I 50 migliori album del 2021 (50-26)

Ci siamo: è tempo di pubblicare la lista dei migliori 50 album dell’anno di A-Rock! Come ormai è consuetudine, pubblichiamo oggi la prima parte e nei prossimi giorni la seconda e più ambita. Il 2021 è stato un anno strano: non più costretti a lockdown devastanti per le nostre vite sociali e l’economia, abbiamo forse avuto meno tempo per ascoltare musica, per fortuna sotto tanti punti di vista.

Quest’anno però è stato segnato dal ritorno di nomi attesissimi: da Drake a Kanye West, da Adele a Lana Del Rey, passando per i Coldplay e Billie Eilish. Abbiamo avuto poi l’esplosione di nomi emergenti come Olivia Rodrigo e Little Simz, senza dimenticarci dei lavori dei veterani: Nick Cave, Sufjan Stevens…

Piccola nota metodologica: malgrado la qualità elevata dei due LP ripubblicati da Taylor Swift a seguito delle dispute con la sua vecchia casa discografica, i due sono edizioni aggiornate di lavori usciti rispettivamente nel 2008 (“Fearless”) e nel 2012 (“Red”), ecco perché non li troverete elencati.

In ogni caso, la domanda sorge spontanea: chi avrà avuto l’onore di entrare nella lista dei migliori CD del 2021 di A-Rock? Buona lettura!

50) King Gizzard & The Lizard Wizard, “L.W.” / “Butterfly 3000”

(ROCK)

Come al solito, i King Gizzard & The Lizard Wizard hanno dato sfoggio della loro prolificità pubblicando ben due album nel 2021, entrambi di buona fattura.

Il primo, “L.W.”, non smentisce la loro fama di collettivo sempre voglioso di sperimentare: passando dal pop quasi beatlesiano a ritmi più psichedelici, se non hard rock, “L.W.” è l’ennesima dimostrazione del talento di Stu Mackenzie e compagni.

Il CD forma un’ideale coppia col precedente “K.G.”, che flirtava addirittura con il rock mediorientale e nordafricano; questa volta i King Gizzard & The Lizard Wizard fanno una sorta di riassunto di dieci anni di attività, un po’ per ricaricare le batterie un po’ per accontentare i fans di ogni tipo, da quelli metallari a quelli più mainstream.

Rispetto al fratello “K.G.”, questo lavoro è più riuscito e riesce in maniera più convincente ad assemblare tutti i vari tipi di rock provati nel corso della carriera dai Nostri, dal garage allo psichedelico al folk. La chiusura K.G.L.W. si propone quindi come ideale chiusura del cerchio, coi suoi ritmi duri e quasi fuori posto in un LP per il resto tranquillo. I brani migliori sono Supreme Ascendancy e l’epica K.G.L.W., mentre delude un po’ Pleura.

In conclusione, i King Gizzard & The Lizard Wizard si confermano voce tanto prolifica quanto imprescindibile per gli amanti del rock più scanzonato, capaci di passare nel giro di pochi anni dal garage rock (“12 Bar Bruise”, esordio del 2012) al metal (“Infest The Rats’ Nest” del 2019), attraversando ogni altro tipo di sonorità rock, spesso con risultati davvero soddisfacenti. “L.W.” rientra in questa categoria: evidentemente il lockdown ha stimolato la creatività della band.

Il diciottesimo album in dieci anni a firma King Gizzard & The Lizard Wizard (nessun errore di battitura, è proprio così), secondo del 2021, è una piacevole rinfrescata in un sound che ne aveva davvero bisogno. Se nei due precedenti LP “K.G.” (2020) e “L.W.” (2021) i Nostri erano stati accusati di ripercorrere strade ben note, con risultati non sempre all’altezza, “Butterfly 3000” rinuncia allo psych-rock per toni molto più sereni e un synthpop davvero inatteso.

Il disco non è stato anticipato da alcun singolo e il marketing è stato ridotto all’osso: mosse strane per Stu Mackenzie & co., che fanno di “Butterfly 3000” un outlier davvero interessante. Concepito per essere ascoltato come un’unica suite, il lavoro suona fresco, curato e finalmente aperto a nuove influenze. Fin dall’apertura di Yours capiamo che qualcosa è cambiato: i toni apocalittici visti in “Murder Of The Universe” (2017) o in “Infest The Rats’ Nest” (2019) sono abbandonati, per far posto a riflessioni sul mondo dei sogni e i suoi effetti sulla quotidianità della band, su una base tranquilla.

Prova ne sia il ritornello della dolce Dreams: “I only wanna wake up in my dream… I only feel alive in a daze”. Anche altrove si propongono visioni oniriche, come in Blue Morpho e Interior People. I brani migliori sono proprio Blue Morpho e Catching Smoke, mentre è un po’ sotto la media Black Hot Soup, troppo lunga.

In un periodo di relativa tranquillità, sentire anche un gruppo di solito visionario come i KG&TLW addolcire i toni fa piacere. Pur essendo stato concepito durante i lockdown pandemici, “Butterfly 3000” è un ottimo lavoro per celebrare il ritorno alla vita, che sembra davvero vicino (speriamo).

49) Snail Mail, “Valentine”

(ROCK)

Il secondo disco, per molti, è un ostacolo insormontabile e si rivela un peso dopo un esordio elogiato dalla critica e, magari, anche da larghe fette di pubblico. Questo poteva essere il caso per Lindsey Jordan, la giovane cantautrice dietro il progetto Snail Mail. “Lush”, il suo primo disco del 2018, era stato visto da molti come l’inizio di una carriera brillante nel mondo indie rock. A-Rock, dal canto suo, l’aveva inserita in una puntata della rubrica Rising e “Lush” era entrato nella lista dei 50 migliori lavori dell’anno. Pertanto, l’attesa era tanta.

I singoli di lancio del CD avevano contribuito a fare di “Valentine” uno dei più attesi dell’anno: la title track è un irresistibile pezzo indie rock, Ben Franklin è più melodico ma non meno riuscito, così come Madonna. Aggiungiamo poi una lunghezza per una volta adeguata: 32 minuti presuppongono, auspicabilmente, poco spazio per le tracce filler tipiche dei dischi più lunghi. A tutto ciò aggiungiamo la produzione di Brad Cook, in passato collaboratore di altre “indie darlings” come Waxahatchee e Indigo De Souza, per una ricetta potenzialmente squisita.

I risultati sono lusinghieri, in effetti: Snail Mail si conferma nome di crescente peso nel panorama rock e canzoni come Valentine e la conclusiva Mia farebbero la fortuna di molti. Peccato solo per la presenza di un paio di brani inferiori alla media, come Forever (Sailing) e Automate, altrimenti il voto complessivo sarebbe ancora maggiore.

Anche liricamente “Valentine” conferma il talento di Lindsey Jordan nel trasmettere sentimenti che molti hanno provato con parole semplici ma toccanti. Chi non ha mai avuto il cuore infranto oppure provato invidia vedendo la vecchia fiamma accompagnata da un’altra persona? La Jordan è però candida nelle sue ammissioni, quasi al limite della sfrontatezza, ma è un tratto che apprezziamo in versi come “Those parasitic cameras, don’t they stop to stare at you?” (Valentine) e “I wanna wake up early every day just to be awake in the same world as you” (Light Blue). Altrove emerge l’ironia della Nostra: “Got money, I don’t care about sex” (Ben Franklin).

In conclusione, il CD non stravolge il mondo dell’indie, come alcuni vorrebbero credere. Nondimeno, Lindsey Jordan conferma la sua duttilità nel passare da brani più movimentati (Glory) ad altri più rilassati (c. et al.), che le apre la strada per un futuro radioso. Staremo a vedere in futuro dove andrà a parare, ma il progetto Snail Mail pare qui per restare.

48) Weezer, “OK Human”

(ROCK – POP)

Dopo un 2019 da molti salutato come il peggior anno della ormai lunga carriera dei Weezer, che ha visto l’uscita dei mediocri “Weezer (Teal Album)” e “Weezer (Black Album)”, seguito dal 2020 che tutti conosciamo, Rivers Cuomo & co. hanno regalato un 2021 ricco di sorprese: due CD pubblicati, il qui presente “OK Human” e “Van Weezer”, e il tour più atteso dagli amanti del pop-punk, l’Hella Mega Tour in compagnia di Green Day e Fall Out Boy.

La partenza del 2021 è in realtà una boccata d’ossigeno per una band sempre in bilico fra grandi dischi (soprattutto negli anni ’90 del secolo scorso) e flop colossali (uno su tutti: “Make Believe” del 2005). “OK Human” riecheggia ironicamente nel titolo “OK Computer” dei Radiohead (e un brano si intitola Here Comes The Rain, ricorda qualcosa?), ma in realtà i Weezer scanzonati lasciano in questo lavoro il posto a un gruppo maturo, coinvolto come tutti nei lockdown pandemici e con poca voglia di scherzare. Cuomo riecheggia i maestri pop del passato, dai Beach Boys a Serge Gainsbourg passando per Harry Nilsson, con garbo; l’uso di un’intera orchestra arricchisce la ricetta, echeggiando Elton John nei suoi momenti migliori.

I risultati, come già accennato, sono confortanti: al tredicesimo album di inediti (non contando il “Teal Album” che era una raccolta di cover), Rivers Cuomo pare aver trovato una veste che gli si addice oltre quella della rockstar piena di complessi. Pezzi come Playing My Piano e Bird With A Broken Wing sono davvero riusciti, ma in realtà la coesione e la brevità del lavoro (soli 30 minuti) tengono lontana la voglia dei Weezer di sperimentare, che spesso ha fatto deragliare lavori nati sotto una buona stella.

In ambito testuale, i Nostri non lesinano riferimenti all’attualità: Playing With My Piano contiene il verso più rilevante, “Kim Jong-Un could blow up my city, I’d never know”. È una frase che può essere presa come uno scherzo di cattivo gusto o una candida ammissione di impotenza di fronte a qualcosa di incontrollabile: per i Weezer l’unico modo di comunicare con l’esterno è un pianoforte, tanto che la realtà fa un passo indietro. Altrove abbiamo riferimenti all’uso smodato dei social media (Screens) alla storia della musica (All My Favorite Songs), più prevedibili ma centrati considerando il mood del disco.

In conclusione, dunque, “OK Human” è il disco più convincente dei Weezer dai tempi del “White Album” del 2016: un LP coeso, ben strutturato e sincero, che farà felici i fan del gruppo più affascinati dalla vena pop di Rivers Cuomo e compagni.

47) Boldy James & The Alchemist, “Bo Jackson”

(HIP HOP)

La nuova collaborazione fra il rapper Boldy James e il leggendario produttore The Alchemist è un CD di hip hop vecchia maniera. Le sue basi sono la perfetta controparte quando si vogliono raccontare fatti legati alla vita di strada in modo crudo. La malinconia che traspare è infatti evidente e si sposa bene con le storie di Boldy James.

Siamo alla collaborazione numero quattro fra i due, dopo “My 1st Chemistry Set” (2013), l’EP “BOLDFACE” (2019) e “The Price Of Tea In China” (2020). La chimica fra i due è innegabile, come ulteriormente confermato in “Bo Jackson”: malgrado un inizio un po’ lento, pezzi come Brickmile To Montana e Photographic Memories alzano considerevolmente il livello. Da sottolineare poi il parco ospiti: Benny The Butcher, Earl Sweatshirt e Freddie Gibbs, giusto per citare i più celebri, danno una mano a rendere “Bo Jackson” davvero imperdibile.

Il CD, come accennato precedentemente, prende molti episodi di vita di strada vissuti in prima persona da Boldy James oppure narrati da quest’ultimo, con grande dovizia di particolari e versi a volte toccanti come: “All this pressin’ is depressin’, the pressure is still pressin’ against a nigga flesh, it’s beyond measure” (DrugZone).

In conclusione, “Bo Jackson” è un buonissimo album rap. Nulla capace di riscrivere la storia del genere, sia chiaro, ma da sentire almeno una volta e fortemente consigliato agli amanti del genere.

46) The Weather Station, “Ignorance”

(POP)

Il quinto album della cantautrice Tamara Lindeman, meglio conosciuta come leader del progetto The Weather Station, è una decisa svolta verso territori art pop. Se originariamente la si poteva inquadrare nel folk tipico dei cantautori anni ’60, “Ignorance” ricorda i CD recenti di Weyes Blood e Sharon Van Etten, con un tocco jazz in alcuni brani che arricchisce ulteriormente la ricetta.

Il brano migliore è l’iniziale Robber, un inno anticapitalista che è una lenta progressione verso il raffinato jazz della coda strumentale. Ora che The Weather Station si è arricchita di una band al completo a supportarla (chitarra, basso, sassofono e ben due percussionisti), la differenza rispetto ai minimali CD degli esordi è notevole. Anche Atlantic, la seconda canzone in scaletta, è uno dei migliori esempi di questo nuovo stile di Tamara Lindeman.

Nella seconda parte del lavoro la qualità sembra calare leggermente, a causa di pezzi più prevedibili come Loss e Separated, ma i risultati complessivi restano più che buoni. Da evidenziare anche alcuni passaggi lirici di “Ignorance”: il tema portante (come anche il nome del progetto anticipa) è il cambiamento climatico e l’ignoranza che pervade molti su un tema considerato da Lindeman ineludibile per i prossimi anni. In Atlantic il verso “I should really know better than to read the headlines” è emblematico e nella stessa canzone abbiamo anche “My god, I thought, ‘What a sunset.’”, davvero poetico. È poi interessante l’uso della voce di Lindeman: mai alta nel mix, piuttosto quasi uno strumento come gli altri.

In generale, dunque, “Ignorance” musicalmente non introduce nulla di radicale nel mondo del pop più raffinato. The Weather Station ha prodotto un LP che ricorda quasi uno dei recenti album dei Destroyer, un pop raffinato e sontuoso a tratti, arricchito da liriche spesso acute. Che sia la svolta per Tamara Lindeman? Attendiamo il suo prossimo lavoro per una valutazione più precisa.

45) Cassandra Jenkins, “An Overview On Phenomenal Nature”

(FOLK – POP)

Il secondo album della cantautrice statunitense riafferma una volta di più che il panorama cantautorale femminile è più vivo che mai: negli ultimi anni abbiamo visto emergere volti destinati a scrivere pagine rilevanti in futuro (Phoebe Bridgers, Lucy Dacus, Julien Baker e Sharon Van Etten solo per citarne alcune) e Cassandra Jenkins si aggiunge meritatamente a questa schiera.

“An Overview on Phenomenal Nature” ritmicamente si presenta come un CD a metà fra folk e art pop, un po’ la versione aggiornata al 2021 di “Bon Iver, Bon Iver” (2011) dell’omonimo progetto. Le canzoni sono ovattate, virano alle volte verso il country (Michelangelo), ma pezzi come Hard Drive mostrano tutto il talento compositivo della Nostra.

Liricamente, le sole sette canzoni descrivono soprattutto quadretti di vita quotidiana: una testimonianza di una guardia giurata di un museo; il dolore di sentire che un tuo idolo d’infanzia, con cui avresti dovuto intraprendere un tour, si è suicidato; sentimenti divergenti come sarcasmo e frustrazione… I versi che restano più impressi sono i seguenti: “Empty space is my escape” (Crosshairs), “Baby, go get in the ocean… The water, it cures everything” (New Bikini) e il potente “We’re gonna put your heart back together, are you ready?” in Hard Drive.

In conclusione, la brevità del lavoro gioca sia a favore che contro il risultato finale: se da un lato la noia non affiora mai, è anche vero che i soli 31 minuti ci fanno desiderare qualcosa in più, contando il finale quasi ambient di The Ramble abbiamo infatti soli sei brani cantautorali veri e propri. “An Overview On Phenomenal Nature” resta però davvero interessante nei suoi passaggi migliori e merita almeno un ascolto.

44) Lorde, “Solar Power”

(POP)

Il terzo album della popstar neozelandese è una svolta piuttosto radicale nello stile di Lorde. Se in “Pure Heroine” (2013) e “Melodrama” (2017) l’artista si era fatta notare per un pop in technicolor e canzoni vivaci, provocatorie a volte come Royals e Green Light, riscrivendo molto dello stile pop presente e futuro, “Solar Power” suona come un ritiro in sé stessa.

Jack Antonoff, il produttore più cercato del momento (basti citare le recenti collaborazioni con Taylor Swift e Lana Del Rey), dà anche a questo CD il suo proverbiale tocco: atmosfere soffuse, voce sporca e svolta in direzione folk-pop compiuta. I risultati possono non piacere, soprattutto ai fan della prima ora della neozelandese, ma dimostrano che Lorde è qui per restare e che pretendere da lei sempre lo stesso disco è un’aspettativa destinata a essere infranta.

La principale critica che si può fare stilisticamente al disco è che suona “fuori tempo”: Lorde sembra serena e fin troppo rilassata, si sente qua e là un sapore psichedelico che rende “Solar Power” quasi derivato dai Beach Boys… manca inoltre quella critica sociale che aveva fatto la fortuna anche mediatica della neozelandese.

Il CD, concepito per essere un concept album sulla crisi climatica, suona in realtà un po’ sfocato liricamente: abbiamo riferimenti a Pearl, il suo amato cane da poco deceduto (Big Star); canzoni sull’amore finito (California); e poi anche referenze al riscaldamento globale (“How can I love what I know I am gonna lose? Don’t make me choose”, Fallen Fruit). Abbiamo, poi, un riferimento all’ansia da ragazza prodigio del pop (“Teen millionaire having nightmares from the camera flash”, The Path) e ad un uomo violento che si reinventa maestro new-age (Dominoes).

Musicalmente però, come già accennato, “Solar Power” è un altro LP di qualità nella discografia di Ella Marija Lani Yelich-O’Connor: la title track è un grande pezzo estivo, con ritornello irresistibile grazie anche alle armonie vocali di Clairo e Phoebe Bridgers. Anche California è un brano di ottimo livello. Invece The Man With The Axe e Dominoes sono fin troppo monotone e rompono il ritmo dell’album.

In generale, “Solar Power” pare quasi un CD di transizione, verso nuovi lidi: Lorde non vuole essere la portabandiera della sua generazione, come proclama fin dalla prima canzone The Path (“Now if you’re looking for a savior, well that’s not me. You need someone to take your pain for you? Well, that’s not me”). Non tutti saranno contenti di questa mossa; di certo dopo “Melodrama” ci aspettavamo un album più coraggioso. I risultati raggiunti in “Solar Power” non sono tuttavia da disprezzare: vedremo, presumibilmente tra quattro anni, dove Lorde condurrà la propria estetica.

43) BROCKHAMPTON, “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE”

(HIP HOP)

La boyband più famosa dell’hip hop è tornata. Giunti al sesto album in quattro anni, i BROCKHAMPTON hanno ormai uno stile riconoscibile e allo stesso tempo sempre variegato: pop, rap, R&B, addirittura il rock progressivo trovano spazio in “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE”. Il risultato? Non perfetto, ma certamente un progresso rispetto a “GINGER” (2019).

