I 5 album più deludenti del 2022

Il 2022 ci ha regalato molti ottimi dischi, ma anche alcuni che meritano di essere menzionati per la loro mediocrità. Come di consueto, A-Rock inizia il suo recap di fine anno partendo dai più deludenti album dell’anno: in questa edizione abbiamo lavori di superstar come Drake e Kanye West, così come di band rock stagionate ma finora abbastanza affidabili come Muse e Kasabian. Infine, spazio all’ultimo CD dei Bloc Party. Buona lettura!

Bloc Party, “Alpha Games”

alpha games

I Bloc Party mancavano dalle scene da ben sei anni: al 2016 risale infatti “Hymns”, il disco che all’epoca definimmo come un deciso cambio di passo, ma nella direzione sbagliata. Mischiando gospel con melodie elettroniche, il CD era un fiasco su più o meno tutta la linea, facendo rimpiangere non solo i tempi del fondamentale “Silent Alarm” (2005), ma anche di “A Weekend In The City” (2007).

“Alpha Games” ritorna alle sonorità indie rock che hanno fatto la fortuna del gruppo britannico, un po’ quanto tentato da “Four” (2012): anche in questa occasione, tuttavia, l’energia dei tempi migliori non è presente nella maggior parte dei brani. Abbiamo momenti interessanti come l’iniziale Day Drinker, in cui il cantato di Kele Okereke rasenta l’hip hop, oppure la buona Traps. Accanto a questi troviamo però Rough Justice e By Any Means Necessary, che sembrano b-side dei tempi d’oro del gruppo. Peccato poi che Callum Is A Snake, con potente base punk, duri solo due minuti.

Il maggior problema di “Alpha Games” è che pare estratto da un anno a caso tra il 2001 e il 2007: i Bloc Party, malgrado i cambi di formazione avvenuti nel corso degli anni, che hanno portato Gordon Moakes (basso) e Matt Tong (batteria) ad essere rimpiazzati, con perdite, da Justin Harris e Louise Bartle, sono tornati alla fine alle sonorità delle origini, ovviamente con minor impatto e ispirazione.

Pur rappresentando quindi un progresso rispetto ad “Hymns”, “Alpha Games” resta un lavoro mediocre, in cui i Bloc Party si aggrappano a quello che sanno fare meglio (un indie rock sbarazzino e ballabile) con disperazione, forse sapendo che mai torneranno alla miracolosa creatività che ha reso “Silent Alarm” un disco fondamentale degli anni ’00.

Drake, “Honestly, Nevermind”

honestly nevermind

Il primo disco pubblicato nel 2022 dalla popstar canadese tenta di cambiare le carte in tavola di un’estetica da troppo tempo bloccata sui binari ben noti del pop-rap, con parziali inflessioni trap. I risultati? Non buoni purtroppo, segno di un Drake tremendamente affaticato.

Una cosa colpisce subito di “Honestly, Nevermind”: è come se Drake avesse provato a ricreare Passionfruit per 14 volte e 52 minuti di durata complessiva. L’esito di questo esperimento non è soddisfacente, ma se non altro denota un Drake voglioso di tornare protagonista anche sul lato creativo.

Se fino a “Certified Lover Boy” (2021) avevamo dei CD a firma Drake sovraccarichi, lunghi ma pieni di ospiti di spessore e sample spesso irresistibili, “Honestly, Nevermind” va molto all’essenziale, un po’ come “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015). Il fatto, poi, che ormai per lui rappare sia più un passatempo che la principale caratteristica della sua estetica rende quei pochi brani carichi di rime, come Sticky, degli eventi.

La cosa che più sorprende in negativo di questo LP, che lo distingue dal passato della produzione del Nostro, è che sono poche le canzoni davvero memorabili: “Honestly, Nevermind” pare più una playlist da ascoltare di sottofondo in spiaggia che un insieme articolato e coerente. Se “More Life” (2017) almeno era un prodotto vivo e creativamente notevole nei suoi momenti migliori, questo CD invece suona per lo più piatto.

La parte più interessante del disco è quella centrale, in particolare il duo formato da Sticky e Massive, che sposano bene rap e house. Da menzionare poi la collaborazione con 21 Savage, Jimmy Cooks, che chiude il lavoro. Invece molto deboli Falling Back, Liability e Calling My Name.

