I 50 migliori album del 2020 (50-26)

Il 2020 sta (finalmente) per finire. Un anno tragico per molti aspetti, ma che almeno ha visto un panorama musicale vivo e ricco di uscite che resteranno un caposaldo anche nei prossimi anni: abbiamo infatti scoperto artisti emergenti molto interessanti (Doglee ed Amaarae, per esempio), Bob Dylan ha confermato di essere un gigante e che l’età è un concetto relativo, abbiamo visto ritorni inattesi da parte di artisti che mancavano da molto dalla scena musicale come i Tame Impala e Fiona Apple… insomma, chi più ne ha più ne metta!

Partiamo oggi con la prima parte della lista dei 50 migliori CD dell’anno, nei prossimi giorni pubblicheremo la sezione dedicata ai migliori 25. Buona lettura!

50) Freddie Gibbs feat. The Alchemist, “Alfredo”

(HIP HOP)

Fin dal titolo e dalla copertina “Alfredo” di Freddie Gibbs, realizzato in collaborazione col produttore The Alchemist, è chiaramente ispirato ai personaggi della mafia italo-americana. Alfredo infatti è uno dei figli di Don Vito Corleone nella saga de Il Padrino, mentre la cover è il simbolo cinematografico dell’epopea della famiglia Corleone.

In effetti Freddie Gibbs è unanimemente riconosciuto come uno dei migliori gangsta rap della sua generazione: testi affilati, flow efficace su ogni base (specialmente quelle jazzate) e una produzione abbondante, che lo ha visto pubblicare ben cinque CD negli ultimi tre anni, fra collaborazioni con produttori di grido (oltre a The Alchemist abbiamo avuto “Bandana” con Madlib nel 2019) e prove soliste.

“Alfredo” percorre sentieri conosciuti per il veterano della scena hip hop statunitense: i beats di The Alchemist sono molto vecchio stampo, ricordando il rap anni ’90. Freddie Gibbs, dal canto suo, aggiunge la sua solita efficacia nel raccontare storie dure con tocchi di umanità inattesi; esemplare al riguardo questo verso contenuto in Skinny Huge: “Man, my uncle died off a overdose… And the fucked up part about that is, I know who supplied the nigga that sold it”. Altrove invece emerge la sua passione per le storie di mafia: Baby $hit campiona una frase del boss impersonato da Chazz Palminteri in una celebre serie tv americana, Godfather Of Harlem.

I risultati sono, come usuale con Gibbs, molto interessanti, specialmente in quei pezzi dove il Nostro non si trattiene e, grazie anche a ospiti di spessore, riesce a tirare fuori il meglio di sé: è il caso di Something To Rap About, con il fondamentale supporto di Tyler, The Creator. Altra ottima canzone è God Is Perfect. Convincono meno invece i momenti più introspettivi del lavoro, da 1985 a Look At Me, che spezzano il flusso del CD.

In generale, “Alfredo” è un’altra aggiunta di livello ad una discografia tanto frastagliata quanto in crescendo; Freddie Gibbs ha ormai trovato la sua dimensione e pare in grado, come già accennato in apertura, di rappare su ogni tipo di base, pur prediligendo quelle vecchio stile. Non siamo di fronte a un nuovo “Bandana”, ma il disco è godibile e perfettamente intonato a tempi in cui l’hip hop incarna la voglia di cambiamento della società.

49) Bruce Springsteen, “Letter To You”

(ROCK)

Il ventesimo CD del Boss non poteva che essere un evento: cadendo nel 2020, i riferimenti al numero 20 sono già numerosi. Va poi aggiunto che Springsteen ha composto alcune delle canzoni che sono entrate in “Letter To You” in giovane età (si tratta di Janey Needs A Shooter, Burnin’ Train e Ghosts), probabilmente proprio nei suoi vent’anni.

Finita la parte di “statistica e curiosità”, passiamo all’analisi dell’album: composto in pochi giorni in sessioni infuocate con la E Street Band, “Letter To You” riporta nei suoi momenti migliori con la mente ai capolavori della collaborazione, come “Darkness On The Edge Of Town” (1978) e “Born In The U.S.A.” (1984). Alcune melodie superano addirittura i sei minuti di durata: tra di esse l’epica Janey Needs A Shooter e If I Was The Priest. In realtà la prima canzone in scaletta, la deliziosa One Minute You’re Here, è una ballata raccolta che ricorda “Nebraska” (1982), ma è un falso allarme. Il resto del disco infatti si muove sui territori più conosciuti per i fans del Boss, quel rock potente e nostalgico di cui è il massimo interprete e maestro (vero The War On Drugs?). Non fosse per dei piccoli passi falsi come le troppo prevedibili House Of A Thousand Guitars e Rainmaker, avremmo davanti a noi un capolavoro dell’età matura di Springsteen.

Nei testi di “Letter To You” si evince una malinconia per gli anni che passano e gli amici di una vita che, giorno dopo giorno, abbandonano questo mondo: George Theiss, il frontman della primissima band in cui militò Bruce, i Castiles, è scomparso nel 2018 e ciò portò Springsteen a voler comporre nuovi pezzi e recuperarne degli altri dalla propria gioventù. Successivamente, come sappiamo, il Boss diede alle stampe il più sereno “Western Stars” (2019) e “Letter To You” è slittato al 2020, un anno in cui la morte è più presente che mai e in cui i testi delle canzoni sono più evocativi di quanto lo sarebbero stati in tempi migliori.

Ne sono esempi “We’ll meet and live and laugh again… for death is not the end” (I’ll See You In My Dreams), “Forget about the old friends and the old times” (If I Was The Priest) e “Sometimes folks need to believe in something so bad” (Rainmaker). Quest’ultimo, oltreché in chiave religiosa, può essere interpretato come monito per i politici populisti e il desiderio delle persone di sentirsi guidate da figure che, spesso, sono veri e propri criminali, come confermato dallo stesso Springsteen.

In conclusione, “Letter To You” non raggiunge le vette di capolavori come “Born In The U.S.A.” e “Darkness On The Edge Of Town”, nondimeno renderà felici i numerosi fans del Boss, capace ancora di scrivere canzoni forti e a tratti commoventi, come solo i veri fuoriclasse sanno fare. A 71 anni e con ormai 50 anni di carriera alle spalle, Springsteen è ancora oggi uno degli artisti più rilevanti del mondo rock.

48) Troye Sivan, “In A Dream”

(POP – ELETTRONICA)

Il nuovo EP del cantautore australiano è una piccola delizia. Mescolando le melodie che lo hanno reso una popstar con episodi decisamente più sperimentali, Troye Sivan si conferma volto sempre più interessante della musica contemporanea.

“In A Dream” segue l’acclamato “Bloom” (2018), album che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e gli ha permesso di collaborare con star come Charli XCX e Ariana Grande, ampliando notevolmente il suo pubblico. L’EP non è tuttavia una semplice continuazione di “Bloom”, quanto un modo per Troye di sperimentare nuove sonorità, che spaziano dalla techno (!) al dream pop, senza tuttavia mai perdere la bussola.