Se in passato i lavori del collettivo americano potevano essere tacciati di contenere pezzi troppo lunghi, per dare modo a tutti i componenti di dire la loro, in “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE” i ragazzi suonano più leggeri. Brani riusciti come l’epica WHAT’S THE OCCASION, che pare un remix dei Pink Floyd, riescono a integrarsi bene con BUZZCUT, ottima intro con Danny Brown protagonista, e la perla pop OLD NEWS, che ricorda il Tyler, The Creator di “IGOR”. In generale, a parte la monotona DON’T SHOOT UP THE PARTY, Kevin Abstract e compagni hanno prodotto il loro miglior lavoro dai tempi della trilogia delle “SATURATION” (2017).

Anche testualmente il CD suona profondo e sentito, ma non sovraccarico di introspezione come in passato. Joba parla del tragico suicidio del padre in THE LIGHT con versi frammentari ma drammaticamente veri: “At a loss, aimless… Hope it was painless, I know you cared… Heard my mother squealing. I miss you”. In BUZZCUT invece Abstract canta di periodi difficili nella sua vita: “Thank God you let me crash on your couch”, lo stesso accade in THE LIGHT: “I was broke and desperate, leaning on my best friends”.

In conclusione, se questo è davvero l’ultimo LP a firma BROCKHAMPTON, come alcuni di loro hanno fatto intendere, il gruppo se ne andrà con un ottimo lavoro. “ROADRUNNER: NEW LIGHT, NEW MACHINE” è infatti relativamente compatto (46 minuti in 13 canzoni) e ben strutturato, vario (forse fin troppo) e curato.

42) Injury Reserve, “By The Time I Get To Phoenix”

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il secondo album degli Injury Reserve è stato terribilmente influenzato dalla morte del membro Stepa J. Groggs, a soli 32 anni, a metà del 2020. A molti è sembrato quasi un sacrilegio terminare questo lavoro, già ben avviato quando Groggs ha lasciato questo mondo. In realtà, che questo sia o meno l’ultimo disco del qui presente gruppo rap, “By The Time I Get To Phoenix” è un CD ardito, sperimentale, quasi non hip hop nell’adozione delle basi: insomma, un buon prodotto da parte di una band ancora pronta a dare tanto alla musica.

Dicevamo che hip hop non sono necessariamente le prime parole che vengono in mente ascoltando il CD: in effetti, se prendiamo alcuni pezzi come Footwork In A Forest Fire, siamo quasi più vicini al rock che al rap. In generale, tutto è di difficile catalogazione: potremmo definirlo “post hip hop”, sulla scia del post rock, ma sarebbe comunque una classificazione parziale. Non è un LP facile, poco da dire, ma “By The Time I Get To Phoenix” merita un ascolto.

L’inizio è quasi informe: la lunghissima Outside pare più un collage di suoni e voci stentate piuttosto che una canzone fatta e finita, ma ha l’effetto di introdurre il mood stralunato del CD in maniera efficace. Altrove le cose sono ancora più difficili: Smoke Don’t Clear è davvero inquietante, mentre Knees ricorda il King Krule più strampalato.

In generale, è da lodare la voglia di esplorare sempre nuovi orizzonti da parte dei due rimanenti Injury Reserve, la voce Ritchie With a T e il produttore Parker Corey. Prova ne siano i pezzi migliori di “By The Time I Get To Phoenix”, come Top Picks For You e SS San Francisco. Non siamo dunque nei territori fin troppo rumorosi e fini a sé stessi, in alcuni tratti, di “Injury Reserve” (2019). Sotto la media invece Wild Wild West.

Gli Injury Reserve stanno esplorando il rap come pochi altri artisti in questi ultimi anni; “By The Time I Get To Phoenix” è un LP non per tutti, ma merita un ascolto, come già detto in precedenza, anche solamente alla memoria del compianto Stepa J. Groggs.

41) Damon Albarn, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”

(POP)

Il nuovo progetto solista di Damon Albarn, solamente il secondo dopo “Everyday Robots” del 2014, è in realtà un altro capitolo di una storia sempre variegata e di alto livello. “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” è un CD più meditativo rispetto agli ultimi Gorillaz o Blur (entrambe band comandate da Albarn), ispirato dai paesaggi islandesi dove il cantautore ha vissuto per un periodo prima dell’arrivo del Covid e del ritorno a casa nel Devon. Pur non perfetto, rappresenta bene i tempi sospesi in cui viviamo e arricchisce ulteriormente un’eredità sempre più ingombrante.

Solo in certi aspetti il CD riporta alla memoria i momenti più movimentati delle band più celebri di Damon: ad esempio, in Royal Morning Blue e The Tower Of Montevideo. Al contrario, il mood complessivo è molto più raccolto, quasi musica ambient in certi tratti: Albarn ha infatti dichiarato di ispirarsi ai modesti e solitari paesaggi dell’isola. Ne sono esempio la title track e Daft Wader.

Nel corso dei 39 minuti che formano “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”, Damon ci porta in posti diversi, dal vulcano Esja nell’omonima traccia all’Uruguay in The Tower Of Montevideo, evocando i momenti più belli della gioventù (“Youth seemed immortal, so sweet it did weave heaven’s halo around”, The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows) così come la sensazione di paura che tutti abbiamo quando ci sentiamo abbandonati (“Am I imprisoned on this island?”, The Cormorant).

Non tutto musicalmente gira alla perfezione, ad esempio Giraffe Trumpet Sea è confusa e Combustion è debole, ma in generale il CD conquista con la sua grazia e cura dei dettagli. Damon Albarn si conferma cantautore pressoché unico, capace di spaziare riguardo temi politici (in “Merrie Land” dei The Good, The Bad & The Queen criticava la Brexit, nel 2018) così come di portarci in Africa con il progetto Africa Express e di rappresentare l’Inghilterra anni ’90 coi Blur. Abbiamo una sola richiesta: Damon, per favore tagliati quel mullet!

40) Genesis Owusu, “Smiling With No Teeth”

(HIP HOP)

Il poliedrico artista originario di Canberra ha prodotto con “Smiling With No Teeth” un ottimo album di esordio, che esplora generi tanto vari che vanno dal funk à la Prince a ritmi soul assimilabili a Solange Knowles, ma sempre su una base rap ben riconoscibile. Insomma, una ricetta ambiziosa e non semplice da portare a compimento senza inciampare: Genesis, se eccettuiamo un numero di canzoni un po’ troppo abbondante, ci riesce.

L’inizio di On The Move! può trarre in inganno: il brano è infatti un po’ fuori contesto nell’economia del disco, troppo rumorosa (ricorda quasi On Sight di Kanye West) se paragonata ad altre perle come Waitin’ On Ya e Don’t Need You. Tuttavia, il mood del disco è sempre ambivalente: da un lato abbiamo momenti davvero godibili (Waitin’ On Ya), dall’altro esperimenti hip hop (I Don’t See Colour). Insomma, Owusu forse non ha completamente capito cosa fare da grande, ma “Smiling With No Teeth” è davvero un’interessante introduzione alla sua estetica. Menzione finale per la sua bella voce, capace di passare da toni gravi a un falsetto davvero celestiale.

Il CD si propone come un trattato sulla condizione di un uomo di colore in una società prevalentemente dominata da bianchi e in cui gli insulti razziali sono ancora purtroppo all’ordine del giorno. Il “black dog” che ricorre in tante canzoni dell’album è una metafora di un epiteto spesso affibbiato da ragazzo al rapper australiano per disprezzarne il colore della pelle. Ad esempio, in The Other Black Dog si sente dire che “All my friends are hurting but we dance it off, laugh it off”. Gold Chains affronta invece il tema ambivalente della fama per un giovane ancora acerbo, mentre A Song About Fishing parla, appunto, di un tentativo senza successo di pescare su un ritmo quasi folk.

Insomma, la varietà stilistica, timbrica e ritmica la fanno da padrone in “Smiling With No Teeth”; alle volte, verrebbe da dire, quasi troppo. Tuttavia, Genesis Owusu a conti fatti non fallisce in nessuno dei generi sperimentati, sintomo di grande talento. Vedremo in futuro dove si dirigerà musicalmente parlando, per ora però possiamo dire con certezza che “Smiling With No Teeth” è uno dei migliori lavori hip hop dell’anno.

39) Laura Mvula, “Pink Noise”

(POP – R&B)

Il fascino degli anni ’80 è davvero infinito. The 1975, Dua Lipa… tanti sono gli artisti che recentemente hanno pubblicato lavori che si rifacevano a estetica e sonorità di quella decade magica per la musica pop. Il terzo CD di Laura Mvula, artista inglese come i due citati precedentemente, è un altro esempio di passione per gli anni della Milano da bere, questa volta sul versante R&B.

“Pink Noise” giunge cinque anni dopo il precedente “The Dreaming Room” e pochi mesi dopo “1/f-E.P.”, il quale remixava tracce del suo passato in chiave nuova, mostrando una Laura Mvula più sicura di sé. Il nuovo lavoro costruisce abilmente su questa ritrovata voglia di emergere, con canzoni ballabili e sexy, la voce di Laura in primo piano e strumentazione quasi sempre al top.

I risultati non cambiano la storia della musica e suonano un po’ nostalgici, ma complessivamente “Pink Noise” è molto gradevole ed ha buon replay value. Fra i brani migliori abbiamo sicuramente Safe Passage e l’irresistibile Church Girl, invece inferiore alla media Golden Ashes. Michael Jackson (Got Me) e Prince (Safe Passage) sono chiari riferimenti, ma la Mvula riesce a non suonare monotona malgrado i diversi rimandi a questi due giganti.

In generale, Laura Mvula si conferma nome interessante nella scena musicale moderna. Da un lato abbiamo un’ottima voce e una flessibilità in termini di generi affrontati in carriera che la fanno passare agilmente dal pop all’R&B alla dance; contemporaneamente, però, il successo non l’ha ancora baciata, viene quasi da pensare che la sua dimensione sia questa. Vedremo in futuro, per ora godiamoci questo “Pink Noise”, CD non certo fondamentale ma graditissimo agli amanti del pop anni ’80.

38) The Avalanches, “We Will Always Love You”

(ELETTRONICA)

Ecco il primo disco del tardo 2020 a fare capolino nella nostra classifica. Il nuovo disco degli australiani The Avalanches, uno dei nomi più importanti della plunderphonics (ovvero quella corrente della musica elettronica che ricava suoni e impulsi da migliaia, letteralmente migliaia, di frammenti tratti da musiche del passato), si è fatto attendere relativamente poco. Basti pensare che fra l’esordio fulminante “Since I Left You” (2000) e il pregevole “Wildflower” (2016) sono passati sedici anni! “We Will Always Love You” invece arriva “solo” quattro anni dopo.

Il messaggio del disco pare scritto già nel titolo: il gruppo avrà preparato la solita ricetta fatta di canzoni zuccherose, elettronica soft alternata a toni più dance, con testi gioiosi o melensi, nel peggiore dei casi. Beh, le prime impressioni sono solo parzialmente corrette: i The Avalanches infatti dedicano la gran parte delle canzoni allo spazio, con chiari riferimenti sparsi fra le ben 25 canzoni che compongono l’ambizioso CD. Altra presenza ricorrente è la scomparsa attrice Barbara Payton, a cui è dedicata la seconda canzone del lavoro e la cui figura tragica, con la morte a 39 anni per droga come conclusione, ispira i momenti più introspettivi.

Ancora una volta, come già in “Wildflower”, gli ospiti sono la parte maggiore dell’interesse per un LP dei The Avalanches: affiancare nella stessa canzone MGMT e Johnny Marr può essere pretenzioso, ma The Divine Chord è davvero carina. Inoltre abbiamo fra gli altri Kurt Vile, Denzel Curry, Jamie xx, Blood Orange e Tricky, senza dimenticarci Mick Jones (ex The Clash) e Rivers Cuomo dei Weezer. Insomma, un CD davvero variegato tanto quanto imprevedibile!

Forse troppo, a dirla tutta, tanto che anche dopo ripetuti ascolti digerire i tanti contenuti presenti non è per nulla facile. Si passa infatti dagli iniziali brevi brani Ghost Story e Song For Barbara Payton, quasi completamente recitati, alla psichedelia di The Divine Chord, al soul con spruzzate di elettronica di Reflecting Light, al trip hop di Until Daylight Comes. I brani migliori sono Wherever You Go e Take Care In Your Dreaming, mentre deludono Until Daylight Comes e Born To Lose.

Anche testualmente “We Will Always Love You” trasmette il concetto espresso nel titolo nei modi più svariati possibile: Solitary Ceremonies descrive una ragazza in contatto col celebre compositore Franz Liszt, che la ispira anche dall’aldilà guidando le sue mani sul pianoforte. Wherever You Go si apre con una trasmissione registrata dalla NASA e spedita nei Voyager 1 e 2 nelle rispettive missioni spaziali. I riferimenti allo spazio, come già accennato, sono numerosi: anche il rapper Pink Siifu in Running Red Lights immagina di volare in cielo e ascoltare la musica delle stelle.

In generale, dunque, la specialità dei The Avalanches è sempre stata quella di evocare paesaggi e tempi del passati senza per questo suonare nostalgici o attaccati ad un mondo che non tornerà più. “We Will Always Love You” è un disco non perfetto, ma che attraverso brani leggeri e atmosfere rilassate riuscirà sicuramente a rendere più sereno l’ascoltatore per i 71 minuti della sua durata.

37) MIKE, “Disco!”

(HIP HOP)

Il ritorno del giovane rapper americano lo vede finalmente provare ad andare avanti dopo la tragica morte della madre, avvenuta due anni fa e rappresentata con crudo realismo nei due precedenti lavori “tears of joy” (2019) e “Weight Of The World” (2020). La prolificità di MIKE non deve ingannare: stiamo parlando di un allievo di Earl Sweatshirt e una delle maggiori promesse nell’ambito del rap sperimentale.

“Disco!” è un titolo in realtà ingannevole: è vero, il CD è più ottimista dei passati lavori del Nostro e introduce temi nuovi rispetto alla morte e alle riflessioni tipiche di MIKE, però non si avvicina lontanamente alla musica elettronica. Le basi restano jazzate, a volte astratte; MIKE continua a rappare incessantemente… pertanto, nessuna reinvenzione radicale. Allo stesso tempo, come dicevamo, il disco introduce degli aspetti del carattere dell’artista newyorkese che non conoscevamo.

Una delle liriche di maggior impatto infatti è: “You flexing just to stick out, I flex because of great genes”, contenuta in Crystal Ball. In Aww (Zaza), MIKE è ancora più chiaro: “Struggling? Hmm, nah, but I’m recovering”. Sprazzi di spavalderia e serenità, dunque, subito affiancati da pensieri più pessimisti: “Sometimes I thought to take the losses as a gift, ’cause only death will show you how to live, right?”, da Leaders Of Tomorrow (Intro). I brani più convincenti sono Alarmed! e Spiral/Disco (Outro), mentre è monotono at thirst sight by Assia. Da menzionare infine la bellissima base di World Market (Mo’ Money). In realtà, “Disco!” può quasi essere inteso come un’unica lunga suite, data la grande coesione e coerenza fra un pezzo e l’altro.

In conclusione, il lavoro aggiunge ulteriore spessore a una figura, quella di MIKE, già attenzionata da molte pubblicazioni specialistiche, non ultima A-Rock. Il rapper newyorkese ha mostrato una volta di più il suo talento: “Disco!” potrebbe addirittura essere il suo album più riuscito.

36) Low, “HEY WHAT”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il tredicesimo disco dei Low, veterani della scena rock americana ed esponenti di spicco della corrente slowcore, è un altro viaggio all’interno dell’elettronica più d’avanguardia. Dopo lo shock di “Double Negative” (2018), in cui il sound della band era stato completamente destrutturato in favore di tonalità ambient e noise, “HEY WHAT” prosegue nell’esplorazione, rifinendo alcuni dettagli e facendo ancora più attenzione alla pura sperimentazione piuttosto che all’armonia della voci o delle composizioni.

Si sarà intuito che i 46 minuti di “HEY WHAT” non sono per tutti; tuttavia, per gli audaci che si vorranno immedesimare nel concetto alla base del CD, c’è tanto pane per i loro denti. Mimi Parker e Alan Sparhawk, la coppia che compone la band, sposati nella vita fuori dal gruppo, hanno raggiunto probabilmente il picco di questo rock anestetizzato, in cui le chitarre e il basso suonano come tastiere e sembra di entrare in un mondo post-industriale in un film catastrofico. Si ritorna alle atmosfere di “Yeezus” (2013) di Kanye West e allo shoegaze più sperimentale, ma onestamente pochi suonano come i Low, forse nessuno al momento.

Le prime note dell’album farebbero anche pensare ad un ascolto “tranquillo”, ma dopo trenta secondi White Horses dà il la al lavoro vero e proprio. Gli highlights sono la stupenda Days Like These e All Night, mentre delude Don’t Walk Away. Da menzionare infine The Price You Pay (It Must Be Wearing Off), che chiude trionfalmente il lavoro con il primo e unico pezzo di rock quasi “classico”.

Come già detto, “HEY WHAT” è un LP non semplice, ma dopo ripetuti ascolti schiude un mondo inquietante e allo stesso tempo catartico. Un’esperienza che vale la pena vivere.

35) Lana Del Rey, “Chemtrails Over The Country Club” / “Blue Banisters”

(POP)

Lana Del Rey ha avuto un 2021 piuttosto affollato, con la pubblicazione di ben due dischi di inediti. Il settimo disco di inediti di Lana Del Rey, “Chemtrails Over The Country Club”, segue il bellissimo “Norman Fucking Rockwell!” (2019), premiato da molte pubblicazioni (fra cui A-Rock) come uno dei migliori dischi dell’anno. Creare un erede all’altezza sarebbe stata un’impresa ardua per chiunque; la nostra fede nel talento della cantautrice americana era tuttavia immensa.

Nel 2020 Lana non è stata del tutto ferma, anzi: ha pubblicato una raccolta di poesie accompagnate dalle soffici note al pianoforte del fidato Jack Antonoff, annunciato un album di cover di standard americani (mai pubblicato finora) e il nuovo lavoro che stiamo qui recensendo. La pandemia ha insomma stimolato la popstar: “Chemtrails Over The Country Club”, malgrado non visionario come il precedente CD, è un lavoro curato che rientra con merito nel canone di Lana Del Rey e sarà sicuramente apprezzato dal pubblico che la segue ormai da dieci anni.

La prima parte del lavoro è più movimentata rispetto alla seconda: brani bellissimi e ambiziosi come White Dress e la title track sono fra i migliori della sua produzione. Anche Tulsa Jesus Freak ricalca bene le orme tracciate dai due pezzi precedenti. Invece la parte centrale ha delle ballad in puro stile Del Rey, da Let Me Love You Like A Woman a Breaking Up Slowly. “Chemtrails Over The Country Club” si chiude con una cover di For Free di Joni Mitchell, con l’assistenza di Weyes Blood: un tributo ad una delle maggiori ispirazioni della cantautrice nata Elizabeth Woolridge Grant.