In conclusione, “Honestly, Nevermind” segna allo stesso tempo un passo avanti e uno indietro per Drake: se da un lato lo vediamo più aperto a sperimentare con generi disparati come house, dance e ritmi africaneggianti, dall’altro la qualità delle canzoni continua a latitare. L’artista capace di comporre LP riusciti come “Take Care” (2011) e “Nothing Was The Same” (2013) tornerà mai a quei livelli?

Kanye West, “Donda 2”

donda 2

Il secondo CD pubblicato da Kanye West in memoria della madre è il peggiore della sua carriera, di gran lunga: se in passato, anche nei momenti più cupi, il rapper statunitense era riuscito a trarre qualcosa di buono dalle sessioni di registrazione (già il primo “Donda” zoppicava molto da questo punto di vista), nel 2022 il suo essere bipolare ha evidentemente avuto la meglio. Basta rileggersi a tal riguardo le sue dichiarazioni sconcertanti sull’ebraismo o sulla storia degli afroamericani.

In “Donda 2” non funziona nulla o quasi: la produzione, un tempo punto di forza in ogni LP a firma Kanye West, è spesso un’aggravante, quasi fossimo di fronte a dei demo e non ad un prodotto finito. Si fa prima a menzionare le buone canzoni di quelle cattive, in una tracklist tanto frammentaria quanto spesso incomprensibile: abbiamo due buone melodie (City Of God e True Love), ma d’altro canto Louie Bags e Get Lost sono pressoché inascoltabili.

Colpisce poi il testo di molte melodie: Ye (come West si fa chiamare ora) utilizza questo disco più come pretesto per attaccare la ex moglie Kim Kardashian e il suo (ex) nuovo fidanzato Pete Davidson piuttosto che per onorare la memoria della madre.

Insomma, c’è davvero poco da salvare: “Donda 2”, presentato come un lavoro rivoluzionario in grado di cambiare la musica grazie alla sua associazione al cosiddetto Stem Player, si è rivelato un flop colossale. Date le sue ultime sparate, Kanye West si è dimostrato un uomo che ha bisogno di aiuto: vedere l’autore di album immortali come “Late Registration” (2005) e “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) in questo stato è davvero triste.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

Recap: agosto 2022

Agosto, diversamente dalla tradizione, si è rivelato un mese abbastanza affollato per la scena musicale. Ad A-Rock abbiamo recensito i nuovi lavori dei Muse, degli Hot Chip, di Julia Jacklin e dei Kasabian; inoltre, spazio ai brevi EP a firma Julien Baker e Liam Gallagher e al ritorno di Ezra Furman. Infine, analizziamo il primo CD collaborativo di Panda Bear e Sonic Boom, così come quello tra Danger Mouse e Black Thought. Buona lettura!

Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

cheat codes

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità e, pertanto, troveranno sicuramente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock. Siamo piuttosto sicuri che non saremo gli unici a dargli spazio.

Voto finale: 8.

Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

pre pleasure

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

Hot Chip, “Freakout/Release”

freakout release

Il nuovo CD degli inglesi Hot Chip, giunti ormai alla loro terza decade insieme, è un buon CD di musica elettronica. Partendo da una situazione drammatica, sia dal punto personale che da quello sociale, “Freakout/Release” riporta i britannici ai buoni livelli del precedente “A Bath Full Of Ecstasy” (2019).

Se il primo singolo di lancio Down poteva sembrare quasi scontato, fin troppo in linea col passato degli Hot Chip, gli altri due brani prescelti per promuovere il CD dimostravano ben altra stoffa: Eleanor usa un beat ballabilissimo, su cui Alexis Taylor (uno dei due frontman) parla degli effetti di una separazione dolorosa. Infine, Freakout/Release: siamo di fronte ad uno dei brani più carichi dell’intera produzione degli Hot Chip, quasi vicino alla techno, poco altro da aggiungere.

Va detto che abbiamo anche altri pezzi degni di nota: ad esempio, Broken e Time sono meritevoli di più di un ascolto. Inferiori alla media invece Hard To Be Funky e Guilty. Menzione, infine, per The Evil That Men Do, che presenta una sezione hip hop (!) nel finale.

