest’anno però è stato segnato dal ritorno di nomi attesissimi: da Drake a Kanye West, da Adele a Lana Del Rey, passando per i Coldplay e Billie Eilish. Abbiamo avuto poi l’esplosione di nomi emergenti come Olivia Rodrigo e Little Simz, senza dimenticarci dei lavori dei veterani: Nick Cave, Sufjan Stevens…

Piccola nota metodologica: malgrado la qualità elevata dei due LP ripubblicati da Taylor Swift a seguito delle dispute con la sua vecchia casa discografica, i due sono edizioni aggiornate di lavori usciti rispettivamente nel 2008 (“Fearless”) e nel 2012 (“Red”), ecco perché non li troverete elencati.

In ogni caso, la domanda sorge spontanea: chi avrà avuto l’onore di entrare nella lista dei migliori CD del 2021 di A-Rock? Buona lettura!

50) King Gizzard & The Lizard Wizard, “L.W.” / “Butterfly 3000”

(ROCK)

Come al solito, i King Gizzard & The Lizard Wizard hanno dato sfoggio della loro prolificità pubblicando ben due album nel 2021, entrambi di buona fattura.

Il primo, “L.W.”, non smentisce la loro fama di collettivo sempre voglioso di sperimentare: passando dal pop quasi beatlesiano a ritmi più psichedelici, se non hard rock, “L.W.” è l’ennesima dimostrazione del talento di Stu Mackenzie e compagni.

Il CD forma un’ideale coppia col precedente “K.G.”, che flirtava addirittura con il rock mediorientale e nordafricano; questa volta i King Gizzard & The Lizard Wizard fanno una sorta di riassunto di dieci anni di attività, un po’ per ricaricare le batterie un po’ per accontentare i fans di ogni tipo, da quelli metallari a quelli più mainstream.

Rispetto al fratello “K.G.”, questo lavoro è più riuscito e riesce in maniera più convincente ad assemblare tutti i vari tipi di rock provati nel corso della carriera dai Nostri, dal garage allo psichedelico al folk. La chiusura K.G.L.W. si propone quindi come ideale chiusura del cerchio, coi suoi ritmi duri e quasi fuori posto in un LP per il resto tranquillo. I brani migliori sono Supreme Ascendancy e l’epica K.G.L.W., mentre delude un po’ Pleura.

In conclusione, i King Gizzard & The Lizard Wizard si confermano voce tanto prolifica quanto imprescindibile per gli amanti del rock più scanzonato, capaci di passare nel giro di pochi anni dal garage rock (“12 Bar Bruise”, esordio del 2012) al metal (“Infest The Rats’ Nest” del 2019), attraversando ogni altro tipo di sonorità rock, spesso con risultati davvero soddisfacenti. “L.W.” rientra in questa categoria: evidentemente il lockdown ha stimolato la creatività della band.

Il diciottesimo album in dieci anni a firma King Gizzard & The Lizard Wizard (nessun errore di battitura, è proprio così), secondo del 2021, è una piacevole rinfrescata in un sound che ne aveva davvero bisogno. Se nei due precedenti LP “K.G.” (2020) e “L.W.” (2021) i Nostri erano stati accusati di ripercorrere strade ben note, con risultati non sempre all’altezza, “Butterfly 3000” rinuncia allo psych-rock per toni molto più sereni e un synthpop davvero inatteso.

Il disco non è stato anticipato da alcun singolo e il marketing è stato ridotto all’osso: mosse strane per Stu Mackenzie & co., che fanno di “Butterfly 3000” un outlier davvero interessante. Concepito per essere ascoltato come un’unica suite, il lavoro suona fresco, curato e finalmente aperto a nuove influenze. Fin dall’apertura di Yours capiamo che qualcosa è cambiato: i toni apocalittici visti in “Murder Of The Universe” (2017) o in “Infest The Rats’ Nest” (2019) sono abbandonati, per far posto a riflessioni sul mondo dei sogni e i suoi effetti sulla quotidianità della band, su una base tranquilla.

Prova ne sia il ritornello della dolce Dreams: “I only wanna wake up in my dream… I only feel alive in a daze”. Anche altrove si propongono visioni oniriche, come in Blue Morpho e Interior People. I brani migliori sono proprio Blue Morpho e Catching Smoke, mentre è un po’ sotto la media Black Hot Soup, troppo lunga.

In un periodo di relativa tranquillità, sentire anche un gruppo di solito visionario come i KG&TLW addolcire i toni fa piacere. Pur essendo stato concepito durante i lockdown pandemici, “Butterfly 3000” è un ottimo lavoro per celebrare il ritorno alla vita, che sembra davvero vicino (speriamo).

49) Snail Mail, “Valentine”

(ROCK)

Il secondo disco, per molti, è un ostacolo insormontabile e si rivela un peso dopo un esordio elogiato dalla critica e, magari, anche da larghe fette di pubblico. Questo poteva essere il caso per Lindsey Jordan, la giovane cantautrice dietro il progetto Snail Mail. “Lush”, il suo primo disco del 2018, era stato visto da molti come l’inizio di una carriera brillante nel mondo indie rock. A-Rock, dal canto suo, l’aveva inserita in una puntata della rubrica Rising e “Lush” era entrato nella lista dei 50 migliori lavori dell’anno. Pertanto, l’attesa era tanta.

I singoli di lancio del CD avevano contribuito a fare di “Valentine” uno dei più attesi dell’anno: la title track è un irresistibile pezzo indie rock, Ben Franklin è più melodico ma non meno riuscito, così come Madonna. Aggiungiamo poi una lunghezza per una volta adeguata: 32 minuti presuppongono, auspicabilmente, poco spazio per le tracce filler tipiche dei dischi più lunghi. A tutto ciò aggiungiamo la produzione di Brad Cook, in passato collaboratore di altre “indie darlings” come Waxahatchee e Indigo De Souza, per una ricetta potenzialmente squisita.

I risultati sono lusinghieri, in effetti: Snail Mail si conferma nome di crescente peso nel panorama rock e canzoni come Valentine e la conclusiva Mia farebbero la fortuna di molti. Peccato solo per la presenza di un paio di brani inferiori alla media, come Forever (Sailing) e Automate, altrimenti il voto complessivo sarebbe ancora maggiore.

Anche liricamente “Valentine” conferma il talento di Lindsey Jordan nel trasmettere sentimenti che molti hanno provato con parole semplici ma toccanti. Chi non ha mai avuto il cuore infranto oppure provato invidia vedendo la vecchia fiamma accompagnata da un’altra persona? La Jordan è però candida nelle sue ammissioni, quasi al limite della sfrontatezza, ma è un tratto che apprezziamo in versi come “Those parasitic cameras, don’t they stop to stare at you?” (Valentine) e “I wanna wake up early every day just to be awake in the same world as you” (Light Blue). Altrove emerge l’ironia della Nostra: “Got money, I don’t care about sex” (Ben Franklin).

In conclusione, il CD non stravolge il mondo dell’indie, come alcuni vorrebbero credere. Nondimeno, Lindsey Jordan conferma la sua duttilità nel passare da brani più movimentati (Glory) ad altri più rilassati (c. et al.), che le apre la strada per un futuro radioso. Staremo a vedere in futuro dove andrà a parare, ma il progetto Snail Mail pare qui per restare.

48) Weezer, “OK Human”

(ROCK – POP)

Dopo un 2019 da molti salutato come il peggior anno della ormai lunga carriera dei Weezer, che ha visto l’uscita dei mediocri “Weezer (Teal Album)” e “Weezer (Black Album)”, seguito dal 2020 che tutti conosciamo, Rivers Cuomo & co. hanno regalato un 2021 ricco di sorprese: due CD pubblicati, il qui presente “OK Human” e “Van Weezer”, e il tour più atteso dagli amanti del pop-punk, l’Hella Mega Tour in compagnia di Green Day e Fall Out Boy.

La partenza del 2021 è in realtà una boccata d’ossigeno per una band sempre in bilico fra grandi dischi (soprattutto negli anni ’90 del secolo scorso) e flop colossali (uno su tutti: “Make Believe” del 2005). “OK Human” riecheggia ironicamente nel titolo “OK Computer” dei Radiohead (e un brano si intitola Here Comes The Rain, ricorda qualcosa?), ma in realtà i Weezer scanzonati lasciano in questo lavoro il posto a un gruppo maturo, coinvolto come tutti nei lockdown pandemici e con poca voglia di scherzare. Cuomo riecheggia i maestri pop del passato, dai Beach Boys a Serge Gainsbourg passando per Harry Nilsson, con garbo; l’uso di un’intera orchestra arricchisce la ricetta, echeggiando Elton John nei suoi momenti migliori.

I risultati, come già accennato, sono confortanti: al tredicesimo album di inediti (non contando il “Teal Album” che era una raccolta di cover), Rivers Cuomo pare aver trovato una veste che gli si addice oltre quella della rockstar piena di complessi. Pezzi come Playing My Piano e Bird With A Broken Wing sono davvero riusciti, ma in realtà la coesione e la brevità del lavoro (soli 30 minuti) tengono lontana la voglia dei Weezer di sperimentare, che spesso ha fatto deragliare lavori nati sotto una buona stella.

In ambito testuale, i Nostri non lesinano riferimenti all’attualità: Playing With My Piano contiene il verso più rilevante, “Kim Jong-Un could blow up my city, I’d never know”. È una frase che può essere presa come uno scherzo di cattivo gusto o una candida ammissione di impotenza di fronte a qualcosa di incontrollabile: per i Weezer l’unico modo di comunicare con l’esterno è un pianoforte, tanto che la realtà fa un passo indietro. Altrove abbiamo riferimenti all’uso smodato dei social media (Screens) alla storia della musica (All My Favorite Songs), più prevedibili ma centrati considerando il mood del disco.

In conclusione, dunque, “OK Human” è il disco più convincente dei Weezer dai tempi del “White Album” del 2016: un LP coeso, ben strutturato e sincero, che farà felici i fan del gruppo più affascinati dalla vena pop di Rivers Cuomo e compagni.

47) Boldy James & The Alchemist, “Bo Jackson”

(HIP HOP)

La nuova collaborazione fra il rapper Boldy James e il leggendario produttore The Alchemist è un CD di hip hop vecchia maniera. Le sue basi sono la perfetta controparte quando si vogliono raccontare fatti legati alla vita di strada in modo crudo. La malinconia che traspare è infatti evidente e si sposa bene con le storie di Boldy James.

Siamo alla collaborazione numero quattro fra i due, dopo “My 1st Chemistry Set” (2013), l’EP “BOLDFACE” (2019) e “The Price Of Tea In China” (2020). La chimica fra i due è innegabile, come ulteriormente confermato in “Bo Jackson”: malgrado un inizio un po’ lento, pezzi come Brickmile To Montana e Photographic Memories alzano considerevolmente il livello. Da sottolineare poi il parco ospiti: Benny The Butcher, Earl Sweatshirt e Freddie Gibbs, giusto per citare i più celebri, danno una mano a rendere “Bo Jackson” davvero imperdibile.

Il CD, come accennato precedentemente, prende molti episodi di vita di strada vissuti in prima persona da Boldy James oppure narrati da quest’ultimo, con grande dovizia di particolari e versi a volte toccanti come: “All this pressin’ is depressin’, the pressure is still pressin’ against a nigga flesh, it’s beyond measure” (DrugZone).

In conclusione, “Bo Jackson” è un buonissimo album rap. Nulla capace di riscrivere la storia del genere, sia chiaro, ma da sentire almeno una volta e fortemente consigliato agli amanti del genere.

46) The Weather Station, “Ignorance”

(POP)

Il quinto album della cantautrice Tamara Lindeman, meglio conosciuta come leader del progetto The Weather Station, è una decisa svolta verso territori art pop. Se originariamente la si poteva inquadrare nel folk tipico dei cantautori anni ’60, “Ignorance” ricorda i CD recenti di Weyes Blood e Sharon Van Etten, con un tocco jazz in alcuni brani che arricchisce ulteriormente la ricetta.

Il brano migliore è l’iniziale Robber, un inno anticapitalista che è una lenta progressione verso il raffinato jazz della coda strumentale. Ora che The Weather Station si è arricchita di una band al completo a supportarla (chitarra, basso, sassofono e ben due percussionisti), la differenza rispetto ai minimali CD degli esordi è notevole. Anche Atlantic, la seconda canzone in scaletta, è uno dei migliori esempi di questo nuovo stile di Tamara Lindeman.

Nella seconda parte del lavoro la qualità sembra calare leggermente, a causa di pezzi più prevedibili come Loss e Separated, ma i risultati complessivi restano più che buoni. Da evidenziare anche alcuni passaggi lirici di “Ignorance”: il tema portante (come anche il nome del progetto anticipa) è il cambiamento climatico e l’ignoranza che pervade molti su un tema considerato da Lindeman ineludibile per i prossimi anni. In Atlantic il verso “I should really know better than to read the headlines” è emblematico e nella stessa canzone abbiamo anche “My god, I thought, ‘What a sunset.’”, davvero poetico. È poi interessante l’uso della voce di Lindeman: mai alta nel mix, piuttosto quasi uno strumento come gli altri.

In generale, dunque, “Ignorance” musicalmente non introduce nulla di radicale nel mondo del pop più raffinato. The Weather Station ha prodotto un LP che ricorda quasi uno dei recenti album dei Destroyer, un pop raffinato e sontuoso a tratti, arricchito da liriche spesso acute. Che sia la svolta per Tamara Lindeman? Attendiamo il suo prossimo lavoro per una valutazione più precisa.

45) Cassandra Jenkins, “An Overview On Phenomenal Nature”

(FOLK – POP)

Il secondo album della cantautrice statunitense riafferma una volta di più che il panorama cantautorale femminile è più vivo che mai: negli ultimi anni abbiamo visto emergere volti destinati a scrivere pagine rilevanti in futuro (Phoebe Bridgers, Lucy Dacus, Julien Baker e Sharon Van Etten solo per citarne alcune) e Cassandra Jenkins si aggiunge meritatamente a questa schiera.

“An Overview on Phenomenal Nature” ritmicamente si presenta come un CD a metà fra folk e art pop, un po’ la versione aggiornata al 2021 di “Bon Iver, Bon Iver” (2011) dell’omonimo progetto. Le canzoni sono ovattate, virano alle volte verso il country (Michelangelo), ma pezzi come Hard Drive mostrano tutto il talento compositivo della Nostra.

Liricamente, le sole sette canzoni descrivono soprattutto quadretti di vita quotidiana: una testimonianza di una guardia giurata di un museo; il dolore di sentire che un tuo idolo d’infanzia, con cui avresti dovuto intraprendere un tour, si è suicidato; sentimenti divergenti come sarcasmo e frustrazione… I versi che restano più impressi sono i seguenti: “Empty space is my escape” (Crosshairs), “Baby, go get in the ocean… The water, it cures everything” (New Bikini) e il potente “We’re gonna put your heart back together, are you ready?” in Hard Drive.

In conclusione, la brevità del lavoro gioca sia a favore che contro il risultato finale: se da un lato la noia non affiora mai, è anche vero che i soli 31 minuti ci fanno desiderare qualcosa in più, contando il finale quasi ambient di The Ramble abbiamo infatti soli sei brani cantautorali veri e propri. “An Overview On Phenomenal Nature” resta però davvero interessante nei suoi passaggi migliori e merita almeno un ascolto.

44) Lorde, “Solar Power”

(POP)

Il terzo album della popstar neozelandese è una svolta piuttosto radicale nello stile di Lorde. Se in “Pure Heroine” (2013) e “Melodrama” (2017) l’artista si era fatta notare per un pop in technicolor e canzoni vivaci, provocatorie a volte come Royals e Green Light, riscrivendo molto dello stile pop presente e futuro, “Solar Power” suona come un ritiro in sé stessa.

Jack Antonoff, il produttore più cercato del momento (basti citare le recenti collaborazioni con Taylor Swift e Lana Del Rey), dà anche a questo CD il suo proverbiale tocco: atmosfere soffuse, voce sporca e svolta in direzione folk-pop compiuta. I risultati possono non piacere, soprattutto ai fan della prima ora della neozelandese, ma dimostrano che Lorde è qui per restare e che pretendere da lei sempre lo stesso disco è un’aspettativa destinata a essere infranta.

La principale critica che si può fare stilisticamente al disco è che suona “fuori tempo”: Lorde sembra serena e fin troppo rilassata, si sente qua e là un sapore psichedelico che rende “Solar Power” quasi derivato dai Beach Boys… manca inoltre quella critica sociale che aveva fatto la fortuna anche mediatica della neozelandese.

Il CD, concepito per essere un concept album sulla crisi climatica, suona in realtà un po’ sfocato liricamente: abbiamo riferimenti a Pearl, il suo amato cane da poco deceduto (Big Star); canzoni sull’amore finito (California); e poi anche referenze al riscaldamento globale (“How can I love what I know I am gonna lose? Don’t make me choose”, Fallen Fruit). Abbiamo, poi, un riferimento all’ansia da ragazza prodigio del pop (“Teen millionaire having nightmares from the camera flash”, The Path) e ad un uomo violento che si reinventa maestro new-age (Dominoes).

Musicalmente però, come già accennato, “Solar Power” è un altro LP di qualità nella discografia di Ella Marija Lani Yelich-O’Connor: la title track è un grande pezzo estivo, con ritornello irresistibile grazie anche alle armonie vocali di Clairo e Phoebe Bridgers. Anche California è un brano di ottimo livello. Invece The Man With The Axe e Dominoes sono fin troppo monotone e rompono il ritmo dell’album.

In generale, “Solar Power” pare quasi un CD di transizione, verso nuovi lidi: Lorde non vuole essere la portabandiera della sua generazione, come proclama fin dalla prima canzone The Path (“Now if you’re looking for a savior, well that’s not me. You need someone to take your pain for you? Well, that’s not me”). Non tutti saranno contenti di questa mossa; di certo dopo “Melodrama” ci aspettavamo un album più coraggioso. I risultati raggiunti in “Solar Power” non sono tuttavia da disprezzare: vedremo, presumibilmente tra quattro anni, dove Lorde condurrà la propria estetica.

43) BROCKHAMPTON, “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE”

(HIP HOP)

La boyband più famosa dell’hip hop è tornata. Giunti al sesto album in quattro anni, i BROCKHAMPTON hanno ormai uno stile riconoscibile e allo stesso tempo sempre variegato: pop, rap, R&B, addirittura il rock progressivo trovano spazio in “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE”. Il risultato? Non perfetto, ma certamente un progresso rispetto a “GINGER” (2019).

Se in passato i lavori del collettivo americano potevano essere tacciati di contenere pezzi troppo lunghi, per dare modo a tutti i componenti di dire la loro, in “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE” i ragazzi suonano più leggeri. Brani riusciti come l’epica WHAT’S THE OCCASION, che pare un remix dei Pink Floyd, riescono a integrarsi bene con BUZZCUT, ottima intro con Danny Brown protagonista, e la perla pop OLD NEWS, che ricorda il Tyler, The Creator di “IGOR”. In generale, a parte la monotona DON’T SHOOT UP THE PARTY, Kevin Abstract e compagni hanno prodotto il loro miglior lavoro dai tempi della trilogia delle “SATURATION” (2017).

Anche testualmente il CD suona profondo e sentito, ma non sovraccarico di introspezione come in passato. Joba parla del tragico suicidio del padre in THE LIGHT con versi frammentari ma drammaticamente veri: “At a loss, aimless… Hope it was painless, I know you cared… Heard my mother squealing. I miss you”. In BUZZCUT invece Abstract canta di periodi difficili nella sua vita: “Thank God you let me crash on your couch”, lo stesso accade in THE LIGHT: “I was broke and desperate, leaning on my best friends”.