Rispetto al passato, in generale, Lana pare tornata alle delicate atmosfere di “Honeymoon” (2015) piuttosto che al piano-rock di “Norman Fucking Rockwell!” o al pop suadente degli esordi. Il folk predomina, un po’ come in “folklore” ed “evermore” di Taylor Swift. Sebbene le due siano lontane come atteggiamenti ed estetica, va detto che le connessioni fra i loro ultimi lavori sono numerose.

Testualmente, infine, i riferimenti di Lana Del Rey sono collegati come al solito all’America nel senso più ampio del termine: David Lynch, Hollywood, il country club del titolo, le citazioni di Tulsa e Yosemite… Insomma, la diva americana è più immersa che mai nel suo paese. Troviamo poi rimandi a Dio (“It made me feel like a God” canta in White Dress, non contando il titolo stesso di Tulsa Jesus Freak) e all’amore (“If you love me, you love me, because I’m wild at heart” in Wild At Heart).

In conclusione, “Chemtrails Over The Country Club” rappresenta un altro passo avanti per una delle più riconoscibili voci del panorama pop contemporaneo. Lana Del Rey si conferma talentuosissima e in possesso di una visione sempre chiara per ogni suo progetto; la bellezza di “Norman Fucking Rockwell!” non è stata raggiunta, ma questo LP entrerà sicuramente nel cuore di molti.

Il secondo album del 2021 di Lana Del Rey è un ottimo completamento di un’era per lei molto travagliata. Polemiche sui social, da cui poi si è cancellata; discussioni a non finire sul precedente “Chemtrails Over The Country Club”, da alcuni considerato neanche avvicinabile al capolavoro che è “Normal Fucking Rockwell!” (2019)… insomma, poteva andare molto peggio. Invece, questo ottavo CD a firma Lana Del Rey la conferma cantautrice solida, magari non al top della forma ma sempre intrigante.

La campagna pubblicitaria è stata stranamente di basso profilo: tre singoli pubblicati a giugno e uno a settembre, come già ricordato nessuna campagna social… da qui a dire che il disco è passato in sordina ce ne passa, ma non siamo nemmeno vicini al battage mediatico per “Born To Die” (2012). Non per questo le canzoni latitano, anzi: tra un omaggio a Morricone in salsa trap (!) e le classiche ballate strappalacrime, “Blue Banisters” si inserisce perfettamente nel canone di Lana.

L’inizio è la parte migliore del lavoro: i singoli Text Book, Blue Banisters e Arcadia sono fra i brani migliori del lotto. Abbiamo poi lo strambo Interlude – The Trio, omaggio al Maestro Morricone con base trap: può sembrare assurdo, lo è in effetti, ma non è male. Segue poi un altro ottimo brano, Black Bathing Suit, che chiude la prima parte del CD. Successivamente, tra le altre cose, contiamo una collaborazione con Miles Kane (Dealer) e un singolo di due anni fa inserito in tracklist come omaggio ai fan (Cherry Blossom).

Insomma, i 61 minuti di “Blue Banisters” lasciano spazio un po’ a tutte le facce di Lana, anche quelle meno efficaci: le ballate Wildflower Wildfire e Nectar Of The Gods spezzano il ritmo del lavoro e allungano troppo il CD. Peccato, perché in certi tratti siamo di fronte ad un ottimo prodotto.

Anche liricamente, ormai, sono sparite le controversie degli esordi: Lana ha 36 anni, è una donna matura e “Blue Banisters” contiene riferimenti all’attualità (“Grenadine, quarantine, I like you a lot. It’s LA, ‘Hey’ on Zoom” canta in Black Bathing Suit) così come ad un amore ormai finito (“You name your babe Lilac Heaven after your iPhone 11… ‘Crypto forever,’ screams your stupid boyfriend. Fuck you, Kevin”, verso magistrale contenuto in Sweet Carolina). In Text Book, invece, la Nostra riflette su temi di più ampia portata: “There we were, screaming, ‘Black Lives Matter’”.

Infine, notiamo una cosa: Lana Del Rey è nella parte migliore della sua carriera e ha capitalizzato componendo sette album in sette anni, partendo da “Ultraviolence” (2014) per arrivare a questo “Blue Banisters”. Di quanti artisti contemporanei, uomini o donne che siano, possiamo dire che abbiano mantenuto una qualità costantemente così alta, pur variando estetica e collaboratori da un album all’altro, spesso in maniera anche radicale? Probabilmente nessuno, o per lo meno dobbiamo tornare alle leggende del pop-rock come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen. Sì, ormai per Lana Del Rey valgono anche questi paragoni.

34) Dry Cleaning, “New Long Leg”

(PUNK – ROCK)

L’album di esordio della band punk inglese è davvero originale: testi assurdamente divertenti, una frontwoman che, più che cantare, sussurra o narra storie senza alcuna passione (almeno in apparenza), sonorità che rimandano ai classici del passato ma tremendamente attuali… Insomma, un CD davvero intrigante.

Nell’ordine, “New Long Leg” è contraddistinto da: fatti di vita comune (“I’ve been thinking about eating that hot dog for hours” canta Florence Shaw in Strong Feelings), scherzi mal riusciti, una canzone che si intitola John Wick ma non parla del personaggio cinematografico interpretato da Keanu Reeves, ex partner che non vogliono andarsene (“Never talk about your ex, never never never never, never”, Leafy).

Tutto questo parlare è fatto su basi peraltro davvero ben strutturate, in cui il punk si interseca con l’estetica degli Strokes e in certi tratti addirittura degli Smiths, per creare un suono chiaramente indebitato coi grandi del passato ma anche sintomo di una scena inglese sempre più rigogliosa. Sbaglia però chi pensa ai due gruppi britannici più avventurosi del momento, black midi e Black Country, New Road: i Dry Cleaning sono molto più solidi e meno “jazz” nelle loro interpretazioni, più simili ai The Fall insomma.

Se uno ascolta i due EP del 2019 con cui la band si è fatta conoscere, “Sweet Princess” e “Boundary Road Snacks And Drinks”, i Dry Cleaning appaiono ora meno liberi; allo stesso tempo la produzione affidata al veterano John Parish (Aldous Harding, PJ Harvey) aiuta il gruppo a focalizzarsi ancora meglio sul suono e a mescolare la narrazione di Shaw col resto. I migliori risultati sono raggiunti in Unsmart Lady e Strong Feelings, mentre è leggermente sotto la media la title track. Addirittura psichedelica la conclusiva Every Day Carry, sette minuti davvero imprevedibili.

In conclusione, “New Long Leg” è un ottimo CD d’esordio, in cui i Dry Cleaning hanno già un’estetica ben delineata e inattaccabile. Si può fare meglio nel “punk sussurrato” che li contraddistingue? Difficile a dirsi, certamente ad A-Rock aspetteremo con trepidazione il prossimo lavoro della band inglese.

33) Tinashe, “333”

(R&B)

Il quinto CD della talentuosa cantante R&B è un altro tassello prezioso in una carriera in continua ascesa. Se nel precedente “Songs For You” (2019) Tinashe ci aveva fatto apprezzare il suo lato più commerciale e mainstream, “333” ritorna alle atmosfere di R&B alternativo degli esordi.

“333” non va inteso però come un ritorno al passato puro e semplice: Tinashe, infatti, sperimenta anche con l’elettronica, con basi spesso molto interessanti e che le permettono di occupare una nicchia molto delicata ma redditizia a cavallo fra pop, R&B e hip hop. Il CD scorre bene e, grazie anche a ospiti importanti come Kaytranada e Jeremih, è uno dei migliori album R&B del 2021.

La storia artistica di Tinashe non può essere distinta dalla battaglia per l’indipendenza condotta contro la sua precedente etichetta, la RCA, a causa di scelte discografiche su cui la Nostra non era d’accordo. “333” è infatti autoprodotto dalla cantante e ballerina statunitense: una mossa che certo potrebbe precluderle l’accesso alle classifiche, almeno nelle posizioni di vertice, ma dimostra forte voglia di indipendenza.

I brani migliori del lotto sono Let Go, un brano neo-soul davvero raffinato, e Undo (Back To My Heart). Buona anche Last Chase. Invece sono sotto la media la brevissima Shy Guy e la prevedibile Let Me Down Slowly. Da sottolineare infine la grande coesione del CD: malgrado i diversi generi affrontati,  “333”  suona organico e curato e i 47 minuti di durata passano senza intermezzi palesemente monotoni.

In generale, ormai Tinashe è un’artista matura e che sa, allo stesso tempo, mantenere le aspettative del pubblico e trovare quei due-tre trucchetti per non suonare troppo derivativa. “333” non è un capolavoro, ma rappresenta una solida addizione ad una discografia di tutto rispetto.

32) Japanese Breakfast, “Jubilee”

(POP)

Il terzo album a firma Japanese Breakfast trova Michelle Zauner in un mood decisamente più ottimista e positivo rispetto al passato. Stiamo parlando di una giovane donna che aveva affrontato nel suo esordio, “Psychopomp” del 2016, il dolore seguito alla morte di cancro della madre nel 2014. “Jubilee” invece è stato espressamente composto per il periodo (almeno apparente) di fine pandemia.

Il genere dominante infatti è un pop radioso, divertente e ballabile: ne sono chiari esempi Be Sweet e Slide Tackle, riuscite canzoni che richiamano gli anni ’80 e l’indie pop più recente. Altrove, va detto, il tono è più cupo: soprattutto nella parte finale del lavoro, infatti, Michelle ritorna ai toni più raccolti del passato, si ascolti ad esempio Tactics.

È interessante che in soli 37 minuti la Nostra sia in grado di passare senza problemi dal pop più danzereccio a quello da camera: pur mantenendo intatti i canoni estetici del progetto Japanese Breakfast, infatti, Zauner riesce ad ampliare i confini estetici del progetto e a suonare innovativa in un mondo frequentato come l’indie.

Liricamente, dicevamo, Michelle evita di parlare di fatti tragici come in passato, ma non rinuncia a testi pungenti: in Savage Good Boy la sentiamo evocare un mondo sinistro, in cui un colonizzatore spaziale cerca scampo dall’imminente apocalisse: “I want to make the money until there’s no more to be made… And we will be so wealthy I’m absolved from questioning”. Altrove invece analizza l’effetto che le luci della ribalta hanno sul nostro atteggiamento: “How’s it feel to be at the center of magic?” chiede provocatoriamente nell’iniziale Paprika.

I momenti genuinamente belli non mancano: oltre alle già citate Be Sweet e Slide Tackle, da sottolineare la coda strumentale di Posing In Bondage, davvero ipnotica. Meno riuscita Savage Good Boy, ma non rovina un quadro generale molto affascinante.

In conclusione, “Jubilee” è un perfetto CD post-Covid: ballabile, godibile ma non sfrenato, come richiede l’attuale momento. È inoltre ad oggi il disco più riuscito a firma Japanese Breakfast, pronta a spiccare il volo e diventare un volto insostituibile nello scenario indie pop.

31) Big Red Machine, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?”

(FOLK – ROCK)

Il secondo CD del progetto Big Red Machine, capitanato da artisti del calibro di Justin Vernon (Bon Iver) e Aaron Dessner (The National), è molto più aperto a influenze esterne rispetto all’eponimo esordio del 2018. I risultati sono migliori sotto vari punti di vista, anche se la lunghezza del lavoro può risultare indigesta alla lunga.

I Big Red Machine hanno sempre assunto la forma di side-project per Vernon e Dessner; se in passato il progetto appariva come un divertissement un po’ fine a sé stesso e per i soli appassionati dell’estetica indie folk-rock del duo, in “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” le cose cambiano. Abbiamo infatti degli ospiti davvero di grande livello: Taylor Swift, Robin Pecknold dei Fleet Foxes, Sharon Van Etten e Anaïs Mitchell, solo per citare i più noti.

Se c’è una pecca nel lavoro, come già accennato, è l’eccessiva lunghezza: 64 minuti di musica soft, nebbiosa, tendente al folk ma con sottofondo elettronico, possono risultare troppi. Allo stesso tempo, inoltre, Birch ed Easy To Sabotage, ad esempio, sono prolisse e tolgono ritmo al disco. Tolto questo difetto, “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” è un buonissimo LP: Renegade (con Taylor Swift), Phoenix e Latter Days sono highlights innegabili. Invece Hoping Then è inferiore alla media.

Menzioniamo infine Brycie, dedicata da Dessner al fratello gemello, come canzone col verso più delicato: “You watched my back when we were young, you stick around when we’re old”; e Hutch, scritta in memoria dell’amico comune Scott Hutchinson (frontman dei Frightened Rabbit), recentemente suicidatosi, come quella con la lirica più commovente: “You were unafraid of how much the world could take from you. So how did you lose your way?”.

In conclusione, Big Red Machine si conferma progetto di valore, malgrado sia un passatempo per Vernon e Dessner in attesa di tornare a Bon Iver e ai The National. I collaboratori aggiungono sempre del loro ai componimenti, dando profondità, a volte troppa verrebbe da dire, ad un disco ambizioso e curato.

30) Julien Baker, “Little Oblivions”

(ROCK)

Il terzo album della cantautrice originaria del Tennessee è un ulteriore sviluppo del suono sperimentato nell’ottimo “Turn Out The Lights” (2017), il disco che aveva fatto conoscere Julien Baker ad un pubblico più ampio rispetto all’intimo “Sprained Ankle” (2015). Avere una band al completo a supportarla le consente di dare un sound più forte in certi tratti, rendendo “Little Oblivions” il suo CD più variegato.

Le premesse per un buon lavoro erano già state intraviste nei singoli di lancio: sia Hardline che Faith Healer sono highlights immediati del lavoro, le ancore a cui agganciare i brani più raccolti come Crying Wolf e Song In E. In generale, Julien non è mai parsa tanto aperta come sonorità, più vicino all’indie rock dell’amica Phoebe Bridgers di “Punisher” (2020) che al folk delle origini.

Ma, come abbiamo imparato nel corso degli anni, sono i testi la vera meraviglia, per certi versi la parte più angosciante del processo creativo della Baker. La sua sincerità disarmante è particolarmente evidente nei versi più tetri del lavoro: “What if it’s all black, baby, all the time?” canta in Hardline, mentre in Heatwave immagina di prendere l’intera cintura di Orione e legarsela attorno al collo per impiccarsi. Invece in Ringside si picchia fino a sanguinare e in Favor, assistita dalle sue compagne nella band boygenius (Phoebe Bridgers e Lucy Dacus), canta straziata “What right had you not to let me die?”. Essere cresciuta nel sud degli Stati Uniti, omosessuale e profondamente cristiana, ha lasciato tracce indelebili nella psiche della giovane cantautrice, che vengono alla luce nei suoi dischi.

In conclusione, un album che ha brani riusciti come Hardline e Faith Healer (senza scordare Relative Fiction) non può che essere valutato positivamente. Se a questo aggiungiamo testi tanto pessimisti quanto toccanti e una crescita personale e artistica evidente, “Little Oblivions” diventa imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

29) James Blake, “Friends That Break Your Heart”

(POP – R&B)

Il nuovo CD del cantautore britannico approfondisce la svolta verso il pop di “Assume Form” (2019), con maggiore fuoco alla parte propriamente pop-R&B piuttosto che all’hip hop che caratterizzava “Assume Form”. I risultati sono ottimi: James Blake pare aver trovato la sua dimensione, non eccessivamente commerciale ma nemmeno underground.

Il James Blake del 2021 è una persona diversa rispetto a colui che stupì il mondo nell’ormai lontano 2011, con l’eponimo esordio “James Blake”: il future garage delle origini permane solamente in qualche produzione, oppure in EP che fungono da intermezzi fra un LP e l’altro, si senta “Before” (2020). Ciò, però, come già accennato, non va a detrimento della qualità complessiva del lavoro: brani come Life Is Not The Same e Say What You Will sono fra i migliori della produzione recente del Nostro. Non fosse per una parte centrale debole, saremmo di fronte al suo miglior CD.

L’inizio è molto convincente: sia Famous Last Words che Life Is Not The Same, non a caso scelte come canzoni di lancio di “Friends That Break Your Heart”, fanno capire il mood del disco in maniera efficace. Atmosfere soft, testi introspettivi… queste sono le parole chiave. Abbiamo inoltre meno collaborazioni rispetto a quelle di alto profilo di “Assume Form”: da Metro Boomin e Travis Scott passiamo a SZA (nella buona Coming Back) e J.I.D. in Frozen, per citare i più celebri artisti chiamati da James.

Liricamente, il titolo del lavoro è evocativo dei temi affrontati: nella title track Blake canta “As many loves that have crossed my path, it was friends… it was friends who broke my heart”. If I’m Insecure si apre con un dubbio esistenziale: “If this is what we always wanted, how’s the signal so weak?”. Infine, in Say What You Will il testo si fa più evocativo: “I’m OK with the life of a sunflower”.

In conclusione, non fosse per un paio di brani davvero inferiori come I’m So Blessed You’re Mine e Foot Forward, il CD sarebbe davvero imperdibile. Anche con questa tracklist, tuttavia, “Friends That Break Your Heart” è il miglior disco di James Blake dai tempi di “Overgrown” (2013). Non una cosa scontata.

28) The Killers, “Pressure Machine”

(ROCK)

Il settimo album della band americana è un CD decisamente più introspettivo e modesto rispetto a quanto i The Killers ci avevano abituato nel loro passato sia prossimo che remoto. Se Brandon Flowers e compagni volevano produrre un LP folk-rock di qualità, missione compiuta; che lo abbiano fatto così bene da poter definire “Pressure Machine” il terzo miglior lavoro di sempre del gruppo, è sorprendente.

Ricordiamo che i The Killers avevano pubblicato nel 2020 “Imploding The Mirage”, un lavoro di buon heartland rock, che faceva il verso allo Springsteen più scatenato. “Pressure Machine”, registrato in pieno lockdown, che il frontman Brandon Flowers ha passato nella sua città natale nello Utah, Nephi, riporta alla mente invece “Nebraska” (1982) del Boss: un lavoro intimo, che scava nella memoria di un uomo di grande successo per rievocare episodi della sua infanzia e la vita nella città dove è cresciuto.

Un CD che poteva uscire malissimo si rivela invece una bella scoperta del lato più amaro e intimista dei The Killers: riuniti con lo storico chitarrista Dave Keuning, assente nel precedente lavoro, ma privi del bassista Mark Stoermer, che ha preferito non rischiare il contagio, pezzi come Terrible Thing e Runaway Horses (con Phoebe Bridgers) sarebbero inconcepibili in “Hot Fuss” (2004) e “Day & Age” (2008). Invece In The Car Outside è una melodia trascinante, che farà la fortuna dal vivo del complesso (sperando che questo momento arrivi presto).