Liricamente, Taylor e compagni sono più malinconici che mai: atteggiamento, come già detto, dovuto a circostanze personali (la morte dell’amico Philippe Zdar) e globali (la pandemia da Covid-19). I versi più significativi sono i seguenti: “Music used to be escape, now I can’t escape it” (la title track); “You can heal if you’re wounded, you can heal anytime” (Miss The Bliss); e “It holds me… I have no choice… All the rest is noise” (Not Alone). Emergono dunque segnali contrastanti, di depressione così come di ritrovato entusiasmo, sensazioni ben note a tutti noi passati per i lockdown pandemici.

In conclusione, “Freakout/Release” è probabilmente uno degli ultimi album propriamente pandemici, o almeno caratterizzabili come tali. Gli Hot Chip, dal canto loro, si confermano band consistente ed affidabile, incapace di comporre cattivi CD.

Voto finale: 7,5.

Ezra Furman, “All Of Us Flames”

all of us flames

Il nuovo lavoro della cantautrice americana si inserisce in una carriera di tutto rispetto: se il precedente “Twelve Nudes” (2019) era il CD più duro come sonorità della sua produzione, “All Of Us Flames” ricorda invece “Transangelic Exodus” (2018). Ad ogni modo, i risultati restano più che discreti.

Ezra Furman è una figura rispettata non solo per le sue qualità compositive, ma anche per la sua storia: il fatto di essere ebrea e transessuale allo stesso tempo, che in passato avrebbe portato discriminazioni a non finire, adesso la rende fiera. Prova ne siano alcuni riferimenti presenti in “All Of Us Flames”: “It’s not written in your Bibles, it’s a verse behind the verse only visible to an obsessive detail-oriented heathen Jew” canta, ad esempio, in Train Comes Through; mentre in Ally Sheedy In The Breakfast Club abbiamo una nota nostalgica a “the teenage girl I never got to be”. Altrove abbiamo testi più romantici (“You’ve got me in your arms… Maybe that’s all we need for warmth”, Forever In Sunset).

I migliori brani sono l’introduttiva Train Comes Through e Forever In Sunset, che ricorda il Bruce Springsteen di fine anni ’70. Inferiori alla media invece I Saw The Truth Underssing e Book Of Our Names, ma hanno il merito di mantenere coerente l’estetica del CD, pieno di riferimenti a PJ Harvey e alla scena rock anni ’00, soprattutto i Deerhunter.

In generale, Ezra Furman conferma il bene che si dice di lei ormai da una decina d’anni. “All Of Us Flames” non è un LP rivoluzionario, ma i suoi 47 minuti di durata scorrono bene e lo rendono ascoltabile da un vasto pubblico.

Voto finale: 7.

Panda Bear & Sonic Boom, “Reset”

reset

Il primo CD di Noah Lennox (Panda Bear), principale esponente degli Animal Collective, e Sonic Boom (Peter Kember), membro degli Spacemen 3, è in realtà derivato da una profonda stima reciproca che lega tra loro i due musicisti. I due, infatti, collaborano fin dai tempi di “Person Pitch” (2007), il bellissimo LP di Panda Bear, ma questa è la prima produzione in cui le canzoni sono scritte a quattro mani da Panda Bear e Sonic Boom.

“Reset” è un titolo azzeccato, dati i tempi grami in cui viviamo: servirebbe proprio un reset per ripartire, dopo anni contrassegnati da pandemia, guerre e tragedie legate al deterioramento ambientale. Le sonorità, peraltro, richiamano un’epoca più serena: gli anni ’60, quelli dei Beach Boys e del sunshine pop. Alla lunga la dolcezza dei risultati può quasi apparire stucchevole, ma nel complesso siamo di fronte a un buonissimo lavoro, forse il migliore di entrambi i musicisti dai tempi di “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015).

“Reset” si caratterizza come una lunga suite di brani che spesso si mescolano uno nell’altro; vi sono episodi puramente psichedelici come Livin’ In The After ed Everyday, così come altri che virano sull’elettronica (In My Body, Whirlpool). In generale, però, è da premiare l’abilità dei due di creare un lavoro coeso ed estremamente godibile, con gli highlights di Gettin’ To The Point ed Everything’s Been Leading To This, che richiamano le migliori melodie di “Person Pitch” e “Merriweather Post Pavilion” (2009) degli Animal Collective. Delude un po’ solo In My Body.