Fin dal primo singolo, Take Yourself Home, capiamo che “In A Dream” rappresenta un episodio importante per la discografia di Sivan: la canzone sarebbe di per sé carina, un’ottima melodia pop mescolata alla bella voce di Troye, ma la coda techno, che pare una creazione di Aphex Twin, è incredibile e anche ripetuti ascolti non fanno capire fino in fondo da dove sbuchi. È decisamente una delle più belle canzoni a firma Troye Sivan. Anche la successiva Easy è molto accattivante: non imprevedibile come la precedente, ma non meno riuscita. L’elettronica prepotente ritorna anche nella trascinante STUD, altro pezzo notevole del lavoro. L’unica inferiore alla media (alta) dell’EP è la fin troppo breve could cry just thinkin about you, ma i risultati restano ottimi, anche grazie all’ottima chiusura rappresentata dalla title track.

In conclusione, le sei canzoni di “In A Dream” sono un passo in avanti importante per Troye Sivan: l’australiano ha affiancato collaborazioni illustri a un’estetica in continua evoluzione, che lo rende una delle figure meno inquadrabili del mondo pop. Il prossimo album sarà il vero banco di prova, ad A-Rock siamo davvero impazienti di sentirlo.

47) Amaarae, “THE ANGEL YOU DON’T KNOW”

(R&B – POP)

Nata Ama Serwah Genfi, nel Bronx, Amaarae ha in realtà una cultura davvero varia: ha vissuto in varie parti d’America e ora vive con la famiglia in Ghana, un posto apparentemente poco convenzionale per comporre musica che ambisce alle classifiche e a comparire nelle playlist di grido di Spotify. Tuttavia, l’Africa sta diventando un mercato sempre più ambito dalle multinazionali e, allo stesso tempo, la musica africana sta conquistando i fans di mezzo mondo.

Il genere afrobeats in realtà è assimilabile a R&B e hip hop per molti versi e non è un caso che la sua affermazione coincida con l’impero del rap nelle classifiche. Amaarae, dal canto suo, cerca di stare in equilibrio fra generi apparentemente diversi come R&B, pop e funk, creando con “THE ANGEL YOU DON’T KNOW” un CD breve (soli 35 minuti) ma vario, con picchi notevoli e pezzi più interlocutori. Il talento c’è, ma la Nostra deve ancora affinare la sua estetica per renderla davvero unica.

Le 14 canzoni dell’album vengono introdotte dalla breve D*A*N*G*E*R*O*U*S, uno dei molti intermezzi che popolano il disco. FANCY è già un highlight del CD, fra trap e R&B; altri pezzi da ricordare sono FANTASY e PARTY SAD FACE/CRAZY WURLD, con coda addirittura punk; invece mediocre HELLZ ANGEL. In tutte le canzoni tuttavia svetta, comprensibilmente, la voce da bambina di Amaarae, che ad alcuni potrà sembrare eccessivamente sdolcinata ma in realtà è un valore aggiunto nella maggior parte delle melodie.

In conclusione, “THE ANGEL YOU DON’T KNOW” è un LP molto interessante, che richiede più di un ascolto per essere compreso appieno. La brevità aiuta l’assimilazione rapida delle canzoni, la varietà di generi affrontati con successo da Amaarae garantisce replay value; insomma, se non fosse per i troppi intermezzi e alcuni episodi non all’altezza, avremmo davanti un esordio coi fiocchi. Ma già così Amaarae si candida ad un ruolo di primo piano nel panorama musicale dei prossimi anni.

46) Harry Styles, “Fine Line”

(POP – ROCK)

Questo secondo album a firma Harry Styles, ex membro degli One Direction, conferma l’impressione suscitata da “Harry Styles” del 2017: è lui il più talentuoso tra gli ex appartenenti alla boy band. Mentre infatti sia Liam Payne che Zayn Malik hanno deluso alla prova solista, Harry dimostra un’abilità non comune nel panorama pop-rock, prendendo spunto da artisti come The 1975 e Coldplay ma riuscendo a non suonare scontato.

“Fine Line” parte subito forte: Golden è un pezzo molto solare, perfetto per iniziare col piede giusto un CD dichiaratamente “amichevole” ma non per questo monotono. Altro ottimo brano è Adore, non a caso scelto anche per lanciare il lavoro. Invece Watermelon Sugar è un po’ banale e non rende giustizia alla bella voce di Styles.

Interessante è poi la voglia di sperimentare dell’ex One Direction, che si avventura in territori folk (Cherry) così come negli assoli rock quasi prog (She). I risultati non sono sempre perfetti, ma denotano un coraggio non comune. Non è un caso che l’artista britannico dichiari di ispirarsi a David Bowie; ce ne vuole per raggiungere le vette creative del Duca Bianco, ma Harry Styles ha tutto per costruirsi una solida carriera.

“Fine Line” non è ancora il CD definitivo del giovane cantante, ma mostra un Harry Styles in gran forma e pronto ad essere il Robbie Williams degli anni ’20: l’unico sopravvissuto a buoni livelli di una ex boyband. Basta sostituire i Take That con gli One Direction e il gioco è fatto.

45) Stormzy, “Heavy Is The Head”

(HIP HOP)

Il secondo album rappresenta come ben sappiamo sempre una prova ardua da superare, soprattutto per artisti che hanno trovato il successo al primo colpo. Stormzy, superstar della scena grime inglese, la supera brillantemente, mantenendo le qualità messe in mostra nell’esordio “Gang Signs & Prayer” del 2017 e diventando una voce generazionale vera e propria per la gioventù britannica.

Il CD, uscito a fine 2019, mescola come già “Gang Signs & Prayer” vari generi: dalla trap al gospel, passando per il rap più duro e diretto, conosciuto Oltremanica come grime. Questa grande varietà rappresenta sia un limite che un’opportunità per il giovane artista: se da un lato Stormzy infatti crea un CD fin troppo diversificato (con ospiti tanto diversi da comprendere Ed Sheeran e Burna Boy nella stessa canzone), dall’altro la sua innata abilità a spaziare fra ritmi e sonorità così diverse dimostra un talento enorme.

Come sempre in un album hip hop, i testi rivestono un’importanza notevole. Stormzy non ha mai fatto mistero di voler diventare portavoce della generazione che in Inghilterra ha assistito alla Brexit e all’ascesa dei Tory, con tutte le polemiche che ne sono seguite. In Audacity si domanda: “come diavolo ho fatto a salire così presto?”, mentre in One Second escono le contraddizioni a cui deve far fronte: “ Mummy always said if there’s a cause then I should fight for it, so yeah I understand, but I don’t think that I’m all right with it”, che non necessita di traduzione. Altrove invece appaiono temi più personali: in Lessons, per esempio, Stormzy conferma le voci che lo vedevano traditore della ex fidanzata Maya Jama.

In generale, il disco scorre bene, i featuring aggiungono spessore ai brani e Stormzy si conferma rapper molto talentuoso, sia vocalmente che liricamente. “Heavy Is The Head” sarà anche una dichiarazione spavalda, specialmente verso la concorrenza, ma questa arroganza è meritata.