È testualmente, però, che i The Killers stupiscono: la band i cui testi prima erano spesso insensati o molto astratti, ha scritto delle liriche davvero toccanti. Desperate Things rievoca un fatto scandaloso dell’infanzia di Flowers, in cui un poliziotto uccise il marito della figlia, che la abusava quotidianamente (“You forget how dark the canyon gets, it’s a real uneasy feeling”). Quiet Town, uno dei pezzi migliori di “Pressure Machine”, parla della dipendenza da oppioidi, che in America è una crisi di dimensioni enormi. Infine, Terrible Thing è la canzone più commovente: un giovane, incerto sulla sua sessualità, contempla il suicidio per il trattamento che subisce a Nephi, città del profondo sud degli Stati Uniti e quindi molto conservatrice.

In generale, l’unico rammarico di “Pressure Machine” è che non abbiamo le canzoni trascinanti che hanno reso i The Killers un pilastro del mondo pop-rock, basti ricordare Somebody Told Me, When You Were Young e soprattutto Mr. Brightside. Tuttavia, questo lavoro ci mostra il volto “autoriale” di una band che ha trovato nuova linfa dopo il mezzo disastro di “Battle Born” (2012). Tre LP in quattro anni sono un ottimo biglietto da visita; che siano di qualità crescente denota un talento non comune. Chapeau.

27) serpentwithfeet, “DEACON”

(R&B)

Il secondo CD di Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, è un ulteriore sviluppo di un’estetica in continua evoluzione. Partendo da territori sperimentali in “blisters” (2016), Wise ha progressivamente virato verso territori più vicini all’R&B, si ascolti il breve EP “Apparition” dello scorso anno. “DEACON” è ad oggi il suo lavoro più curato e più affascinante.

serpentwithfeet è decisamente cambiato rispetto al passato: se in four ethers, contenuta in “blisters”, cantava “It’s cool with me if you want to die… And I’m not going to stop you if you try”, adesso il fulcro dell’attenzione del cantautore è l’amore omosessuale. Similmente, anche le atmosfere si fanno più rassicuranti: lo sperimentalismo e l’elettronica delle origini lasciano il posto a canzoni serene, come Old & Fine. Anche i collaboratori sono simbolici: NAO e Sampha non sono certo i più arditi su piazza.

Liricamente, dicevamo, “DEACON” tratta temi molto familiari: ad esempio, guardare film col proprio partner, anche quelli fuori stagione (“Christmas movies in July with you”, Fellowship), l’amore per il prosecco (sempre Fellowship) e la libertà di vestire in modi che noi italiani potremmo disprezzare (“Blessed is the man who wears socks with his sandals” canta Josiah in Malik).

La brevità del CD (29 minuti) aiuta a mantenerlo su binari sempre coerenti fra loro, non c’è spazio per tentativi fuori luogo: una mossa forse rischiosa in tempi di streaming, ma che aiuta il replay value e inoltre evita gli episodi più deboli che colpiscono ogni disco oltre i 50 minuti di durata. I migliori pezzi sono Same Size Shoe, Fellowship e Amir, mentre sotto media è la fin troppo eterea Derrick’s Beard.

In conclusione, “DEACON” è un CD molto interessante, che cementa ulteriormente la fama di serpentwithfeet come artista imprescindibile per la scena R&B presente e futura. La sensazione è che ancora il suo capolavoro vero e proprio debba arrivare; per ora accontentiamoci di un lavoro curato e intenso come “DEACON”, fra i più bei dischi R&B dell’anno.

26) JPEGMAFIA, “LP!”

(HIP HOP)

Con il suo quarto album vero e proprio, non contando quindi i numerosi progetti catalogabili come mixtape, JPEGMAFIA ha composto contemporaneamente il suo CD più accogliente e più provocatorio. Se infatti i beat alla base di molte canzoni di “LP!” sono morbidi, addirittura ispirati da Britney Spears in un caso (THOT’S PRAYER!), testualmente il rapper statunitense è una furia, soprattutto contro l’industria discografica.

La versione qui recensita è quella “online”: JPEGMAFIA ha infatti proposto anche una versione “offline”, in realtà presente su Bandcamp, che presenta una sequenza diversa di alcune canzoni e alcune tracce bonus che poco aggiungono al risultato finale.

JPEGMAFIA viene dal buon successo di “All My Heroes Are Cornballs” (2019) e dai due brevi lavori “EP!” (2019) e “EP2!” (2020), questi ultimi da prendersi più come raccolte di singoli pubblicati precedentemente che come veri e propri manifesti artistici. “LP!” è quindi il vero erede di “All My Heroes Are Cornballs”: rispetto al passato, il Nostro sceglie basi meno pesanti sul lato punk e noise e maggiormente accoglienti, quasi commerciali, si senta a tal proposito WHAT KIND OF RAPPIN’ IS THIS?.

I puristi e i fan della prima ora diranno che Peggy si è venduto, ma la realtà è che maturando non per forza ci si rammollisce: semplicemente si cambia. Non per caso “LP!” contiene alcune delle canzoni migliori del repertorio di JPEGMAFIA, tra cui ARE U HAPPY? e REBOUND!. Ad indebolire il risultato finale è solo la tracklist un po’ dispersiva: i 49 minuti a tratti sembrano 60, ma non per questo il CD diventa indigeribile.

Dicevamo che il rapper è molto arrabbiato nei testi che permeano “LP!”. La sua furia è in particolare rivolta all’industria discografica, accusata di sfruttare gli artisti senza alcun rispetto per questi ultimi. In una nota sulla sua pagina Bandcamp JPEGMAFIA scrive: “My time in the music industry is over because I refuse to be disrespected by people who aren’t behaving respectably in the first place”. Non serve traduzione, no? Altre frasi forti sono le seguenti: “Why would I pray for your health? Baby, I pray for myself” (REBOUND!). Infine, il titolo di SICK, NERVOUS & BROKE! dice tutto.

In conclusione, questo “LP!” è ad oggi il più riuscito tra i numerosi progetti a firma JPEGMAFIA. I testi sono taglienti, le basi spesso azzeccate… quando imparerà a mettere da parte alcune tracce inutili, potremo parlare di capolavoro. Ma in questo caso Peggy ci è andato davvero vicino.

La prima parte della lista è quindi stata presentata. Chi sarà presente nella seconda e più ambita metà? Stay tuned!

Recap: settembre 2021

Anche settembre è terminato. Un mese davvero denso di musica di qualità: ad A-Rock abbiamo recensito il nuovo, glorioso album di Little Simz, il ritorno dei Low e degli Injury Reserve. Inoltre, recensiremo il primo CD di Lil Nas X e la collaborazione fra Sufjan Stevens e Angelo De Augustine. Buona lettura!

Little Simz, “Sometimes I Might Be Introvert”

sometimes i might be introvert

Avevamo già capito dai singoli di essere di fronte ad un CD speciale. Introvert, Woman e I love You, I Hate You sono colossali pezzi rap, ma non solo: Little Simz è capace, infatti, di flirtare con funk e soul in ugual misura, creando un amalgama quasi perfetto. “Sometimes I Might Be Introvert”, in poche parole, è ad oggi l’album migliore del 2021.

Little Simz, per i fan di lunga data di A-Rock, è un nome noto: inserita in un profilo della rubrica Rising e premiata con la palma di terzo miglior album del 2019 per “GREY Area”, il suo profilo era sempre stato sui taccuini anche della critica mainstream, ma non aveva mai sfondato completamente col pubblico, soprattutto quello al di fuori del Regno Unito. Ebbene, con questo CD è probabile che la notorietà della Nostra cresca; ed è un premio davvero meritato. Abbiamo trovato il contraltare a Kendrick Lamar, aspettando ovviamente il nuovo album di K-Dot, dato come ormai imminente.

Notiamo subito una cosa: le iniziali di “Sometimes I Might Be Introvert” danno SIMBI, che è il nomignolo con cui Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo è conosciuta fra gli amici più stretti. Non è un fatto casuale: molte volte nel corso del lavoro emerge questa duplicità, addirittura in Rollin Stone la sentiamo dire “Can’t believe it’s Simbi here that’s had you listenin’… Well, fuck that bitch for now, you didn’t know she had a twin”, quasi come se stessimo assistendo ad uno sdoppiamento della sua personalità. Tuttavia, il tema del rapporto fra la Simbi privata e la Little Simz pubblica non è l’unico affrontato nel corso del CD.

Altrove abbiamo infatti la voglia di celebrità che colpisce molti di noi, specie in tempi di social network imperanti (“Why the desperate need for an applause?” domanda in Standing Ovation), l’assenza del padre (“Is you a sperm donor or a dad to me?” è forse il verso più bello della stupenda I Love You, I Hate You) così come la morte violenta del cugino, in Little Q Pt. 2. I versi più belli e potenti sono però contenuti in Introvert: “All we see is broken homes here and poverty, corrupt government officials, lies and atrocities. How they talking on what threatening the economy, knocking down communities to re-up on properties. I’m directly affected: it does more than just bother me”.

Non per questo, però, bisogna pensare che il CD sia troppo carico di tematiche e influenze; anzi, “Sometimes I Might Be An Introvert” spicca anche per l’incredibile abilità di Little Simz nel maneggiare generi diversi con uguale maestria. Se proprio vogliamo trovare un difetto nel disco, sono i numerosi intermezzi narrati dalla voce dell’attrice Emma Corrin, interprete di Diana Spencer nella serie tv The Crown e amica di Little Simz. Ma sarebbe un errore concentrarsi su di essi davanti a una tale quantità di canzoni magistrali.

Possiamo rintracciare i maestri di Simbi in Lauryn Hill, D’Angelo e lo stesso Kendrick Lamar, ma lei riesce a suonare puramente Little Simz. Se “GREY Area” era un LP scarno, con beat minimali su cui la Nostra rappava senza sosta, adesso c’è una intera orchestra che la supporta in alcuni brani, tra cui i due più belli del lavoro, Introvert e Woman. Altri pezzi imperdibili sono I Love You, I Hate You e la funkeggiante Protect My Energy.

In conclusione, “Sometimes I Might Be An Introvert” è il primo album rap davvero imperdibile del decennio 2020-2029. Chissà se qualcuno riuscirà in futuro a scrivere pagine altrettanto importanti in questo genere; per il momento godiamoci questo lavoro, il compimento di otto anni di carriera da parte di Little Simz, nuovo volto simbolo della scena hip hop britannica.

Voto finale: 9,5.

Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, “A Beginner’s Mind”

a beginner's mind

Sufjan Stevens è tornato a comporre musica folk: finalmente, verrebbe da dire! Affiancato dal giovane cantautore Angelo De Augustine, genera con “A Beginner’s Mind” un eccellente album folk, che lo fa tornare ai fasti di “Carrie & Lowell” (2015), anche se senza la portata di drammaticità di quel lavoro.

I due hanno infatti preso ispirazione da film del passato prossimo e remoto, da Il Silenzio Degli Innocenti a La Notte Dei Morti Viventi, creando una colonna sonora fittizia per questi film. Alle volte i riferimenti sono chiari (Back To Oz, Lady Macbeth In Chains), altre più velati (ad esempio You Give Death A Bad Name mescola zombie e Bon Jovi).

Musicalmente, siamo di fronte al ritorno al folk da parte di uno dei migliori cantautori della sua generazione, dopo gli esperimenti elettronici di “The Ascension” e “Aporia” dell’anno passato. Alcuni brani catturano subito l’ascoltatore, Back To Oz e Reach Out sono tra questi; in altri invece prevale forse la prudenza e Sufjan e Angelo non sperimentano, si senta It’s Your Own Body And Mind. In generale, tuttavia, nessuno dei 13 brani del CD suona fuori posto.

Testualmente, parlando di supposte colonne sonore per film del passato, i riferimenti ai capolavori citati sono numerosi, ma una frase spicca, contenuta in (This Is) The Thing, dedicata a La Cosa di John Carpenter: “This is the thing about people, you never really know what’s inside… Somewhere in the soul there’s a secret”.

In conclusione, il maestro Sufjan Stevens e il suo protegé Angelo De Augustine hanno prodotto, con “A Beginner’s Mind”, il miglior album folk dell’anno. Se serviva una conferma ulteriore del talento sconfinato di Stevens, ecco qua la prova.

Voto finale: 8.

Low, “HEY WHAT”

hey what

Il tredicesimo disco dei Low, veterani della scena rock americana ed esponenti di spicco della corrente slowcore, è un altro viaggio all’interno dell’elettronica più d’avanguardia. Dopo lo shock di “Double Negative” (2018), in cui il sound della band era stato completamente destrutturato in favore di tonalità ambient e noise, “HEY WHAT” prosegue nell’esplorazione, rifinendo alcuni dettagli e facendo ancora più attenzione alla pura sperimentazione piuttosto che all’armonia della voci o delle composizioni.

Si sarà intuito che i 46 minuti di “HEY WHAT” non sono per tutti; tuttavia, per gli audaci che si vorranno immedesimare nel concetto alla base del CD, c’è tanto pane per i loro denti. Mimi Parker e Alan Sparhawk, la coppia che compone la band, sposati nella vita fuori dal gruppo, hanno raggiunto probabilmente il picco di questo rock anestetizzato, in cui le chitarre e il basso suonano come tastiere e sembra di entrare in un mondo post-industriale in un film catastrofico. Si ritorna alle atmosfere di “Yeezus” (2013) di Kanye West e allo shoegaze più sperimentale, ma onestamente pochi suonano come i Low, forse nessuno al momento.

Le prime note dell’album farebbero anche pensare ad un ascolto “tranquillo”, ma dopo trenta secondi White Horses dà il la al lavoro vero e proprio. Gli highlights sono la stupenda Days Like These e All Night, mentre delude Don’t Walk Away. Da menzionare infine The Price You Pay (It Must Be Wearing Off), che chiude trionfalmente il lavoro con il primo e unico pezzo di rock quasi “classico”.

Come già detto, “HEY WHAT” è un LP non semplice, ma dopo ripetuti ascolti schiude un mondo inquietante e allo stesso tempo catartico. Un’esperienza che vale la pena vivere.

Voto finale: 8.

Injury Reserve, “By The Time I Get To Phoenix”

By the Time I Get to Phoenix

Il secondo album degli Injury Reserve è stato terribilmente influenzato dalla morte del membro Stepa J. Groggs, a soli 32 anni, a metà del 2020. A molti è sembrato quasi un sacrilegio terminare questo lavoro, già ben avviato quando Groggs ha lasciato questo mondo. In realtà, che questo sia o meno l’ultimo disco del qui presente gruppo rap, “By The Time I Get To Phoenix” è un CD ardito, sperimentale, quasi non hip hop nell’adozione delle basi: insomma, un buon prodotto da parte di una band ancora pronta a dare tanto alla musica.

Dicevamo che hip hop non sono necessariamente le prime parole che vengono in mente ascoltando il CD: in effetti, se prendiamo alcuni pezzi come Footwork In A Forest Fire, siamo quasi più vicini al rock che al rap. In generale, tutto è di difficile catalogazione: potremmo definirlo “post hip hop”, sulla scia del post rock, ma sarebbe comunque una classificazione parziale. Non è un LP facile, poco da dire, ma “By The Time I Get To Phoenix” merita un ascolto.

L’inizio è quasi informe: la lunghissima Outside pare più un collage di suoni e voci stentate piuttosto che una canzone fatta e finita, ma ha l’effetto di introdurre il mood stralunato del CD in maniera efficace. Altrove le cose sono ancora più difficili: Smoke Don’t Clear è davvero inquietante, mentre Knees ricorda il King Krule più strampalato.

In generale, è da lodare la voglia di esplorare sempre nuovi orizzonti da parte dei due rimanenti Injury Reserve, la voce Ritchie With a T e il produttore Parker Corey. Prova ne siano i pezzi migliori di “By The Time I Get To Phoenix”, come Top Picks For You e SS San Francisco. Non siamo dunque nei territori fin troppo rumorosi e fini a sé stessi, in alcuni tratti, di “Injury Reserve” (2019). Sotto la media invece Wild Wild West.

Gli Injury Reserve stanno esplorando il rap come pochi altri artisti in questi ultimi anni; “By The Time I Get To Phoenix” è un LP non per tutti, ma merita un ascolto, come già detto in precedenza, anche solamente alla memoria del compianto Stepa J. Groggs.

Voto finale: 7,5.

Lil Nas X, “MONTERO”

montero

Il debutto del giovane rapper Lil Nas X è uno dei CD più unici del panorama musicale e, allo stesso tempo, quello che contiene le melodie più “già sentite” nello scenario pop-rock-rap. Sì, perché “MONTERO” mescola questi generi in maniera incredibile e, allo stesso tempo, crea canzoni a volte prevedibili, altre stupefacenti. Se volevamo una conferma del talento di Lil Nas X, ce l’abbiamo; se invece cercavamo il suo manifesto definitivo, non ci siamo ancora. Ma le premesse per una carriera brillante ci sono tutte.

Gli ultimi tre anni sono stati piuttosto movimentati per Montero Lamar Hill (questo il vero nome dell’artista originario di Atlanta). Dapprima divenuto ultra-famoso con la hit Old Town Road, ha cercato di bissare questa fortuna con il debole EP “7” (2019). Allo stesso tempo, il suo outing lo ha reso inviso a quel pubblico country più conservatore che lo amava dai tempi di Old Town Road. Insomma, questo disco era davvero la prova del fuoco del Nostro.

Esame tutto sommato superato da Lil Nas X: grazie a video musicali imprevedibili e a post sui social sempre piccanti quando non addirittura scandalosi (come chiamare altrimenti il suo “parto anale” del CD su Youtube?), l’attesa era alta. Le premesse sono state sostanzialmente mantenute, grazie a pezzi dal successo assicurato come MONTERO (Call Me By Your Name) e THAT’S WHAT I WANT. Da non sottovalutare anche DEAD RIGHT NOW. Altrove, soprattutto nella seconda parte del lavoro, emergono limiti, si ascolti per esempio la prevedibile DONT WANT IT (che pare scritta da Future piuttosto che da Lil Nas X), non danneggiando però eccessivamente il lavoro.

Menzioniamo infine due aspetti molto importanti: il parco ospiti di sterminata qualità (Elton John, Doja Cat e Miley Cyrus tra gli altri collaborano in “MONTERO”) e i testi, spesso davvero azzeccati. VOID esprime tutta la sua inquietudine per l’industria musicale: “I’d rather die than to live with these feelings… Stuck in this world where there’s so much to prove”. Invece SUN GOES DOWN è una lettera che il Lil Nas X di oggi invia al sé stesso del liceo, cantando: “I know that you want to cry, but there’s much more to life than dying”.

In conclusione, “MONTERO” è un CD che ha già riscosso molto, meritato successo e probabilmente altrettanto ne avrà nei prossimi mesi. Lil Nas X si dimostra artista versatile e non un “one-hit-guy”: Old Town Road è ormai un fantasma ingombrante ma lontano. Questo LP non è un capolavoro, ma fa intravedere un potenziale che, se messo a buon uso, potrebbe produrne uno nei prossimi anni.