In conclusione, se questo è davvero l’ultimo LP a firma BROCKHAMPTON, come alcuni di loro hanno fatto intendere, il gruppo se ne andrà con un ottimo lavoro. “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE” è infatti relativamente compatto (46 minuti in 13 canzoni) e ben strutturato, vario (forse fin troppo) e curato.

42) Injury Reserve, “By The Time I Get To Phoenix”

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il secondo album degli Injury Reserve è stato terribilmente influenzato dalla morte del membro Stepa J. Groggs, a soli 32 anni, a metà del 2020. A molti è sembrato quasi un sacrilegio terminare questo lavoro, già ben avviato quando Groggs ha lasciato questo mondo. In realtà, che questo sia o meno l’ultimo disco del qui presente gruppo rap, “By The Time I Get To Phoenix” è un CD ardito, sperimentale, quasi non hip hop nell’adozione delle basi: insomma, un buon prodotto da parte di una band ancora pronta a dare tanto alla musica.

Dicevamo che hip hop non sono necessariamente le prime parole che vengono in mente ascoltando il CD: in effetti, se prendiamo alcuni pezzi come Footwork In A Forest Fire, siamo quasi più vicini al rock che al rap. In generale, tutto è di difficile catalogazione: potremmo definirlo “post hip hop”, sulla scia del post rock, ma sarebbe comunque una classificazione parziale. Non è un LP facile, poco da dire, ma “By The Time I Get To Phoenix” merita un ascolto.

L’inizio è quasi informe: la lunghissima Outside pare più un collage di suoni e voci stentate piuttosto che una canzone fatta e finita, ma ha l’effetto di introdurre il mood stralunato del CD in maniera efficace. Altrove le cose sono ancora più difficili: Smoke Don’t Clear è davvero inquietante, mentre Knees ricorda il King Krule più strampalato.

In generale, è da lodare la voglia di esplorare sempre nuovi orizzonti da parte dei due rimanenti Injury Reserve, la voce Ritchie With a T e il produttore Parker Corey. Prova ne siano i pezzi migliori di “By The Time I Get To Phoenix”, come Top Picks For You e SS San Francisco. Non siamo dunque nei territori fin troppo rumorosi e fini a sé stessi, in alcuni tratti, di “Injury Reserve” (2019). Sotto la media invece Wild Wild West.

Gli Injury Reserve stanno esplorando il rap come pochi altri artisti in questi ultimi anni; “By The Time I Get To Phoenix” è un LP non per tutti, ma merita un ascolto, come già detto in precedenza, anche solamente alla memoria del compianto Stepa J. Groggs.

41) Damon Albarn, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”

(POP)

Il nuovo progetto solista di Damon Albarn, solamente il secondo dopo “Everyday Robots” del 2014, è in realtà un altro capitolo di una storia sempre variegata e di alto livello. “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” è un CD più meditativo rispetto agli ultimi Gorillaz o Blur (entrambe band comandate da Albarn), ispirato dai paesaggi islandesi dove il cantautore ha vissuto per un periodo prima dell’arrivo del Covid e del ritorno a casa nel Devon. Pur non perfetto, rappresenta bene i tempi sospesi in cui viviamo e arricchisce ulteriormente un’eredità sempre più ingombrante.

Solo in certi aspetti il CD riporta alla memoria i momenti più movimentati delle band più celebri di Damon: ad esempio, in Royal Morning Blue e The Tower Of Montevideo. Al contrario, il mood complessivo è molto più raccolto, quasi musica ambient in certi tratti: Albarn ha infatti dichiarato di ispirarsi ai modesti e solitari paesaggi dell’isola. Ne sono esempio la title track e Daft Wader.

Nel corso dei 39 minuti che formano “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”, Damon ci porta in posti diversi, dal vulcano Esja nell’omonima traccia all’Uruguay in The Tower Of Montevideo, evocando i momenti più belli della gioventù (“Youth seemed immortal, so sweet it did weave heaven’s halo around”, The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows) così come la sensazione di paura che tutti abbiamo quando ci sentiamo abbandonati (“Am I imprisoned on this island?”, The Cormorant).

Non tutto musicalmente gira alla perfezione, ad esempio Giraffe Trumpet Sea è confusa e Combustion è debole, ma in generale il CD conquista con la sua grazia e cura dei dettagli. Damon Albarn si conferma cantautore pressoché unico, capace di spaziare riguardo temi politici (in “Merrie Land” dei The Good, The Bad & The Queen criticava la Brexit, nel 2018) così come di portarci in Africa con il progetto Africa Express e di rappresentare l’Inghilterra anni ’90 coi Blur. Abbiamo una sola richiesta: Damon, per favore tagliati quel mullet!

40) Genesis Owusu, “Smiling With No Teeth”

(HIP HOP)

Il poliedrico artista originario di Canberra ha prodotto con “Smiling With No Teeth” un ottimo album di esordio, che esplora generi tanto vari che vanno dal funk à la Prince a ritmi soul assimilabili a Solange Knowles, ma sempre su una base rap ben riconoscibile. Insomma, una ricetta ambiziosa e non semplice da portare a compimento senza inciampare: Genesis, se eccettuiamo un numero di canzoni un po’ troppo abbondante, ci riesce.

L’inizio di On The Move! può trarre in inganno: il brano è infatti un po’ fuori contesto nell’economia del disco, troppo rumorosa (ricorda quasi On Sight di Kanye West) se paragonata ad altre perle come Waitin’ On Ya e Don’t Need You. Tuttavia, il mood del disco è sempre ambivalente: da un lato abbiamo momenti davvero godibili (Waitin’ On Ya), dall’altro esperimenti hip hop (I Don’t See Colour). Insomma, Owusu forse non ha completamente capito cosa fare da grande, ma “Smiling With No Teeth” è davvero un’interessante introduzione alla sua estetica. Menzione finale per la sua bella voce, capace di passare da toni gravi a un falsetto davvero celestiale.

Il CD si propone come un trattato sulla condizione di un uomo di colore in una società prevalentemente dominata da bianchi e in cui gli insulti razziali sono ancora purtroppo all’ordine del giorno. Il “black dog” che ricorre in tante canzoni dell’album è una metafora di un epiteto spesso affibbiato da ragazzo al rapper australiano per disprezzarne il colore della pelle. Ad esempio, in The Other Black Dog si sente dire che “All my friends are hurting but we dance it off, laugh it off”. Gold Chains affronta invece il tema ambivalente della fama per un giovane ancora acerbo, mentre A Song About Fishing parla, appunto, di un tentativo senza successo di pescare su un ritmo quasi folk.

Insomma, la varietà stilistica, timbrica e ritmica la fanno da padrone in “Smiling With No Teeth”; alle volte, verrebbe da dire, quasi troppo. Tuttavia, Genesis Owusu a conti fatti non fallisce in nessuno dei generi sperimentati, sintomo di grande talento. Vedremo in futuro dove si dirigerà musicalmente parlando, per ora però possiamo dire con certezza che “Smiling With No Teeth” è uno dei migliori lavori hip hop dell’anno.

39) Laura Mvula, “Pink Noise”

(POP – R&B)

Il fascino degli anni ’80 è davvero infinito. The 1975, Dua Lipa… tanti sono gli artisti che recentemente hanno pubblicato lavori che si rifacevano a estetica e sonorità di quella decade magica per la musica pop. Il terzo CD di Laura Mvula, artista inglese come i due citati precedentemente, è un altro esempio di passione per gli anni della Milano da bere, questa volta sul versante R&B.

“Pink Noise” giunge cinque anni dopo il precedente “The Dreaming Room” e pochi mesi dopo “1/f-E.P.”, il quale remixava tracce del suo passato in chiave nuova, mostrando una Laura Mvula più sicura di sé. Il nuovo lavoro costruisce abilmente su questa ritrovata voglia di emergere, con canzoni ballabili e sexy, la voce di Laura in primo piano e strumentazione quasi sempre al top.

I risultati non cambiano la storia della musica e suonano un po’ nostalgici, ma complessivamente “Pink Noise” è molto gradevole ed ha buon replay value. Fra i brani migliori abbiamo sicuramente Safe Passage e l’irresistibile Church Girl, invece inferiore alla media Golden Ashes. Michael Jackson (Got Me) e Prince (Safe Passage) sono chiari riferimenti, ma la Mvula riesce a non suonare monotona malgrado i diversi rimandi a questi due giganti.

In generale, Laura Mvula si conferma nome interessante nella scena musicale moderna. Da un lato abbiamo un’ottima voce e una flessibilità in termini di generi affrontati in carriera che la fanno passare agilmente dal pop all’R&B alla dance; contemporaneamente, però, il successo non l’ha ancora baciata, viene quasi da pensare che la sua dimensione sia questa. Vedremo in futuro, per ora godiamoci questo “Pink Noise”, CD non certo fondamentale ma graditissimo agli amanti del pop anni ’80.

38) The Avalanches, “We Will Always Love You”

(ELETTRONICA)

Ecco il primo disco del tardo 2020 a fare capolino nella nostra classifica. Il nuovo disco degli australiani The Avalanches, uno dei nomi più importanti della plunderphonics (ovvero quella corrente della musica elettronica che ricava suoni e impulsi da migliaia, letteralmente migliaia, di frammenti tratti da musiche del passato), si è fatto attendere relativamente poco. Basti pensare che fra l’esordio fulminante “Since I Left You” (2000) e il pregevole “Wildflower” (2016) sono passati sedici anni! “We Will Always Love You” invece arriva “solo” quattro anni dopo.

Il messaggio del disco pare scritto già nel titolo: il gruppo avrà preparato la solita ricetta fatta di canzoni zuccherose, elettronica soft alternata a toni più dance, con testi gioiosi o melensi, nel peggiore dei casi. Beh, le prime impressioni sono solo parzialmente corrette: i The Avalanches infatti dedicano la gran parte delle canzoni allo spazio, con chiari riferimenti sparsi fra le ben 25 canzoni che compongono l’ambizioso CD. Altra presenza ricorrente è la scomparsa attrice Barbara Payton, a cui è dedicata la seconda canzone del lavoro e la cui figura tragica, con la morte a 39 anni per droga come conclusione, ispira i momenti più introspettivi.

Ancora una volta, come già in “Wildflower”, gli ospiti sono la parte maggiore dell’interesse per un LP dei The Avalanches: affiancare nella stessa canzone MGMT e Johnny Marr può essere pretenzioso, ma The Divine Chord è davvero carina. Inoltre abbiamo fra gli altri Kurt Vile, Denzel Curry, Jamie xx, Blood Orange e Tricky, senza dimenticarci Mick Jones (ex The Clash) e Rivers Cuomo dei Weezer. Insomma, un CD davvero variegato tanto quanto imprevedibile!

Forse troppo, a dirla tutta, tanto che anche dopo ripetuti ascolti digerire i tanti contenuti presenti non è per nulla facile. Si passa infatti dagli iniziali brevi brani Ghost Story e Song For Barbara Payton, quasi completamente recitati, alla psichedelia di The Divine Chord, al soul con spruzzate di elettronica di Reflecting Light, al trip hop di Until Daylight Comes. I brani migliori sono Wherever You Go e Take Care In Your Dreaming, mentre deludono Until Daylight Comes e Born To Lose.

Anche testualmente “We Will Always Love You” trasmette il concetto espresso nel titolo nei modi più svariati possibile: Solitary Ceremonies descrive una ragazza in contatto col celebre compositore Franz Liszt, che la ispira anche dall’aldilà guidando le sue mani sul pianoforte. Wherever You Go si apre con una trasmissione registrata dalla NASA e spedita nei Voyager 1 e 2 nelle rispettive missioni spaziali. I riferimenti allo spazio, come già accennato, sono numerosi: anche il rapper Pink Siifu in Running Red Lights immagina di volare in cielo e ascoltare la musica delle stelle.

In generale, dunque, la specialità dei The Avalanches è sempre stata quella di evocare paesaggi e tempi del passati senza per questo suonare nostalgici o attaccati ad un mondo che non tornerà più. “We Will Always Love You” è un disco non perfetto, ma che attraverso brani leggeri e atmosfere rilassate riuscirà sicuramente a rendere più sereno l’ascoltatore per i 71 minuti della sua durata.

37) MIKE, “Disco!”

(HIP HOP)

Il ritorno del giovane rapper americano lo vede finalmente provare ad andare avanti dopo la tragica morte della madre, avvenuta due anni fa e rappresentata con crudo realismo nei due precedenti lavori “tears of joy” (2019) e “Weight Of The World” (2020). La prolificità di MIKE non deve ingannare: stiamo parlando di un allievo di Earl Sweatshirt e una delle maggiori promesse nell’ambito del rap sperimentale.

“Disco!” è un titolo in realtà ingannevole: è vero, il CD è più ottimista dei passati lavori del Nostro e introduce temi nuovi rispetto alla morte e alle riflessioni tipiche di MIKE, però non si avvicina lontanamente alla musica elettronica. Le basi restano jazzate, a volte astratte; MIKE continua a rappare incessantemente… pertanto, nessuna reinvenzione radicale. Allo stesso tempo, come dicevamo, il disco introduce degli aspetti del carattere dell’artista newyorkese che non conoscevamo.

Una delle liriche di maggior impatto infatti è: “You flexing just to stick out, I flex because of great genes”, contenuta in Crystal Ball. In Aww (Zaza), MIKE è ancora più chiaro: “Struggling? Hmm, nah, but I’m recovering”. Sprazzi di spavalderia e serenità, dunque, subito affiancati da pensieri più pessimisti: “Sometimes I thought to take the losses as a gift, ’cause only death will show you how to live, right?”, da Leaders Of Tomorrow (Intro). I brani più convincenti sono Alarmed! e Spiral/Disco (Outro), mentre è monotono at thirst sight by Assia. Da menzionare infine la bellissima base di World Market (Mo’ Money). In realtà, “Disco!” può quasi essere inteso come un’unica lunga suite, data la grande coesione e coerenza fra un pezzo e l’altro.

In conclusione, il lavoro aggiunge ulteriore spessore a una figura, quella di MIKE, già attenzionata da molte pubblicazioni specialistiche, non ultima A-Rock. Il rapper newyorkese ha mostrato una volta di più il suo talento: “Disco!” potrebbe addirittura essere il suo album più riuscito.

36) Low, “HEY WHAT”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il tredicesimo disco dei Low, veterani della scena rock americana ed esponenti di spicco della corrente slowcore, è un altro viaggio all’interno dell’elettronica più d’avanguardia. Dopo lo shock di “Double Negative” (2018), in cui il sound della band era stato completamente destrutturato in favore di tonalità ambient e noise, “HEY WHAT” prosegue nell’esplorazione, rifinendo alcuni dettagli e facendo ancora più attenzione alla pura sperimentazione piuttosto che all’armonia della voci o delle composizioni.

Si sarà intuito che i 46 minuti di “HEY WHAT” non sono per tutti; tuttavia, per gli audaci che si vorranno immedesimare nel concetto alla base del CD, c’è tanto pane per i loro denti. Mimi Parker e Alan Sparhawk, la coppia che compone la band, sposati nella vita fuori dal gruppo, hanno raggiunto probabilmente il picco di questo rock anestetizzato, in cui le chitarre e il basso suonano come tastiere e sembra di entrare in un mondo post-industriale in un film catastrofico. Si ritorna alle atmosfere di “Yeezus” (2013) di Kanye West e allo shoegaze più sperimentale, ma onestamente pochi suonano come i Low, forse nessuno al momento.

Le prime note dell’album farebbero anche pensare ad un ascolto “tranquillo”, ma dopo trenta secondi White Horses dà il la al lavoro vero e proprio. Gli highlights sono la stupenda Days Like These e All Night, mentre delude Don’t Walk Away. Da menzionare infine The Price You Pay (It Must Be Wearing Off), che chiude trionfalmente il lavoro con il primo e unico pezzo di rock quasi “classico”.

Come già detto, “HEY WHAT” è un LP non semplice, ma dopo ripetuti ascolti schiude un mondo inquietante e allo stesso tempo catartico. Un’esperienza che vale la pena vivere.

35) Lana Del Rey, “Chemtrails Over The Country Club” / “Blue Banisters”

(POP)

Lana Del Rey ha avuto un 2021 piuttosto affollato, con la pubblicazione di ben due dischi di inediti. Il settimo disco di inediti di Lana Del Rey, “Chemtrails Over The Country Club”, segue il bellissimo “Norman Fucking Rockwell!” (2019), premiato da molte pubblicazioni (fra cui A-Rock) come uno dei migliori dischi dell’anno. Creare un erede all’altezza sarebbe stata un’impresa ardua per chiunque; la nostra fede nel talento della cantautrice americana era tuttavia immensa.

Nel 2020 Lana non è stata del tutto ferma, anzi: ha pubblicato una raccolta di poesie accompagnate dalle soffici note al pianoforte del fidato Jack Antonoff, annunciato un album di cover di standard americani (mai pubblicato finora) e il nuovo lavoro che stiamo qui recensendo. La pandemia ha insomma stimolato la popstar: “Chemtrails Over The Country Club”, malgrado non visionario come il precedente CD, è un lavoro curato che rientra con merito nel canone di Lana Del Rey e sarà sicuramente apprezzato dal pubblico che la segue ormai da dieci anni.

La prima parte del lavoro è più movimentata rispetto alla seconda: brani bellissimi e ambiziosi come White Dress e la title track sono fra i migliori della sua produzione. Anche Tulsa Jesus Freak ricalca bene le orme tracciate dai due pezzi precedenti. Invece la parte centrale ha delle ballad in puro stile Del Rey, da Let Me Love You Like A Woman a Breaking Up Slowly. “Chemtrails Over The Country Club” si chiude con una cover di For Free di Joni Mitchell, con l’assistenza di Weyes Blood: un tributo ad una delle maggiori ispirazioni della cantautrice nata Elizabeth Woolridge Grant.

Rispetto al passato, in generale, Lana pare tornata alle delicate atmosfere di “Honeymoon” (2015) piuttosto che al piano-rock di “Norman Fucking Rockwell!” o al pop suadente degli esordi. Il folk predomina, un po’ come in “folklore” ed “evermore” di Taylor Swift. Sebbene le due siano lontane come atteggiamenti ed estetica, va detto che le connessioni fra i loro ultimi lavori sono numerose.

Testualmente, infine, i riferimenti di Lana Del Rey sono collegati come al solito all’America nel senso più ampio del termine: David Lynch, Hollywood, il country club del titolo, le citazioni di Tulsa e Yosemite… Insomma, la diva americana è più immersa che mai nel suo paese. Troviamo poi rimandi a Dio (“It made me feel like a God” canta in White Dress, non contando il titolo stesso di Tulsa Jesus Freak) e all’amore (“If you love me, you love me, because I’m wild at heart” in Wild At Heart).

In conclusione, “Chemtrails Over The Country Club” rappresenta un altro passo avanti per una delle più riconoscibili voci del panorama pop contemporaneo. Lana Del Rey si conferma talentuosissima e in possesso di una visione sempre chiara per ogni suo progetto; la bellezza di “Norman Fucking Rockwell!” non è stata raggiunta, ma questo LP entrerà sicuramente nel cuore di molti.

Il secondo album del 2021 di Lana Del Rey è un ottimo completamento di un’era per lei molto travagliata. Polemiche sui social, da cui poi si è cancellata; discussioni a non finire sul precedente “Chemtrails Over The Country Club”, da alcuni considerato neanche avvicinabile al capolavoro che è “Normal Fucking Rockwell!” (2019)… insomma, poteva andare molto peggio. Invece, questo ottavo CD a firma Lana Del Rey la conferma cantautrice solida, magari non al top della forma ma sempre intrigante.