44) Denzel Curry, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX” / “UNLOCKED”

(HIP HOP)

I due brevi EP pubblicati nel giro di un mese dal rapper di Miami Denzel Curry, astro nascente della scena trap più alternativa, mostrano un artista al top: le basi sono durissime, in questo ricordando “TA13OO” (2018), il CD che fece conoscere Denzel a un pubblico ampio. A ciò aggiungiamo collaborazioni efficaci e abbiamo due fra gli EP più eccitanti degli ultimi anni.

Il primo ad essere pubblicato in ordine temporale, “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, è davvero breve: 8 pezzi che arrivano a malapena ai 13 minuti di durata, spesso connessi uno con l’altro tanto che è difficile dire dove uno finisce e il nuovo inizia. A colpire sono specialmente la durissima XX – CHARLIE SHEEN – XX, con la collaborazione di Ghostemane, e la più dolce XX – WELCOME TO THE FUTURE – XX. Nessuna però è scarsa, tanto da creare un disco quasi punk: potente, immediato e breve, che impone ascolti in serie.

Il secondo EP è intitolato “UNLOCKED” e vanta la collaborazione di Kenny Beats, da molti riconosciuto come il nuovo Madlib: che Denzel Curry sia il suo Freddie Gibbs? Non siamo di fronte ad un nuovo “Bandana” (2019), ma senza dubbio il CD è riuscito: meno aspro rispetto a “13LOOD 1N + 13LOOD OUT MIXX”, mantiene però alto il livello delle basi con inserti jazz che rendono l’insieme imprevedibile. I pezzi migliori sono Take_it_Back_v2 e Track07, poi in generale valgono le considerazioni fatte anche per il precedente lavoro: la brevità rende necessario più di un ascolto per apprezzare appieno i dettagli delle poche ma intricate canzoni.

In poche parole, Denzel Curry è destinato a scrivere pagine importanti dell’hip hop degli anni ’20 del XXI secolo: questi due EP ne sono un’ulteriore dimostrazione.

43) Hayley Williams, “Petals For Armor”

(ROCK – POP)

Il primo disco solista della cantante dei Paramore arriva a tre anni da “After Laughter”, il CD che aveva rappresentato una svolta importante per il gruppo statunitense, decisamente più pop e new wave rispetto al passato. Hayley evolve ulteriormente il sound sperimentato in “After Laughter”, creando un lungo lavoro innovativo ma accessibile, che flirta col pop ma anche col post-rock.

Il CD è inoltre decisamente personale: la Williams ha infatti da poco divorziato dal partner con cui aveva condiviso gli ultimi dieci anni di vita, un momento quindi non facile per lei. Nelle liriche troviamo infatti spesso riferimenti a questo e alle conseguenze che ha avuto su di lei: in Leave It Alone canta “If you know how to love, best prepare to grieve”, mentre in Rose/Lotus/Violet/Iris, dove collaborano anche le boygenius (cioè Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridgers), “he loves me now, he loves me not” pare echeggiare il gioco che tutti da bambini abbiamo fatto.

Il tono del disco è insolitamente dimesso: mentre i Paramore ci avevano abituato a CD di rock alternativo che invitavano a ballare l’ascoltatore, Hayley Williams in “Petals For Armor” raramente si concede momenti leggeri. Sudden Desire alterna toni lievi a versi più intimisti, mentre Simmer e Leave It Alone rappresentano un’ottima doppietta iniziale ma non proprio accessibile, con quegli echi di Sigur Ros qua e là.

“Petals For Armor” era stato concepito inizialmente come un triplo EP, fatto ben rappresentato dalla struttura del lavoro: il primo terzo è riflessivo, il secondo accessibile e l’ultimo è un’affermazione della forza di Hayley Williams malgrado il tumulto passato nell’ultimo anno, tanto da concludersi con la bella frase “Won’t Give In To The Fear” in Crystal Clear. La promozione del CD è stata frammentaria proprio per questa confusione di fondo sulla struttura del lavoro, ma i risultati sono buoni.

“Petals For Armor” infatti contiene brani adatti ad ogni occasione: raccolti, ballabili, sperimentali e mainstream… Hayley Williams ha deciso di riversare molti dei suoi riferimenti musicali in questo LP, creando un aggregato magari non efficace in ogni sua parte ma certo non disprezzabile.

42) MIKE, “Weight Of The World”

(HIP HOP)

Il giovane ma già affermato rapper newyorkese MIKE, con “Weight Of The World”, prosegue la strada tracciata nel fortunato album precedente, “tears of joy” (2019). Dal canto nostro, ad A-Rock avevamo già messo gli occhi su di lui, inserendolo in un profilo della rubrica “Rising”, dedicata ai giovani talenti, e nella lista dei migliori CD dell’anno.

L’hip hop astratto e delicato di MIKE è infatti davvero riuscito nelle sue parti migliori (basti sentirsi No, No e Da Screets), evocando il miglior MF Doom ed Earl Sweatshirt, che in un certo senso ha ricambiato la stima del Nostro collaborando in Allstar. Il disco prosegue idealmente quanto fatto in “tears of joy”: MIKE è ancora devastato dalla morte prematura della madre, che viene continuamente evocata in “Weight Of The World”. Anche musicalmente non vi sono innovazioni particolari, anzi possiamo dire che il talentuoso rapper approfondisce la formula vincente del precedente LP, riducendone la frammentarietà (siamo a 16 brani per 35 minuti); solo due canzoni superano i tre minuti, Coat Of Many Colors e Weight Of The Word*.

I testi, come già si sarà capito, sono il pezzo forte del lavoro: in delicate descrive un’infanzia travagliata, “We used to freeze up in the winter, the summers, we rose” canta malinconicamente. In alert* affronta il tema della depressione: “Papa knows it’s doom I need to work through” è un verso chiarissimo. Tuttavia, la palma di lirica più devastante la vince “Walked her out the Earth, just me, a couple nurses”, contenuta in 222: un commiato asciutto ma davvero toccante dalla madre da poco defunta.

Il CD, come già accennato, non rinnova l’estetica di MIKE, nondimeno serve a rinforzare una discografia già interessante e a renderlo un volto riconoscibile, verrebbe quasi da dire irrinunciabile, per l’hip hop sperimentale.

41) Charli XCX, “how i’m feeling now”

(POP)

Il nuovo album della popstar inglese Charli XCX è un documento che, in futuro, sarà un rimando alla vita durante il lockdown. Mescolando i suoi soliti beats quasi industrial con melodie pop e voci robotiche, Charli ha creato un CD non perfetto, ma certo godibile, considerando anche le circostanze in cui è stato composto (in quarantena e in un periodo di tempo volutamente limitato).

Charlotte Aitchison (questo il vero nome dell’artista britannica), con “how i’m feeling now”, segue di un solo anno il riuscito “Charli” (2019), in cui grazie accanto a ospiti di spessore, da Sky Ferreira a Lizzo passando per Troye Sivan, era riuscita a dare un senso al “pop del futuro” di cui è stata spesso tacciata di essere un’anticipatrice. In “how i’m feeling now” capiamo subito che, accanto al livello puramente musicale, le liriche assumono un’importanza cruciale: accanto al tema dell’inquietudine emergono i temi dell’amore per il fidanzato e di come concepire la musica in questo periodo certo non facile.