Voto finale: 7.

I 50 migliori album del 2018 (50-26)

Il 2018 sta per terminare; un anno molto competitivo musicalmente parlando, con molti graditi ritorni da parte di artisti che erano stati a lungo ai margini della scena musicale (Arctic Monkeys, MGMT, Robyn) e talenti che hanno mostrato tutto il loro potenziale (IDLES, Snail Mail e Helena Hauff, per esempio). Questa è la prima parte della lista compilata da A-Rock sui 50 migliori album del 2018: in generale, possiamo dire che è stato un anno positivo per elettronica, punk e rock, meno per rap e folk, che invece avevano imperversato nel 2017. Buona lettura!

50) MGMT, “Little Dark Age”

(POP – ELETTRONICA)

Per gli inglesi MGMT, “Little Dark Age” è stato un parto travagliato. Il CD arriva ben cinque anni dopo l’omonimo “MGMT” del 2013, che aveva fatto storcere il naso a molti loro fans. Il nuovo lavoro rappresenta dunque un passo importante per il duo formato da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser: “Little Dark Age” è il ritorno alle origini che molti speravano o un radicale cambio di passo? Beh, possiamo dire che nessuna delle due risposte è del tutto corretta. Pur introducendo decisi cambi di direzione nel sound della band, qualcosa dei vecchi MGMT resta comunque. Ma andiamo con ordine.

Già dalle prime canzoni capiamo che il pop la fa da padrone: in particolare, i riferimenti al pop anni ’80 di Duran Duran e Police, oltre a M83 e Neon Indian, è presente. Il riferimento a Neon Indian non è casuale: “Little Dark Age” contiene elementi elettronici e chillwave, che arricchiscono ulteriormente la formula degli MGMT (James). Tuttavia, non dobbiamo pensare che il disco sia poco coeso. Anzi, musicalmente è forse il più coerente dopo lo stellare esordio del 2007, quell’”Oracular Spectacular” che conteneva successi planetari come Kids, Time To Pretend e Electric Feel.

I brani migliori sono la title track, la trascinante Me And Michael (con voce à la Liam Gallagher da parte di VanWyngarden) e la più intimista Hand It Over, che chiude magistralmente il disco. Non male anche One Thing Left To Try e When You’re Small. Monotona invece When You Die e poco coinvolgente She Works Out Too Much, ma non danneggiano eccessivamente i risultati complessivi.

In conclusione, non parliamo di un capolavoro, ma nel complesso “Little Dark Age” è un LP riuscito, capace di regalare soddisfazioni ai fans del gruppo. Se la svolta pop sarà compiuta definitivamente nel prossimo futuro, la carriera degli MGMT potrà forse tornare allo splendore dei primi anni.

49) Travis Scott, “ASTROWORLD”

(HIP HOP)

Il terzo album del rapper statunitense Travis Scott ha scatenato una quantità di hype sorprendente nel mercato musicale. Non è tuttavia un evento del tutto inatteso: accanto alla crescente fanbase di Travis, occorre nominare le numerose collaborazioni presenti nel disco. Basti dire che “ASTROWORLD” conta collaborazioni di Frank Ocean, Stevie Wonder, Tame Impala, Kid Cudi, Drake, Migos, The Weeknd e Pharrell Williams: praticamente tutto il gotha del mondo hip hop, R&B, pop e rock. Travis gioca non casualmente il ruolo di collante fra tutte queste numerose influenze, cercando di non essere sempre oscurato dagli illustri ospiti e con l’intento di creare un CD coeso.

Il bello è che, per la prima volta in carriera, Scott riesce pienamente nel suo intento: “ASTROWORLD” è il primo vero LP riuscito del giovane rapper. L’inizio è convincente: STARGAZING è un ottimo mix fra trap e hip hop classico, con Travis privo di ospiti ingombranti che può dare un saggio delle sue qualità. Ottima poi SICKO MODE, che conta la convincente collaborazione di Drake. Meno riuscita CAROUSEL, malgrado la presenza di Frank Ocean.

Anche nella seconda parte del lungo CD (17 brani per 59 minuti) non mancano gli highlights: ottime R.I.P. SCREW e il duo di brevi canzoni NC-17 e ASTROTHUNDER. Del resto, però, SKELETONS convince meno, tuttavia non intacca il risultato complessivo di “ASTROWORLD”, che si conferma anche dopo svariati ascolti un LP ricco di dettagli ricercati e mai banale. COFFEE BEAN, ad esempio, migliora ad ogni ascolto.

Liricamente, Scott a volte dimostra immaturità con liriche volgari e inutilmente allusive (ad esempio canta “If you take your girl out, do you expect sex? If she take her titties out, do you expect checks?” in SKELETONS), ma in altre parti affronta tematiche non banali, come la paternità inattesa e la difficile relazione con Kylie Jenner (in COFFIE BEAN sentiamo Travis dire “Your family told you I’m a bad move. Plus, I’m already a black dude”).

Insomma, la maturazione di Scott procede bene: malgrado le accuse spesso rivoltegli di copiare spudoratamente gli altri rapper (su tutti si nota una forte influenza di Kanye West), il giovane rapper procede per la sua strada; e il successo di pubblico pare premiare questo suo atteggiamento. Sebbene non stiamo parlando di un disco perfetto, “ASTROWORLD” dimostra tutta l’abilità di Travis Scott di circondarsi di collaboratori di valore e produttori capaci di evocare sempre atmosfere diverse, fattori che rendono il CD imprescindibile per gli amanti della trap e, in generale, della black music.

48) Low, “Double Negative”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il dodicesimo album dei veterani del rock alternativo Low è anche uno dei loro più bei CD degli ultimi anni. Malgrado sia attivo da ben 25 anni, il gruppo sembra più vitale che mai, mantenendo alto il livello compositivo e la voglia di sperimentare.

“Double Negative”, infatti, non si limita a ripercorrere i generi che hanno reso celebri i Low: ricordiamo infatti che le origini del complesso statunitense vanno ricondotte al mondo del metal, sebbene melodico e a volte quasi dream pop. Loro sono in effetti fra i fondatori di una corrente musicale chiamata slowcore: ritmi lenti, bassi in grande evidenza, voci spesso inintelligibili. Una sorta di shoegaze ancora più opprimente, diciamo. Beh, in “Double Negative” ritroviamo molti di questi tratti, ma anche delle incursioni ambient davvero intriganti e riuscite: più o meno tutti i pezzi del disco hanno code o intro di questo tipo, addirittura The Son, The Sun è solo musica ambient, degna del miglior Brian Eno. Non male anche la conclusione della sognante Fly.

Certo, l’album non è per nulla commerciale, anzi rischia di inimicare la frangia meno sperimentale del pubblico dei Low. Tuttavia, dopo aver compreso la loro estetica ed essere entrati appieno nel mood del CD, pezzi come Tempest e Always Up non possono non conquistare l’ascoltatore. Non sarà certamente il disco dell’anno, ma insomma di band così creativamente ardite al loro terzo decennio di vita se ne contano davvero poche.

Menzione finale per i testi (laddove comprensibili): il gruppo si è dichiarato più volte acerrimo nemico di Donald Trump e non esita a ribadire il concetto nel corso degli 11 brani che compongono “Double Negative”. Ad esempio, in Dancing And Fire il frontman Alan Sparhawk canta “It’s not the end, it’s just the end of hope”, mentre in Disarray “Before it falls into total disarray, you’ll have to learn to live a different way”.

Insomma, un LP certo non facile, ma che merita almeno un ascolto. I Low non sono mai stati tanto liberi e privi di preoccupazioni legate al successo o meno di un loro disco, motivo per cui suonano più ambiziosi che mai. Già questo sarebbe una buona ragione; inoltre, il livello dei brani è generalmente alto. Cosa volete di più?

47) Helena Hauff, “Qualm”

(ELETTRONICA)

La DJ tedesca Helena Hauff conferma che la scena della musica elettronica in Germania resta molto fertile. Dopo il ritorno sulle scene del maestro della musica ambient Wolfgang Voigt, in arte Gas, e l’affermazione di star come Paul Kalkbrenner, la scena ora è interessata a nuovi nomi, ad esempio quello della Hauff. Dopo il brillante esordio del 2015 “Discreet Desires”, la giovane artista tedesca ritorna ai ritmi e ai suoni che l’hanno resa famosa: musica compatta, produzione lo-fi e bassi molto potenti. Insomma, una techno sporca, con piccoli inserti di ambient che servono a rallentare il ritmo nelle fasi più calde.

“Qualm” non è un disco facile, anzi probabilmente gli amanti dell’elettronica più danzereccia potrebbero essere sconcertati dai ritmi tesi e, per certi versi, duri imposti dalla Hauff. Tuttavia, ripetuti ascolti premiano il pubblico più attento: la produzione scarna e “imprecisa” della Hauff non è dovuta a disattenzione o scarso budget, quanto ad una precisa scelta stilistica. Pertanto, la sua visione potrà piacere o meno, ma non si può negare la coerenza finora dimostrata dalla giovane DJ tedesca.

L’inizio imprime subito un’impronta netta al disco: sia Barrow Boot Boys che Lifestyle Guru ricalcano le caratteristiche del suono della Hauff menzionate precedentemente. Invece, la dolce Entropy Created You And Me è una pausa necessaria per concludere il primo terzo dell’album. Altri brani degni di nota sono la tesissima Fag Butts In The Fire Bucket e la trascinante Hyper-Intelligent Genetically Enriched Cyborg; meno riuscite The Smell Of Suds And Steel, troppo lunga, e Primordial Sludge, ma il risultato complessivo resta buono.

In conclusione, Helena Hauff conferma che il 2018 resterà nella storia come un ottimo anno per la musica elettronica: dopo i graditi ritorni di Jon Hopkins, Aphex Twin e Gas (senza dimenticare DJ Koze), adesso anche una nuova voce si fa sentire forte e chiara. L’elettronica si conferma quindi un genere vitale, pronto a scoprire nuovi lidi e a restare significativo anche in un mondo della musica sempre più dominato da rap e R&B.

46) boygenius, “boygenius”

(ROCK)

Questo breve EP è il primo prodotto della collaborazione fra Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus, vale a dire tre fra le più promettenti figure dell’indie rock mondiale. Il disco è un perfetto esempio di come a volte le collaborazioni riescano a replicare, se non in certi casi migliorare, le abilità dei singoli artisti che ne fanno parte.

I sei brani che compongono “boygenius” sono tutti significativi per la riuscita del lavoro: le voci delle tre artiste sono integrate perfettamente, specialmente in Me & My Dog e Stay Down. Nessuna inoltre suona fuori posto oppure tale che una tra Phoebe, Julien e Lucy prevalga sulle altre. Ciò è evidente già in Bite Hard, che apre l’EP, ma è una costante dell’intero album.

Liricamente, il progetto boygenius ricalca alcune delle tematiche affrontate dalle tre componenti nei loro lavori singoli: ad esempio, in Bite Hard la Dacus ricalca le traversie amorose che pervadono i suoi CD, cantando “I can’t love you how you want me to”, mentre il senso di solitudine che influenza da sempre la Baker esplode in Stay Down: “I look at you and you look at a screen” esprime perfettamente le conseguenze della presenza ossessiva degli smartphone sulle relazioni interpersonali. Infine, Phoebe Bridgers emerge nella ballata Ketchum, ID, in cui canta placidamente le bellezze di questo stato americano e il perché vivere in un posto quieto le aggraderebbe (essenzialmente, stare spesso da sola).

In conclusione, “boygenius” è fino ad ora l’EP dell’anno, un concentrato delle abilità delle protagoniste del progetto boygenius e ben più di un passatempo fra un album vero e proprio e l’altro. Questo almeno è quello che noi amanti dell’indie rock speriamo: avere un LP a nome boygenius sarebbe davvero intrigante, le potenzialità per un lavoro rilevante ci sono tutte.

45) Kids See Ghosts, “Kids See Ghosts”

(HIP HOP)

Kids See Ghosts è il supergruppo formato da Kid Cudi e Kanye West: non è la prima volta che i due collaborano, ma è la prima volta che la cosa avviene su un piano totalmente paritario. Entrambi sono infatti parte attiva nelle canzoni e produttori. La presenza di ospiti di spessore come Pusha-T e Ty Dolla $ign rende poi il CD ancora più intrigante.

Il lavoro è molto breve: abbiamo sette canzoni in 24 minuti di durata complessiva. Detto questo, mai Kid Cudi era suonato così sicuro di sé e con questo tono così caldo e vibrante, segno che forse la definitiva maturazione artistica è giunta anche per lui.

Liricamente, visti anche i personaggi coinvolti, “Kids See Ghosts” non poteva che essere un lavoro profondamente personale: sia Cudi che Ye ne hanno passate di cotte e di crude negli ultimi tempi, pertanto esorcizzare i propri demoni è più che legittimo da parte loro. Yeezy da un lato in Reborn afferma perentorio “What an awesome thing, engulfed in shame. I want all the pain, I want all the smoke, I want all the blame”, affrontando di petto le recenti controversie che lo riguardano; Cudi invece è più ottimista, sempre in Reborn, quando dice “Keep moving forward”, quasi un incitamento a sé stesso, a lasciarsi alle spalle le tendenze suicide e i problemi di droga degli ultimi mesi. In Cudi Montage Kanye riprende la polemica sul suo supporto a Trump, dicendo “Everybody want world peace until your niece gets shot in dome piece”. In generale, dunque, sembra quasi innestarsi una dinamica poliziotto buono/poliziotto cattivo fra i due rapper, con Kanye ad incendiare gli animi e Cudi a calmarli.

Musicalmente, le tracce sono varie ma con un filo logico che le collega, i due artisti sono a loro agio e la produzione di West è come sempre eccellente. I pezzi migliori sono 4th Dimension e Reborn, mentre è troppo confusionaria l’apertura di Feel The Love. I risultati sono comunque buoni, eccezionali in certi tratti; da elogiare il fatto che Kanye ha ancora una volta tirato fuori il meglio da Kid Cudi, che non suonava così centrato dagli esordi di “Man On The Moon: The End Of Day” (2009). Il progetto, in conclusione, ha tutto per essere replicato in futuro.

44) Preoccupations, “New Material”

(PUNK)

I Preoccupations, giunti al secondo album dopo l’ennesimo cambio di nome, si confermano fra i più talentuosi artisti punk della scena musicale contemporanea. Gli ex Women e Viet Cong, infatti, mantengono intatti i tratti caratteristici del loro sound, comprese le tematiche affrontate nei loro testi, ma aggiornano la formula quel tanto da non apparire ripetitivi rispetto al passato.

Rispetto a “Preoccupations” (2016), i riferimenti ai grandi del post-punk, su tutti i Joy Division, si fanno più evidenti; contemporaneamente, quel suono quasi ambient e industrial che caratterizzava il precedente CD viene confermato e reso forse un po’ più accessibile. Niente di commerciale, sia chiaro, però in “New Material” le ritmiche sono meno oppressive che in passati lavori di Flegel e compagni.

Ne sono esempio i migliori pezzi dell’album: su tutti Disarray, ma buona anche Decompose. Le percussioni di Espionage riportano vividamente alla memoria “Closer” dei Joy Division. Meno riuscita la conclusiva Compliance, traccia strumentale poco coinvolgente. Tuttavia, va elogiata l’ardita scelta dei Preoccupations di voler sempre sfidare l’ascoltatore, pur restando nel consueto territorio punk.

Liricamente, come dicevamo, i Preoccupations affrontano temi non nuovi per loro, ma sempre delicati: autodistruzione, dubbio, odio per sé stessi. Per esempio, in Disarray Flegel canta con voce calda “It’s easy to see why everything you’ve ever been told is a lie”, probabile riferimento al corrente contesto di fake news; un altro riferimento a ciò arriva in Antidote, dove si parla di “information overdose”. Manipulation, come già il titolo anticipa, tratta il potere di alcune persone di plagiare gli individui più fragili. Insomma, non temi facili, ma affrontati con onestà e preoccupazione. Il nome del gruppo si conferma azzeccato.

In conclusione, ogni ascolto rivela nuovi dettagli, mai banali, circostanza che rende il disco riascoltabile molte volte. Non una cosa da poco, in un panorama musicale spesso sovraccarico di citazioni e LP monotoni allo sfinimento (si veda il nuovo album dei Migos).

43) Cloud Nothings, “Last Building Burning”

(PUNK)

Il quinto album della band americana, capitanata dallo scatenato Dylan Baldi, è il loro lavoro più feroce. Ed è tutto dire per una band punk come i Cloud Nothings, autrice di capolavori del genere come “Attack On Memory” (2012) e “Here And Nowhere Else” (2014).

Il CD arriva solo un anno e mezzo dopo “Life Without Sound”, l’album più quieto del gruppo originario di Cleveland: brani pur ottimi come Enter Entirely e Up To The Surface ce li saremmo aspettati dagli Arctic Monkeys o dai Bloc Party delle origini, non da una solida band punk. In effetti sia critica che pubblico erano stati tiepidi; non è un caso che la radicale inversione di rotta arrivi dopo così breve tempo.

L’inizio è devastante: On An Edge presenta liriche praticamente incomprensibili, sopra una base potentissima, quasi metal. Gli altri sei brani che compongono questo breve ma compattissimo disco non frenano poi molto l’irruenza della prima traccia; anche testualmente Baldi riporta alla memoria la rabbia dei suoi dischi di maggior successo. Ad esempio, in In Shame canta “They won’t remember my name, I’ll be alone in my shame!”, mentre in Offer An End abbiamo un pessimismo ancora più universale: “Nothing’s gonna change!”. Infine, in So Right So Clean se la prende con una ex partner ormai abbandonata: “I wish I could believe in your dream” le urla Baldi.

I sette brani che compongono “Last Building Burning” sono molto veloci e generalmente al di sotto dei quattro minuti di durata; solo la colossale Dissolution ha una durata anomala (supera i 10 minuti) ed è un preciso rimando al vero capolavoro della band, Wasted Days. Le migliori canzoni sono Offer An End e So Right So Clean; meno convincente la troppo violenta On An Edge.

In conclusione, i Cloud Nothings sono tornati alle loro radici, a quel punk sporco e diretto che li aveva fatti conoscere al mondo. I risultati forse non raggiungeranno le vette di “Attack On Memory” e “Here And Nowhere Else”, ma la band è più viva che mai. Chissà che il loro prossimo grande CD non stia per arrivare…

42) Interpol, “Marauder”

(ROCK)

Il sesto album degli Interpol, celebre band rock originaria di New York, percorre molti dei sentieri preferiti da Paul Banks e compagni, ma riesce a mantenere gli Interpol sui binari giusti, senza rimasticare i brani di successi come “Turn On The Bright Lights” (2002) o “Antics” (2004).