La campagna pubblicitaria è stata stranamente di basso profilo: tre singoli pubblicati a giugno e uno a settembre, come già ricordato nessuna campagna social… da qui a dire che il disco è passato in sordina ce ne passa, ma non siamo nemmeno vicini al battage mediatico per “Born To Die” (2012). Non per questo le canzoni latitano, anzi: tra un omaggio a Morricone in salsa trap (!) e le classiche ballate strappalacrime, “Blue Banisters” si inserisce perfettamente nel canone di Lana.

L’inizio è la parte migliore del lavoro: i singoli Text Book, Blue Banisters e Arcadia sono fra i brani migliori del lotto. Abbiamo poi lo strambo Interlude – The Trio, omaggio al Maestro Morricone con base trap: può sembrare assurdo, lo è in effetti, ma non è male. Segue poi un altro ottimo brano, Black Bathing Suit, che chiude la prima parte del CD. Successivamente, tra le altre cose, contiamo una collaborazione con Miles Kane (Dealer) e un singolo di due anni fa inserito in tracklist come omaggio ai fan (Cherry Blossom).

Insomma, i 61 minuti di “Blue Banisters” lasciano spazio un po’ a tutte le facce di Lana, anche quelle meno efficaci: le ballate Wildflower Wildfire e Nectar Of The Gods spezzano il ritmo del lavoro e allungano troppo il CD. Peccato, perché in certi tratti siamo di fronte ad un ottimo prodotto.

Anche liricamente, ormai, sono sparite le controversie degli esordi: Lana ha 36 anni, è una donna matura e “Blue Banisters” contiene riferimenti all’attualità (“Grenadine, quarantine, I like you a lot. It’s LA, ‘Hey’ on Zoom” canta in Black Bathing Suit) così come ad un amore ormai finito (“You name your babe Lilac Heaven after your iPhone 11… ‘Crypto forever,’ screams your stupid boyfriend. Fuck you, Kevin”, verso magistrale contenuto in Sweet Carolina). In Text Book, invece, la Nostra riflette su temi di più ampia portata: “There we were, screaming, ‘Black Lives Matter’”.

Infine, notiamo una cosa: Lana Del Rey è nella parte migliore della sua carriera e ha capitalizzato componendo sette album in sette anni, partendo da “Ultraviolence” (2014) per arrivare a questo “Blue Banisters”. Di quanti artisti contemporanei, uomini o donne che siano, possiamo dire che abbiano mantenuto una qualità costantemente così alta, pur variando estetica e collaboratori da un album all’altro, spesso in maniera anche radicale? Probabilmente nessuno, o per lo meno dobbiamo tornare alle leggende del pop-rock come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen. Sì, ormai per Lana Del Rey valgono anche questi paragoni.

34) Dry Cleaning, “New Long Leg”

(PUNK – ROCK)

L’album di esordio della band punk inglese è davvero originale: testi assurdamente divertenti, una frontwoman che, più che cantare, sussurra o narra storie senza alcuna passione (almeno in apparenza), sonorità che rimandano ai classici del passato ma tremendamente attuali… Insomma, un CD davvero intrigante.

Nell’ordine, “New Long Leg” è contraddistinto da: fatti di vita comune (“I’ve been thinking about eating that hot dog for hours” canta Florence Shaw in Strong Feelings), scherzi mal riusciti, una canzone che si intitola John Wick ma non parla del personaggio cinematografico interpretato da Keanu Reeves, ex partner che non vogliono andarsene (“Never talk about your ex, never never never never, never”, Leafy).

Tutto questo parlare è fatto su basi peraltro davvero ben strutturate, in cui il punk si interseca con l’estetica degli Strokes e in certi tratti addirittura degli Smiths, per creare un suono chiaramente indebitato coi grandi del passato ma anche sintomo di una scena inglese sempre più rigogliosa. Sbaglia però chi pensa ai due gruppi britannici più avventurosi del momento, black midi e Black Country, New Road: i Dry Cleaning sono molto più solidi e meno “jazz” nelle loro interpretazioni, più simili ai The Fall insomma.

Se uno ascolta i due EP del 2019 con cui la band si è fatta conoscere, “Sweet Princess” e “Boundary Road Snacks And Drinks”, i Dry Cleaning appaiono ora meno liberi; allo stesso tempo la produzione affidata al veterano John Parish (Aldous Harding, PJ Harvey) aiuta il gruppo a focalizzarsi ancora meglio sul suono e a mescolare la narrazione di Shaw col resto. I migliori risultati sono raggiunti in Unsmart Lady e Strong Feelings, mentre è leggermente sotto la media la title track. Addirittura psichedelica la conclusiva Every Day Carry, sette minuti davvero imprevedibili.

In conclusione, “New Long Leg” è un ottimo CD d’esordio, in cui i Dry Cleaning hanno già un’estetica ben delineata e inattaccabile. Si può fare meglio nel “punk sussurrato” che li contraddistingue? Difficile a dirsi, certamente ad A-Rock aspetteremo con trepidazione il prossimo lavoro della band inglese.

33) Tinashe, “333”

(R&B)

Il quinto CD della talentuosa cantante R&B è un altro tassello prezioso in una carriera in continua ascesa. Se nel precedente “Songs For You” (2019) Tinashe ci aveva fatto apprezzare il suo lato più commerciale e mainstream, “333” ritorna alle atmosfere di R&B alternativo degli esordi.

“333” non va inteso però come un ritorno al passato puro e semplice: Tinashe, infatti, sperimenta anche con l’elettronica, con basi spesso molto interessanti e che le permettono di occupare una nicchia molto delicata ma redditizia a cavallo fra pop, R&B e hip hop. Il CD scorre bene e, grazie anche a ospiti importanti come Kaytranada e Jeremih, è uno dei migliori album R&B del 2021.

La storia artistica di Tinashe non può essere distinta dalla battaglia per l’indipendenza condotta contro la sua precedente etichetta, la RCA, a causa di scelte discografiche su cui la Nostra non era d’accordo. “333” è infatti autoprodotto dalla cantante e ballerina statunitense: una mossa che certo potrebbe precluderle l’accesso alle classifiche, almeno nelle posizioni di vertice, ma dimostra forte voglia di indipendenza.

I brani migliori del lotto sono Let Go, un brano neo-soul davvero raffinato, e Undo (Back To My Heart). Buona anche Last Chase. Invece sono sotto la media la brevissima Shy Guy e la prevedibile Let Me Down Slowly. Da sottolineare infine la grande coesione del CD: malgrado i diversi generi affrontati,  “333”  suona organico e curato e i 47 minuti di durata passano senza intermezzi palesemente monotoni.

In generale, ormai Tinashe è un’artista matura e che sa, allo stesso tempo, mantenere le aspettative del pubblico e trovare quei due-tre trucchetti per non suonare troppo derivativa. “333” non è un capolavoro, ma rappresenta una solida addizione ad una discografia di tutto rispetto.

32) Japanese Breakfast, “Jubilee”

(POP)

Il terzo album a firma Japanese Breakfast trova Michelle Zauner in un mood decisamente più ottimista e positivo rispetto al passato. Stiamo parlando di una giovane donna che aveva affrontato nel suo esordio, “Psychopomp” del 2016, il dolore seguito alla morte di cancro della madre nel 2014. “Jubilee” invece è stato espressamente composto per il periodo (almeno apparente) di fine pandemia.

Il genere dominante infatti è un pop radioso, divertente e ballabile: ne sono chiari esempi Be Sweet e Slide Tackle, riuscite canzoni che richiamano gli anni ’80 e l’indie pop più recente. Altrove, va detto, il tono è più cupo: soprattutto nella parte finale del lavoro, infatti, Michelle ritorna ai toni più raccolti del passato, si ascolti ad esempio Tactics.

È interessante che in soli 37 minuti la Nostra sia in grado di passare senza problemi dal pop più danzereccio a quello da camera: pur mantenendo intatti i canoni estetici del progetto Japanese Breakfast, infatti, Zauner riesce ad ampliare i confini estetici del progetto e a suonare innovativa in un mondo frequentato come l’indie.

Liricamente, dicevamo, Michelle evita di parlare di fatti tragici come in passato, ma non rinuncia a testi pungenti: in Savage Good Boy la sentiamo evocare un mondo sinistro, in cui un colonizzatore spaziale cerca scampo dall’imminente apocalisse: “I want to make the money until there’s no more to be made… And we will be so wealthy I’m absolved from questioning”. Altrove invece analizza l’effetto che le luci della ribalta hanno sul nostro atteggiamento: “How’s it feel to be at the center of magic?” chiede provocatoriamente nell’iniziale Paprika.

I momenti genuinamente belli non mancano: oltre alle già citate Be Sweet e Slide Tackle, da sottolineare la coda strumentale di Posing In Bondage, davvero ipnotica. Meno riuscita Savage Good Boy, ma non rovina un quadro generale molto affascinante.

In conclusione, “Jubilee” è un perfetto CD post-Covid: ballabile, godibile ma non sfrenato, come richiede l’attuale momento. È inoltre ad oggi il disco più riuscito a firma Japanese Breakfast, pronta a spiccare il volo e diventare un volto insostituibile nello scenario indie pop.

31) Big Red Machine, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?”

(FOLK – ROCK)

Il secondo CD del progetto Big Red Machine, capitanato da artisti del calibro di Justin Vernon (Bon Iver) e Aaron Dessner (The National), è molto più aperto a influenze esterne rispetto all’eponimo esordio del 2018. I risultati sono migliori sotto vari punti di vista, anche se la lunghezza del lavoro può risultare indigesta alla lunga.

I Big Red Machine hanno sempre assunto la forma di side-project per Vernon e Dessner; se in passato il progetto appariva come un divertissement un po’ fine a sé stesso e per i soli appassionati dell’estetica indie folk-rock del duo, in “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” le cose cambiano. Abbiamo infatti degli ospiti davvero di grande livello: Taylor Swift, Robin Pecknold dei Fleet Foxes, Sharon Van Etten e Anaïs Mitchell, solo per citare i più noti.

Se c’è una pecca nel lavoro, come già accennato, è l’eccessiva lunghezza: 64 minuti di musica soft, nebbiosa, tendente al folk ma con sottofondo elettronico, possono risultare troppi. Allo stesso tempo, inoltre, Birch ed Easy To Sabotage, ad esempio, sono prolisse e tolgono ritmo al disco. Tolto questo difetto, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” è un buonissimo LP: Renegade (con Taylor Swift), Phoenix e Latter Days sono highlights innegabili. Invece Hoping Then è inferiore alla media.

Menzioniamo infine Brycie, dedicata da Dessner al fratello gemello, come canzone col verso più delicato: “You watched my back when we were young, you stick around when we’re old”; e Hutch, scritta in memoria dell’amico comune Scott Hutchinson (frontman dei Frightened Rabbit), recentemente suicidatosi, come quella con la lirica più commovente: “You were unafraid of how much the world could take from you. So how did you lose your way?”.

In conclusione, Big Red Machine si conferma progetto di valore, malgrado sia un passatempo per Vernon e Dessner in attesa di tornare a Bon Iver e ai The National. I collaboratori aggiungono sempre del loro ai componimenti, dando profondità, a volte troppa verrebbe da dire, ad un disco ambizioso e curato.

30) Julien Baker, “Little Oblivions”

(ROCK)

Il terzo album della cantautrice originaria del Tennessee è un ulteriore sviluppo del suono sperimentato nell’ottimo “Turn Out The Lights” (2017), il disco che aveva fatto conoscere Julien Baker ad un pubblico più ampio rispetto all’intimo “Sprained Ankle” (2015). Avere una band al completo a supportarla le consente di dare un sound più forte in certi tratti, rendendo “Little Oblivions” il suo CD più variegato.

Le premesse per un buon lavoro erano già state intraviste nei singoli di lancio: sia Hardline che Faith Healer sono highlights immediati del lavoro, le ancore a cui agganciare i brani più raccolti come Crying Wolf e Song In E. In generale, Julien non è mai parsa tanto aperta come sonorità, più vicino all’indie rock dell’amica Phoebe Bridgers di “Punisher” (2020) che al folk delle origini.

Ma, come abbiamo imparato nel corso degli anni, sono i testi la vera meraviglia, per certi versi la parte più angosciante del processo creativo della Baker. La sua sincerità disarmante è particolarmente evidente nei versi più tetri del lavoro: “What if it’s all black, baby, all the time?” canta in Hardline, mentre in Heatwave immagina di prendere l’intera cintura di Orione e legarsela attorno al collo per impiccarsi. Invece in Ringside si picchia fino a sanguinare e in Favor, assistita dalle sue compagne nella band boygenius (Phoebe Bridgers e Lucy Dacus), canta straziata “What right had you not to let me die?”. Essere cresciuta nel sud degli Stati Uniti, omosessuale e profondamente cristiana, ha lasciato tracce indelebili nella psiche della giovane cantautrice, che vengono alla luce nei suoi dischi.

In conclusione, un album che ha brani riusciti come Hardline e Faith Healer (senza scordare Relative Fiction) non può che essere valutato positivamente. Se a questo aggiungiamo testi tanto pessimisti quanto toccanti e una crescita personale e artistica evidente, “Little Oblivions” diventa imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

29) James Blake, “Friends That Break Your Heart”

(POP – R&B)

Il nuovo CD del cantautore britannico approfondisce la svolta verso il pop di “Assume Form” (2019), con maggiore fuoco alla parte propriamente pop-R&B piuttosto che all’hip hop che caratterizzava “Assume Form”. I risultati sono ottimi: James Blake pare aver trovato la sua dimensione, non eccessivamente commerciale ma nemmeno underground.

Il James Blake del 2021 è una persona diversa rispetto a colui che stupì il mondo nell’ormai lontano 2011, con l’eponimo esordio “James Blake”: il future garage delle origini permane solamente in qualche produzione, oppure in EP che fungono da intermezzi fra un LP e l’altro, si senta “Before” (2020). Ciò, però, come già accennato, non va a detrimento della qualità complessiva del lavoro: brani come Life Is Not The Same e Say What You Will sono fra i migliori della produzione recente del Nostro. Non fosse per una parte centrale debole, saremmo di fronte al suo miglior CD.

L’inizio è molto convincente: sia Famous Last Words che Life Is Not The Same, non a caso scelte come canzoni di lancio di “Friends That Break Your Heart”, fanno capire il mood del disco in maniera efficace. Atmosfere soft, testi introspettivi… queste sono le parole chiave. Abbiamo inoltre meno collaborazioni rispetto a quelle di alto profilo di “Assume Form”: da Metro Boomin e Travis Scott passiamo a SZA (nella buona Coming Back) e J.I.D. in Frozen, per citare i più celebri artisti chiamati da James.

Liricamente, il titolo del lavoro è evocativo dei temi affrontati: nella title track Blake canta “As many loves that have crossed my path, it was friends… it was friends who broke my heart”. If I’m Insecure si apre con un dubbio esistenziale: “If this is what we always wanted, how’s the signal so weak?”. Infine, in Say What You Will il testo si fa più evocativo: “I’m OK with the life of a sunflower”.

In conclusione, non fosse per un paio di brani davvero inferiori come I’m So Blessed You’re Mine e Foot Forward, il CD sarebbe davvero imperdibile. Anche con questa tracklist, tuttavia, “Friends That Break Your Heart” è il miglior disco di James Blake dai tempi di “Overgrown” (2013). Non una cosa scontata.

28) The Killers, “Pressure Machine”

(ROCK)

Il settimo album della band americana è un CD decisamente più introspettivo e modesto rispetto a quanto i The Killers ci avevano abituato nel loro passato sia prossimo che remoto. Se Brandon Flowers e compagni volevano produrre un LP folk-rock di qualità, missione compiuta; che lo abbiano fatto così bene da poter definire “Pressure Machine” il terzo miglior lavoro di sempre del gruppo, è sorprendente.

Ricordiamo che i The Killers avevano pubblicato nel 2020 “Imploding The Mirage”, un lavoro di buon heartland rock, che faceva il verso allo Springsteen più scatenato. “Pressure Machine”, registrato in pieno lockdown, che il frontman Brandon Flowers ha passato nella sua città natale nello Utah, Nephi, riporta alla mente invece “Nebraska” (1982) del Boss: un lavoro intimo, che scava nella memoria di un uomo di grande successo per rievocare episodi della sua infanzia e la vita nella città dove è cresciuto.

Un CD che poteva uscire malissimo si rivela invece una bella scoperta del lato più amaro e intimista dei The Killers: riuniti con lo storico chitarrista Dave Keuning, assente nel precedente lavoro, ma privi del bassista Mark Stoermer, che ha preferito non rischiare il contagio, pezzi come Terrible Thing e Runaway Horses (con Phoebe Bridgers) sarebbero inconcepibili in “Hot Fuss” (2004) e “Day & Age” (2008). Invece In The Car Outside è una melodia trascinante, che farà la fortuna dal vivo del complesso (sperando che questo momento arrivi presto).

È testualmente, però, che i The Killers stupiscono: la band i cui testi prima erano spesso insensati o molto astratti, ha scritto delle liriche davvero toccanti. Desperate Things rievoca un fatto scandaloso dell’infanzia di Flowers, in cui un poliziotto uccise il marito della figlia, che la abusava quotidianamente (“You forget how dark the canyon gets, it’s a real uneasy feeling”). Quiet Town, uno dei pezzi migliori di “Pressure Machine”, parla della dipendenza da oppioidi, che in America è una crisi di dimensioni enormi. Infine, Terrible Thing è la canzone più commovente: un giovane, incerto sulla sua sessualità, contempla il suicidio per il trattamento che subisce a Nephi, città del profondo sud degli Stati Uniti e quindi molto conservatrice.

In generale, l’unico rammarico di “Pressure Machine” è che non abbiamo le canzoni trascinanti che hanno reso i The Killers un pilastro del mondo pop-rock, basti ricordare Somebody Told Me, When You Were Young e soprattutto Mr. Brightside. Tuttavia, questo lavoro ci mostra il volto “autoriale” di una band che ha trovato nuova linfa dopo il mezzo disastro di “Battle Born” (2012). Tre LP in quattro anni sono un ottimo biglietto da visita; che siano di qualità crescente denota un talento non comune. Chapeau.

27) serpentwithfeet, “DEACON”

(R&B)

Il secondo CD di Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, è un ulteriore sviluppo di un’estetica in continua evoluzione. Partendo da territori sperimentali in “blisters” (2016), Wise ha progressivamente virato verso territori più vicini all’R&B, si ascolti il breve EP “Apparition” dello scorso anno. “DEACON” è ad oggi il suo lavoro più curato e più affascinante.

serpentwithfeet è decisamente cambiato rispetto al passato: se in four ethers, contenuta in “blisters”, cantava “It’s cool with me if you want to die… And I’m not going to stop you if you try”, adesso il fulcro dell’attenzione del cantautore è l’amore omosessuale. Similmente, anche le atmosfere si fanno più rassicuranti: lo sperimentalismo e l’elettronica delle origini lasciano il posto a canzoni serene, come Old & Fine. Anche i collaboratori sono simbolici: NAO e Sampha non sono certo i più arditi su piazza.

Liricamente, dicevamo, “DEACON” tratta temi molto familiari: ad esempio, guardare film col proprio partner, anche quelli fuori stagione (“Christmas movies in July with you”, Fellowship), l’amore per il prosecco (sempre Fellowship) e la libertà di vestire in modi che noi italiani potremmo disprezzare (“Blessed is the man who wears socks with his sandals” canta Josiah in Malik).

La brevità del CD (29 minuti) aiuta a mantenerlo su binari sempre coerenti fra loro, non c’è spazio per tentativi fuori luogo: una mossa forse rischiosa in tempi di streaming, ma che aiuta il replay value e inoltre evita gli episodi più deboli che colpiscono ogni disco oltre i 50 minuti di durata. I migliori pezzi sono Same Size Shoe, Fellowship e Amir, mentre sotto media è la fin troppo eterea Derrick’s Beard.