Liricamente, come spesso accade nei lavori ricchi di sample tratti dal passato, i contenuti spesso sono indefiniti; tuttavia, in certi tratti Lennox e Kember lasciano trasparire qualche contenuto più calato nel presente. Ne sono esempi i seguenti versi: “One dude’s sweat is another’s balm” (Go On), forse un accenno allo sfruttamento capitalistico; e “Well times are tough and the draw is raw” (Everything’s Been Leading To This).

In conclusione, entrambi gli artisti coinvolti nella realizzazione di “Reset” hanno prodotto migliori CD in passato; allo stesso tempo, sentire nuovamente Panda Bear e Sonic Boom così liberi e sereni ci fa pensare che ci sia ancora qualcosa della vecchia magia da esplorare.

Voto finale: 7.

Julien Baker, “B-Sides”

b sides

Il breve EP “B-Sides” trae origine, dalle stesse sessioni di registrazione che hanno portato Julien Baker a pubblicare “Little Oblivions” nel 2021. I brani sono riusciti e sarebbero potuti benissimo entrare nella tracklist del CD principale, facendo di “B-Sides” un buon lavoro, seppur molto breve.

Il disco comincia con Guthrie, un pezzo molto intimista che sarebbe stato benissimo nell’esordio della Nostra, “Sprained Ankle” (2015). Abbiamo poi due pezzi più movimentati, caratterizzati da un indie rock convincente, Vanishing Point e Mental Math, che alzano il livello dell’EP e sono fra i migliori a firma Julien Baker.

Liricamente, la Baker si dimostra cantautrice tremendamente onesta nell’affrontare i suoi demoni e nel rendere il pubblico partecipe delle sue problematiche. In Guthrie mette in questione la propria fede: “Used to call upon the spirit, now I think heaven lets it ring… Wanted so bad to be good, but there’s no such thing”. Invece Mental Math parla di ricordi del passato da studente, inframmezzati da considerazioni più ampie: “Trying not to freak out, staring at the ground, doing math in my head, how far is it down?”.

In conclusione, “Little Oblivions” aveva confermato quanto di buono si diceva di Julien Baker; questo EP non fa che mettere nuovamente in luce il talento, compositivo e lirico, di una delle cantautrici più promettenti della sua generazione.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher, “Diamond In The Dark”

diamond in the dark

Questo EP segue il successo dell’ultimo disco solista di R Kid, pubblicato pochi mesi fa. “C’MON YOU KNOW” non era il miglior lavoro a firma Liam Gallagher, ma faceva intravedere doti vocali e cantautorali ancora in buona forma e Diamond In The Dark, che dà il nome a questo EP, ne era uno dei migliori esempi.

Oltre a Diamond In The Dark, abbiamo in scaletta un remix del brano, a cura di DJ Premier, e una versione live del medesimo pezzo, presa dalla riedizione del concerto di Knebworth, la cui prima leggendaria edizione si tenne nel 1994 a firma Oasis. Infine, spazio alla b-side Bless You, che chiude abbastanza efficacemente un EP senza troppe pretese, ma non per questo mal riuscito.

Chiaramente non stiamo parlando di un prodotto imperdibile, ma i fan del più giovane dei fratelli Gallagher troveranno pane per i loro denti.

Voto finale: 6,5.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

Voto finale: 5.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Voto finale: 5.

Recap: maggio 2017

Anche maggio si è rivelato un mese ricco di uscite interessanti. Tra di esse, ci concentriamo in particolare sul clamoroso ritorno dei veterani Slowdive; sul terzo album di Mac DeMarco; sul quarto LP di Perfume Genius; e sul sesto CD dei Kasabian.

Slowdive, “Slowdive”

slowdive

È ufficiale: lo shoegaze è ancora vivo e lotta insieme a noi. Dopo il clamoroso ritorno nel 2013 degli alfieri di questo genere, i My Bloody Valentine, con il magnifico “m b v”, adesso anche gli Slowdive sono tornati a produrre nuova musica. E pensare che questo è solo il quarto album della band britannica, il primo dopo “Pygmalion” del 1995. Un’attesa di ben 22 anni, ma ripagata: i risultati di “Slowdive” raggiungono le vette artistiche dei precedenti lavori del gruppo, non rovinando un’eredità che inizia ad essere davvero ingombrante.