L’inizio è decisamente convincente: sia If You Really Love Nothing che The Rover sono ottimi pezzi tipicamente Interpol, che sarebbero stati benissimo nei migliori dischi del gruppo. Aiuta probabilmente la presenza, per la prima volta nella ventennale storia della band, di un produttore esterno: abbiamo infatti a condurre le danze Dave Fridmann, che ha collaborato in passato con MGMT, Tame Impala e Spoon fra gli altri. Convincono meno brani troppo scontati come Complications e i due Interlude, ma anche in questi casi gli Interpol riescono a non deragliare, così che “Marauder” risulta un CD gradevole, anche con ascolti numerosi. Anzi, pezzi come Flight Of Fancy e Surveillance acquistano rilevanza ad ogni ascolto.

In conclusione, non possiamo certo pretendere che un complesso che ha calcato più o meno gli stessi territori a metà fra indie rock e post-punk nel corso di cinque album di successo si rinnovi radicalmente al sesto. Nondimeno, il fatto di porre in copertina Elliot Richardson, il procuratore generale che si dimise a seguito della richiesta di Richard Nixon di licenziare il magistrato che indagava sullo scandalo Watergate, presenta un preciso messaggio politico, benvenuto in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo. Una dimostrazione di maturità da elogiare in un gruppo finalmente consapevole della sua posizione nel panorama musicale e dell’importanza che questi messaggi possono avere. Bentornati, Interpol.

41) Anna Calvi, “Hunter”

(ROCK)

La talentuosa cantante pop-rock inglese di chiare origini italiane Anna Calvi ha trovato la definitiva maturità nell’intrigante “Hunter”, terzo suo album e primo dopo quattro anni di assenza dalle scene. La Calvi affronta con decisione il tema della sessualità e della discriminazione a cui gli omosessuali sono sottoposti, componendo un vero e proprio manifesto per la liberazione da qualsiasi costrizione.

Anna Calvi dimostra di aver appreso appieno la lezione di maestri del rock oscuro come Nick Cave: la sua voce è profonda come mai, la virtuosità chitarristica dei passati lavori lascia posto ad accompagnamenti lugubri e ossessivi. Non parliamo insomma di un disco facile, nondimeno il fascino di tracce come As A Man e la title track è innegabile. Colpiscono positivamente anche Don’t Beat The Girl Out Of My Boy, davvero trascinante e non a caso scelta come singolo di lancio, e l’inquietante Chain, in cui Anna parla esplicitamente di fantasie sadomaso.

Dicevamo che la bella Anna Calvi si schiera apertamente a favore della totale parità di diritti per le persone omosessuali e della libera scelta riguardo al sesso: essere maschio o femmina per lei non conta, l’importante è sentirsi in pace con sé stessi. Posizione condivisibile o meno, ma legittima e motivata da testi forti, già nei titoli. Insomma, un attestato di maturità artistica e personale.

In conclusione, dopo due nomination ai Mercury Prize, i premi musicali più importanti della stampa d’Oltremanica, “Hunter” potrebbe rappresentare la definitiva consacrazione per la Calvi. Peccato, perché senza pezzi sotto la media come Swimming Pool e Away parleremo di un CD fantastico. Così è “solamente” un buon album, ma certamente ci fa apprezzare appieno le potenzialità dell’ancora giovane artista inglese.

40) The Good, The Bad & The Queen, “Merrie Land”

(ROCK)

La seconda metà degli anni ’10 si sta rivelando davvero prolifica per Damon Albarn. Il celebre musicista inglese, frontman di band del calibro di Blur e Gorillaz, ha pubblicato il seguito di “The Good, The Bad & The Queen” (2007), l’omonimo album del supergruppo formato con Simon Tong, Paul Simonon e Tony Allen (rispettivamente ex membri di Verve, Clash e Fela Kuti).

Se il precedente CD era più che altro un divertissement, “Merrie Land” è decisamente calato nei nostri tumultuosi tempi. Albarn ha infatti dichiarato che il disco era già pronto nel 2014, ma che la Brexit ha costretto i quattro a riscrivere l’intero album. Ciò è particolarmente evidente nelle tematiche affrontate: numerosi sono i riferimenti alla Brexit, naturalmente, offerti non in modo snobistico, ma anzi molto tenero e mai scontato. Damon canta “This is not rhetoric, it comes from my heart. I love this country” nella title track, ma l’ammissione di nostalgia più forte arriva in Nineteen Seventeen: “I see myself moving backwards in time today from a place we can’t remain close to anymore. My heart is heavy, because it looks just like my home.”

Musicalmente, i The Good, The Bad & The Queen si rifanno al sound del loro primo LP: un rock leggero, con frequenti richiami folk ed elettronici, perfetto per il tono malinconico dei pezzi e i testi decisamente pessimisti. Spiccano Gun To The Head e Nineteen Seventeen, ma va detto che il CD è compatto e coeso, nessun pezzo fuori posto e l’abilità strumentale dei componenti risalta. Interessante il momento più mosso del lavoro, Drifters & Trawlers; inferiore alla media invece The Truce Of Twilight, un po’ troppo pomposa.

Insomma, non stiamo parlando del capolavoro di una vita, ma certamente Damon Albarn e compagni hanno prodotto un disco che non fa rimpiangere la loro discografia passata. “Merrie Land” si staglia quindi come un altro tassello prezioso in una carriera, quella di Damon Albarn, sempre più stupefacente per livello medio e varietà di generi affrontati, quasi sempre con successo.

39) Snail Mail, “Lush”

(ROCK)

Fa effetto dire che gli Snail Mail sono capitanati da una cantante 18enne, però questi sono i fatti. Non a caso, molta stampa specializzata d’Oltreoceano li ha già bollati come “il futuro del rock”. Etichetta che ha portato bene per alcuni (vedi gli Arctic Monkeys), meno per altri (qualcuno ricorda i Gallows?). Nondimeno, se anche in Gran Bretagna ammettono che Lindsey Jordan & co. hanno davvero talento, un motivo deve esserci. In effetti, “Lush” è un ottimo disco d’esordio: non perfetto, ma dimostra un enorme potenziale, che speriamo potrà essere pienamente messo in mostra in futuro.

L’inizio è lento: la Intro serve a chiarire che non dobbiamo aspettarci chissà quali novità, fatto ulteriormente confermato da Pristine, prima canzone vera e propria dell’album. Tuttavia, due cose sono interessanti: primo, la produzione è pulita, fatto che allontana decisamente i paragoni con artisti lo-fi come Ty Segall ed Elliott Smith. Secondo, la Jordan parla molto limpidamente dei propri problemi adolescenziali, tra amori non corrisposti e incertezze sul futuro, mettendo in mostra la propria fragilità con molta trasparenza. Ad aggiungere ulteriore pepe ad una ricetta già intrigante è la grande abilità della Jordan con la chitarra, che disegna traiettorie sempre varie nel corso di “Lush”.

Musicalmente, dunque, nessuna rivoluzione: possiamo dire che Snail Mail è un mix riuscito fra Frankie Cosmos e Courtney Barnett, con pizzichi di Julien Baker ed Angel Olsen qua e là. I brani migliori sono Heat Wave, Speaking Terms e Pristine, mentre le canzoni più lente del disco sono meno avvincenti, ad esempio Deep Sea non convince appieno. Liricamente, invece, è interessante il modo di porsi di Lindsey verso gli ascoltatori: le canzoni sono piene di domande dirette, del tipo “do you love me?” o “Who’s your type of girl?”, ma due sono i momenti davvero notevoli: in Full Control esclama “I’m in full control, I’m not lost. Even when it’s love, even when it’s not”, mentre in Heat Wave la sentiamo dire “I’m not into sometimes”, segno che per lei le relazioni vere sono di lunga durata e che non è decisamente portata per le attività saltuarie. Diciamo che la ragazza, pur avendo solo 18 anni, ha le idee piuttosto chiare.

In generale, tuttavia, la coesione di “Lush” lo rende un ascolto non banale: i 39 minuti passano sereni e alcuni momenti sono davvero ottimi. Certo, non parliamo ancora del “manifesto” della band, però le premesse per una carriera di successo ci sono tutte.

38) Soccer Mommy, “Clean”

(ROCK)

“Clean”, il terzo LP a firma Soccer Mommy, richiama molto da vicino le atmosfere trovate nel bell’album dello scorso anno di Julien Baker, quel “Turn Off The Lights” che mescolava abilmente rock, pianoforte e ballate strappalacrime. Rispetto a Julien Baker, tuttavia, la Allison si focalizza maggiormente sulla parte rock e lascia intravedere un lato folk di cui Mount Eerie e Leonard Cohen andrebbero fieri, come in Blossom (Wasting All My Time) e Wildflowers.

La partenza è decisamente malinconica, a tratti disperata: Soccer Mommy in Still Clean parla di ex fidanzati che letteralmente la divorano, richiamando le immagini di partner violenti al centro delle proteste delle donne negli ultimi tempi. Le due tracce successive, Cool e Your Dog, fra le migliori del disco, rappresentano un estratto di come scrivere due perfetti pezzi indie rock. Ai più attenti non sarà sfuggito il riferimento a I Wanna Be Your Dog degli Stooges, ma qui Iggy Pop e compagni contano poco; anzi, il messaggio è ribaltato. Sophie Allison, infatti, dichiara di non voler essere il fedele cagnolino di nessuno: altro forte messaggio di indipendenza femminile.

Altre canzoni riuscite sono Last Girl e Scorpio Rising; meno bella Skin ed evitabile il breve Interlude, ma i risultati restano comunque notevoli. Con Soccer Mommy, dunque, la scena indie statunitense sembra aver trovato una nuova promessa: se la Allison metterà a fuoco compiutamente le tante qualità che abbiamo cominciato ad apprezzare in “Clean”, un lavoro che in soli 35 minuti fornisce all’ascoltatore liriche e brani mai banali, il prossimo album potrebbe essere la definitiva consacrazione della cantante originaria di Nashville.

37) DJ Koze, “Knock Knock”

(ELETTRONICA)

Il dj tedesco Stefan Kozalla, in arte DJ Koze, fra dischi veri e propri e remix è stato molto attivo negli scorsi anni. Molti lo hanno scoperto grazie al suo “breakthrough album” del 2013, “Amigdala”, un mix sapiente di dance e psichedelia. “Knock Knock” riprende quella formula, allargando però il campo di gioco alla techno e all’elettronica minimal di The Field e Aphex Twin. Ne sono esempio pezzi come Bonfire (con un azzeccato sample di Bon Iver mentre canta Calgary) e Club Der Ewigkeiten. Dunque, un CD molto vario ed eclettico, quasi troppo: i 79 minuti sono davvero tanti. Diciamo che, con 2-3 canzoni in meno (ad esempio Moving In A Liquid e Planet Hase), i risultati sarebbero stati ancora migliori.

Non è da buttare, però, questo “Knock Knock”; anzi, è molto probabile che ci troveremo a ballare nelle discoteche e nei club sui pezzi di DJ Koze. I brani migliori, come Colors Of Autumn e Music On My Teeth, sono infatti quasi perfetti e rappresentano il picco per qualsiasi artista di musica elettronica. Infine, menzioniamo lo sterminato parco ospiti presenti in “Knock Knock”: José Gonzalez, Róisín Murphy, Kurt Wagner dei Lambchop e Sophia Kennedy sono solo i più famosi. Molti compaiono più volte, a dimostrazione della fiducia che avevano nel progetto di DJ Koze e della volontà di quest’ultimo di creare un lavoro coeso.

Perciò, in conclusione, Kozalla ha pubblicato quello che fino ad ora è il suo lavoro più riuscito: vario, differenziato e molto divertente. Sarà difficile in futuro fare di meglio, ma le sue capacità compositive sembrano in costante crescita. Un fatto che ci fa decisamente ben sperare per i prossimi suoi dischi.

36) Kali Uchis, “Isolation”

(POP – SOUL)

Il primo album vero e proprio della cantante colombiana segue l’EP del 2015 “Por Vida” e dimostra un deciso passo in avanti in termini di scrittura e ricchezza espressiva. Kali ora, infatti, passa senza problemi dal pop latino al soul, dal reggae al funk, per creare un ensemble che ricorda Prince e Solange Knowles.

“Isolation”, infatti, è un trionfo: non si direbbe proprio che questo sia un album di esordio. La sicurezza con cui la giovane colombiana passa attraverso generi così disparati è disarmante. È pur vero che Kali Uchis è un nome che già da sei anni circola: il suo primo mixtape è infatti del 2012. Lei ha inoltre collaborato nell’album “War & Leisure” di Miguel, uno dei cantanti soul più in vista del momento. Insomma, aver convinto a collaborare a questo LP giganti come Kevin Parker dei Tame Impala e Damon Albarn (Blur, Gorillaz), oltre a Tyler The Creator e Thundercat, non è casuale.

Anche liricamente il CD non è banale: in Your Teeth In My Neck canta “What do you do it for, rich man keeps getting richer taking from the poor”, riferendosi alla crescente disuguaglianza all’interno dei paesi sviluppati. Questo pessimismo è ulteriormente espresso in In My Dreams, dove Kali afferma “Everything is just wonderful here in my dreams”, implicitamente dicendo che la sua vita non è tutta rose e fiori. Infine, in Miami parla della condizione dei migranti e delle grandi (spesso false) speranze che loro hanno arrivando negli Stati Uniti, quando canta “Why would I be Kim, I could be Kanye in the land of opportunity and palm trees”.

I pezzi migliori sono In My Dreams, Miami e la sexy Tomorrow, mentre convincono meno Dead To Me e After The Storm. In generale, tuttavia, come già detto all’inizio, Kali Uchis sorprende l’ascoltatore con melodie sempre nuove e ritmi differenti, generando un disco davvero ricercato e mai banale. Se questo è solo l’inizio, c’è da credere che ne sentiremo parlare ancora a lungo.

35) Gas, “Rausch”

(ELETTRONICA)

La carriera del compositore tedesco Wolfgang Voigt, emblema della musica ambient da ormai più di vent’anni, è molto strana: al colmo della fama, dopo album di grande spessore come “Königforst” (1999) e “Pop” (2000), il progetto Gas venne messo in soffitta per oltre quindici anni. Il ritorno avvenne infatti solo nel 2017, con “Narkopop”: un CD che riprendeva le tipiche sonorità di Voigt, vale a dire canzoni molto lunghe, a tratti apparentemente monotone, ma dalla grande intensità e capacità evocativa. Non a caso, era entrato con merito nella top 50 degli album di A-Rock.

Il sesto disco con il nome Gas di Voigt, “Rausch”, arriva quindi a pochi mesi da “Narkopop”: molto strano, per un artista al sesto lavoro in 22 anni di attività. L’urgenza di pubblicare questo nuovo LP deriva forse dalla temperie politica: Voigt ha infatti creato un CD molto cupo, forse il più oscuro come ritmi e sonorità della sua produzione. Forse un riferimento alla politica tedesca, dove l’estrema destra sembra tornata a farsi sentire? In effetti, i 60 minuti di “Rausch” sarebbero la perfetta colonna sonora per questi tempi grami ed incerti.

L’inizio non è neppure troppo pessimista: Rausch 1 è molto dolce ed evoca paesaggi misteriosi, come solo la miglior musica ambient riesce a fare. Tuttavia, già dalla seconda delle sette canzoni che compongono il lavoro, le cose cambiano: Rausch 2 e Rausch 3, infatti, sono davvero opprimenti e compongono il nocciolo dell’intero CD. Non si tratta, lo avrete capito, di un ascolto facile: per apprezzarne appieno le sfumature occorrono svariati ascolti e molta attenzione, ma il disco resta uno dei migliori del 2018 per quanto riguarda la musica elettronica. Belle in particolare Rausch 1 e Rausch 5; troppo lunga invece Rausch 3.

Potranno piacere o meno, ma queste lunghe canzoni dove ben poco cambia riescono comunque a trasmettere il senso di irrequietudine dell’artista: non un pregio da poco in tempi (musicali se non altro) dove la superficialità sembra farla sempre più da padrona.

34) Robyn, “Honey”

(POP)

Dopo un’attività discografica relativamente scarna nel corso degli ultimi otto anni, Robyn è tornata. La popstar svedese, in effetti, dopo la fortunata serie “Body Talk” del 2010, si era limitata a occasionali collaborazioni, di solito sotto forma di brevi EP (una nel 2014 con Röyksopp e una l’anno seguente con i francesi La Bagatelle Magique). Beh, possiamo dire che l’attesa è stata infine ripagata: “Honey” è un album composto da poche ma complesse melodie, che creano un CD coeso e profondo, degno della discografia passata di Robyn e che rinforza la sua fama di talento purissimo del mondo dance e pop.

L’apertura è “sintetica”: Missing U riporta alle menti le sonorità dance di “Body Talk” ma con un piglio che ricorda i Vampire Weekend di “Contra”, ossia un pop quasi di plastica, non finto ma anzi artatamente, plasticamente elaborato. Già in Human Being (che ricorda Grimes) Robyn ritorna a voler far ballare il suo pubblico, fatto rinforzato da altri pezzi, ad esempio la trascinante Honey e Beach2k20. Più romantica la ballata Baby Forgive Me, ma non per questo fuori contesto.

Liricamente, Robyn spiega le ragioni principali dietro la sua lunga assenza dalle scene: negli ultimi anni l’artista scandinava ha perso l’amico di lunga data Christian Falk e ha avuto una crisi (ma anche una riconciliazione) con il suo fidanzato. Entrambe queste storie non facili per Robyn sono esplicitate nel corso dei nove brani di “Honey”: ad esempio, in Missing U parla di un “empty space you left behind” e non capiamo se si riferisce alla morte dell’amico o alla rottura col fidanzato. In Because It’s In The Music Robyn rinnega la canzone condivisa con l’ex (ancora per poco) innamorato, mentre in Send To Robin Immediately e Honey finalmente i due innamorati si rimettono insieme, tanto che Robyn può cantare “Every breath that whispers your name it’s like emeralds on the pavement”. Il CD è quindi stato strutturato in forma diaristica, un’altra trovata non banale di Robyn.

In conclusione, molti aspettavano un successore al superlativo “Body Talk”; “Honey” forse non raggiunge quelle vette (Between The Lines e Beach2k20 non sono perfette), ma Robyn si conferma una popstar a sé, che vive in un mondo tutto suo fatto di brani dance e perfette perle pop. Non un fatto banale, in un mondo musicale sempre più stereotipato.

33) Stephen Malkmus And The Jicks, “Sparkle Hard”

(ROCK)

Chi apprezza l’indie rock non può non venerare Stephen Malkmus, un artista che ha fatto la storia di questo genere con i Pavement negli anni ’90 del secolo scorso. Nondimeno, la sua carriera non si esaurì con lo scioglimento del gruppo: Malkmus ha poi cominciato una fiorente carriera alternativa con il suo nuovo complesso, i Jicks, non limitandosi a prendere ispirazione dai Pavement, ma anzi cercando sempre nuove sperimentazioni.