In conclusione, “DEACON” è un CD molto interessante, che cementa ulteriormente la fama di serpentwithfeet come artista imprescindibile per la scena R&B presente e futura. La sensazione è che ancora il suo capolavoro vero e proprio debba arrivare; per ora accontentiamoci di un lavoro curato e intenso come “DEACON”, fra i più bei dischi R&B dell’anno.

26) JPEGMAFIA, “LP!”

(HIP HOP)

Con il suo quarto album vero e proprio, non contando quindi i numerosi progetti catalogabili come mixtape, JPEGMAFIA ha composto contemporaneamente il suo CD più accogliente e più provocatorio. Se infatti i beat alla base di molte canzoni di “LP!” sono morbidi, addirittura ispirati da Britney Spears in un caso (THOT’S PRAYER!), testualmente il rapper statunitense è una furia, soprattutto contro l’industria discografica.

La versione qui recensita è quella “online”: JPEGMAFIA ha infatti proposto anche una versione “offline”, in realtà presente su Bandcamp, che presenta una sequenza diversa di alcune canzoni e alcune tracce bonus che poco aggiungono al risultato finale.

JPEGMAFIA viene dal buon successo di “All My Heroes Are Cornballs” (2019) e dai due brevi lavori “EP!” (2019) e “EP2!” (2020), questi ultimi da prendersi più come raccolte di singoli pubblicati precedentemente che come veri e propri manifesti artistici. “LP!” è quindi il vero erede di “All My Heroes Are Cornballs”: rispetto al passato, il Nostro sceglie basi meno pesanti sul lato punk e noise e maggiormente accoglienti, quasi commerciali, si senta a tal proposito WHAT KIND OF RAPPIN’ IS THIS?.

I puristi e i fan della prima ora diranno che Peggy si è venduto, ma la realtà è che maturando non per forza ci si rammollisce: semplicemente si cambia. Non per caso “LP!” contiene alcune delle canzoni migliori del repertorio di JPEGMAFIA, tra cui ARE U HAPPY? e REBOUND!. Ad indebolire il risultato finale è solo la tracklist un po’ dispersiva: i 49 minuti a tratti sembrano 60, ma non per questo il CD diventa indigeribile.

Dicevamo che il rapper è molto arrabbiato nei testi che permeano “LP!”. La sua furia è in particolare rivolta all’industria discografica, accusata di sfruttare gli artisti senza alcun rispetto per questi ultimi. In una nota sulla sua pagina Bandcamp JPEGMAFIA scrive: “My time in the music industry is over because I refuse to be disrespected by people who aren’t behaving respectably in the first place”. Non serve traduzione, no? Altre frasi forti sono le seguenti: “Why would I pray for your health? Baby, I pray for myself” (REBOUND!). Infine, il titolo di SICK, NERVOUS & BROKE! dice tutto.

In conclusione, questo “LP!” è ad oggi il più riuscito tra i numerosi progetti a firma JPEGMAFIA. I testi sono taglienti, le basi spesso azzeccate… quando imparerà a mettere da parte alcune tracce inutili, potremo parlare di capolavoro. Ma in questo caso Peggy ci è andato davvero vicino.

La prima parte della lista è quindi stata presentata. Chi sarà presente nella seconda e più ambita metà? Stay tuned!

Recap: ottobre 2021

Ottobre si è concluso. Dopo la scorpacciata di album di agosto e settembre, questo mese recensiamo i nuovi lavori di James Blake e del progetto Illuminati Hotties. Abbiamo ovviamente dato spazio al nuovo CD dei Coldplay, al secondo disco dell’anno di Lana Del Rey e al ritorno dei Parquet Courts e dei The War On Drugs. Inoltre, analizzeremo il nuovo LP di JPEGMAFIA e Grouper. Buona lettura!

The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

I don't live here anymore

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

Voto finale: 8,5.

James Blake, “Friends That Break Your Heart”

friends that break your heart

Il nuovo CD del cantautore britannico approfondisce la svolta verso il pop di “Assume Form” (2019), con maggiore fuoco alla parte propriamente pop-R&B piuttosto che all’hip hop che caratterizzava “Assume Form”. I risultati sono ottimi: James Blake pare aver trovato la sua dimensione, non eccessivamente commerciale ma nemmeno underground.

Il James Blake del 2021 è una persona diversa rispetto a colui che stupì il mondo nell’ormai lontano 2011, con l’eponimo esordio “James Blake”: il future garage delle origini permane solamente in qualche produzione, oppure in EP che fungono da intermezzi fra un LP e l’altro, si senta “Before” (2020). Ciò, però, come già accennato, non va a detrimento della qualità complessiva del lavoro: brani come Life Is Not The Same e Say What You Will sono fra i migliori della produzione recente del Nostro. Non fosse per una parte centrale debole, saremmo di fronte al suo miglior CD.

L’inizio è molto convincente: sia Famous Last Words che Life Is Not The Same, non a caso scelte come canzoni di lancio di “Friends That Break Your Heart”, fanno capire il mood del disco in maniera efficace. Atmosfere soft, testi introspettivi… queste sono le parole chiave. Abbiamo inoltre meno collaborazioni rispetto a quelle di alto profilo di “Assume Form”: da Metro Boomin e Travis Scott passiamo a SZA (nella buona Coming Back) e J.I.D. in Frozen, per citare i più celebri artisti chiamati da James.

Liricamente, il titolo del lavoro è evocativo dei temi affrontati: nella title track Blake canta “As many loves that have crossed my path, it was friends… it was friends who broke my heart”. If I’m Insecure si apre con un dubbio esistenziale: “If this is what we always wanted, how’s the signal so weak?”. Infine, in Say What You Will il testo si fa più evocativo: “I’m OK with the life of a sunflower”.

In conclusione, non fosse per un paio di brani davvero inferiori come I’m So Blessed You’re Mine e Foot Forward, il CD sarebbe davvero imperdibile. Anche con questa tracklist, tuttavia, “Friends That Break Your Heart” è il miglior disco di James Blake dai tempi di “Overgrown” (2013). Non una cosa scontata.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA, “LP!”

jpegmafia

Con il suo quarto album vero e proprio, non contando quindi i numerosi progetti catalogabili come mixtape, JPEGMAFIA ha composto contemporaneamente il suo CD più accogliente e più provocatorio. Se infatti i beat alla base di molte canzoni di “LP!” sono morbidi, addirittura ispirati da Britney Spears in un caso (THOT’S PRAYER!), testualmente il rapper statunitense è una furia, soprattutto contro l’industria discografica.

La versione qui recensita è quella “online”: JPEGMAFIA ha infatti proposto anche una versione “offline”, in realtà presente su Bandcamp, che presenta una sequenza diversa di alcune canzoni e alcune tracce bonus che poco aggiungono al risultato finale.

JPEGMAFIA viene dal buon successo di “All My Heroes Are Cornballs” (2019) e dai due brevi lavori “EP!” (2019) e “EP2!” (2020), questi ultimi da prendersi più come raccolte di singoli pubblicati precedentemente che come veri e propri manifesti artistici. “LP!” è quindi il vero erede di “All My Heroes Are Cornballs”: rispetto al passato, il Nostro sceglie basi meno pesanti sul lato punk e noise e maggiormente accoglienti, quasi commerciali, si senta a tal proposito WHAT KIND OF RAPPIN’ IS THIS?.

I puristi e i fan della prima ora diranno che Peggy si è venduto, ma la realtà è che maturando non per forza ci si rammollisce: semplicemente si cambia. Non per caso “LP!” contiene alcune delle canzoni migliori del repertorio di JPEGMAFIA, tra cui ARE U HAPPY? e REBOUND!. Ad indebolire il risultato finale è solo la tracklist un po’ dispersiva: i 49 minuti a tratti sembrano 60, ma non per questo il CD diventa indigeribile.

Dicevamo che il rapper è molto arrabbiato nei testi che permeano “LP!”. La sua furia è in particolare rivolta all’industria discografica, accusata di sfruttare gli artisti senza alcun rispetto per questi ultimi. In una nota sulla sua pagina Bandcamp JPEGMAFIA scrive: “My time in the music industry is over because I refuse to be disrespected by people who aren’t behaving respectably in the first place”. Non serve traduzione, no? Altre frasi forti sono le seguenti: “Why would I pray for your health? Baby, I pray for myself” (REBOUND!). Infine, il titolo di SICK, NERVOUS & BROKE! dice tutto.

In conclusione, questo “LP!” è ad oggi il più riuscito tra i numerosi progetti a firma JPEGMAFIA. I testi sono taglienti, le basi spesso azzeccate… quando imparerà a mettere da parte alcune tracce inutili, potremo parlare di capolavoro. Ma in questo caso Peggy ci è andato davvero vicino.

Voto finale: 8.

Lana Del Rey, “Blue Banisters”

blue banisters

Il secondo album del 2021 di Lana Del Rey è un ottimo completamento di un’era per lei molto travagliata. Polemiche sui social, da cui poi si è cancellata; discussioni a non finire sul precedente “Chemtrails Over The Country Club”, da alcuni considerato neanche avvicinabile al capolavoro che è “Normal Fucking Rockwell!” (2019)… insomma, poteva andare molto peggio. Invece, questo ottavo CD a firma Lana Del Rey la conferma cantautrice solida, magari non al top della forma ma sempre intrigante.

La campagna pubblicitaria è stata stranamente di basso profilo: tre singoli pubblicati a giugno e uno a settembre, come già ricordato nessuna campagna social… da qui a dire che il disco è passato in sordina ce ne passa, ma non siamo nemmeno vicini al battage mediatico per “Born To Die” (2012). Non per questo le canzoni latitano, anzi: tra un omaggio a Morricone in salsa trap (!) e le classiche ballate strappalacrime, “Blue Banisters” si inserisce perfettamente nel canone di Lana.

L’inizio è la parte migliore del lavoro: i singoli Text Book, Blue Banisters e Arcadia sono fra i brani migliori del lotto. Abbiamo poi lo strambo Interlude – The Trio, omaggio al Maestro Morricone con base trap: può sembrare assurdo, lo è in effetti, ma non è male. Segue poi un altro ottimo brano, Black Bathing Suit, che chiude la prima parte del CD. Successivamente, tra le altre cose, contiamo una collaborazione con Miles Kane (Dealer) e un singolo di due anni fa inserito in tracklist come omaggio ai fan (Cherry Blossom).

Insomma, i 61 minuti di “Blue Banisters” lasciano spazio un po’ a tutte le facce di Lana, anche quelle meno efficaci: le ballate Wildflower Wildfire e Nectar Of The Gods spezzano il ritmo del lavoro e allungano troppo il CD. Peccato, perché in certi tratti siamo di fronte ad un ottimo prodotto.

Anche liricamente, ormai, sono sparite le controversie degli esordi: Lana ha 36 anni, è una donna matura e “Blue Banisters” contiene riferimenti all’attualità (“Grenadine, quarantine, I like you a lot. It’s LA, ‘Hey’ on Zoom” canta in Black Bathing Suit) così come ad un amore ormai finito (“You name your babe Lilac Heaven after your iPhone 11… ‘Crypto forever,’ screams your stupid boyfriend. Fuck you, Kevin”, verso magistrale contenuto in Sweet Carolina). In Text Book, invece, la Nostra riflette su temi di più ampia portata: “There we were, screaming, ‘Black Lives Matter’”.

Infine, notiamo una cosa: Lana Del Rey è nella parte migliore della sua carriera e ha capitalizzato componendo sette album in sette anni, partendo da “Ultraviolence” (2014) per arrivare a questo “Blue Banisters”. Di quanti artisti contemporanei, uomini o donne che siano, possiamo dire che abbiano mantenuto una qualità costantemente così alta, pur variando estetica e collaboratori da un album all’altro, spesso in maniera anche radicale? Probabilmente nessuno, o per lo meno dobbiamo tornare alle leggende del pop-rock come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen. Sì, ormai per Lana Del Rey valgono anche questi paragoni.

Voto finale: 7,5.

Illuminati Hotties, “Let Me Do One More”

let me do one more

Nel secondo disco vero e proprio a firma Illuminati Hotties, Sarah Tudzin mette nero su bianco tutta la vita trascorsa apparentemente invano in questi ultimi anni. Il Covid, un contratto con l’etichetta discografica troppo sbilanciato verso quest’ultima, la morte della madre a causa di un cancro… Sarah ne ha passate davvero tante; e tutte queste esperienze entrano in “Let Me Do One More”.

Il precedente lavoro di Tudzin era il mixtape “FREE I.H.: This Is Not The One You’ve Been Waiting For” del 2020, che seguiva il vero e proprio esordio degli Illuminati Hotties, “Kiss Yr Frenemies” (2018). Era un insieme di brani un po’ accatastati a casaccio, solo per liberarsi del contratto discografico precedente, ma fin dall’ironico titolo denotava uno spirito piuttosto determinato a farsi valere.

Fatto confermato da “Let Me Do One More”: Sarah Tudzin, infatti, canta indistintamente di un Partito Democratico americano corrotto (“The DNC is playing dirty!”) così come di spregiudicate strategie di marketing (“Place that precious pretty product!”), fino a prorompere in un urlo indistinto, che dà il titolo alla canzone in questione: MMMOOOAAAAAYAYA. In un altro pezzo abbiamo poi un riferimento al diventare adulti: “I guess being an adult is just being alone” (Growth).

In generale, musicalmente abbiamo una prima parte ricca di canzoni di indie rock potente, quasi punk, à la PJ Harvey delle origini, come la già citata MMMOOOAAAAAYAYA e Threatening Each Other Re: Capitalism. Invece le ultime canzoni sono più acustiche, ad esempio Protector e Growth ricordano la Soccer Mommy più intima. I migliori elementi della tracklist sono Pool Hopping e MMMOOOAAAAAYAYA, mentre delude la troppo rumorosa Joni: LA’s No. 1 Health Goth.

Illuminati Hotties è un nome attorno a cui giravano commenti per lo più positivi già da qualche tempo. “Let Me Do One More” potrebbe essere il CD che fa raggiungere al progetto un pubblico più ampio. Sarah Tudzin, dal canto suo, si dimostra una cantautrice e produttrice talentuosa, che sa scrivere ottime pagine di musica leggera e ironica. Dopo Indigo De Souza, abbiamo trovato in poche settimane un’altra potenziale eroina dell’indie rock.

Voto finale: 7,5.

Grouper, “Shade”

shade

Il nuovo lavoro di Liz Harris, più nota come Grouper, raccoglie composizioni scritte nell’arco di ben 15 anni. Un intervallo di tempo che le ha permesso di passare da progetto sperimentale a un cantautorato etereo, evanescente, ma con punte di intimità e sensibilità davvero notevoli. Prova ne sia “Ruins” (2014), ad oggi il suo miglior disco.

“Shade”, pertanto, è un lavoro leggermente incoerente, che passa dalle atmosfere ambient ed opprimenti di Followed The Ocean al folk immacolato di Pale Interior, nell’arco di 35 minuti. Può sembrare una durata minimale nell’era dello streaming imperante e dei CD monstre, ma Grouper preferisce da sempre tenere le cose brevi: il precedente “Grid Of Points” (2018) ammontava a soli 22 minuti!

In generale, l’aspetto lirico è forse quello più complesso: è vero, Harris canta in maniera anche sentita e toccante, ma spesso è davvero difficile udire le sue parole dietro al forte riverbero delle canzoni, ad esempio in Followed The Ocean e Disordered Minds. Ciononostante, da un CD prevalentemente ambient possiamo aspettarcelo e non pregiudica la qualità generale del lavoro, che resta più che discreto.

Fra i migliori pezzi abbiamo Kelso (Blue Sky), mentre sotto la media Promise e Followed The Ocean. In generale, Grouper si conferma un’artista per palati fini: il suo mix di folk, cantautorato e musica d’ambiente può non essere per tutti ma, una volta calatosi nella sua atmosfera, l’ascoltatore non può che rimanerne affascinato.

Voto finale: 7.

Parquet Courts, “Sympathy For Life”

sympathy for life

Il nuovo album dei Parquet Courts prosegue il percorso intrapreso nel precedente “Wide Awake!” (2018); ma se quest’ultimo era un lavoro coeso e pieno di canzoni di buon livello, “Sympathy For Life” si regge su una sola grande melodia, Walking At A Downtown Pace, mentre molte delle altre rappresenterebbero delle b-sides per i migliori pezzi del gruppo.

È davvero un peccato: sapere che i Parquet Courts, band nota e apprezzata per il loro indie rock sbarazzino e disimpegnato, avrebbero provato ritmi dance, quasi da Madchester, aveva intrigato molti, A-Rock compreso, tanto più che “Sympathy For Life” arriva dopo il miglior CD del gruppo e dopo quasi due anni di pandemia.

In effetti l’inizio del lavoro è travolgente: la già menzionata Walking At A Downtown Pace, con le sue linee di chitarra prepotenti ma ballabili, è un perfetto singolo di lancio. Peccato che poi il disco contenga brani deboli come Just Shadows e Application/Apparatus, che sono puro riempitivo. Menzioniamo infine i pezzi intitolati Trullo e Pulcinella, che chiudono la tracklist, per puro campanilismo: uno dei due frontman, Andrew Savage, ha passato una vacanza in Puglia e ha omaggiato il nostro paese con questi due titoli.

Liricamente, se da “Light Up Gold” (2012) fino a “Human Performance” (2016) avevamo assistito al passaggio dai Parquet Courts più “disimpegnati” a una raggiunta maturità, sbocciata nell’arrabbiato “Wide Awake!”, quest’ultimo LP mantiene un atteggiamento più sereno, come del resto la svolta stilistica preannuncia: i Parquet Courts vogliono portarci a ballare e per farlo usano ogni mezzo.

In generale, tuttavia, i risultati non sono del tutto soddisfacenti: “Sympathy For Life”, pur avendo nobili intenti, è il secondo CD più debole della produzione dei Parquet Courts, davanti solo all’acerbo esordio “American Specialties” (2011). Vedremo la prossima volta come andrà, ma questo è il primo vero passo falso nella loro produzione da nove anni a questa parte.

Voto finale: 6,5.

Coldplay, “Music Of The Spheres”

music of the spheres

Il nono disco della band capitanata da Chris Martin è uno dei più deboli della loro carriera, diciamolo subito. Ed è un peccato, perché i momenti interessanti non mancano; ma alcune scelte lasciano molti dubbi e fanno sì che “Music Of The Spheres” non raggiunga i buoni risultati del precedente “Everyday Life” (2019).

Già la scelta del tema alla base del lavoro aveva lasciato attoniti: Martin & co. si sono immaginati una sorta di nuovo universo, popolato da strani alieni ma allo stesso tempo capace di promuovere i valori dell’amore universale. Beh, tutto molto zuccheroso: in effetti, anche musicalmente, il synth-pop che permea “Music Of The Spheres” incentiva questo feeling, coadiuvato dalla produzione di Max Martin (in passato collaboratore, tra gli altri, di Britney Spears, Taylor Swift e The Weeknd).

Se analizziamo la tracklist, vediamo ben cinque brani, di cui tre intermezzi, contraddistinti da un “titolo-emoji” e collaborazioni fatte apposta per piacere ai più giovani, su tutti Selena Gomez e i coreani BTS. Nulla di pregiudizialmente contrario al buon gusto, ma le premesse non erano scintillanti, diciamo. Poi, però, sentendo la brillante Coloratura tutto era cambiato: un inizio da tipici Coldplay, per poi sfociare in un brano progressive rock irresistibile.

Il problema, però, è che gran parte del CD non rispetta questi altissimi standard: per una buona Humankind, abbiamo una brutta Let Somebody Go. Per la gradevole My Universe, abbiamo la scadente People Of The Pride… insomma, un mezzo fiasco.