Ne sono chiari esempi questi versi contenuti in anthems: “I’m so bored… Wake up late, eat some cereal, try my best to be physical, lose myself in a TV show, staring out to oblivion… all my friends are invisible”, oppure in detonate: “When I start to see fear it gets real bad”. Altrove, come già accennato, emergono temi più sereni, come in forever, dove Charli canta “I will always love you, I love you forever, I know in the future we won’t see each other.”

Musicalmente, il lavoro alterna pezzi più sperimentali (come pink diamond) ad altri più ballabili, quasi EDM (detonate). I risultati sono ragguardevoli, specialmente in enemy e la dolce 7 years, inoltre la brevità del CD (11 brani per 37 minuti complessivi) lo aiuta a mantenersi di buona qualità per tutta la sua durata.

Charli XCX si è anno dopo anno affermata come una delle popstar più aperte all’innovazione in un genere spesso accusato di essere fin troppo attento alla forma e poco alla sostanza. “how i’m feeling now”, oltre ad essere un’efficace testimonianza di come il Covid-19 ha impattato la psiche di tutti, è anche un buon LP. Cosa chiedere di più?

40) Kelly Lee Owens, “Inner Song”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista gallese è un gradito ritorno alla formula che l’ha resa apprezzata fin dal primo disco “Kelly Lee Owens” del 2017: un punto d’incontro felice fra techno e dream pop, che raggiunge dei picchi notevoli ad esempio in Melt!. Ma nulla è superfluo nel lavoro, che catapulta definitivamente Kelly Lee Owens nel novero delle artiste da tenere d’occhio.

Il disco si apre con la cover di Weird Fishes / Arpeggi dei Radiohead, qua intitolata semplicemente Arpeggi: va notato che il 2020 segna l’uscita di ben due cover della stessa canzone in dischi molto lodati, infatti anche Lianne La Havas ha inserito la sua versione del brano menzionato (Weird Fishes, manco a farlo apposta) nel suo lavoro di qualche mese fa. Arpeggi è un sobrio brano solo strumentale, capace però di raccogliere la magia dell’originale pur senza la voce a supportare gli strumenti.

Il CD poi si snoda fra brani più elettronici (come On e Night) e altri in cui invece il pop, a volte addirittura l’R&B, sono preponderanti (si sentano Re-Wild e L.I.N.E.). I risultati non sempre sono eccellenti, ma quando Kelly Lee Owens azzecca il beat i risultati sono trascinanti: Melt! è forse il miglior pezzo techno dell’anno, ottima anche Flow. Invece meno riuscita Jeanette. Segnaliamo infine la collaborazione col mitico John Cale (ex Velvet Underground) nella lunga ma non monotona Corner Of My Sky.

Se vogliamo trovare un punto d’incontro tra le liriche del disco è la questione ambientale: sia Melt! che Corner Of My Sky toccano l’importanza che il surriscaldamento globale ha sulla natura. Del resto, tuttavia, in un disco prevalentemente elettronico sono più importanti le atmosfere create dalla musica piuttosto che i messaggi espliciti trasmessi dall’artista.

In conclusione, “Inner Song” è un altro passo avanti nella già brillante carriera di Kelly Lee Owens, una delle cantanti più interessanti della sua generazione, capace di mescolare generi apparentemente lontani in maniera sempre intrigante. L’impressione è che il suo capolavoro non sia ancora arrivato, staremo a vedere il futuro cosa avrà in serbo per lei.

39) Dua Lipa, “Future Nostalgia”

(POP)

L’artista di origini kosovare e albanesi, ma nata in Inghilterra, mescola pop, funk e disco anni ’80, per creare con “Future Nostalgia” un impasto sonoro effettivamente nostalgico, ma mai banale.

Pregio non da poco è la concisione del lavoro: con 11 brani e 37 minuti Dua Lipa non ha tempo per i riempitivi, notizia benvenuta e a dire il vero sempre più rara nel mondo pop e rap, sempre alla ricerca dei record di streaming. L’intento dell’artista britannica è quindi chiaro: conseguire il successo non tramite mezzucci ma solo con il talento. Anche liricamente ciò è evidente: in Future Nostalgia sentiamo Dua Lipa cantare “No matter what you do, I’m gonna get it without ya. I know you ain’t used to a female alpha”.

In effetti pezzi accattivanti come la title track, Don’t Start Now e Physical aiutano a tenere lontano i pensieri in questi tempi non facili. Nessuno, come già accennato, è davvero superfluo: inferiore alla media solamente Pretty Please e l’orchestrale Boys Will Be Boys.

Dua Lipa è riuscita nella non facile missione di fondere l’estetica di Kylie Minogue, Madonna e Christine And The Queens creando qualcosa di retrò ma allo stesso tempo futuristico. Raramente titolo di un LP si è dimostrato più profetico.

38) Matt Berninger, “Serpentine Prison”

(ROCK)

Il cantante dei The National ha prodotto il secondo album al di fuori del suo gruppo principale dopo l’esperimento “El Vy” del 2015, che lo vedeva collaborare con Brent Knopf: un mezzo fiasco, che aveva fatto pensare che Berninger non si sentisse a suo agio nei panni di unico interprete e senza i fidati fratelli Dessner e Davendorf al suo fianco. “Serpentine Prison” ribalta la prospettiva: se il CD non innova radicalmente l’estetica a cui Matt ci ha abituato, dall’altro i risultati sono più che buoni e fanno pensare che la sua dimensione sia magari ridotta come palette sonora, ma non soffocante.

Va detto che il lavoro non è interamente appannaggio di Berninger: aiutato da ospiti di spessore come Andrew Bird, Gail Ann Dorsey (che aveva già collaborato nell’ultimo LP dei The National “I Am Easy To Find” del 2019) e il produttore Booker T. Jones, il Nostro ha composto dieci canzoni estremamente coese, prive di guizzi particolari ma senza dubbio gradevoli. Andiamo da brani molto simili ai The National (Loved So Little) a pezzi invece più ispirati agli U2 (Distant Axis) e infine altri molto raccolti, che fanno pensare al pop da camera (Silver Springs). In generale, quindi, l’estetica di Berninger è confacente a quel tono di voce affascinante ma a tratti ferito che tutti gli riconoscono, così come le liriche.

Abbiamo infatti ad esempio versi come “The way we talked last night… It felt like a different kind of fight” (Boiler Plate) e “I feel like an impersonation of you… Or am I doing another version of you doing me?” (la title track). Il paesaggio tratteggiato da Matt è quindi fosco, un pomeriggio di pioggia verrebbe da dire; certo non una novità per i fans dei The National. I pezzi interessanti non mancano: dalla progressione di All For Nothing a Distant Axis, passando per Serpenine Prison, il CD brilla spesso. Il solo brano sottotono è Loved So Little, ma non intacca i risultati complessivi del disco.