Ne è un’ulteriore dimostrazione questo “Sparkle Hard”, settimo CD di Stephen Malkmus assieme ai Jicks: accanto al classico indie rock che da lui ci aspetteremmo troviamo infatti uso diffuso del pianoforte e dell’autotune, che tanto va di moda oggi. Inoltre, Kim Gordon (ex Sonic Youth) fa una comparsata molto efficace in Refute.

I testi delle 11 canzoni dell’album poi sono molto attuali: in Bike Lane Malkmus fa riferimento all’uccisione da parte della polizia di Freddie Gray, un caso che ha destato molto scalpore negli USA; in Middle America si schiera a fianco del movimento #MeToo, cantando che “Men are scum, I won’t deny it”. Non spesso si sente un artista di mezz’età cantare cose così forti: un merito in più di Stephen Malkmus.

I pezzi migliori sono Cast Off, la sognante Middle America e l’energica Shiggy; convincono meno Brethren e Difficulties – Let Them Eat Vowels, ma non sono in ogni caso pezzi da buttare. Diciamo che, se Ty Segall canterà ancora nel 2028, ci aspettiamo di sentirlo cantare così: intenso, ma consapevole che il tempo è passato e che, accanto all’energia delle origini, devono trovare spazio anche riflessioni più profonde sulla società e su quello che non va.

In conclusione, “Sparkle Hard” non è un LP che cambierà i destini del rock; del resto, Malkmus ne ha già prodotti almeno un paio con i Pavement, basti citare “Slanted, Enchanted” oppure “Crooked Rain, Crooked Rain”. Allo stesso tempo, però, si sentiva nel mercato la necessità che vedesse la luce un disco indie rock impegnato. Ben fatto, Stephen.

32) Amen Dunes, “Freedom”

(ROCK)

“Freedom” è il quinto lavoro del cantautore americano Damon McMahon, in arte Amen Dunes; ed è probabilmente quello destinato ad ottenere il maggior successo. McMahon infatti, per la prima volta, si affida ad un rock molto orecchiabile, abbandonando le influenze ambient e sperimentali che caratterizzavano i suoi precedenti CD, per rifarsi a classici come Bob Dylan e Neil Young.

Già la prima traccia vera e propria, dopo la sognante Intro, è testimonianza forte di questo cambiamento: Blue Rose è un pezzo delicato, apparentemente facile, ma che in realtà migliora ad ogni ascolto, un po’ come tutto il disco. Ma i brani riusciti non sono certo finiti qui: il nucleo del CD è Believe, pezzo di quasi sei minuti ma per nulla monotono. Buona anche Skipping School. Risultano invece meno belle Calling Paul The Suffering e L.A., troppo lunga. In generale, tuttavia, come già accennato, “Freedom” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli, anche grazie all’ottima produzione.

Liricamente, “Freedom” tratta il tema della perdita di una persona cara: la madre di Damon è morta di cancro alcuni anni fa, proprio mentre lui stava componendo il disco, che dunque riflette questa tragica perdita. Non a caso, predominano temi religiosi: Believe lo fa intuire già dal titolo, mentre in Blue Rose canta “We play religious music. Don’t think you understand, man”. Nondimeno, il disco è più affascinante per le sonorità che per i testi, spesso infatti la voce di Damon è soffusa e le parole inintelligibili, sulla falsariga di Panda Bear o Bradford Cox dei Deerhunter, per intendersi.

In conclusione, siamo di fronte ad una “rivoluzione conservatrice”, verrebbe da dire: McMahon, partito da lidi sperimentali, è finito per approdare a suoni e ritmi più accessibili, fra folk e rock. Anche una mossa del genere denota coraggio; quando poi i risultati sono così eccellenti, non si può non lodarla.

31) U.S. Girls, “In A Poem Unlimited”

(POP)

Meghan Remy, che si presenta musicalmente con il nome U.S. Girls, ha prodotto il CD migliore della sua carriera. Giunto al sesto album di inediti, il progetto U.S. Girls ha trovato nuova linfa nei movimenti che promuovono la parità uomo-donna, ad esempio #MeToo. In effetti, questo “In A Poem Unlimited” è un disco fortemente politico, a testimonianza che si può parlare di temi scottanti anche attraverso la musica pop. I temi toccati da Remy sono la violenza sulle donne, gli effetti devastanti per chi subisce stupri, le conseguenze dell’amore malato… Insomma, tematiche molto attuali nel mondo contemporaneo, specialmente negli Stati Uniti, ulteriormente evidenziati dall’autoritratto presente sulla cover del disco, che ritrae una Remy piangente.

Musicalmente, il CD si inserisce nel filone pop che caratterizza la produzione di Meghan Remy, affinando le caratteristiche già individuate nei precedenti suoi lavori: rimandi chiari agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, con improvvise schitarrate à la St. Vincent e Prince che rendono la ricetta sempre innovativa e intrigante.

I pezzi migliori sono M.A.H., Rosebud (riferimento a “Quarto Potere”) e Pearly Gates, decisamente il brano migliore del lavoro; non male anche Time. Non convincono appieno gli inutili intermezzi Why Do I Lose My Voice When I Have Something To Say e Traviata, oltre a L-Over. In generale, tuttavia, i risultati sono eccellenti: raramente infatti abbiamo sentito LP pop così coraggiosi, politicamente ma anche musicalmente.

30) Death Grips, “Year Of The Snitch”

(SPERIMENTALE – HIP HOP)

Il sesto album dei Death Grips, uno dei gruppi più estremi del panorama rap, è davvero incredibile. Il trio originario di Sacramento, infatti, riesce a produrre il suo lavoro più astratto e allo stesso tempo più accessibile. Certo, l’effetto novità è finito un attimo dopo aver ascoltato “The Money Store” del 2012, il loro scioccante album d’esordio, ma questo “Year Of The Snitch” è altrettanto innovativo in termini di generi affrontati. Fondendo spesso generi disparati come rap, rock, metal e techno, i Death Grips mantengono la loro freschezza e la capacità di scioccare l’ascoltatore.

Accanto a brani dal sapore shoegaze, quasi pop come Death Grips Is Online e Linda’s In Custody, abbiamo infatti pezzi decisamente duri come Black Paint e Shitshow, che a tratti sono puro rumore di sottofondo, con le liriche di MC Ride del tutto inintelligibili. I Death Grips scioccano tuttavia anche con le scelte visuali e liriche: la voglia di sconcertare o inorridire il pubblico non è terminata. Basti dire che il titolo del disco richiama la figura di Linda Kasabian, ex sodale di Charles Manson che poi però ha deciso di fare la spia e consegnare la setta (“Snitch” in inglese significa infatti “spia” e il CD è uscito per il compleanno della controversa donna). Il video di Shitshow, invece, è stato bannato da Youtube a causa dei suoi contenuti troppo violenti.

Il bello è che, malgrado questi nemmeno troppo velati tentativi di sabotare la propria carriera, il terzetto mantiene una fanbase leale, anche grazie ad una produzione abbondante ma sempre di qualità, a suo modo. A “Year Of The Snitch” collabora anche il bassista dei Tool Justin Chancellor, non un ospite di poco conto per un gruppo oscuro come i Death Grips, segno che il terzetto è stimato nel mondo della musica alternativa.

I pezzi migliori sono le già citate Black Paint, Linda’s In Custody e Death Grips Is Online; convincono invece molto meno Shitshow e Little Richard, troppo confusionarie. Inutili gli intermezzi Outro e The Horn Section. Ancora una volta, un album dei Death Grips è troppo lungo per essere totalmente convincente (la parte finale perde molto vigore); soprattutto, non è chiaro verso chi o che cosa sia rivolta la rabbia che pervade il gruppo. Il dubbio è che l’anarchia sia proprio la condizione desiderata dai Death Grips, espressa molto chiaramente negli ormai quasi dieci anni di carriera.

In conclusione, una volta di più i Death Grips si confermano gli artisti più divisivi nel panorama hip hop contemporaneo: molti sono legittimamente schifati dall’apparenza e dai messaggi trasmessi dal gruppo. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può non ammirare la completa libertà espressiva presente nei Death Grips: lo spirito pionieristico del gruppo non si è estinto, fatto che, dopo una carriera così estrema, non è per nulla banale.

29) Kurt Vile, “Bottle It In”

(ROCK)

Il settimo LP solista di Kurt Vile (ottavo considerando “Lotta Sea Lice”, inciso con Courtney Barnett nel 2017) mostra il nostro slacker preferito mantenere alta la bandiera del folk-rock che lo ha reso celebre, dapprima con i The War On Drugs, poi nella sua carriera solista.

Rispetto al passato, Kurt cambia leggermente la ricetta: il CD è infatti il più lungo della sua prolifica produzione (quasi 80 minuti) e sono numerosi gli ospiti, i più rilevanti dei quali sono Kim Gordon (Sonic Youth) e il cantautore country Cass McCombs. I brani sono spesso molto articolati: in quattro casi superano i 7 minuti, in due addirittura i 10!

Ciò detto, il 38enne statunitense riesce quasi sempre a mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore, grazie alla consueta abilità nel mescolare melodie sicuramente già sentite, ma assemblate in maniera mai banale. Basti ascoltarsi l’iniziale Loading Zones: forse Neil Young, forse Bob Dylan, certo qualcuno aveva prodotto qualche cosa di simile in passato, ma Kurt riesce ad adattare il tutto al XXI secolo in maniera furba. Altro brano degno di nota è l’ipnotica suite Bassackwards, uno dei pezzi migliori mai creati da Vile; buone anche la lunghissima Skinny Mini e Rollin With The Flow. Deludono invece la title track e Come Again, ma sono errori accettabili in un lavoro lungo come “Bottle It In”.

Liricamente, come sempre, Kurt non dispensa mai grandi insegnamenti, ma il suo spirito di osservazione riesce a volte a esprimere concetti semplici ma non così scontati oggigiorno: “I think things were way easier with a regular telephone” proclama calmo in Mutinies, mentre in Bassackwards “Just the way things is these days, just the way things come out”. Quest’ultimo è in effetti il primo momento in cui Kurt sembra davvero insoddisfatto del presente, lui che dell’osservazione placida del mondo circostante aveva fatto una bandiera.

In conclusione, “Bottle It In” è una gradevole aggiunta ad una discografia già abbondante e di buona qualità media. Malgrado l’eccessiva lunghezza e alcuni momenti di stallo, il CD conferma Kurt Vile tra le voci (e i chitarristi) più importanti del panorama rock moderno. Non una cosa scontata, dopo una carriera che è iniziata nell’ormai lontano 2003 e continua ad essere rilevante anche quindici anni dopo.

28) Aphex Twin, “Collapse”

(ELETTRONICA)

Richard D. James, meglio conosciuto col nome d’arte Aphex Twin, è uno dei maggiori interpreti di musica elettronica degli ultimi trent’anni. Sì, non è un errore di battitura: la carriera di James coinvolge ormai quattro decadi, essendo iniziata nel 1985. Al suo attivo vanta capolavori della musica ambient e IDM (Intelligent Dance Music) come le due raccolte di “Selected Ambient Works” e il clamoroso ritorno del 2014 “Syro”.

Basterebbe questo a meritarsi una onorevole pensione, invece Aphex Twin, dal suo ritorno sulle scene musicali, ha dimostrato una voglia di sperimentare davvero insistente e ambiziosa, pubblicando una raccolta di inediti ogni anno. Solo nel 2017 si è preso una breve pausa, evidentemente necessaria per pubblicare l’efficacissimo EP “Collapse”.

L’inizio è travolgente: T69 Collapse è fantastica, con percussioni in primo piano e un ritmo trascinante, degno del miglior Aphex Twin. Anche le tracce più tranquille del lavoro, tuttavia, fanno un’ottima impressione, anche dopo ripetuti ascolti: 1st 44 inizia lenta, per poi esplorare ritmi techno e big beat che ricordano i Prodigy. Degna di nota anche MT1 t29r2 (ebbene sì, i titoli assurdi di James continuano a imperversare).

In conclusione, “Collapse” finisce quasi troppo presto: data l’efficacia e la coesione interna posseduta dall’EP, sembrerebbe che Aphex Twin sia tornato al top della condizione, malgrado un’età non più verde e una scena elettronica sempre più piena di DJ che cercano di imitarne lo stile. Nondimeno, Richard D. James si conferma inimitabile. Una cosa non da poco, alla soglia dei 50 anni.

27) Pusha-T, “Daytona”

(HIP HOP)

Si può definire CD un lavoro formato da sette canzoni per soli 21 minuti di durata? Il dubbio è legittimo, tuttavia non conta troppo analizzando “Daytona”. Pusha-T, infatti, grazie anche all’aiuto di Kanye West alla produzione e di alcuni importanti ospiti (su tutti lo stesso Kanye e Rick Ross), ha prodotto un disco compatto ma molto efficace, forse il migliore della sua produzione solista.

Lui infatti fino alla fine degli anni ’00 era parte dei Clipse, duo molto popolare all’epoca. La sua carriera solista era iniziata in maniera incerta, ma gli ultimi due suoi lavori (“My Name Is My Name” del 2013 e “Darkest Before Dawn” del 2016) avevano denotato una crescita costante e lo hanno visto infine tornare ai livelli raggiunti nei Clipse in “Daytona”.

Liricamente, Pusha-T non le ha mai mandate a dire, anche se spesso in passato i suoi testi parlavano dei temi tipici del gangsta rap: droga, sesso e violenza. Tuttavia, “Daytona” vede una svolta anche su questo versante: sono presenti versi molto duri su due mostri sacri del rap come Lil Wayne e Drake, accusati rispettivamente di essere pronti alla pensione (il primo) e di sfruttare il lavoro dei ghostwriter per il proprio successo (il secondo). Contiamo anche una canzone dedicata a Meek Mill, amico del rapper che è stato in carcere negli ultimi tempi (What Would Meek Do?).

Le canzoni migliori sono Santeria, con base trap molto potente; If You Know You Know e Infrared, che aprono e chiudono magistralmente l’album; e Come Back Baby. Unica nota stonata è Hard Piano, ma il contributo di Rick Ross salva la baracca.

In generale, dunque, il contributo di West ha senza dubbio aiutato Pusha-T a proporre un disco avvolgente e che difficilmente abbandoniamo di nostra volontà; il problema è che, due anni e mezzo dopo “Darkest Before Dawn”, finire con sole sette canzoni è un po’ una delusione. Nondimeno, Pusha-T si conferma ormai tornato ad alti livelli. Siamo davvero curiosi di vedere dove lo porteranno i suoi prossimi lavori.

26) IDLES, “Joy As An Act Of Resistance”

(PUNK)

Gli IDLES sono probabilmente il gruppo punk britannico più hot del momento: i due album pubblicati nel corso di soli due anni, “Brutalism” nel 2017 e “Joy As An Act Of Resistance” quest’anno, sono stati lodati come moderni capolavori del genere, capaci di rifarsi ai maestri del passato (soprattutto Clash) ma perfettamente calati nel mondo moderno. Aiuta molto il fatto che il gruppo guidato da Joe Talbot parli di temi decisamente attuali: la rabbia per un mondo sempre più ingiusto, l’odio per coloro che tramite la Brexit hanno staccato la Gran Bretagna dall’Europa… insomma, tematiche molto sentite e non puramente british.

La musica degli IDLES in realtà non è rivoluzionaria, ma come potrebbe esserlo del resto in un genere chiuso come il post-punk? Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente è l’energia che il complesso britannico mette in ogni canzone: il frontman Talbot, con il suo vocione, ricorda un King Krule meno raffinato, mentre la base ritmica fornita dal batterista Jon Beavis e dai chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan è solida. Vi sono in effetti tutti gli ingredienti per avere un ottimo disco punk.

Cosa puntualmente confermata: “Joy As An Act Of Resistance” è senza ombra di dubbio uno dei dischi punk più convincenti dell’anno. Il titolo può tuttavia trarre in inganno: di gioia, sia nei testi che nelle canzoni degli IDLES, ne troviamo ben poca. Basti dire che uno dei temi che permea il CD è l’avere un figlio nato morto: “Baby shoes for sale: never worn” canta Talbot in June, un verso apparentemente innocuo ma in realtà devastante. Eloquente poi il titolo della furiosa I’m Scum, ma i veri capolavori sono altri: le tesissime Never Fight A Man With A Perm e Danny Nedelko sono pezzi punk riuscitissimi, che ricordano i migliori Cloud Nothings e Preoccupations. Ottima anche Love Song. Convince meno la parte finale dell’album, inferiore alla media ad esempio Television; ma i risultati restano complessivamente lodevoli.

In conclusione, gli IDLES hanno alzato ancora la posta, producendo un album che dimostra un potenziale immenso: starà a loro riuscire a sfruttarlo appieno. “Joy As An Act Of Resistance” infatti non è ancora il loro “Big One”, ma se riusciranno a replicare per 30-35 minuti l’intensità di pezzi come Danny Nedelko avremo di fronte il nuovo “Unknown Pleasures”. Missione difficilissima certo, ma perché non sperarci?

La prima parte dei 50 migliori album del 2018 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento domani con la seconda parte della lista. Stay tuned!

Recap: settembre 2018

Settembre è ormai finito. Un mese ricco di CD importanti e attesi da critica e pubblico; il lavoro infatti ad A-Rock non è mancato. Recensiremo i nuovi album di Anna Calvi, Troye Sivan e di Katie Crutchfield aka Waxahatchee. Inoltre, daremo spazio ai nuovi dischi dei veterani della musica elettronica Aphex Twin e The Field, al ritorno dei Low e dei Suede e al primo LP partorito dalla collaborazione fra Justin Vernon e Aaron Dessner dei National (in arte Big Machine). Ah, stavamo per dimenticarci: Ty Segall ha pubblicato un nuovo CD, a firma GØGGS questa volta.

Troye Sivan, “Bloom”

troye sivan

La nascente pop star australiana Troye Sivan ha pubblicato un lavoro davvero maturo per un ragazzo di appena 23 anni. “Bloom” è infatti un ottimo album pop, capace di suonare fresco malgrado si vedano chiaramente le influenze a cui Troye si ispira (George Michael, Lorde e The 1975 fra gli altri).

Quest’anno abbiamo avuto molti CD con chiari riferimenti alla sessualità dei protagonisti: in tempi di #MeToo e pieni diritti per le persone omosessuali, è perfettamente comprensibile che artisti dalle origini disparate abbiano descritto cosa significhi essere persone omosessuali. Troye Sivan non ha mai nascosto la sua attrazione per altri uomini, ma nel suo secondo album le liriche sono decisamente più mature e le sonorità più coerenti ed efficaci, rendendo “Bloom” un ascolto imprescindibile per gli amanti del pop.

L’inizio è travolgente: sia Seventeen che il singolo My My My! sono ottimi pezzi pop, degni di autori più quotati del giovane Troye. Anche i testi colpiscono: in Seventeen Sivan narra le sue avventure erotiche su Grindr (il Tinder per omosessuali) con uomini più maturi e gli abusi da loro perpetrati. Altrove le liriche sono più delicate: “Got something here to lose that I think you wanna take from me” in Seventeen e “I need you to tell me right before it goes down. Promise me you’ll hold my hand if I get scared now” in Bloom ne sono esempi.