Anche liricamente, il disco è a volte dolce senza strafare (“You are my universe, and I just want to put you first”, My Universe), altre davvero incommentabile (People Of The Pride si lancia contro un dittatore che pare preso da 1984, con versi molto blandi).

In generale, dunque, “Music Of The Spheres” farà sicuramente sfracelli sia sui servizi di streaming che negli stadi: i Coldplay hanno infatti annunciato un tour mondiale, che al momento purtroppo non tocca l’Italia, a supporto del CD. I più giovani cominceranno ad apprezzarne il pop senza compromessi, i testi romantici e la bella voce di Chris Martin… ma allora perché quasi tutto in questo LP suona così fiacco e privo di verve?

Voto finale: 6.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (100-1)

Siamo alla seconda e ultima puntata delle 200 migliori canzoni degli anni ’10; quella più calda, dove si decreterà la migliore della decade secondo A-Rock. Frank Ocean, Arctic Monkeys, Bon Iver, Lana Del Rey… i big sono tutti presenti: chi avrà vinto la palma di miglior pezzo degli anni 2010-2019? Buona lettura!

100) The War On Drugs, An Ocean In Between The Waves (2014)

99) Neon Indian, Slumlord (2015)

98) Car Seat Headrest, Nervous Young Inhumans (2018)

97) Darkside, Paper Trails (2013)

96) Mac DeMarco, Ode To Viceroy (2012)

95) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Round And Round (2010)

94) A.A.L. (Against All Logic), This Old House Is All I Have (2018)

93) Grizzly Bear, Speak In Rounds (2012)

92) Real Estate, All The Same (2011)

91) Neon Indian, Annie (2015)

90) Alt-J, Breezeblocks (2012)

89) Car Seat Headrest, Fill In The Blank (2016)

88) Sia, Chandelier (2014)

87) The National, Graceless (2013)

86) Earl Sweatshirt feat. Vince Staples and Casey Veggies, Hive (2013)

85) Sufjan Stevens, Impossible Soul (2010)

84) Queens Of The Stone Age, My God Is The Sun (2013)

83) Adele, Rolling In The Deep (2011)

82) Icona Pop feat. Charli XCX, I Love It (2012)

81) Coldplay, Orphans (2019)

80) Broken Social Scene, World Sick (2010)

79) Beach House, Norway (2010)

78) Radiohead, Lift (2017)

77) Lorde, Royals (2013)

76) Cloud Nothings, Wasted Days (2012)

75) Justin Timberlake feat. JAY-Z, Suit & Tie (2013)

74) Kendrick Lamar, DNA. (2017)

73) Sufjan Stevens, Should Have Known Better (2015)

72) Nick Cave & The Bad Seeds feat. Else Torp, Distant Sky (2016)

71) Kings Of Leon, Pyro (2010)

70) Mac DeMarco, My Kind Of Woman (2012)

69) The 1975, It’s Not Living (If It’s Not With You) (2018)

68) Deerhunter, Memory Boy (2010)

67) The 1975, Sex (2013)

66) The Weeknd feat. Daft Punk, Starboy (2016)

65) Darkside, Golden Arrow (2013)

64) Coldplay, Paradise (2011)

63) Travis Scott feat. Drake, SICKO MODE (2018)

62) Justin Timberlake, Mirrors (2013)

61) Lorde, Green Light (2017)

60) Drake feat. Majid Jordan, Hold On, We’re Going Home (2015)

59) Earl Sweatshirt, Mantra (2015)

58) Blood Orange feat. A$AP Rocky and Project Pat, Chewing Gum (2018)

57) Gorillaz feat. Little Dragon, Empire Ants (2010)

56) LCD Soundsystem, call the police (2017)

55) King Krule, Czech One (2017)

54) The War On Drugs, Red Eyes (2014)

53) Vampire Weekend, Step (2013)

52) Daft Punk feat. Pharrell Williams, Get Lucky (2013)

51) Lana Del Rey, Mariners Apartment Complex (2019)

50) Kendrick Lamar, Sing To Me, I’m Dying Of Thirst (2012)

49) Sufjan Stevens, Fourth Of July (2015)

48) Gorillaz, On Melancholy Hill (2010)

47) Arctic Monkeys, Arabella (2013)

46) Drake, Over My Dead Body (2011)

45) Girls, Carolina (2010)

44) Fleet Foxes, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar (2017)

43) Arctic Monkeys, R U Mine? (2013)

42) Drake, Nice For What (2018)

41) Flume feat. JPEGMAFIA, How To Build A Relationship (2019)

40) Vince Staples, Lift Me Up (2015)

39) Frank Ocean, Ivy (2016)

38) Billie Eilish, bad guy (2019)

37) Jamie xx feat. Romy, Loud Places (2015)

36) Tame Impala, Elephant (2012)

35) Beach House, Myth (2012)

34) Bon Iver, Sh’Diah (2019)

33) Drake, Hotline Bling (2016)

32) Grimes, Oblivion (2012)

31) The National, Sorrow (2010)

30) St. Vincent, Champagne Year (2011)

29) Drake, Marvin’s Room (2011)

28) Frank Ocean, Nikes (2016)

27) Kanye West, I Am A God (2013)

26) Fleet Foxes, Third Of May / Ōdaigahara (2017)

25) The War On Drugs, Strangest Thing (2017)

24) Florence + The Machine, Shake It Out (2011)

23) King Krule, Dum Surfer (2017)

22) David Bowie, Lazarus (2016)

21) Bon Iver, Perth (2011)

20) Vampire Weekend, Hannah Hunt (2013)

19) The 1975, Love It If We Made It (2018)

18) Grimes, Realiti (2015)

17) Deerhunter, Helicopter (2010)

16) Tame Impala, Eventually (2015)

15) Frank Ocean, Thinkin Bout You (2012)

14) Tame Impala, Feels Like We Only Go Backwards (2012)

13) Arcade Fire, We Exist (2013)

12) Lana Del Rey, Venice Beach (2019)

11) Beach House, Dive (2018)

10) Robyn, Dancing On My Own (2010)

9) Kendrick Lamar, Alright (2015)

8) Bon Iver, Holocene (2011)

7) Kanye West, POWER (2010)

6) M83, Midnight City (2011)

5) Arcade Fire, Reflektor (2013)

4) FKA twigs, cellophane (2019)

3) Frank Ocean, Pyramids (2012)

2) Kanye West feat. Pusha T, Runaway (2010)

1) Tame Impala, Let It Happen (2015)

La nostra lunga cavalcata è finita: Let It Happen dei Tame Impala è meritatamente il più bel pezzo degli anni ’10 secondo A-Rock. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con le nostre scelte? Non esitate a lasciare commenti!

I 50 migliori album del 2019 (50-26)

Il 2019 ci ha regalato album di qualità media molto elevata, alcuni artisti emergenti che promettono di essere i nuovi volti del rock (black midi e Fontaines D.C.) oppure dell’hip hop (Little Simz). Allo stesso tempo abbiamo ritrovato veterani che sembravano decaduti (Coldplay) e gruppi che parevano sciolti (Vampire Weekend). In generale, è stato un ottimo anno, sia in termini di fatturato che di qualità, per il rap e il pop; anche il rock tuttavia ha prodotto CD interessanti. Sottotono invece folk e punk, peraltro dopo un anno frizzante come il 2018.

Questa è la prima parte della lista dei 50 migliori album del 2019. State connessi per la seconda parte! Buona lettura!

50) Anderson .Paak, “Ventura”

(R&B – SOUL)

Il cantante americano Anderson .Paak, giunto al quarto album, è tornato alle sonorità che lo avevano reso famoso con “Malibu” (2016): un funk colorato e sempre ballabile, inframmezzato da parti più rappate. Mentre in “Oxnard” dello scorso anno la parte hip hop aveva la meglio, con risultati controversi, “Ventura” privilegia le sonorità calde e morbide che meglio riescono ad Anderson, con ottimi risultati.

In effetti, se si eccettua la canzone di apertura Come Home con André 3000, il resto del breve ma incisivo CD (11 brani per 40 minuti) è caratterizzato da chiari rimandi ai maestri della black music del passato: da Stevie Wonder a Prince, passando per i più recenti Frank Ocean e D’Angelo. Questo è forse il limite maggiore del disco: parere a volte più una somma di cover di pezzi del passato piuttosto che un insieme di inediti.

L’abilità di .Paak di trasportare questi suoni nel XXI secolo consente però di mettere da parte almeno parzialmente questa critica e concentrarsi sull’eleganza di “Ventura”: i suoni più spigolosi di “Oxnard” sono scomparsi, lasciando spazio a chitarre eleganti e batterie fragranti, capaci di accompagnare l’artista nel corso del CD sempre efficacemente.

Anche liricamente si notano decisi progressi: mentre i precedenti lavori di Anderson .Paak erano caratterizzati da chiari rimandi, a volte molto espliciti, alla vita sessuale dell’artista, “Ventura” contiene anche riferimenti alle lotte fra bianchi e neri in America. King James, dedicata al cestista LeBron James, è caratterizzata dalle seguenti liriche: “We couldn’t stand to see our children shot dead in the streets… we salute King James for using his change to create some equal opportunities”. Altrove invece appaiono proclami più spavaldi: in Chosen One ad esempio si dice “To label me as The One, debatable; but second to none, that suit me like a tailored suit”, mentre in Yada Yada abbiamo “Our days are numbered, I’d rather count what I earn”.

I brani migliori sono What Can We Do?, che chiude magistralmente il disco, e la deliziosa Make It Better; convincono meno Chosen One, troppo lunga, e Winners Circle. In conclusione, le canzoni interessanti non mancano e il disco è caratterizzato da grande coerenza e nessun pezzo fuori posto.

49) Rhye, “Spirit”

(POP – R&B)

Il mini-album di Mike Milosh, già dall’anno scorso privo dell’altra metà dei Rhye Robin Hannibal, mantiene l’estetica raffinata vista nei due precedenti album “Woman” (2013) e “Blood” (2018), riducendo però l’influenza di elettronica e R&B per comporre il suo lavoro più intimista.

La struttura dell’EP è molto particolare: abbiamo 3 canzoni su 8 che non arrivano ai 3 minuti e sono puramente strumentali, mentre le altre sono decisamente più articolate. Milosh ha composto queste melodie su un pianoforte tra una pausa e l’altra del tour a supporto di “Blood”, ma non per questo “Spirit” è una semplice raccolta di b-sides: i pezzi sono formati perfettamente, prodotti con raffinatezza e hanno ciascuno un fascino sensuale o romantico che alla lunga conquista.

I pezzi migliori sono Needed e Patience; ma nessuno è fuori posto, tanto che anche i brevi intermezzi sono necessari alla riuscita del lavoro. Liricamente, Milosh conferma i temi che più gli stanno a cuore: desiderio e fragilità, entrambi come vediamo strettamente legati all’amore nel senso più ampio del termine. Esemplari questi due versi: “Why you look so fragile? Do I seem so bad?” e “I wanna be needed, that’s what I need”, entrambi in Needed.

In conclusione, “Spirit” prosegue la striscia vincente inaugurata nel 2013: Milosh continua a deliziarci con canzoni romantiche fino al midollo e capaci di suscitare in ogni ascoltatore un sentimento diverso, dalla nostalgia al desiderio alla paura per la fine di una relazione. Non una cosa da tutti.

48) Solange, “When I Get Home”

(R&B – SOUL)

Il quarto CD a firma Solange Knowles, sorella della regina del pop Beyoncé, è decisamente differente nelle tematiche trattate dal precedente “A Seat At The Table” (2016), ma mantiene un fascino e una cura del dettaglio sonoro che lo rendono senza dubbio interessante, anche se non perfetto.

Concentrare 19 canzoni in 39 minuti implica due cose: avere molto da dire ma allo stesso tempo privilegiare la forma libera, lasciando da parte la canonica canzone da tre minuti per dare spazio anche a intermezzi piuttosto brevi. È proprio quello che succede in “When I Get Home”: Solange infatti dedica il lavoro all’amata Houston, la sua città natale, creando un patchwork che va dal funk al soul al jazz, con collaboratori del calibro di Gucci Mane e Playboy Carti ad arricchire ulteriormente la ricetta.

Come già in “A Seat At The Table”, frequenti sono gli intermezzi inferiori al minuto di durata dove Solange si prende una pausa e prepara l’ascoltatore ai pezzi veri e propri. La vera differenza rispetto al bellissimo precedente lavoro risiede soprattutto nelle liriche: mentre “A Seat At The Table” affrontava con coraggio tematiche razziali legate al trattamento riservato alle persone di colore, “When I Get Home” è strutturato come un flusso di pensieri ininterrotto e, come tale, un po’ confusionario. Ne sono prova le frequenti ripetizioni testuali presenti nel corso del disco: l’iniziale Things I Imagined si regge sul verso “I saw things… I imagined things… I imagined.” Anche Down With The Clique è similmente ripetitiva: Solange canta infatti “We were down with you, down with you” nel ritornello.

Peccato, perché le belle canzoni non mancano: la lenta Down With The Clique e Almeda sono gli highlights, ma bella anche Stay Flo. Al contrario, gli intermezzi alla lunga stufano, anche perché non contengono messaggi rilevanti.

In conclusione, Solange continua efficacemente il percorso nella storia della black music iniziato nel 2016; tuttavia, chi si aspettasse un altro manifesto politicamente impegnato è destinato a rimanere deluso. “When I Get Home” è semplicemente un buon disco di musica nera.

47) Andy Stott, “It Should Be Us”

(ELETTRONICA)

Il nuovo album dell’enigmatico DJ Andy Stott segue di tre anni “Too Many Voices”, un lavoro da molti considerato il più debole della sua produzione, a metà fra techno oscura e passaggi più ariosi. Stott in effetti è sempre stato maestro delle atmosfere dark, interprete di un’elettronica lenta e sincopata, non ballabile ma capace di momenti di vera bellezza.

Molto efficace anche in formato EP (basta sentirsi i due lavori del 2011 “Passed Me By” e “We Stay Together”), il produttore inglese ha definitivamente deciso da che parte stare: le 9 canzoni di “It Should Be Us” sono la perfetta colonna sonora dell’Apocalisse. Le atmosfere sono lugubri come mai nella discografia di Stott, i ritmi sono caratterizzati da bassi opprimenti e batteria quasi post-punk. Le poche voci udibili ricordano il Burial di “Untrue” (2007), esprimendo sensazioni più che parole vere e proprie.

Molto efficaci in questo senso Dismantle e Collapse, mentre è inferiore alla media Promises. In generale il CD è coeso ed è un buon compromesso fra EP e LP in termini di canzoni e durata: 9 pezzi per 46 minuti, pur in un genere così pessimista, non sono difficili da assimilare, fatto che dà ancora più fascino al lavoro.

Andy Stott ha ormai creato uno stile tutto suo, che certo lo tiene lontano dal mainstream ma ne assicura un’immediata riconoscibilità. “It Should Be Us” è un’altra interessante aggiunta ad una discografia che va ormai elogiata come una delle più efficaci nella scena elettronica mondiale.

46) Jai Paul, “Leak 04-13 (Bait Ones)”

(R&B – ELETTRONICA)

La storia di questo CD è una delle più incredibili mai sentite. Jai Paul, nel lontano 2013, era una delle promesse del pop più brillanti: i due singoli pubblicati, Jasmine e BTSTU, avevano fatto faville con la stampa specialistica e lui pareva pronto a spiccare il volo.

L’aprile di quell’anno, però, sconvolse la vita di Jai: l’album venne “leakato”, cioè messo su internet senza l’autorizzazione di Paul, con molti pezzi ancora in fase embrionale. In realtà critica e pubblico rimasero favorevolmente impressionati dai risultati, seppur ancora parziali. Jai Paul, dal canto suo, si rinchiuse in un silenzio ostinato, durato ben sei anni.

Messa da parte la storia pazzesca dell’album, occorre essere imparziali e valutarlo per quello che vale oggi? Vale quanto segue: i brani fatti e finiti di “Leak 04-13 (Bait Ones)” sono pezzi unici, creativi e mai scontati, a testimonianza che davvero Jai Paul sei anni fa era pronto a sconvolgere il panorama musicale col suo mix ipnotico di R&B, pop d’avanguardia ed elettronica raffinata. Ne sono testimonianza la romantica Jasmine (demo) così come la più movimentata Genevieve (unfinished) – le parole fra parentesi ribadiscono la delusione di Jai Paul nel vedersi pubblicare canzoni ancora parzialmente finite.

In conclusione, la presenza fin troppo numerosa di intermezzi fini a sé stessi e chiaramente ancora da sgrezzare può rendere l’ascolto del CD a tratti difficoltoso, ma la qualità della maggior parte delle composizioni di maggior durata è notevole. Per questo motivo “Leak 04-13 (Bait Ones)” merita di essere riconosciuto come uno dei più grandi LP che (non) hanno mai visto la luce.

45) Julia Jacklin, “Crushing”

(ROCK)

Il secondo album della cantante australiana riparte da dove il precedente “Don’t Let the Kids Win” del 2016 aveva terminato la sua tracklist: un rock che si rifà chiaramente a grandi maestri del passato come Neil Young e Bob Dylan, ma anche a contemporanei come Kurt Vile. Tuttavia, rispetto all’esordio, Julia ha decisamente migliorato l’aspetto lirico, creando testi mai banali e che anzi si collegano a molti di noi.

“Crushing” è un breakup album, ovvero un CD destinato ad affrontare le conseguenze per la cantante di una rottura in campo amoroso. Julia Jacklin in effetti fa riferimento in tutte le 10 canzoni che compongono “Crushing” al suo ex ragazzo, a volte con rabbia a volte con ironia e disincanto. Tutti abbiamo avuto nella vita rotture dolorose, con ex partner oppure ex amici: per questo i testi candidi di Julia possono essere un utile punto di vista per affrontare questi temi non facili.

Ad esempio, nell’iniziale, meditativa Body la sentiamo cantare: “I guess it’s just my life and it’s just my body”, riferendosi a una potenziale minaccia di “revenge porn”, una piaga purtroppo sempre più diffusa soprattutto fra i più giovani. Ancora, in You Were Right Julia dichiara compiaciuta: “Started feeling like myself again the day I stopped saying your name”. Insomma, i motivi di attrito con l’ex fidanzato devono essere stati profondi. Altre melodie sono accompagnate da testi più ironici: Turn Me Down ad esempio termina con questo verso: “Don’t look at me… Maybe I’ll see you in a supermarket sometime”.

Musicalmente, come già accennato precedentemente, la Jacklin ricorda molto da vicino alcuni maestri vicini e lontani, assomigliando contemporaneamente ad alcune sue coetanee: da Phoebe Bridgers (specialmente nella parte centrale di “Crushing”) a Angel Olsen. Il disco non spicca per originalità dunque, ma le liriche e gli arrangiamenti, oltre alla cristallina voce di Julia, sono valorizzati al massimo. I brani lenti, come When The Family Flies In e Convention, possono essere monotoni alla lunga, mentre Julia sembra dare il meglio nei pezzi davvero rock, come You Were Right e Pressure To Party. Buona poi la più raccolta Turn Me Down.

In conclusione, Julia Jacklin si è inserita con abilità nel gruppo delle giovani artiste che stanno rivoluzionando il panorama indie degli anni ’10. Per ora va bene così; in futuro sarebbe bello vedere il lato più creativo e, chissà, sperimentale della sua visione artistica.

44) Sharon Van Etten, “Remind Me Tomorrow”

(ROCK – POP)

Il quinto album non autoprodotto dell’artista americana Sharon Van Etten è una reinvenzione artistica di alto livello: alzando il volume dei sintetizzatori, Sharon compie una svolta simile a quella dei Tame Impala ai tempi di “Currents”, con ottimi risultati.