In conclusione, conosciamo tutti Berninger per essere un cantautore prolifico: basti pensare che fra 2017 e 2020 è stato coinvolto in ben tre CD, due a firma The National e uno solista. La qualità tuttavia non ha mai risentito di questo output abbondante, anzi “Sleep Well Beast” (2017) ha vinto il Grammy come miglior album di musica alternativa. “Serpentine Prison” non è un capolavoro, ma arricchisce il canzoniere di Matt Berninger di altre canzoni che non sfigurano al cospetto di capolavori come quelle contenute in “Trouble Will Find Me” (2013).

37) Caribou, “Suddenly”

(ELETTRONICA)

Il settimo CD a firma Caribou arriva dopo ben sei anni dal precedente “Our Love”: un intervallo di tempo così lungo non è tuttavia stato speso inutilmente da Dan Snaith, colui che si cela dietro il progetto Caribou. Daphni, infatti, altro alter ego del musicista canadese, aveva pubblicato “Joli Mai” nel 2017; un album che tuttavia non raggiungeva le vette dei migliori lavori a firma Caribou, come ad esempio “Swim” (2010) e lo stesso “Our Love” (2014).

“Suddenly” è l’album più stilisticamente vario di Snaith: pop, elettronica, rock e rap si trovano qua e là nel corso del CD, così come brevi parentesi jazz e psichedeliche. Ciò tuttavia non va a detrimento della qualità: il marchio Caribou ha sempre mantenuto alto il livello, è vero, ma “Suddenly” certamente ne tiene alto il nome.

Accanto a tutto ciò, forse per la prima volta in un disco di Caribou le liriche non sono semplici echi di voci lontane poste su basi house o psichedeliche: adesso la voce di Dan è spesso alta nel mix, così come quella dei numerosi ospiti presenti nei samples dei vari brani. Basti pensare a Home e Sunny’s Time, dove per la prima volta l’hip hop la fa da padrone. Potrà piacere o meno, ma denota una crescita e un coraggio nel produttore e cantautore Dan Snaith che non sono banali.

La lirica più commovente è cantata però da Dan stesso: “I’m broken, so tired of crying… Just hold me close to you”, in Cloud Song, è il simbolo di un uomo fragile, debilitato da esperienze drammatiche (il divorzio, la morte di persone care). Un’ammissione certamente non facile, per Dan, ma commovente.

Musicalmente, “Suddenly” è, come già accennato, un’aggiunta di spessore ad un catalogo ingombrante: non c’è forse un’altra Odessa o Can’t Do Without You, ma pezzi come You And I e Ravi (che pare un pezzo sanificato dei Prodigy) sono comunque notevoli. Invece troppo breve il pur affascinante intermezzo Filtered Grand Piano.

“Suddenly” non è un lavoro perfetto, ma rappresenta nonostante tutto un passo avanti importante per il musicista canadese. Dan Snaith non è mai suonato così libero eppure così fragile (in varie interviste ha detto di aver prodotto negli scorsi cinque anni ben 900 potenziali pezzi, fra campionamenti e melodie vere e proprie). Vedremo dove le prossime incarnazioni del progetto Caribou lo porteranno, ma sappiamo che resterà fedele a un motto: meglio pochi (LP) ma buoni.

36) Jay Electronica, “A Written Testimony” / “Act II: Patents Of Nobility”

(HIP HOP)

L’esordio dell’ormai maturo rapper statunitense (43 anni) ha rappresentato un fulmine a ciel sereno per tutti. Jay Electronica infatti era quasi una figura mitica nel mondo della musica: collaborazioni eccellenti (Chance The Rapper, Kendrick Lamar, Nas) e alcuni singoli di grido nella decade 2000-2009 (!) avevano creato un’attesa enorme per il suo primo CD.

Partiamo da “A Written Testimony”. Accanto a Jay troviamo altri ospiti davvero illustri, su tutti un JAY-Z in grande forma, senza dimenticare Travis Scott e James Blake, che rendono “A Written Testimony” imperdibile. I beat sono decisamente old school, rimandando ai dischi hip hop del secolo passato, ma mai fuori fuoco o fini a sé stessi. In 10 canzoni e 39 minuti, infatti, Jay Electronica copre molto territorio, mescolando al rap anche soul e jazz, per creare un prodotto coeso.

Va ricordato che JAY-Z dà una mano fondamentale all’omonimo Jay Electronica nel corso del CD, tanto da metterlo quasi in ombra in certi tratti: basti sentirsi The Blinding e Universal Soldier, per capire quanto ancora mister Carter abbia da dare alla musica. Come già accennato, tuttavia, nessun brano è scadente (solo Ezekiel’s Wheel è un po’ troppo lento); Jay Electronica anzi pare davvero in ottima condizione e molto affiatato con gli ospiti presenti nel disco.

Testualmente, “A Written Testimony” affronta temi da sempre cari alla musica hip hop: la condizione della gente di colore, la scalata al potere di persone esemplari (su tutti, guarda caso, proprio JAY-Z) e l’eredità degli schiavi afroamericani del passato. Accanto a tutto ciò emerge la forte fede musulmana di Jay Electronica, uno dei tratti fondanti della sua vita e della sua poetica.

“A Written Testimony” quindi, malgrado la sua brevità, non è un disco assimilabile al primo colpo. Ripetuti ascolti tuttavia trasmettono molto, soprattutto una cosa: l’età, anche in un mondo sempre affamato di nuove facce come quello musicale (in special modo l’hip hop), non è necessariamente un freno. Soprattutto se coinvolgi nello stesso progetto Jay Electronica e JAY-Z.

Il 2020 del misterioso rapper conosciuto come Jay Electronica non è tuttavia terminato qui: ha visto la luce infatti anche il suo “album perduto”, un CD che pareva sul punto di essere pubblicato addirittura nel 2012!

I motivi che hanno spinto Jay a ritardare così tanto la pubblicazione (peraltro dovuta, pare, a un leak emerso su Internet qualche giorno prima del passaggio sul servizio streaming Tidal) sono tuttora ignoti. Il CD in realtà, pur essendo ancora bisognoso di ritocchi in termini di lunghezza e produzione, è riuscito: immaginandone la pubblicazione nell’ormai lontano 2012, avremmo probabilmente strabuzzato gli occhi sentendo brani avventurosi come Shiny Suit Theory e i pezzi del “periodo francese”, Bonnie And Clyde (che campiona Serge Gainsbourg) e Dinner At Tiffany’s, con la figlia di quest’ultimo, Charlotte.

Il Nostro campiona anche Ronald Reagan in ben due brani: Real Magic e Road To Perdition, a testimonianza di una conoscenza molto ampia e di una curiosità senza limiti. Da migliorare invece, come già ricordato, il sequenziamento e la produzione di alcuni pezzi: i numerosi intermezzi iniziali rovinano il ritmo e la chiusura affidata a brani deboli come Rough Love e Run And Hide non convince.