Gli Slowdive, infatti, riprendono da dove avevano finito: un genere a metà fra shoegaze e dream pop. Con parametri odierni, possiamo dire che in loro troviamo Beach House, M83 e My Bloody Valentine (ops) in egual misura. Nei suoi momenti migliori, “Slowdive” è davvero eccellente: l’iniziale Slomo è sognante e affascinante, anche grazie alla perfetta voce di Rachel Goswell; Don’t Know Why è davvero ipnotica, per merito soprattutto alle voci eteree della Goswell e di Neil Halstead; infine, Sugar For The Pill flirta col pop e contiene una magnifica linea di basso, inusuale per una band shoegaze. Ma è proprio per questi dettagli che amiamo gli Slowdive, no?

I difetti principali del lavoro sono due, il ristretto numero di canzoni (appena 8) e la monotona conclusione: Falling Ashes infatti, nei suoi 8 minuti di durata, rende fin troppo pessimista e malinconica l’ultima parte del CD. In generale, però, la qualità è molto alta, come già ribadito: l’ascolto di questo LP è consigliato a tutti coloro che vogliono sperimentare nuove forme di rock, entrando nel mondo dello shoegaze e immergendosi pienamente in un insieme di chitarre distorte, voci che si rincorrono e atmosfere ambient. Insomma, un estratto di puro shoegaze.

Voto finale: 8.

Perfume Genius, “No Shape”

perfume genius

Il quarto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un sontuoso lavoro pop. Se i precedenti suoi CD si contraddistinguevano per un pop più ermetico e minimal di quello mainstream, in “No Shape” Hadreas è più aperto, sia come tematiche trattate che come sonorità.

Le 13 canzoni che compongono l’album, per un totale di 43 minuti di durata, formano un album conciso e affascinante, con due chiare metà: se la prima è caratterizzata da ritmi gioiosi, la seconda è molto più drammatica e misteriosa, richiamando le sonorità di Brian Eno e del David Bowie più ambient. Insomma, Perfume Genius ha orchestrato un LP molto ambizioso e mai fuori fase: al netto di momenti che possono piacere meno di altri, il livello complessivo di “No Shape” è altissimo e avvicina Hadreas ai grandi autori pop contemporanei, su tutti Anohni (il fu Antony Hegarty).

Nella prima parte colpiscono particolarmente Otherside e Slip Away, mentre nella seconda ricordiamo soprattutto Run Me Through e la maestosa Alan, che chiudono l’album. La migliore è però Every Night: poco meno di 3 minuti di pop da camera fragile e ipnotico, con la bella voce di Perfume Genius a dominare. Dicevamo prima che vi sono pezzi leggermente più deboli, che abbassano il livello medio del CD: abbiamo ad esempio Just Like Love e Go Ahead, ma sono peccati veniali in un lavoro davvero notevole.

Dal punto di vista dei testi, l’omosessualità del cantante viene nuovamente fuori in molte delle canzoni, ma non con la negatività dei precedenti lavori: se nei primi suoi CD si parlava di abusi fisici e di sostanze stupefacenti, già in “Too Bright” (2014) cominciava a vedersi la luce in fondo al tunnel. In questo “No Shape” possiamo addirittura leggere dei riferimenti all’attualità politica, in particolare alla polemica sui diritti per le coppie gay: “How long must we live right before we don’t even have to try?” canta Hadreas in Valley General.

“No Shape” è dunque l’album più completo e riuscito di Perfume Genius: merita senza dubbio un posto d’onore tra gli album pop-elettronici più belli degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

Mac DeMarco, “This Old Dog”

this old dog

Il terzo album del talentuoso musicista canadese Mac DeMarco, “This Old Dog”, prosegue la lenta evoluzione che ha contraddistinto la sua breve ma prolifica carriera. Qui Mac suona tutti gli strumenti e canta in tutte le canzoni, curando anche la produzione: insomma, un egocentrismo notevole. Non è un caso, probabilmente, che anche i testi riflettano questo atteggiamento: nella ipnotica My Old Man troviamo riferimenti al tormentato rapporto con suo padre, Sister è dedicata alla sorella minore.