La Van Etten era assente dalla scena musicale da 4 anni: al 2015 risale infatti l’EP “I Don’t Want To Let You Down”. Tuttavia, questi non erano stati anni di letargo per lei: nel 2017 aveva fatto una comparsata in Twin Peaks, la serie cult di David Lynch. Inoltre, è diventata mamma e ha finalmente trovato una relazione stabile, riuscendo a dimenticare quella vissuta in gioventù che aveva formato molti dei riferimenti dei suoi CD precedenti, fatta di abusi e continue umiliazioni.

Il disco si apre con la lenta ballad I Told You Everything, un inizio non trascendentale ma che prepara bene il terreno per il bellissimo secondo brano, No One’s Easy To Love, uno degli highlight di “Remind Me Tomorrow”. Comeback Kid ricorda da vicino le ultime incarnazioni di Annie Clark, mentre Jupiter 4 è una dolce nenia che alla lunga conquista. Molto interessante You Shadow, meno Malibu. La chiusura dell’album è epica: Hands è potente al punto giusto, Stay invece è una ballata che ricorda la vecchia Sharon.

Dal punto di vista testuale, “Remind Me Tomorrow” sembra ripartire da dove ci eravamo lasciati con “Are We There” (2014): I Told You Everything infatti inizia con “You said, ‘Holy shit, you almost died’”, riferendosi probabilmente al fidanzato violento cui avevamo già accennato. Altrove, però, il tono di Sharon è più minaccioso: “You’ll run” urla in Memorial Day. La Van Etten, tuttavia, non ha certezze di come il tutto finirà: “I don’t know how it ends” canta in Stay, una sensazione che purtroppo tutti proviamo di fronte all’amore.

In generale, il forte cambiamento impresso da Sharon al suo iconico stile, che aveva ispirato artiste come Phoebe Bridgers e Julien Baker, rappresenta un beneficio per lei dal punto di vista artistico. Avere una maggiore versatilità è sempre fondamentale per garantirsi una lunga e prolifica carriera; se poi la qualità resta così alta, non possiamo che esserne felici.

43) Tim Hecker, “Anoyo”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il mini-album “Anoyo” del musicista canadese Tim Hecker richiama il precedente suo lavoro, quel “Konoyo” (2018) ispirato alla musica giapponese. In effetti i brani che fanno parte di questo progetto sono presi dalle stesse sessions del precedente, i risultati sono tuttavia ancora più intriganti.

Se “Konoyo” aveva una pecca, era sicuramente la lunghezza: la musica di Hecker sa essere sublime, ma se presa troppo a lungo rischia di diventare difficilmente digeribile. “Konoyo”, pur avendo alcune parti eccellenti, alla lunga diventava fin troppo opprimente: le sonorità ambient di Hecker mescolate all’ensemble di musica gagaku Tokyo Gakuso a volte non si sposavano bene.

Ciò non vale per “Anoyo”, quasi un negativo dell’album fratello: dove uno era fin troppo carico, l’altro è essenziale e severo nelle sonorità. Anche il significato dei titoli è antitetico: konoyo sta per aldiquà, mentre anoyo significa aldilà. Musicalmente, “Anoyo” è un ottimo album ambient, allo stesso tempo sperimentale ma più accessibile di altri lavori di Hecker. Ottima Is But A Simulated Blur e buona anche l’iniziale That World, sebbene un po’ prolissa. Nessuna traccia in realtà è fuori posto, anzi nell’insieme il CD è organico e coeso.

In conclusione, “Anoyo” è uno dei punti più alti della musica ambient degli ultimi anni: per la verità, è l’intero genere ad essere tornato in prima linea nel variegato panorama della musica elettronica, grazie anche ai ritorni dei veterani Aphex Twin e Gas. Tim Hecker dal canto suo continua la sua singolare striscia di collaborazioni con paesi e culture diversi, dimostrando una creatività ancora viva e vegeta pur avendo alle spalle più di 20 anni di attività.

42) Sleater-Kinney, “The Center Won’t Hold”

(ROCK)

Il nono album delle Sleater-Kinney, una delle più longeve e talentuose band indie rock a cavallo fra i due millenni, è il secondo dopo la reunion del 2014 e segue il bellissimo “No Cities To Love” (2015). “The Center Won’t Hold” vanta la presenza di Annie Clark aka St. Vincent alla produzione, un contributo visibile e che probabilmente ha influito sulla decisione di Janet Weiss (batterista delle Sleater-Kinney fino al 2019) di abbandonare il complesso, ormai troppo mainstream per lei.

Il disco in realtà non suona troppo diverso dai precedenti sforzi del gruppo americano: le canzoni sono sempre dirette e le liriche mai banali, basate sui concetti di empowerment femminile, come il movimento riot grrl che ha originato le Sleater-Kinney ha sempre propugnato. Certo, vi sono episodi più melodici come Restless e l’influenza dell’elettronica è maggiore, ma fa parte della naturale evoluzione delle tre (ormai due) componenti della band.

Il CD si apre quasi su sonorità industrial: la title track pare anticipare svolte totali, prima di risolversi in un’esplosione punk degna delle prime Sleater-Kinney. Hurry On Home, il primo singolo estratto da “The Center Won’t Hold”, pare quasi un pezzo di St. Vincent ai tempi di “Strange Mercy” (2011), ma è un complimento non un’accusa di plagio. Non tutte le canzoni sono completamente convincenti: RUINS è fin troppo lenta, così come la già citata Restless sembra fuori posto dato il mood del lavoro.

Le liriche sono sempre state un pezzo forte delle Sleater-Kinney; anche “The Center Won’t Hold” lo conferma. Ad esempio, un tema portante è il destino delle donne considerate mature dal mondo della musica e in generale dell’arte, quasi impossibilitate a parlare del loro invecchiamento senza sentirsi nell’occhio del ciclone (LOVE), mentre altrove appare l’alienazione provocata dall’uso degli smartphone (“I start my day on a tiny screen, never have I felt so goddamned lost and alone” canta Corin Tucker in The Future Is Here). Il tono di Bad Dance è invece quasi ironico: “If the world is ending now then let’s dance… And if we’re all going down in flames, then let’s scream the bloody scream”.

In conclusione, “The Center Won’t Hold” sembrava nato sotto i migliori auspici: una band al top delle sue potenzialità, aiutata da una produttrice sopraffina, facevano pensare ad un capolavoro in arrivo. Il disco è senza dubbio gradevole, ma niente di trascendentale; pare anzi un LP di transizione, considerato anche l’abbandono della Weiss. Vedremo dove quest’incarnazione più elettronica e orientata al pop condurrà le Sleater-Kinney: il talento resta intatto, pertanto siamo fiduciosi.

41) JPEGMAFIA, “All My Heroes Are Cornballs”

(HIP HOP)

Al terzo album e dopo l’esplosione da cantante di nicchia a rapper venerato da un largo seguito, JPEGMAFIA è tornato. “Veteran” (2018) non è stato un evento casuale: il rap caotico ed eternamente creativo di Barrington DeVaughn Hendricks si conferma una forza motrice devastante, facendo di “All My Heroes Are Cornballs” uno degli album di rap sperimentale migliori dell’anno.

Partiamo intanto dall’analisi della copertina e dei titoli della tracklist: il CD si annuncia lungo e non semplice da assimilare, con canzoni a volte sotto il minuto di durata e altre invece più articolate. Nella cover JPEGMAFIA ha vestiti quasi femminili, circostanza che in effetti si sposa bene col titolo del lavoro e del singolo di lancio: “tutti i miei eroi sono sdolcinati” e Perdonami Gesù, sono una facile rispettivamente. Insomma, le supposizioni sull’identità sessuale del Nostro possono partire, ma Hendricks è sempre stato molto riservato al riguardo e neanche in “All My Heroes Are Cornballs” trapelano indiscrezioni.

Gossip a parte, l’hip hop altamente innovativo e imprevedibile di JPEGMAFIA si conferma efficace: i pezzi più compiuti, come il già citato Jesus Forgive Me, I Am A Thot e Kenan vs. Kel, sono davvero ottimi. La struttura spezzettata del CD può risultare indigesta per alcuni, comprensibilmente (intermezzi come DOTS FREESTYLE REMIX e JPEGMAFIA TYPE BEAT sono fin troppo rumorosi), ma denota una creatività sempre all’erta non banale nello stereotipato panorama mondiale.

Testualmente, i riferimenti di JPEGMAFIA restano tanto vari quanto inclassificabili: troviamo rimandi a Bane, Michael Jackson (entrambi in Rap Grow Old & Die x No Child Left Behind), i Beatles (Post Verified Lifestyle), Brian Wilson dei Beach Boys (BBW), polemiche contro l’uso della forza da parte della polizia (PTSD) e a Gesù (Jesus Forgive Me, I Am A Thot e BUTTERMILK JESUS TYPE BEAT). In tutti i casi però resta indelebile l’abilità di JPEGMAFIA di assemblare brani credibili pur nel caos da lui stesso prodotto.

Il disco a volte risulta davvero difficile da seguire, ma ripetuti ascolti premiano gli ascoltatori. Hendricks si conferma quindi tanto imprevedibile quanto incapace di dare coerenza ai suoi lavori. Ma proprio qui sta il bello no?

40) Bruce Springsteen, “Western Stars”

(ROCK)

La leggenda del rock è tornata: “Western Stars” marca il ritorno di Bruce Springsteen 5 anni dopo “High Hopes”. Il 19° (diciannovesimo!) album di inediti del Boss è una ventata di freschezza in una discografia che inevitabilmente iniziava a diventare prevedibile, guidata ultimamente più spesso da motivazioni politiche e sociali che dall’ispirazione vera e propria.

“Western Stars” è un disco molto springsteeniano, pieno di rimandi al rock anni ’70 ma anche al folk e all’Americana, quel sottogenere a metà fra country e rock che tanto fa proseliti negli States. Non per questo però il CD è ripetitivo o fuori fuoco; anzi, gli episodi prevedibili sono davvero rari e fanno di “Western Stars” uno dei punti più alti della discografia recente del Boss. L’inizio, ad esempio, è ottimo: Hitch Hikin’ è uno slow-burner, ma conquista ascolto dopo ascolto. Ottima anche la successiva The Wayfarer, uno degli highlights immediati del lavoro.

La parte centrale dell’album presenta alcune melodie inferiori alla media (alta, va detto) del resto del disco: la title track e Sleepy Joe’s Cafe sono pezzi quasi beatlesiani, ma non ispiratissimi. Molto meglio la solarità di Hello Sunshine, non a caso scelto come singolo di lancio da Springsteen. In generale, “Western Stars” mantiene un mood gioioso e raffinato durante tutto il suo corso, ben coordinato con le storie sempre affascinanti narrate dall’artista.

Liricamente, come accennavamo, il Boss si conferma maestro: in “Western Stars” troviamo riferimenti ad un attore collega di John Wayne e ora costretto a lavorare per gli spot in tv (la title track); altrove (forse un riferimento autobiografico?) un cantante country si chiede se i sacrifici fatti durante la vita siano valsi a qualcosa (Somewhere North Of Nashville). Ricordiamo che Bruce compirà 70 anni quest’inverno, quindi ormai è probabile che abbia fatto dei bilanci sulla sua vita e i suoi alti e bassi. Una delle frasi più potenti è contenuta in Moonlight Motel: “It’s better to have loved”.

In generale, Bruce Springsteen non ha bisogno di presentazioni: un autore capace di scrivere capolavori nella sua gioventù (“Born To Run” e “Darkness On The Edge Of Town”) e nella sua età di mezzo (“Born In The U.S.A.” e “Tunnel Of Love”) può solamente essere elogiato. Il fatto che sappia rinnovarsi alla soglia dei 70 anni dimostra una volta di più che di Boss ce n’è, e probabilmente ce ne sarà, uno solo.

39) Taylor Swift, “Lover”

(POP)

La popstar, giunta al settimo lavoro di studio (a soli 29 anni) dimostra una maturità maggiore rispetto a “reputation” (2017), il suo precedente CD. Accanto ai soliti temi dell’amore e delle pene che ne derivano, infatti, trovano spazio anche il dolore personale per la salute della madre e riflessioni non banali sui rapporti interpersonali.

I singoli che hanno lanciato “Lover” sono stati accolti in maniera controversa: ME! è già nella storia dei meme per quel verso che esalta lo spelling (“Spelling is fun!”), mentre You Really Need To Calm Down è una canzone pop talmente generica da essere paragonabile al peggior fiasco di Taylor, quella Look What You Made Me Do che era il peggior pezzo di “reputation”. Tuttavia, il livello generale del disco è davvero buono, con le vette di Cruel Summer e The Archer, oltre alla ballata strappalacrime Soon You’ll Get Better.

L’inizio del disco è intrigante: I Forgot That You Existed è un ritorno alla “vecchia” Taylor, con quel titolo che sa di vendetta per un ex partner e una melodia tanto essenziale quanto riuscita. Come già detto, Cruel Summer è un highlight immediato del disco, invece The Man e Lover sono più prevedibili. La lunghezza di “Lover” risulta eccessiva (più di un’ora), ma di cose da dire Taylor ne ha, quindi la presenza di brani mediocri è perdonabile nell’economia di un CD complesso ma da lodare per varietà e tematiche affrontate.

Parlando dei testi, “Lover” come già accennato è il lavoro più maturo della Swift: in Soon You’ll Get Better parla senza timori della battaglia contro il tumore della madre, invece la conclusiva Daylight contiene un riferimento a “Red” (2012): “I once believed love would be black and white… I once believed love would be burning red, but it’s golden”. Esiste modo migliore per descrivere l’amore?

In conclusione, la presenza di 4-5 canzoni inferiori alla media impedisce a “Lover” di essere il CD definitivo di Taylor Swift. Nondimeno, l’ampiezza della palette sonora messa in mostra dalla popstar americana fa capire che la traiettoria intrapresa è tornata sulla retta via, quella persa da “reputation” in avanti.

38) Flying Lotus, “Flamagra”

(ELETTRONICA)

Il sesto album del celebre produttore losangelino Steven Ellison, meglio conosciuto col nome d’arte Flying Lotus, si è fatto attendere. Il suo ultimo lavoro, il breve ma densissimo “You’re Dead!”, risaliva al 2014. Questi cinque anni sono però stati impegnativi per Ellison: ha girato un film horror, Kuso; lanciato un’intera divisione della sua Brainfeeder dedicata al cinema; composto svariate colonne sonore.

In mezzo a tutto questo, Flying Lotus non ha tuttavia dimenticato la sua prima passione, la musica. Del resto, un personaggio che vanta fra i suoi avi John e Alice Coltrane non può che avere una creatività musicale decisamente sviluppata. “Flamagra” si presenta come il suo lavoro più complesso, sia per struttura che come personale coinvolto: Ellison infatti non bada a spese, coinvolgendo il meglio del mondo hip hop contemporaneo, da Solange Knowles a Tierra Whack, passando per Anderson .Paak e Denzel Curry. Non ci scordiamo poi il contributo del mitico David Lynch in Fire Is Coming! Insomma, 27 canzoni per 67 minuti, contando tutti questi ospiti, vogliono dire una cosa sola: “Flamagra” deve essere digerito, i giudizi impulsivi possono essere fuori asse.

Una cosa è comunque subito chiara: l’ipnotico mix di elettronica, jazz e hip hop dei migliori lavori di Flying Lotus non è scomparsa. Anzi, la formula viene in un certo senso portata agli estremi: spesso in un solo brano troviamo differenti parti, ognuna dedicata ad un genere particolare. I risultati sono prevedibilmente ostici, soprattutto ai primi ascolti, ma la pazienza degli ascoltatori viene premiata da un concentrato di pezzi efficaci: dalla sognante Remind U, che ricorda “Until The Quiet Comes” (2012) alla trascinante More, con grande contributo di Anderson .Paak e Thundercat, passando per Heroes e Land Of Honey, il CD è spesso un trionfo. Certo, alcuni momenti (su tutti la troppo lunga Takashi) sarebbero stati evitabili, ma sappiamo che Ellison è sempre stato un massimalista, fin dai tempi di “Cosmogramma” (2010), quindi aspettarsi da lui prudenza sarebbe vano.

In generale, dunque, “Flamagra” è valso l’attesa: i cinque anni passati da “You’re Dead!” non pesano sulle composizioni di FlyLo, che anzi restano fresche e innovative anche dopo numerosi ascolti. Questo sesto disco non sarà il migliore della sua produzione, ma segna il ritorno di una figura fondamentale per l’elettronica e il jazz contemporanei, capace di stravolgere i cardini di questi due mondi apparentemente lontani.

37) Holly Herndon, “PROTO”

(SPERIMENTALE – ELETTRONICA)

Il quarto album della compositrice americana Holly Herndon è un concept album molto ambizioso e non facile. Tuttavia, ripetuti ascolti svelano un vero e proprio tesoro, ricco di sfumature e dettagli preziosi.

Il tratto più caratteristico di “PROTO” è la presenza, dichiarata fin dall’inizio, dell’intelligenza artificiale: Spawn, questo è il suo nome, fa parte del coro di voci che qua e là compaiono all’interno del lavoro, ad esempio in Canaan (Live Training). È questo uno dei primi dischi fondati in parte sull’IA; in poche parole, un lavoro davvero sperimentale e coraggioso. Se a questo aggiungiamo delle basi elettroniche molto dense, a volte quasi impenetrabili, “PROTO” diviene una vera sfida per gli ascoltatori.

Vero è che, in alcune parti, il CD mantiene una certa venatura pop: Eternal è un ottimo pezzo, che unisce avanguardia e accessibilità. Nondimeno, le parti più ardite hanno la netta prevalenza: le due sessioni di training per Spawn già basterebbero, se poi ci aggiungiamo Alienation e Extreme Love il quadro è completo. In generale, comunque, “PROTO” non è mai sperimentale solo per il gusto di esserlo, anzi la Herndon ha sempre ben chiaro in testa il disegno e il concept dietro l’album. Brani fin troppo arditi come Bridge e Godmother, in tal modo, sono più che compensati da perle come Eternal, Frontier e la conclusiva Last Gasp.

Pertanto, con “PROTO” l’artista americana ha probabilmente raggiunto il picco più estremo di quell’ibrido a metà fra elettronica d’avanguardia e pop sofisticato che ne ha fatto la fortuna. Potrebbe essere un’idea cercare la fortuna nel mondo mainstream, un po’ quello che SOPHIE ha fatto con il suo recente LP “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. Intanto godiamoci questo lavoro, uno dei più avveniristi dell’intera decade.

36) Earl Sweatshirt, “FEET OF CLAY”

(HIP HOP)

Il nuovo, bravissimo EP a firma Earl Sweatshirt arriva poco meno di un anno dopo “Some Rap Songs”, il CD fino ad ora più riuscito della sua produzione, che ha raggiunto nuovi livelli di creatività e arditezza nell’ambito del rap sperimentale, mischiandolo abilmente con il jazz d’avanguardia. “FEET OF CLAY” pare un estratto di quell’incredibile lavoro: l’EP continua la striscia di pubblicazioni sempre più fuori di testa di Earl, basti sentirsi la base sghemba di EAST.

Il lavoro è composto da 7 brani per 15 minuti di lunghezza: va però sottolineato che solo in un paio di occasioni le canzoni superano i 2 minuti di lunghezza, vale a dire in EL TORO COMBO MEAL e 4N. Il resto dei brani è quasi un insieme di schizzi in attesa di essere completati, in questo ricordando il Kanye West di “JESUS IS KING”.

Anche tematicamente il disco è un’ideale continuazione di “Some Rap Songs”: in TISK TISK / COOKIES Earl mormora: “The moments that’s tender and soft, I’m in ’em, the memories got strong. But some of them lost”, mentre in EAST fa riferimento ai suoi problem di alcolismo, “My canteen was full of the poison I need”.