In conclusione, se da un lato ci fa piacere finalmente ascoltare “Act II: Patents Of Nobility”, dall’altro ci resta quasi un amaro in bocca: la storia dell’hip hop sarebbe cambiata se otto anni fa fosse stato pubblicato questo disco? Nessuno può dirlo. Speriamo che Jay Electronica abbia trovato la serenità che gli è mancata quando la hype dei media era troppo pesante per lui e che possa riprendere una carriera che pareva lanciatissima e che, chissà, potrebbe darci ancora tante soddisfazioni.

35) Rina Sawayama, “SAWAYAMA”

(POP – ROCK)

Il debutto di Rina Sawayama era molto atteso: l’EP del 2017 “RINA” aveva attirato l’attenzione su questa giovane artista dalla voce sinuosa e ispirata al “future pop” di Charli XCX ma anche dagli anni ’00 del XX secolo, basti pensare ai rimandi a Britney Spears e Christina Aguilera. “SAWAYAMA” riparte da dove “RINA” era finito: canzoni ballabili, ritmi sincopati spesso intervallati da brani quasi metal, che richiamano Linkin Park e Limp Bizkit, ma anche gli Evanescence.

Il primo singolo di lancio del disco, STFU! (che sta per “shut the fuck up!”), ne era un chiaro indizio: fino al ritornello pare davvero di essere tornati ai primi anni 2000, con quel nu-metal che rimbomba nelle orecchie. Il ritornello invece è pop ben fatto, capace in tempi normali di trascinare a ballare un buon numero di persone. I rimandi al rock duro non sono certo finiti qua: abbiamo per esempio anche XS in cui riff di chitarra pesante si intervallano a ritmi più rilassati, così come in brevi tratti dell’iniziale Dynasty.

Il CD come tale non offre momenti di pausa, creando un’esperienza davvero interessante per l’ascoltatore. Certo, non brilla per coesione, ma non è comune avere un disco che passa in maniera spesso efficace dal pop da classifica al metal, spesso nella breve durata di una canzone. Sono infatti proprio le canzoni più convenzionali, ad esempio Love Me 4 Me e Bad Friend, a essere le meno riuscite del lotto, pur mantenendo una qualità sempre accettabile.

In conclusione, “SAWAYAMA” è un lavoro molto promettente da parte di un nuovo volto della musica pop più innovativa e, verrebbe da dire, sperimentale. Vedremo se la giovane cantante inglese manterrà in futuro le aspettative, di certo ad oggi pare che Rina Sawayama potrebbe essere uno dei simboli più brillanti del pop degli anni a venire.

34) HAIM, “Women In Music Pt. III”

(ROCK – POP)

Le sorelle Haim, rispettivamente Danielle (voce principale e chitarra), Alana (chitarra) ed Este (basso) hanno costruito con “Women In Music Pt. III” il loro miglior disco. Ripartendo dal loro tradizionale pop-rock sfrontato e ottimista, la band californiana ha introdotto elementi di folk ed elettronica che ne hanno ampliato la palette sonora, mettendo in mostra un desiderio di sperimentare benvenuto dopo il mezzo passo falso di “Something To Tell You” (2017).

Ripetuti ascolti, nel caso di “Women In Music Pt. III”, non mettono in evidenza le debolezze del lavoro, come spesso accadeva nel passato per le tre Haim; al contrario, la delicata bellezza di Summer Girl e l’irresistibilità di Los Angeles ne vengono esaltate. È vero, ancora la voglia di strafare costringe le sorelle a produrre brani deboli come la scontata I Don’t Wanna e l’inutile intermezzo Man From The Magazine, ma aiutate dai consigli sapienti di Rostam Batmanglij e Ariel Rechtshaid (quest’ultimo è anche partner di Danielle) le Nostre riescono ad evitare cadute di stile.

Anche testualmente le sorelle Haim compiono passi avanti rispetto al passato: se fino al secondo CD “Something To Tell You” i loro testi erano prevalentemente frivoli, perfettamente allineati ai ritmi estivi e sereni delle canzoni, in questo lavoro i toni sono a volte decisamente più raccolti, basti citare la già menzionata Summer Girl. Danielle, inoltre, ha dovuto supportare il fidanzato quando il cancro alla prostata lo ha colpito nel 2015; Este invece convive col diabete da tempo, mentre Alana ha visto morire recentemente un suo caro amico. Insomma, non sono stati anni facili per le HAIM; a questo aggiungiamoci il Coronavirus e il panorama è decisamente più tetro rispetto a qualche tempo fa. Basti questo verso tratto da I’ve Been Down: “But I ain’t dead yet”.

In generale, “Women In Music Pt. III” è il disco più compiuto finora nella carriera delle HAIM; la varietà stilistica non va a scapito della qualità del CD, che anzi mescola abilmente generi disparati e amplierà probabilmente il pubblico della band.

33) Laura Marling, “Song For Our Daughter”

(FOLK)

L’artista inglese si conferma una delle migliori cantautrici dei nostri tempi. Mescolando Joni Mitchell e Bob Dylan con una spruzzata di Leonard Cohen, Laura Marling riesce in “Song For Our Daughter” a mantenere fede alla nomea di “ragazza prodigio” con un CD folk coeso e suonato magnificamente, che rivaleggia con il lavoro dello scorso anno di Aldous Harding, “Designer”, come miglior disco di folk contemporaneo degli ultimi anni.

In realtà il titolo è ingannevole: Laura Marling, da poco entrata nei 30 anni, non ha una figlia, tuttavia sentiva il bisogno di dedicare queste melodie alle più giovani, inserendo nelle liriche riferimenti alla condizione femminile e speranze per gli anni a venire. La sentiamo cantare in Only The Strong “I won’t write a woman with a man on my mind… Hope that doesn’t sound too unkind”, ma anche “I love you goodbye, now let me live my life” in The End Of The Affair. I risultati, lo ripetiamo, sono ottimi: “Song For Our Daughter” mescola abilmente pezzi più rock (Held Down) con ballate solo piano e strumenti classici come il violino (Blow By Blow) in maniera egregia.

I pezzi migliori del lotto sono la vibrante Alexandra, che apre magnificamente il lavoro, e la title track; ma sono molto belle anche Held Down e la simpatica Strange Girl. Invece leggermente inferiore alla media Fortune, un po’ prevedibile. Ma nessun brano è fuori posto, tanto da far passare i 36 minuti del CD in maniera leggera e serena.

“Song For Our Daughter” non reinventa il genere, come magari invece aveva fatto il CD dei Fleet Foxes “Crack Up” (2017), ma è piuttosto il culmine di una produzione sempre più raffinata. Laura Marling aveva impressionato il mondo già 18enne con l’esordio “Alas, I Cannot Swim” (2008) e aveva poi continuato a produrre LP di qualità e giustamente premiati anche dalla critica. Mentre il precedente “Semper Femina” (2017) era più combattivo, sia come sonorità che come liriche, “Song For Our Daughter” è una piccola perla di semplicità e grazia. Qualità davvero fondamentali in un CD pubblicato in periodo di quarantena forzata.