Non bisogna però pensare che nella vita di tutti i giorni DeMarco sia un maniaco à la Kanye West, un altro che di egocentrismo se ne intende. Anzi, vale il contrario: lui si dà sempre l’apparenza del ragazzo appena alzato dal letto, con l’aria trasandata e mezza addormentata. Contemporaneamente, però, egli è anche una persona fragile e insicura: lo dimostrano i testi presenti soprattutto nei precedenti lavori, come “2” (2012) e il bel “Salad Days” (2014).

A colpire è l’evoluzione stilistica del giovane Mac: se nei precedenti CD era maggiormente in evidenza l’aspetto indie rock (spaziando da Two Door Cinema Club a Ariel Pink e Real Estate, tanto per capirsi), in “This Old Dog” il pop è preponderante. Sia chiaro: non parliamo di cambiamenti radicali, come del resto era difficile aspettarsi da una persona “calma” e assorta come Mac. Tuttavia, questo è il primo LP a firma Mac DeMarco dove la produzione è brillante e la cura dei dettagli massima: ai fan della prima ora potrà non piacere troppo la perdita dell’ingenuità e (finta) noncuranza dei primi lavori, ma le persone cambiano con il passare del tempo e Mac sembra aver trovato la definitiva maturità, personale ed artistica.

Musicalmente parlando, “This Old Dog” presenta un Mac DeMarco molto simile ai lavori solisti di John Lennon e ad Harry Nilsson: insomma, due padri della musica moderna. Proprio per questo il CD non brilla per innovazione, ma ciò non va a discapito della qualità complessiva: prova ne sono la bella title track, My Old Man, Baby You’re Out e A Wolf Who Wears Sheeps’ Clothes. Strana ma riuscita anche On The Level, che flirta con l’elettronica soft. In generale, le canzoni sono brevi, addirittura Sister dura poco più di un minuto. Tuttavia, la particolarità di DeMarco è di saper sempre cambiare le carte in tavola: la lunghissima Moonlight On The River (più di 7 minuti) è l’ideale chiusura del lavoro.

In conclusione, “This Old Dog” è un interessante passo in avanti nella discografia di Mac DeMarco, un artista di cui non sappiamo mai cosa pensare: ci fa o ci è? Avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure no? Il giudizio è sospeso: “This Old Dog” rappresenta certamente il lavoro maggiormente personale e intimista del cantante canadese. Non vediamo l’ora di riascoltarlo in nuove tracce per dare un giudizio (speriamo) definitivo.

Voto finale: 7,5.

Kasabian, “For Crying Out Loud”

kasabian

Il complesso inglese, capitanato da Sergio Pizzorno e Tom Meighan, era chiamato ad una decisa inversione di tendenza: il precedente CD, “48:13” (2014), era stato una cocente delusione. A parte Eez-eh, infatti, il lavoro era un connubio mal riuscito di dance e funk: insomma, 48 minuti noiosi e pretenziosi. Le strade erano due: continuare sulla strada tracciata in “48:13”, migliorando radicalmente i risultati; oppure tornare sui più consoni lidi del rock alternativo.

I Kasabian, prudentemente, hanno deciso di tornare alle sonorità dei loro lavori più riusciti: quei “Kasabian” (2004) e “Velociraptor!” (2011) che sono ad oggi i loro CD migliori. In particolare, colpiscono le tre canzoni iniziali: III Ray (The King), You’re In Love With A Psycho e Twentyfourseven, mescolando Arctic Monkeys e Franz Ferdinand, si aggiungono ai brani più amati della loro produzione, per esempio L.S.F. e Fire. Ottima poi la lunghissima Are You Looking For Action?, che ricorda gli Hot Chip e denota una rinnovata ambizione di stupire il proprio pubblico da parte dei Kasabian.

Meno convincenti Comeback Kid e Wasted, che sembrano puro riempitivo per raggiungere il numero “prediletto” di canzoni per un CD rock (12). Va detto, però, che i risultati sono in generale confortanti: i Kasabian sono tornati in pista, non inventando nulla di nuovo, bensì puntando sulle loro qualità migliori, ovvero scrivere melodie ballabili e ritornelli accattivanti. Se sapranno seguire l’ambizione mostrata con Are You Looking For Action?, ne sentiremo delle belle. Bentornati.

Voto finale: 7.