In conclusione, “FEET OF CLAY” è un altro rilevante lavoro di Earl Sweatshirt, che si conferma voce veramente unica nel panorama rap contemporaneo. Le sue basi sempre eccentriche, con chiari elementi jazz quando non elettronici, hanno influenzato molti artisti, dagli Injury Reserve a MIKE. Tuttavia, nessuno ha l’onestà intellettuale e la capacità di creare lavori coesi come lui: “FEET OF CLAY” suona contemporaneamente come chiusura di un ciclo e apertura di nuovi orizzonti.

35) Mannequin Pussy, “Patience”

(PUNK)

Il terzo disco della band punk statunitense è un pugno nello stomaco fatto di riff potentissimi e testi devastanti sulla fine di una relazione vista dalla parte di una ragazza abusata, impersonata dalla cantante e chitarrista Marisa Dabice.

“Patience” non è tuttavia un CD eccessivamente monocorde, musicalmente parlando: i Mannequin Pussy sono molto abili a mescolare il punk più sanguigno con il power pop degno delle Sleater-Kinney, creando quindi un mix tanto breve (26 minuti) quanto bilanciato. L’inizio è davvero potente: il terzetto composto da Patience, Drunk II e Cream introduce benissimo temi e atmosfere del disco. La successiva Fear + Desire, fra i brani più ambiziosi del lavoro, serve come pausa verso la seconda metà del disco.

La parte finale di “Patience” contiene il brano più appetibile anche dal mainstream: In Love Again è un ottimo brano indie rock, che potrebbe benissimo rientrare nei lavori recenti dei Car Seat Headrest. Insomma, le 10 canzoni di “Patience” spingono l’ascoltatore a scoprire continuamente i rimandi a gruppi ed epoche del passato, ma non per questo motivo i Mannequin Pussy suonano ovvi.

Liricamente, come già accennato, i testi del CD sono a volte davvero duri: la Dabice spesso si abbandona a invettive contro un passato partner, accusato di averla abusata sia fisicamente che attraverso sputi e insulti, che l’hanno fatta sentire oggettivata se non umiliata (sia High Horse che Fear + Desire ne sono chiari esempi). Per questo la già citata In Love Again, che chiude il disco, è una ventata d’aria fresca: un messaggio di ottimismo in un album altrimenti davvero tragico.

Questo “Patience” dunque è davvero un eccellente lavoro: la giovane band statunitense riesce a comprimere in 26 minuti più o meno tutta la storia recente del punk rock, riuscendo ad essere profonda ma mai fine a sé stessa.

34) Leif, “Loom Dream”

(ELETTRONICA)

Il terzo CD del gallese Leif Knowles è un ottimo disco di musica ambient. Leif è al terzo disco di una carriera prolifica: lui ha cominciato la sua attività nei primi anni 2000, ma più come autore di DJ set che come produttore di album. In effetti il suo nome solo con “Loom Dream” ha cominciato a farsi largo anche nel mainstream, con pieno merito va detto. I temi portanti del disco riguardano la natura: i titoli delle canzoni evocano piante e fiori (Myrtus, Rosa e Mimosa ne sono chiari esempi). La brevità (34 minuti) aiuta Knowles a focalizzare pienamente il lavoro, con risultati eccellenti a tratti e buoni in generale.

L’apertura di Yarrow è magistrale: i 7 minuti della canzone scorrono benissimo e la traccia entra senza problemi nella successiva, Borage, leggermente più mossa ma mai invadente. L’unica canzone leggermente sotto la media è Mimosa, ma per il resto, come già accennato, il CD è compatto e offre sempre spunti di riflessione anche dopo ripetuti ascolti.

In conclusione, l’artista gallese ha creato con “Loom Dream” una perfetta colonna sonora per rilassarsi ma anche per lavorare. Il disco è il primo vero buon lavoro di musica ambient del 2019 e pare un perfetto trampolino di lancio per la futura carriera di Leif.

33) Rapsody, “Eve”

(HIP HOP)

Il terzo album della talentuosa rapper Rapsody, reduce dal successo di “Laila’s Wisdom” (2017), nominato anche ai Grammy come miglior album rap, è un album politicamente impegnato, ma non per questo pesante. Anzi, le basi sono in molte occasioni azzeccate e gli ospiti presenti (da GZA a D’Angelo passando per J. Cole) aggiungono ulteriore interesse ad un CD davvero ben fatto.

Le 16 canzoni che compongono l’album sono dedicate ad importanti figure femminili della cultura black: così come “Laila’s Wisdom” era dedicato alla nonna di Rapsody, così “Eve” è un lavoro meno introspettivo e più esposto politicamente, citando personaggi fondamentali del passato e del presente, da Nina Simone a Michelle Obama, passando per Oprah Winfrey.

Se accostiamo questo LP ad altri usciti recentemente, da “LEGACY! LEGACY!” di Jamila Woods a “When I Get Home” di Solange Knowles fino ad arrivare a “HOMECOMING: THE LIVE ALBUM” di Beyoncé, notiamo una nuova consapevolezza e un forte desiderio di rivendicazione da parte delle donne di colore, impazienti di vedersi riconosciuto il loro posto nell’eredità culturale del mondo e che il contributo di quelle che le hanno precedute venga apprezzato appieno.

“Eve” ha successo sia per le basi, sempre coinvolgenti e caratterizzate da mixaggio e arrangiamento impeccabili, sia per la presenza di Rapsody, molto abile a prendersi il palcoscenico quando serve e a cederlo agli ospiti negli altri casi. Ad esempio, ottimo il featuring di Leikeli47 in Oprah, così come il contributo di GZA e D’Angelo in Ibtihaj. L’unico brano inferiore alla media è Whoopy, con una base un po’ monotona alla lunga. Spiccano invece Nina, Cleo e la già citata Oprah.

In conclusione, “Eve” ha giustamente ricevuto giudizi lusinghieri dalla critica. Il rap mai estremo di Rapsody, unito ad elementi soul sempre raffinati, creano un amalgama molto interessante, che rende il disco fondamentale per gli amanti della musica nera.

32) Thom Yorke, “ANIMA”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il terzo album vero e proprio di Thom Yorke, frontman dei Radiohead, segue la colonna sonora di Suspiria dello scorso anno. Yorke in “ANIMA” continua il percorso elettronico intrapreso in “The Eraser” (2006) e lo conduce verso lidi più teneri del solito, evocando le atmosfere dei lavori più intimi dei Radiohead, un po’ ambient un po’ glitch.

Del resto, è inevitabile fare comparazioni con la sua band, vero culto per moltissimi fans e non senza ragioni: autori di classici come “OK Computer” e “Kid A”, i Radiohead sono da molti considerati fra le più importanti band nella storia della musica. Yorke, gli va dato atto, non ha mai cercato di scimmiottare i lavori del complesso britannico da solista; un merito, ma anche forse un motivo del perché nessuno ha mai avuto veramente successo. “ANIMA” invece collega benissimo i Radiohead di “Kid A” e “Amnesiac” con il Thom solista, creando un lavoro coeso e avvincente.

La partenza è interlocutoria: sia Traffic che Last I Heard (… He Was Circling The Drain) rievocano le tenebrose atmosfere di “Tomorrow’s Modern Boxes” (2014). Tuttavia, la magia è solo rinviata: sia Twist che Dawn Chorus sono fra le migliori composizioni del Thom Yorke solista, entrambe melodie tenere con la voce di Yorke al suo meglio. Si ritorna in questo modo al CD forse più incompreso del catalogo dei Radiohead, “King Of Limbs” (2011). Insomma, Thom (aiutato come sempre dal fido produttore Nigel Godrich) ha ancora diversi assi nella manica.

A tutto questo va aggiunto che Paul Thomas Anderson, il celebre regista hollywoodiano e collaboratore dei Radiohead, ha girato un breve film sulle note di alcune delle canzoni contenute in “ANIMA”. Insomma, possiamo dire che Thom Yorke in questo caso ha decisamente alzato il livello, sia di ambizione che di arrangiamenti; e i risultati sono notevoli.

Liricamente, come spesso nella carriera, il frontman dei Radiohead non risparmia invettive contro la presenza sempre più invasiva della tecnologia: in The Axe (già il titolo, L’Ascia, dice tutto) lo sentiamo inveire “Goddamned machinery, why don’t you speak to me? One day I am gonna take an axe to you”. Altrove l’immaginario è più astratto: Twist termina quasi come un film horror, con Yorke che mormora “A boy on a bike who is running away, an empty car in the woods, the motor left running”. Dawn Chorus è invece dedicata alla sua compagna, Dajana Roncione: viene descritto ad un certo punto un vortice di frammenti di cenere che sembrano ballare, come due amanti, insomma una scena davvero romantica.

Yorke dunque, recuperando le influenze più eccentriche già viste nei Radiohead e adattandole ad atmosfere maggiormente accessibili, ha creato il suo LP più bello. Niente male, considerato che il Nostro canta da più di 20 anni; ma Thom non pare avere intenzione di smettere. E noi non possiamo che essergliene grati.

31) Deerhunter, “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?”

(ROCK)

Giunti ad un punto ormai dove molte band loro coetanee si sono già sciolte (i Walkmen, ad esempio) oppure vivacchiano con tentativi di reinventarsi più o meno riusciti (si vedano Bloc Party e Strokes), i Deerhunter si sono guadagnati un posto apprezzabile nel pantheon delle band indie rock. Sempre pronti a esplorare nuovi territori, capitanati dall’indomito Bradford Cox, i Deerhunter hanno saputo entrare nel cuore dei fans grazie a lavori superlativi come “Microcastle” (2008) ed “Halcyon Digest” (2010).

Il precedente lavoro “Fading Frontier” del 2015 aveva fatto intravedere il lato più dream pop del gruppo: parlando della “nuova vita” capitatagli dopo il terribile incidente d’auto dell’anno prima che lo aveva quasi ucciso, Cox aveva trovato anche il modo di affrontare temi a lui molto cari: la discriminazione per le persone omosessuali, la solitudine… il tutto però con melodie più dolci del 95% delle canzoni precedenti dei Deerhunter.

Il nuovo lavoro “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?” prosegue sulla falsariga tracciata da “Fading Frontier”, approfondendo il lato psichedelico dei Deerhunter. Ciò è evidente in brani come la strumentale Greenpoint Gothic e Tarnung. I pezzi più riusciti sono, però, quelli più accostabili ai capolavori del gruppo, in cui l’abilità strumentale dei membri dei Deerhunter può venire allo scoperto: il primo singolo Death In Midsummer è ottimo, così come No One’s Sleeping, con bellissima coda strumentale capitanata dal chitarrista Lockett Pundt. Degna di nota anche What Happens To People?. L’unica traccia davvero debole è la confusa Détournement, ma i risultati restano complessivamente buoni.

Liricamente, Cox ritorna su sentieri già percorsi, ma mai in maniera banale: in Death In Midsummer riprende il tema della morte, questa volta degli amici, cantando “They were in hills, they were in factories. They are in graves now”. Il pessimismo ritorna in What Happens To People?: “What happens to people? They quit holding on. What happens to people? Their dreams turn to dark”. Ma è in Détournement che abbiamo la lirica più drammatica: “Your struggles won’t be long and there will be no sorrow on the other side.”

In conclusione, i Deerhunter si confermano band affidabile in termini di qualità compositiva, con una discografia davvero eccellente e varia. Complimenti, Bradford & co.

30) Danny Brown, “uknowhatimsayin¿”

(HIP HOP)

Il quinto album di Danny Brown, uno dei rapper più originali degli ultimi anni, è una summa di tutte le caratteristiche che lo rendono unico. Voce nasale, versi al limite dell’indecente alternati a scherzi assurdi e altri introspettivi, basi del tutto fuori di testa, flow inarrestabile: troviamo questo e molto altro in “uknowhatimsayin¿”, che già dal titolo si preannuncia folle. La produzione affidata a pezzi da 90 come Q-Tip (A Tribe Called Quest), Flying Lotus e JPEGMAFIA rendono la ricetta ancora più intrigante, così come la collaborazione con i Run The Jewels in 3 Tearz e quella con Blood Orange in Shine.

I tratti puramente sperimentali di alcune parti del disco lo rendono un osso difficile da masticare, soprattutto al primo ascolto: mentre “Old” (2013) aveva basi quasi danzerecce nella seconda parte, questo lavoro vira verso il lato più ardito di Danny, con esempi virtuosi in Dirty Laundry e Theme Song. Mancano allo stesso tempo anche le atmosfere disperate di “Atrocity Exhibition” (2016), a tutt’oggi il suo album più celebrato, in cui Brown metteva in mostra tutta la sua fragilità e le sue dipendenze.

Troviamo infatti anche versi davvero divertenti, che immediatamente entrano in testa all’ascoltatore: “I ignore a whore like an email from LinkedIn”, contenuto in Savage Nomad, ne è il più chiaro esempio. Altrove ritorna il pensiero della morte, ma in maniera più ironica, quasi leggera rispetto al passato: “I’mma die for this shit like Elvis” canta il rapper statunitense in Combat.

Il CD, per quanto ricercato e a tratti assurdo, è assimilabile relativamente in fretta data la sua brevità: 11 canzoni in 33 minuti sono un’ulteriore dimostrazione della posizione davvero unica occupata da Danny Brown nel mondo hip hop. I pezzi migliori sono la già ricordata Dirty Laundry e la title track, mentre sono inferiori alla media Best Life e Negro Spiritual.

In conclusione, “uknowhatimsayin¿” dimostra ancora una volta l’inventiva senza freni posseduta da Danny Brown. Ormai alla soglia dei 40 anni, il talentuoso rapper non pare per nulla intenzionato a adagiarsi sugli allori: non avrà ancora esaudito il sogno espresso nel suo CD “XXX” (2011), quando diceva di voler diventare “the greatest rapper ever”, ma di certo il rispetto di critica e fans non fanno che crescere album dopo album.

29) Moodymann, “SINNER”

(ELETTRONICA)

Il nuovo disco di Moodymann, leggenda della house di Oltreoceano, arriva 5 anni dopo il suo precedente lavoro, l’eponimo “Moodymann”. Non troviamo però alcuna ruggine negli ingranaggi delle canzoni che compongono il breve ma denso album (7 tracce per 44 minuti): Kenny Dixon Jr (questo il vero nome del DJ statunitense) anzi è più in forma che mai.

In realtà Moodymann non è restato completamente silente negli ultimi 5 anni: nel 2016 ha contribuito alla serie dei “DJ-Kicks”, mentre nel 2018 ha dato alle stampe l’EP “Pitch Black City Reunion”. Gli elementi della ricetta di Moodymann sono rimasti gli stessi: un’elettronica infusa di soul e black music, come mescolare Prince con Caribou per capirsi. L’iniziale I’ll Provide chiarisce subito l’intento di Dixon: mescolare temi sporchi (“I got something for all your dirty, nasty needs… Drunk and high, I’ll provide”) con musica seducente e raffinata. Buonissime poi le seguenti I Think Of Saturday e Got Me Coming Back Rite Now, perfette per ballare nelle ore calde della notte estiva.

Nella seconda parte il mood cambia leggermente: le tracce si fanno più pensose e raccolte, i ritmi più cadenzati e dalla dance music passiamo ad una house molto rallentata. Non per questo però “Sinner” perde fascino: la lunga ma interessante If I Gave U My Love introduce efficacemente quest’altra faccia di Moodymann, che pare trasformarsi progressivamente in Flying Lotus (esemplare la jazzata Downtown).

28) Michael Kiwanuka, “Kiwanuka”

(POP – SOUL)

Il terzo album del cantante soul britannico Michael Kiwanuka è un altro tassello prezioso di una carriera in continua ascesa. Già premiato da critica e pubblico col precedente “Love & Hate” (2016), nominato anche per il Mercury Prize, Kiwanuka mantiene lo stile soul ma anche psichedelico che ne aveva decretato il successo, aggiungendo una produzione raffinata grazie a Inflo e Danger Mouse.

I 14 brani di “Kiwanuka”, come già il titolo preannuncia, sono più personali del passato, tuttavia Michael non si espone fino in fondo: a volte sentiamo frasi come “All I want is to talk to you”, in Piano Joint (This Kind Of Love), oppure “The young and dumb will always need one of their own to lead”, in Light. Mai, però, il talentuoso cantautore va più in là: un modo per mantenersi ermetico o il timore dei giudizi del pubblico?

Conta relativamente, data la bellezza del disco: la delicatezza di Piano Joint (This Kind Of Love) è incredibile, così come la carica di Hero. I 52 minuti del CD scorrono benissimo e ripetuti ascolti svelano sempre nuovi dettagli del lavoro, facendo peraltro assumere alla voce di Kiwanuka un’importanza sempre maggiore. Molto interessante poi la struttura dell’album: gli intermezzi sono numerosi, ma in alcuni casi perfettamente funzionali (ad esempio Hero – Intro introduce perfettamente Hero) e soprattutto nessuno è messo solo per motivi di streaming, cosa purtroppo comune nel mondo hip hop.

In conclusione, il soul ha trovato un nuovo volto: se “Love & Hate” poteva essere un fuoco di paglia, tutti i dubbi sono stati cancellati da “Kiwanuka”, che affianca il cantautore inglese a figure come Temptations e D’Angelo, senza la carica sexy del secondo e la creatività dei primi, ma con una capacità di lavorare sui dettagli almeno simile.

27) American Football, “American Football”

(ROCK)

Il terzo album degli statunitensi veterani dell’emo è un deciso passo avanti verso nuovi lidi sonori. Rispetto al gradevole ma prevedibile “American Football” del 2016, visto da molti più come un servizio reso ai fan piuttosto che un CD davvero voluto dalla band, il nuovo LP vira verso territori dream pop davvero interessanti e il gruppo, aiutato da ospiti di spessore come Rachel Goswell e Hayley Williams dei Paramore, produce un lavoro all’altezza della loro fama.

L’inizio del disco è già sorprendente: suoni leggeri di campanelline introducono Silhouettes, che poi si dispiega in una canzone perfettamente inquadrata nell’estetica American Football: voce di Mike Kinsella a guidare le danze, ritmi carichi di pathos e liriche che parlano di amori lontani. La seguente Every Wave To Ever Rise, con la partecipazione di Elizabeth Powell, introduce addirittura temi post-rock.

I veri pezzi da 90 sono però Uncomfortably Numb (con la Williams), che fa il verso ai Pink Floyd solo in apparenza, e la suadente Heir Apparent; senza dubbio sono gli highlights del CD e della seconda vita della band americana. Forse ridondante Doom In Full Bloom, ma perfettamente intonata al mood del lavoro.

Liricamente, come accennavamo, ritornano molti temi cari al mondo emo: il male di vivere (“Sensitivity deprived, I can’t feel a thing inside” canta Kinsella in Uncomfortably Numb), i rimpianti per la giovinezza ormai passata (“I blamed my father in my youth. Now as a father, I blame the booze” sentiamo nella stessa canzone), le pene causate dall’amore non corrisposto, come in Silhouettes: “Tell me again what’s the allure of inconsequential love”.

Insomma, “American Football” si staglia come un capitolo decisamente degno di nota per gli amanti della band e più in generale del genere emo: esplorando nuovi territori gli American Football hanno prodotto il primo LP davvero avventuroso della loro frastagliata carriera, con sicuri benefici per il loro futuro.

26) Ezra Furman, “Twelve Nudes”

(ROCK – PUNK)

Il nuovo album del cantautore americano segna una svolta stilistica per lui: al rock cinematico e a tratti barocco del precedente “Transangelic Exodus” (2018) Ezra sostituisce un punk-rock decisamente più immediato, tanto che “Twelve Nudes” (in realtà composto da 11 canzoni) è lungo solamente poco più di 27 minuti.