32) Dogleg, “Melee”

(PUNK)

Cosa aspettarsi da un gruppo punk il cui esordio si intitola “zuffa”? Beh, nulla di più di alcune canzoni energiche, chitarre al massimo e testi potenti. I Dogleg riescono a raggiungere tutti questi obiettivi con apparente semplicità, iscrivendosi di diritto in una scena punk-rock mondiale che ultimamente ha visto nascere numerose nuove voci (Shame, IDLES e PUP solo per citare le più note).

I 10 brani del CD sono in effetti davvero brutali in molte parti: la doppietta iniziale formata da Kawasaki Backflip e Bueno resterà impressa per molto tempo nella mente e nelle orecchie degli ascoltatori, così come Hotlines. Solo in certi tratti emergono accenti diversi, più spostati sul ramo emo del genere, si ascoltino ad esempio Headfirst e Fox.

In realtà l’ispirazione dei Dogleg va ricercata negli Iceage: l’esordio “A New Brigade” (2011) era in effetti un ottimo album quasi hardcore in certi tratti, così come il durissimo “You’re Nothing” (2013). Vedremo il percorso futuro dei Dogleg come sarà, certamente il talento pare esserci. Anche testualmente il lavoro non è banale: emergono temi che, anche in questo caso, ricordano le band emo del passato (American Football su tutte), affrontando la depressione all’inizio del disco come alla fine, tanto che il CD inizia e finisce con Alex Stoitsiadis (il frontman della band) malinconicamente seduto a terra supino.

In generale, dunque, “Melee” non reinventa la storia del rock; tuttavia rappresenta una sferzata d’aria fresca necessaria in tempi come questi.

31) Moses Sumney, “græ”

(POP – ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo album del musicista statunitense Moses Sumney ha avuto un rilascio decisamente strano. “græ” (da pronunciarsi “grey”) è infatti un doppio album, di cui Sumney ha dapprima rilasciato la prima metà (il 21 febbraio) e solo il 15 maggio la seconda. Questa decisione di marketing non è certamente usuale, però ha avuto il merito di tenere i riflettori puntati sul giovane talento per più tempo.

“græ” segue di tre anni “Aromanticism”, che era entrato anche nella rubrica “Rising” di A-Rock per la sua capacità di essere minimalista ma allo stesso tempo capace di ispirarsi ai grandi del pop e del rock, da Prince in giù. Il nuovo doppio album a firma Moses Sumney non si limita a rivangare questi percorsi, anzi è decisamente più massimalista come ambizione e sonorità. Mescolando parti recitate (come insula e also also also and and and) con composizioni decisamente intricate e non riassumibili in un solo genere (si senta In Bloom), Moses si candida a volto decisivo del pop più sperimentale della nuova decade, sulla scia di Bjork.

La prima metà, come già ricordato pubblicata a febbraio, aveva fatto intravedere il potenziale capolavoro: pezzi come la conclusiva Polly e Virile lasciano di stucco per la loro bellezza, mentre altri come Cut Me richiedono più ascolti prima di entrare sottopelle e non lasciare più l’ascoltatore. Il tutto viene aiutato dalla voce di Moses Sumney, ancora più duttile che nell’esordio. Come ciliegina sulla torta citiamo i numerosi collaboratori: da Daniel Lopatin a Thundercat, passando per James Blake, il Nostro ha raccolto il meglio della scena pop/elettronica.

La seconda parte del lavoro è più autobiografica della prima. Sia Two Dogs che Me In 20 Years narrano episodi del passato di Sumney per proiettarlo poi nel futuro, mentre and so I come to isolation riprende insula per le tematiche di isolamento e solitudine che affronta, laddove la prima metà affrontava prevalentemente i temi della mascolinità tossica (Virile) e dell’identità (also also also and and and). I brani che spiccano sono le delicate Lucky Me e Keeps Me Alive, senza dimenticare Bless Me, ma nessuno è fuori posto.

In conclusione, malgrado la struttura a volte schizofrenica e la smodata ambizione di “græ” (che consta complessivamente di 20 brani per 65 minuti), che a volte può risultare indigesta, il CD è un concentrato di tutte le doti del promettente cantautore americano: inventiva, voce flessibile come poche e ritmiche imprevedibili. Se in futuro Moses riuscirà a smussare gli angoli più acuminati e inutilmente sperimentali della sua estetica, avremo un capolavoro fatto e finito.

30) Kaytranada, “BUBBA”

(ELETTRONICA – R&B)

Il secondo album del canadese Kaytranada è in realtà arrivato a metà dicembre 2019, ma sarebbe stato un peccato sorvolare su un disco così riuscito. Mescolando abilmente R&B e dance, infatti, Kaytranada costruisce un album davvero interessante, che si ispira a Jai Paul e Anderson .Paak (per non scomodare Prince) ma riesce a non suonare troppo plagiato.

La complessa struttura del CD (17 canzoni per 51 minuti di durata) potrebbe far pensare ad un oggetto di difficile lettura, almeno a primo acchito. In realtà il musicista canadese, aiutato anche da un parco ospiti di tutto rispetto (Pharrell Williams, Kali Uchis e SiR fra gli altri), riesce a creare un prodotto coeso e mai scontato. Spiccano in particolare 10% e Midsection, ma nessun brano è davvero fuori posto. L’unico un po’ inferiore alla media è Need It, ma non intacca i risultati complessivi di “BUBBA”.

Qualcuno aveva gridato al miracolo con l’esordio “99.9%” (2016), per il suo mescolare senza difficoltà funk, R&B ed elettronica; questo “BUBBA” è un perfezionamento di una formula vincente, Kaytranada suona sicuro di sé e pronto a spiccare definitivamente il volo verso l’Olimpo del mondo pop.

29) Nicolas Jaar, “Cenizas” / “Telas”

(ELETTRONICA)

“Cenizas”, il terzo CD vero e proprio a firma Nicolas Jaar, arriva a nemmeno due mesi da “2017-2019”, il disco dell’altro progetto tuttora attivo del produttore di origine cilena, A.A.L. (Against All Logic). Mentre quest’ultimo è focalizzato sulla house e dance music, Nicolas Jaar è maestro di sonorità più delicate, minimali tanto da essere considerato anche esponente della musica ambient.

La quantità in questo caso non è nemica della qualità: “Cenizas” è infatti un lavoro decisamente sperimentale, tanto che possiamo trovarci elementi elettronici ma anche jazz e ambient. La coesione è quindi una mancanza evidente nel corso delle 13 canzoni che compongono il CD, ma viene compensata da una varietà stilistica e timbrica notevole, sempre però nel segno di una malinconia esistenziale più forte che mai in un compositore peraltro mai particolarmente ottimista.

“Cenizas” (da tradursi in “ceneri”) è quindi un LP molto intimo, non facile ma non per questo da buttare. Anzi, ripetuti ascolti premiano l’ascoltatore, catapultato in un mondo parallelo magari inquietante ma allo stesso tempo affascinante e raffinato, come tipico ormai dello stile Jaar. Spiccano particolarmente Gocce e Garden, mentre Menysid è forse troppo astratta, quasi solo rumore bianco.