Musicalmente, dicevamo, il CD è un ottimo concentrato del pop del XXI secolo, con inserti di autori del passato come George Michael. La voce di Sivan ricorda molto quella di Matt Healy dei The 1975, mentre la forte presenza del pianoforte in molte melodie (si veda Postcard) fa tornare alla mente il Perfume Genius delle origini. Da sottolineare infine le collaborazioni presenti in “Bloom”: Ariana Grande fa una comparsata in Dance To This, mentre il celebre produttore Ariel Rechtshaid collabora in The Good Side. Un po’ ovvie sono canzoni come Plum e Dance To This, ma sono peccati veniali in un lavoro altrimenti molto efficace.

Insomma, il futuro pare roseo per la giovane star australiana: giusto così, dato il talento dimostrato e la voglia di sperimentare non solo la carriera musicale. Ricordiamo infatti che Sivan è diventato noto come youtuber, per poi passare alla carriera di attore e poi di cantante. Insomma, un personaggio poliedrico e pronto al grande salto nel mondo delle star a tutto tondo. “Bloom” è un ottimo biglietto da visita ed è senza dubbio uno dei migliori album pop dell’anno.

Voto finale: 8.

Aphex Twin, “Collapse”

collapse

Richard D. James, meglio conosciuto col nome d’arte Aphex Twin, è uno dei maggiori interpreti di musica elettronica degli ultimi trent’anni. Sì, non è un errore di battitura: la carriera di James coinvolge ormai quattro decadi, essendo iniziata nel 1985. Al suo attivo vanta capolavori della musica ambient e IDM (Intelligent Dance Music) come le due raccolte di “Selected Ambient Works” e il clamoroso ritorno del 2014 “Syro”.

Basterebbe questo a meritarsi una onorevole pensione, invece Aphex Twin, dal suo ritorno sulle scene musicali, ha dimostrato una voglia di sperimentare davvero insistente e ambiziosa, pubblicando una raccolta di inediti ogni anno. Solo nel 2017 si è preso una breve pausa, evidentemente necessaria per pubblicare l’efficacissimo EP “Collapse”.

L’inizio è travolgente: T69 Collapse è fantastica, con percussioni in primo piano e un ritmo trascinante, degno del miglior Aphex Twin. Anche le tracce più tranquille del lavoro, tuttavia, fanno un’ottima impressione, anche dopo ripetuti ascolti: 1st 44 inizia lenta, per poi esplorare ritmi techno e big beat che ricordano i Prodigy. Degna di nota anche MT1 t29r2 (ebbene sì, i titoli assurdi di James continuano a imperversare).

In conclusione, “Collapse” finisce quasi troppo presto: data l’efficacia e la coesione interna posseduta dall’EP, sembrerebbe che Aphex Twin sia tornato al top della condizione, malgrado un’età non più verde e una scena elettronica sempre più piena di DJ che cercano di imitarne lo stile. Nondimeno, Richard D. James si conferma inimitabile. Una cosa non da poco, alla soglia dei 50 anni.

Voto finale: 8.

Low, “Double Negative”

low

Il dodicesimo album dei veterani del rock alternativo Low è anche uno dei loro più bei CD degli ultimi anni. Malgrado siano attivi da ben 25 anni, il gruppo sembra più vitale che mai, mantenendo alto il livello compositivo e la voglia di sperimentare.

“Double Negative”, infatti, non si limita a ripercorrere i generi che hanno reso celebri i Low: ricordiamo infatti che le origini del complesso statunitense vanno ricondotte al mondo del metal, sebbene melodico e a volte quasi dream pop. Loro sono in effetti fra i fondatori di una corrente musicale chiamata slowcore: ritmi lenti, bassi in grande evidenza, voci spesso inintelligibili. Una sorta di shoegaze ancora più opprimente, diciamo. Beh, in “Double Negative” ritroviamo molti di questi tratti, ma anche delle incursioni ambient davvero intriganti e riuscite: più o meno tutti i pezzi del disco hanno code o intro di questo tipo, addirittura The Son, The Sun è solo musica ambient, degna del miglior Brian Eno. Non male anche la conclusione della sognante Fly.

Certo, l’album non è per nulla commerciale, anzi rischia di inimicare la frangia meno sperimentale del pubblico dei Low. Tuttavia, dopo aver compreso la loro estetica ed essere entrati appieno nel mood del CD, pezzi come Tempest e Always Up non possono non conquistare l’ascoltatore. Non sarà certamente il disco dell’anno, ma insomma di band così creativamente ardite al loro terzo decennio di vita se ne contano davvero poche.

Menzione finale per i testi (laddove comprensibili): il gruppo si è dichiarato più volte acerrimo nemico di Donald Trump e non esita a ribadire il concetto nel corso degli 11 brani che compongono “Double Negative”. Ad esempio, in Dancing And Fire il frontman Alan Sparhawk canta “It’s not the end, it’s just the end of hope”, mentre in Disarray “Before it falls into total disarray, you’ll have to learn to live a different way”.

Insomma, un LP certo non facile, ma che merita almeno un ascolto. I Low non sono mai stati tanto liberi e privi di preoccupazioni legate al successo o meno di un loro disco, motivo per cui suonano più ambiziosi che mai. Già questo sarebbe una buona ragione; inoltre, il livello dei brani è generalmente alto. Cosa volete di più?

Voto finale: 7,5.

Anna Calvi, “Hunter”

anna calvi

La talentuosa cantante pop-rock inglese di chiare origini italiane Anna Calvi ha trovato la definitiva maturità nell’intrigante “Hunter”, terzo suo album e primo dopo quattro anni di assenza dalle scene. La Calvi affronta con decisione il tema della sessualità e della discriminazione a cui gli omosessuali sono sottoposti, componendo un vero e proprio manifesto per la liberazione da qualsiasi costrizione.

Anna Calvi dimostra di aver appreso appieno la lezione di maestri del rock oscuro come Nick Cave: la sua voce è profonda come mai, la virtuosità chitarristica dei passati lavori lascia posto ad accompagnamenti lugubri e ossessivi. Non parliamo insomma di un disco facile, nondimeno il fascino di tracce come As A Man e la title track è innegabile. Colpiscono positivamente anche Don’t Beat The Girl Out Of My Boy, davvero trascinante e non a caso scelta come singolo di lancio, e l’inquietante Chain, in cui Anna parla esplicitamente di fantasie sadomaso.

Dicevamo che la bella Anna Calvi si schiera apertamente a favore della totale parità di diritti per le persone omosessuali e della libera scelta riguardo al sesso: essere maschio o femmina per lei non conta, l’importante è sentirsi in pace con sé stessi. Posizione condivisibile o meno, ma legittima e motivata da testi forti, già nei titoli. Insomma, un attestato di maturità artistica e personale.

In conclusione, dopo due nomination ai Mercury Prize, i premi musicali più importanti della stampa d’Oltremanica, “Hunter” potrebbe rappresentare la definitiva consacrazione per la Calvi. Peccato, perché senza pezzi sotto la media come Swimming Pool e Away parleremo di un CD fantastico. Così è “solamente” un buon album, ma certamente ci fa apprezzare appieno le potenzialità dell’ancora giovane artista inglese.

Voto finale: 7,5.

The Field, “Infinite Moment”

the field

Puntuale come un orologio svizzero, Axel Willner (colui che si cela dietro il nickname The Field) ritorna con un nuovo album di musica techno-ambient. Il DJ svedese ha fatto della ripetitività delle melodie la sua arma vincente: tutta la sua carriera, infatti, è caratterizzata da un genere a metà fra musica dance e ambient, con brani anche molto lunghi e che fanno del minimo cambiamento nelle percussioni o nel ritmo l’arma vera e propria.

Il primo CD a firma The Field, “From Here We Go Sublime” (2007), era stato un “game changer” per la musica elettronica di quel periodo, tanto che poi molti DJ diventati famosi (Armin Van Buren e Tiesto, per esempio) hanno preso spunto da quell’album per creare quel sottogenere dell’elettronica chiamato “trance”. Willner ha sempre mantenuto un profilo basso, decisamente meno commerciale di alcuni suoi colleghi, ma non ha mai prodotto album scadenti. “Infinite Moment” mantiene la tradizione, confermando The Field tra le voci di maggior spessore della scena internazionale.

Il disco presenta una struttura austera: solo sei canzoni in scaletta, cinque delle quali superano i 10 minuti di durata. In effetti, il titolo del sesto LP a firma The Field è “Infinite Moment”: avere tracce lunghe e complesse è parte del gioco. L’impressione viene subito confermata da Made Of Steel. Made Of Stone, che apre il disco: le atmosfere richiamano i due ultimi album del DJ svedese, “Cupid’s Head” (2013) e “The Follower” (2016), più cupe degli esordi e meno frenetiche. Invece, la riuscita Hear Your Voice è quasi pop, una novità nel catalogo di Willner. La parte centrale dell’album è dominato da atmosfere più rarefatte, tanto che Who Goes There rimanda a Four Tet. Peccato solo per la scialba conclusione, dato che la title track è monotona e sotto la media, più che buona, del disco.

In conclusione, il “periodo nero”, almeno nelle cover, di The Field continua: non creativamente, sia chiaro, giacché “Infinite Moment” è comunque un godibile disco di musica elettronica. Allo stesso tempo, tuttavia queste atmosfere più opache a volte tolgono l’aria e rendono l’ascolto difficile. Averne però di compositori così costanti e desiderosi di mantenere un livello medio così alto.

Voto finale: 7,5.

Big Red Machine, “Big Red Machine”

big red machine

La collaborazione tra Justin Vernon, il geniale compositore noto come Bon Iver, e Aaron Dessner dei National non poteva che essere un evento per gli amanti del mondo indie. Bon Iver e The National sono infatti tra gli artisti più amati degli ultimi anni, grazie a una costante voglia di sperimentare (il primo) e a un’incredibile capacità di assemblare gli ingredienti dell’indie rock in modi sempre notevoli e non banali (i secondi).

“Big Red Machine” raccoglie molte delle influenze degli ultimi CD a firma Bon Iver e The National, ovvero “22, A Million” (2016) e “Sleep Well Beast” (2017). Abbiamo infatti un lavoro di canzoni sperimentali ma mai fuori dai gangheri, folk ma anche elettroniche, con occasionali intarsi di chitarra ad opera di Dessner. I testi, come nella migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) tradizione di Bon Iver e The National, sono sempre sfocati e vaghi; niente di cui preoccuparsi eccessivamente, però, dato che, più che comunicare messaggi universali, lo scopo dell’album è mostrare il processo creativo di due menti illuminate della musica rock del nuovo millennio.

L’inizio è particolarmente minimale: Deep Green ricorda molto l’ultimo disco dei The National, in particolare Guilty Party. La seconda canzone delle 10 che compongono il CD, la suadente Gratitude, è più mossa, riportando alla memoria il miglior Bon Iver, quello di “Bon Iver, Bon Iver” del 2011. Il lavoro prosegue poi su questa falsariga, alternando pezzi più riusciti (per esempio OMDB e People Lullaby) ad altri meno consistenti (I Won’t Run From It). I risultati restano comunque sopra la media, grazie anche all’angelica voce di Vernon e alla produzione, sempre impeccabile.

Dicevamo che, liricamente, il disco contiene più che altro un collage di immagini, spesso slegate fra loro. Ad esempio, Gratitude parla senza problema di indiani d’America, innamorati e quarterback; in Deep Green troviamo la seguente, straniante immagine: “We met up like a ski team”. Insomma, suggestioni da cogliere con ironia o diffidenza, a seconda della personale inclinazione.

In conclusione, non siamo certo davanti ad un capolavoro. Allo stesso tempo, però, “Big Red Machine” conferma una volta di più che, anche nel tempo libero dai loro progetti principali, Dessner e Vernon non sanno scrivere una canzone davvero brutta. Insomma, il lavoro merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

GØGGS, “Pre Strike Sweep”

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L’instancabile Ty Segall conferma che il 2018 potrebbe essere il suo anno più inquieto di sempre; ed è tutto dire per un artista che ha all’attivo, all’ancora relativamente tenera età di 31 anni, 10 (!) album solisti, più svariate collaborazioni (celebri quelle con Tim Presley aka White Fence) e altre due band attive (sorvoliamo su quelle ormai defunte di cui ha fatto parte), vale a dire i Fuzz e i GØGGS. Insomma, un’iperattività per certi versi inquietante, ma che è caratterizzata da una qualità media altissima: è sorprendente infatti come Ty, nelle sue varie incarnazioni, non abbia pubblicato un solo CD davvero scadente. Alcuni potranno piacere o meno, ad esempio “Sleeper” (2014) per alcuni è troppo folk; oppure “Slaughterhouse” (2012) troppo punk. In generale, però, è proprio questa sua capacità di spaziare nel mondo rock in ogni suo aspetto (dal semplice rock and roll all’hard rock al garage, passando per rock psichedelico e ballate beatlesiane) a renderlo speciale.

Ma parliamo del nuovo disco dei GØGGS: per molti fan dell’artista californiano questo è il suo progetto più debole, dato anche il fatto che Ty si limita a suonare la chitarra e a fare da supporto alla voce principale, che appartiene a Charles Moothart, già membro degli Ex Cult. Il sound del gruppo non si discosta molto dal garage rock che ha reso Segall una star del genere, ma del resto l’innovazione non è mai stata il piatto forte del cantante statunitense. “Pre Strike Sweep” si conferma tuttavia un divertissement riuscito, un modo simpatico e poco impegnativo di passare mezz’ora.

L’energia pervade il lavoro, come è lecito aspettarsi: la title track e CTA sono trascinanti, ricordando il Ty Segall più punk. Killing Time e Vanity sono invece pezzi puramente hard rock, che si rifanno a Black Sabbath e Queens Of The Stone Age. Non esistono brani davvero deboli peraltro e il disco è piuttosto coeso, data anche la sua brevità. Inoltre, le melodie entrano facilmente in testa, specialmente agli amanti del genere, rendendo l’ascolto gradevole e mai banale.

In conclusione, non stiamo certo parlando di un capolavoro, ma certamente “Pre Strike Sweep” conferma che i GØGGS non sono semplicemente un passatempo per Segall e compagni, che si divertono ma non senza un obiettivo ben preciso: quello di tenere alta la bandiera del rock duro e puro. In un’epoca dove il genere sta sempre più perdendo rilevanza, vanno ammirati.

Voto finale: 7.

Suede, “The Blue Hour”

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La storia dei Suede è davvero particolare: la band inglese capitanata da Brett Anderson è stata pioniera della rinascita del rock britannico anni ’90, grazie a lavori convincenti come l’omonimo “Suede” (1993) e “Dog Man Star” (1994), paralleli ai migliori CD di Blur e Oasis. Un peccato, dato che la fama delle due band ha oscurato i Suede, che in realtà qualitativamente erano sullo stesso piano, se non superiori, rispetto alle creature dei fratelli Gallagher e di Damon Albarn. La loro carriera è poi proseguita fra alti e bassi fino al 2002, quando lo scioglimento pareva definitivo. Invece, nel 2013, la svolta: i Suede tornano insieme, con peraltro dischi convincenti come “Bloodsports” (2013) e “Night Thoughts” (2016), capaci di mixare efficacemente il britpop anni ’90 con le influenze del rock alternativo contemporaneo. Sono molte le band, UK e non, ad essersi ispirate allo stile dei Suede negli anni: dai Killers fino ai The 1975, l’aria di complesso maledetto e dotato di base ritmica convincente e pomposa ha fatto presa su molti.

L’ottavo LP della band britannica ricalca i familiari sentieri che hanno reso i Suede una band magari di secondo piano in Inghilterra e nel mondo, ma stimata dalla critica e con una fanbase leale. “The Blue Hour” parte come ci aspetteremmo da un CD dei Suede: As One è un pezzo imperioso, a tratti forse troppo barocco, ma è un’introduzione discreta. Il primo highlight è la trascinante Wastelands, che presenta la chitarra di Richard Oakes in primo piano e la voce di Anderson efficace come sempre. Tutta la prima fase del disco è buona: ottima per esempio anche Beyond The Outskirts.

I problemi iniziano nella parte centrale, dove il gruppo sembra perdere un po’ il filo: ad esempio, sia Life Is Golden che Tides sono fuori fuoco e prevedibili nel loro sviluppo. Il finale, invece, riserva delle gradite sorprese: sia Don’t Be Afraid If Nobody Loves You che la conclusione epica di Flytipping riportano alla mente i fasti dei primi LP dei Suede.

In conclusione, il trittico post reunion si chiude forse con il suo lavoro più debole, nondimeno Anderson e compagni riescono a mantenersi ben sopra la sufficienza, sebbene “The Blue Hour” manchi della coesione che aveva reso “Night Thoughts” così soddisfacente. Per concludere, un avvertimento che, in realtà, ad una band navigata come i Suede potrebbe suonare scontato: un po’ di barocco va bene, ma il rococò, dopo un po’, stucca.

Voto finale: 7.

Waxahatchee, “Great Thunder”

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“Great Thunder” arriva solo un anno dopo lo squisito “Out In The Storm”, uno dei migliori album indie rock degli ultimi anni. Katie Crutchfield, la figura dietro il progetto Waxahatchee, ha deciso in questo breve EP di dare alle stampe dei suoi pezzi composti alcuni anni fa, caratterizzati da sonorità decisamente lontane da quelle che hanno fatto la fortuna della cantante americana. Abbiamo infatti canzoni folk, che poco mantengono della furia rock degli ultimi dischi a firma Waxahatchee.

Come già accennato, le canzoni rimandano ad alcuni brani di ben sei anni fa: Great Thunder era il nome di una band dalla vita brevissima in cui la Crutchfield era stata scelta come leader. I testi parlano apertamente della fine di una relazione, tema che già era al centro di “Out In The Storm”: la delicata Chapel Of Pines si basa sul ritornello “Will You Go?”, che più chiaro non potrebbe essere. Insomma, non abbiamo di fronte canzoni allegre, fatto amplificato dalla produzione dell’album, registrato nella stessa località dove Justin Vernon compose “For Emma, Forever Ago”, il suo ormai classico esordio come Bon Iver.

Tutto però dimostra una verità incontrovertibile: che si parli di indie rock o folk, Waxahatchee si conferma un nome vincente del panorama musicale contemporaneo. Pezzi come Chapel Of Pines e Takes So Much starebbero benissimo nelle mani di un Father John Misty o dei Fleet Foxes. Insomma, la Crutchfield ha ampliato notevolmente la propria tavolozza compositiva: vedremo dove la condurrà il prossimo LP vero e proprio. Certamente la nostra fiducia in lei non è compromessa dall’interessante EP “Great Thunder”.

Voto finale: 7.