L’apertura è già indice del mood disperato ma allo stesso tempo sbarazzino del CD: sia Calm Down aka I Should Not Be Alone che Evening Prayer aka Justice sono pezzi che quasi ricordano i Ramones o i primi Clash. I temi affrontati, come sempre con Furman, riguardano l’essere omosessuali al giorno d’oggi: gli abusi subiti e le ferite provocate dagli amori finiti sono i principali. In Calm Down aka I Should Not Be Alone canta “Panic-stricken, sweating in my bed, could someone help me down”, mentre altrove nella tracklist troviamo titoli evocativi come Trauma e My Teeth Hurt.

Musicalmente “Twelve Nudes” è un lavoro molto intrigante, immediato ma con un substrato malinconico se non tragico che aggiunge pepe alla ricetta. In Transition From Nowhere To Nowhere il cantautore ritorna alle sonorità dei suoi precedenti lavori, meno feroci rispetto al punk che pervade “Twelve Nudes”; invece Trauma è quasi hard rock.

In generale, Ezra Furman pare aver trovato con questo LP la definitiva maturità, sia dal lato testuale che da quello di compositore; “Twelve Nudes” regala dettagli nuovi ad ogni ascolto e occupa a pieno merito la posizione 26 della lista.

La prima parte dei 50 migliori album del 2019 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi, fra cui Bruce Springsteen, Taylor Swift e Flying Lotus: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Stay tuned!

Recap: settembre 2019

Settembre ci ha regalato CD davvero interessanti. Ad A-Rock recensiremo i nuovi lavori di Natasha Khan aka Bat For Lashes, JPEGMAFIA e (Sandy) Alex G. Abbiamo poi il ritorno di Charli XCX e di Jenny Hval. Ma non finisce qui: ci sono anche il nuovo disco di Liam Gallagher, degli M83 e l’esordio solista di Brittany Howard, la cantante degli Alabama Shakes.

(Sandy) Alex G, “House Of Sugar”

alex g

L’ultimo album del prolifico cantautore americano, “House Of Sugar”, è il suo CD più completo. Dopo il cambio di nome da Alex G a (Sandy) Alex G, al fine di evitare scambi di persona con uno youtuber suo omonimo, il talentuoso Alex Giannascoli ha ampliato costantemente la propria palette sonora, aggiungendo elementi psichedelici e addirittura country prima ridotti all’osso nei vari dischi lo-fi da lui prodotti in passato.

“House Of Sugar” è un titolo particolare, che richiama le fiabe di Andersen, in particolare “Hansel e Gretel”; non è quindi un caso che una delle migliori canzoni della tracklist si intitoli proprio Gretel. Altrove troviamo invece riferimenti testuali a fatti di vita vera o, almeno, verosimile: in Hope Alex rimpiange un coetaneo morto, “He was a good friend of mine, he died. Why write about it now? Gotta honor him somehow”, si domanda e si risponde. Dopo però la scena diventa improvvisamente piena di vita, “In the house they were calling out his name all night, taking turns on the bed, throwing bottles from the windows of the home on Hope Street”. Non sappiamo se veramente il nome della via fosse Hope Street, ma il riferimento non pare casuale.

Accanto a questi franchi racconti di episodi della propria vita, però, Giannascoli affianca un sound interessante quanto misterioso: all’indie rock si sommano forti influenze degli Animal Collective, specialmente negli inserti più misteriosi, come Taking e Sugar. (Sandy) Alex G finisce quindi per suonare strano ma allo stesso tempo accessibile: brani come Gretel, la tenera Southern Sky e In My Arms non possono lasciare indifferenti. La doppietta CowCrime rimanda ai migliori Real Estate.

In conclusione, “House Of Sugar” è, come da titolo, un lavoro fondamentalmente dolce, ma infarcito degli elementi particolari e stranianti tipici di Alex Giannascoli. Dopo 8 CD fra Bandcamp, autoprodotti e ora la Domino, con in mezzo svariati EP, il giovane cantautore statunitense pare aver trovato la definitiva maturità. “House Of Sugar” è il suo album più completo e affascinante, un “must-listen” per gli amanti dell’indie rock più eccentrico.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA, “All My Heroes Are Cornballs”

jpegmafia

Al terzo album e dopo l’esplosione da cantante di nicchia a rapper venerato da un largo seguito, JPEGMAFIA è tornato. “Veteran” (2018) non è stato un evento casuale: il rap caotico ed eternamente creativo di Barrington DeVaughn Hendricks si conferma una forza motrice devastante, facendo di “All My Heroes Are Cornballs” uno degli album di rap sperimentale migliori dell’anno.

Partiamo intanto dall’analisi della copertina e dei titoli della tracklist: il CD si annuncia lungo e non semplice da assimilare, con canzoni a volte sotto il minuto di durata e altre invece più articolate. Nella cover JPEGMAFIA ha vestiti quasi femminili, circostanza che in effetti si sposa bene col titolo del lavoro e del singolo di lancio: “tutti i miei eroi sono sdolcinati” e Perdonami Gesù, sono una facile rispettivamente. Insomma, le supposizioni sull’identità sessuale del Nostro possono partire, ma Hendricks è sempre stato molto riservato al riguardo e neanche in “All My Heroes Are Cornballs” trapelano indiscrezioni.

Gossip a parte, l’hip hop altamente innovativo e imprevedibile di JPEGMAFIA si conferma efficace: i pezzi più compiuti, come il già citato Jesus Forgive Me, I Am A Thot e Kenan vs. Kel, sono davvero ottimi. La struttura spezzettata del CD può risultare indigesta per alcuni, comprensibilmente (intermezzi come DOTS FREESTYLE REMIX e JPEGMAFIA TYPE BEAT sono fin troppo rumorosi), ma denota una creatività sempre all’erta non banale nello stereotipato panorama mondiale.

Testualmente, i riferimenti di JPEGMAFIA restano tanto vari quanto inclassificabili: troviamo rimandi a Bane, Michael Jackson (entrambi in Rap Grow Old & Die x No Child Left Behind), i Beatles (Post Verified Lifestyle), Brian Wilson dei Beach Boys (BBW), polemiche contro l’uso della forza da parte della polizia (PTSD) e a Gesù (Jesus Forgive Me, I Am A Thot e BUTTERMILK JESUS TYPE BEAT). In tutti i casi però resta indelebile l’abilità di JPEGMAFIA di assemblare brani credibili pur nel caos da lui stesso prodotto.

Il disco a volte risulta davvero difficile da seguire, ma ripetuti ascolti premiano gli ascoltatori. Mentre MIKE qualche mese fa aveva prodotto un CD sperimentale con un tema di fondo (la morte della madre), Hendricks si conferma tanto imprevedibile quanto incapace di dare coerenza ai suoi lavori. Ma proprio qui sta il bello no?

Voto finale: 8.

Brittany Howard, “Jaime”

jaime

L’esordio solista della cantante degli Alabama Shakes arriva a quattro anni da “Sound & Color”, il lavoro che fece conoscere il gruppo americano al mondo intero, facendogli anche vincere tre Grammy Awards. La Howard si distacca dal blues-rock che ha reso celebri gli Alabama Shakes, dando spazio alla sua vena soul e non disdegnando incursioni nel synthpop.

“Jaime” è dedicato alla sorella di Brittany, morta all’età di 13 anni a causa di un cancro all’occhio. Questo evento ha tragicamente segnato l’infanzia della cantautrice statunitense, che essendo una donna omosessuale di colore nel sud degli Stati Uniti non ha mai avuto vita facile. Tutto questo substrato di esperienze è la base che tiene insieme le canzoni di “Jaime”: 11 brani tra loro diversi e variegati, ma con tematiche comuni. Ad esempio, in History Repeats la Nostra mette in guardia dal ripetersi della storia, se non staremo attenti. Invece altrove affiorano temi legati all’amore: Georgia tratteggia l’amore di una ragazzina per una più grande, Stay High sogna di vivere per l’eternità con l’amore della vita. 13th Century Metal è però la canzone più ricca di frasi significative: “I am dedicated to oppose those whose will is to divide us and who are determined to keep us in the dark ages of fear… I don’t know about you, but I’m tired of this bullshit and I wanna try to do the best that I can”.

Musicalmente, dicevamo all’inizio, il CD è diverso dalla proposta degli Alabama Shakes: mentre infatti il sound della band si caratterizza per essere retrò (non a caso piace molto a Jack White), Brittany Howard ha sempre un occhio per il passato della musica (evidenti le influenze di D’Angelo e Prince), ma riesce a suonare attuale soprattutto per le tematiche affrontate e il mix musicale che è “Jaime”, pieno di rimandi a soul, jazz, pop e rock. Stupiscono favorevolmente la romantica Georgia e la potente 13th Century Metal, mentre sono inferiori Presence e History Repeats.

Il disco non brilla quindi per coerenza, ma proprio qui risiede il fascino di “Jaime”: accanto a temi delicati la Howard riesce a non suonare mai pesante o monotona, creando un insieme vario ma anche discretamente organico. Non un’impresa facile.

Voto finale: 7,5.

Charli XCX, “Charli”

charli

Il terzo album ufficiale della nascente popstar Charli XCX arriva a ben cinque anni da “Sucker”. Non è però per niente vero che la giovane cantautrice britannica sia stata inattiva in questo lungo periodo: il 2017 l’ha vista produrre ben due mixtape, fra le opere migliori della sua produzione, “Number 1 Angel” e “Pop 2”.

Charli XCX è amata, oltre che dal pubblico, anche dalla critica: il suo ibrido fra pop da classifica, percussioni quasi punk e basi elettroniche rappresenta un passo avanti notevole per il pop. Non per questo però Charli ha mai rinunciato alle charts: le famosissime I Love It e Doing It, cedute rispettivamente alle Icona Pop e a Iggy Azalea, portano la sua firma. Può sembrare strana questa caratteristica di Charli XCX di essere d’avanguardia e mainstream allo stesso tempo, ma probabilmente è proprio qui che risiede il suo fascino.

Il CD, già dal titolo, si annuncia più introspettivo rispetto al passato: mentre in LP precedenti i temi principali erano rappresentati da party, serate travolgenti e l’amore in ogni sua sfumatura, in “Charli” la cantautrice nata Charlotte Aitchison analizza le parti più nascoste di sé. In Gone, ad esempio, con l’aiuto di Héloïse Letissier aka Christine And The Queens, Charli dichiara: “I feel so unstable, fucking hate these people”, la prima ammissione di vera fragilità da parte sua. In February 2017 invece si sente: “Sorry ’bout Grammy night, was lying on my mind, was in a different place, tortured and drifting by”. Il contrasto tra la ricerca della fama e l’inquietudine che ne deriva è evidente.

Musicalmente, il lavoro è un mix di tutte le influenze che hanno caratterizzato la carriera di Charli: dal pop elettronico e robotico di Next Level Charli, alla tropicalia di Warm (con le sorelle Haim più pop che mai), passando per la trap accennata di Click e le ballate Blame It On Your Love (con Lizzo) e Official, “Charli” pare quasi un modo di chiudere una pagina e aprirne un’altra. A brillare particolarmente è Sorry For You, grazie anche alla preziosa collaborazione di Sky Ferreira; invece Shake It è l’unica traccia veramente sbagliata. Non tutto fila, ma non si può non premiare il coraggio sia a livello musicale che testuale di Charli XCX, destinata con ogni probabilità a trovare il definitivo successo con “Charli”.

Voto finale: 7,5.

Bat For Lashes, “Lost Girls”

lost girls

Il quinto album del progetto Bat For Lashes trova Natasha Khan in piena nostalgia degli anni ’80. Il CD, centrato attorno alla storia di un personaggio immaginario (Nikki Pink) e delle sue compagne di avventure, ha quel retrogusto cinematografico che anche il precedente “The Bride” (2016) possedeva, ma rispetto a quest’ultimo spinge ancora di più sulle tastiere, per creare un album synthpop coerente e breve al punto giusto (38 minuti).

Partiamo subito da un assunto: l’innovazione dei lavori più ispirati della Khan, come “The Haunted man” (2012), manca in questo “Lost Girls”, tanto che il lavoro potrebbe benissimo essere una colonna sonora di Stranger Things. Ciò tuttavia non toglie fascino all’album, che anzi fiorisce pienamente proprio nei suoi pezzi più nostalgici, come l’iniziale Kids In The Dark e Feel For You, pezzi a metà fra Eurythmics e Chic.

Dicevamo prima che il CD è breve al tempo giusto: 10 brani per una durata inferiore ai 40 minuti generano un ascolto gradevole fin dal primo giro, con un replay value garantito dalla grande abilità vocale e di arrangiatrice di Natasha Khan. Ad esempio, canzoni apparentemente più ovvie come Desert Man e Jasmine guadagnano spessore dopo ripetute sessioni di “Lost Girls”. Vampires, il pezzo più inquietante della tracklist, ricorda i Cure. Il disco perde qualcosa in termini di qualità solo nel finale, ma i risultati restano buoni.

La cantautrice inglese, ormai quarantenne, in “Lost Girls” ha trovato la definitiva maturità artistica. La sua abilità di spaziare fra pop più commerciale e paesaggi quasi psichedelici la rendono un outlier nel panorama musicale, ma anche una maestra per artiste come Weyes Blood e Julia Holter. Il treno per il grande successo di pubblico potrebbe essere passato, ma Natasha Khan non ha alcuna intenzione di smettere di creare mondi paurosi ma allo stesso tempo affascinanti.

Voto finale: 7,5.

Liam Gallagher, “Why Me? Why Not.”

liam

Il secondo album solista dell’ex cantante degli Oasis prosegue nel solco tracciato dal precedente “As You Were” (2017): puro rock’n’roll, la voce di Liam al centro del mixaggio e melodie semplici quanto accattivanti. Mentre il fratello-coltello Noel negli ultimi lavori ha dato sfogo alla sua vena sperimentale, il più giovane dei Gallagher ha sempre mantenuto profilo e atteggiamento da rockstar. Era proprio per questa dualità del resto che gli Oasis ebbero tanto successo a cavallo fra i due millenni.

Le due tracce che aprono “Why Me? Why Not.” sono rimandi chiari e legittimi al glorioso passato di Liam: mentre Shockwave richiama i Rolling Stones, la tenera One Of Us è probabilmente la più bella ballata a firma Liam Gallagher dopo I’m Outta Time, tanto lennoniana quanto riuscita. Once è invece più prevedibile, mentre il pop-rock di Now That I’ve Found You riporta con la mente agli Oasis di inizio XXI secolo.

Le 11 tracce di “Why Me? Why Not.” sono sempre godibili; chi venisse qui per arrangiamenti rivoluzionari (ma perché farlo?) sarebbe deluso, ma i fan dei due Gallagher non possono chiedere di meglio. Sì, perché c’è pure un brano quasi sperimentale: Meadow pare ispirato da un consiglio di Noel, non fosse che la cosa pare altamente improbabile. Anche il piano sbilenco di Halo, d’altro canto, introduce elementi nuovi nella palette di Liam.

“Why Me? Why Not.”, già dal titolo e dalle interviste di lancio, era stato catalogato da Our Kid come un CD più rock, quasi punk. Beh, diciamo che la promessa è mantenuta solo a metà: non mancano i brani energici, ma anche le ballate sono ben rappresentate e, a dire il vero, Liam sembra più a suo agio in queste ultime. Ne è esempio, oltre a Once e One Of Us, anche Alright Now. Tra i brani rock più efficaci abbiamo Shockwave e Halo. Inferiori alla media invece Be Still e The River.

Liricamente, il lavoro è un mix di frasi motivazionali (“You’ve got to hold your head up high if you want to break the chains from your past life” canta in Meadow) e apparenti allusioni al fratello Noel: “You’re a snake” urla LG in Shockwave, ma altrove pare meno spavaldo, “At times I wonder if you’re listening” sentiamo dirgli in Alright Now.

Questo LP prosegue efficacemente il ritorno di Liam Gallagher dopo i non fastosi anni dei Beady Eye: mescolando rock classico con elementi più innovativi “Why Me? Why Not.” manca dell’effetto sorpresa di “As You Were”, ma senza dubbio sarà apprezzato dalla sua fanbase e manterrà alta la bandiera degli Oasis ancora per qualche tempo.

Voto finale: 7,5.

M83, “DSVII”

m83

Il nuovo CD degli M83, la band del francese ormai americanizzato Anthony Gonzalez, arriva a tre anni da “Junk”, il più deludente album mai pubblicato dal gruppo, e 12 anni dopo “Digital Shades Vol. 1”, il vero predecessore di “DSVII”. Anche qui infatti trovano spazio le composizioni ambient care a Gonzalez non inserite in un LP vero e proprio del gruppo. Tuttavia, mentre il primo volume era una vera e propria raccolta di b-sides, questo “DSVII” sembra quasi narrare una storia: pare infatti la colonna sonora di un videogioco di ruolo vecchio stampo, con atmosfere evocative e titoli come Meet The Friends e Temple Of Sorrow.

Il CD, molto articolato (15 canzoni per 57 minuti), non è però per questo pesante; anzi, Gonzalez e compagni riescono a creare melodie sempre accattivanti, retrò ma mai eccessivamente nostalgiche o fini a sé stesse. Ne sono esempio l’introduttiva Hell Riders, che illustra fin da subito il mood del lavoro, così come A Bit Of Sweetness. Altrove, è vero, troviamo pezzi meno riusciti come Colonies, troppo lenta, ma non rovinano il risultato complessivo del disco in maniera eccessiva.

In conclusione, la passione per le soundtrack di Anthony Gonzalez è cosa nota: tra 2007 e 2019 (l’intervallo di tempo intercorso fra “Digital Shades Vol. 1” e “DSVII”) ha composto tanti LP quante colonne sonore (3). Questo album è il perfetto punto d’incontro fra le due tendenze degli M83 e un deciso passo avanti rispetto al pessimo “Junk”. Certo, chi si aspettasse di trovare in “DSVII” altre hit trascinanti come Midnight City o Graveyard Girl resterà deluso, ma il disco è convincente e gli amanti dell’ambient ne saranno entusiasti.

Voto finale: 7,5.

Jenny Hval, “The Practice Of Love”

jenny hval

Il nuovo lavoro della cantautrice norvegese Jenny Hval è il suo album più accessibile. Lei, un tempo nota per il suo “estremismo pop” fatto di ricerca e uso dell’elettronica più d’avanguardia, pare più propensa a piacere che a piacersi in questo “The Practice Of Love”; un cambiamento non da poco, ma senza dubbio apprezzabile.

Il CD è snello (8 canzoni per 34 minuti) e per questo facile da digerire già al primo ascolto: mentre però fino a “Blood Bitch” (2016) i dischi di Jenny erano ostici e sperimentali, ma proprio per questo innovativi, in “The Practice Of Love” l’artista norvegese, come già accennato, cerca il consenso del pubblico più che dei critici. Pezzi come High Alice, ad esempio, sono quasi mainstream; Accident l’avvicina a Julia Holter. Nella title track ritorna invece la vena più sperimentale della Hval, dove varie voci si sovrappongono sullo sfondo di tastiere sognanti.

The Practice Of Love è il baricentro di un disco per altri versi davvero notevole: Ashes To Ashes è un bel pezzo quasi anni ’80, Thumbsucker è dolcemente sospesa fra spirito pop e sperimentalismo, la già ricordata High Alice è un altro highlight. A convincere meno è Six Red Cannas, ma non intacca eccessivamente il risultato finale. In certe parti del disco si arriva addirittura a flirtare con la trance music, segno che Jenny Hval ha ancora voglia di testare il proprio pubblico con proposte eccentriche ma mai campate in aria.

In conclusione, Jenny Hval compie un deciso passo avanti in una carriera già molto interessante: “The Practice Of Love” è un CD non perfetto, ma certo affascinante e fa presagire un futuro ricco di successo per la giovane cantautrice norvegese.

Voto finale: 7,5.