A tutto questo si aggiungono delle liriche, quando presenti, sempre inquisitorie e mai banali: in Faith Made Of Silk Nicolas canta “A peak is just the way towards a descent, you have nowhere to look. Look around not ahead”. Altrove troviamo riferimenti al concetto di peccato (Sunder) così come titoli molto evocativi della voglia del Nostro, semplicemente, di scomparire (Vanish, Mud).

“Cenizas” non è un CD per tutte le stagioni, ma pare particolarmente adatto a quella presente, fatta di inquietudine, paura del contagio e pulsioni ambientaliste che cercano di salvare il pianeta dall’Uomo stesso. È probabilmente il lavoro più sperimentale di Nicolas Jaar, ma forse anche il più profondo, segno di un produttore che non ha terminato la voglia di addentrarsi in nuovi territori e oltrepassare i confini di come che un disco di musica elettronica dovrebbe suonare.

“Telas” dal canto suo si compone di quattro lunghe tracce, molto complesse e articolate: il CD infatti arriva quasi a 60 minuti di durata! Sommati ai 53 minuti di “Cenizas”, abbiamo un trattato di due ore di elettronica contemporanea, musica da camera che però sa comunicare sensazioni forti, purtroppo intonata al clima da lockdown che ancora pervade molta parte del mondo. Telahora comincia quasi come una canzone di Tom Waits, con ottoni in primo piano e toni dissonanti, per poi evolvere in eterea musica d’ambiente intervallata da momenti più percussivi. Telencima invece ricorda da vicino le atmosfere dell’ambient di Brian Eno, con sonorità più dolci rispetto a Telahora. Telahumo, invece, è una sorta di combinazione fra le due precedenti: serena ma allo stesso tempo imprevedibile. Infine Telallás, la canzone più “breve” del lotto (“soli” 13 minuti), è una conclusione tanto misteriosa quanto giusta per “Telas”, un lavoro che rivela dettagli preziosi ad ogni ascolto.

Le quattro composizioni possono apparire disgiunte e poco coerenti l’una con l’altra, in realtà raccontano di un musicista in continua evoluzione, un maestro dell’elettronica capace di passare da un sottogenere all’altro nell’arco di pochi mesi e produrre sempre LP accattivanti. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, l’ascolto di “Telas” conferma che Nicolas Jaar è il migliore della sua generazione per quanto riguarda la musica elettronica.

28) Jessie Ware, “What’s Your Pleasure?”

(POP)

Il ritorno della cantautrice inglese è un romantico rimando agli anni ’70-’80 del secolo scorso, in cui la dance di Donna Summer e il funk di Prince trionfavano sulla pista da ballo e in classifica. “What’s Your Pleasure?” è un disco davvero interessante, coeso e mai ridondante, in cui Jessie mette in mostra il suo talento e contribuisce a riportare la disco al centro dell’attenzione, sulla scia del clamoroso successo ottenuto da Dua Lipa con “Future Nostalgia”. Col prezioso supporto alla produzione di James Ford (già collaboratore di Arctic Monkeys e Foals fra gli altri), i risultati sono davvero imperdibili.

Fin dall’inizio capiamo che “What’s Your Pleasure?” è un disco che ritorna a “Devotion” (2012), l’esordio che aveva fatto conoscere Jessie Ware al mondo: atmosfere sexy e ballabili, retrò ma mai scopiazzate dai giganti del genere. Spotlight è il brano migliore del disco e potrebbe andare avanti ben oltre i cinque minuti della sua durata. Ottima poi la title track; da menzionare poi Ooh La La, che riporta alla memoria il funk di Sly & The Family Stone e il Prince degli esordi.

Se dobbiamo trovare una pecca al CD è a volte la similitudine fra una canzone e l’altra, ad esempio Step Into My Life è una ripetizione delle atmosfere ballabili già assaporate per la durata del lavoro, ma insomma i risultati complessivi sono davvero gradevoli.

Jessie Ware aveva esplorato il proprio lato più pop e intimista nei suoi ultimi LP, soprattutto “Glasshouse” del 2017; questo album da un lato è un ritorno al mondo ottimista e discotecaro degli anni ‘70-‘80, senza dubbio, ma la britannica riesce a non suonare scontata e il CD ha reso l’estate migliore (o almeno più sopportabile) per tutti noi.

27) Grimes, “Miss Anthropocene”

(POP – ELETTRONICA)

Il quinto disco della cantautrice canadese Claire Boucher, in arte Grimes, la trova ad un passaggio fondamentale non solo della propria carriera, ma dell’intera sua vita: fidanzata di Elon Musk, uno dei più noti miliardari del mondo, nonché incinta di otto mesi dell’inventore della Tesla, in che condizione avremmo trovato Grimes in “Miss Anthropocene”?

Il CD arriva a cinque anni dal pluripremiato “Art Angels”, uno dei dischi pop più eccentrici degli ultimi anni, caratterizzato da vocine da bamboline, collaborazioni eccellenti (Janelle Monáe su tutti) e sterzate su generi diversi rispetto al pop etereo e sognante che caratterizzava “Visions” (2012), il primo vero LP di successo a firma Grimes. “Miss Anthropocene” da questo punto di vista continua la sperimentazione, con riferimenti a nu metal, folk ed elettronica da rave che parevano lontane dalla Grimes che avevamo lasciato nel 2015.

Tematicamente, “Miss Anthropocene” già dal titolo ci fa capire il messaggio fondamentale che l’artista canadese vuole trasmettere: il global warming è pericoloso, ci vorrebbe una dea che cadesse sulla Terra per sanare le dispute inutili fra noi umani e salvare il pianeta. We Appreciate Power, primo singolo poi non inserito nella versione ufficiale del disco (ma presente in quella deluxe), presentava addirittura una Intelligenza Artificiale che avrebbe soggiogato l’Uomo per renderlo finalmente in grado di capire le conseguenze delle proprie azioni sul pianeta.

Una visione quindi controversa, che non sarà apprezzata da molti; tuttavia Grimes, ormai personalità pop ben in vista e rispettata da pubblico e critica, ha sempre fatto le cose a modo suo, senza curarsi delle reazioni degli altri. Basti ripensare a Oblivion, in cui cantava senza paura dello stupro subito in giovanissima età, evento che l’ha segnata indelebilmente.

Musicalmente, “Miss Anthropocene” è un trionfo: pur essendo una logica continuazione di “Art Angels”, come già detto, Grimes non lesina con gli esperimenti, cercando di stupire in ogni momento l’ascoltatore durante i circa 40 minuti di durata del disco. Brani come l’iniziale So Heavy I Fell Through The Earth e Darkseid, quasi hip hop, sono highlights immediati; ma anche il singolo Violence e 4ÆM sono notevoli. Leggermente inferiore My Name Is Dark, troppo dura come atmosfere per mescolarsi alla vocetta da cartoon di Claire Boucher.

In generale, tuttavia, Grimes si conferma nome fondamentale della scena pop alternativa del XXI secolo. “Miss Anthropocene” è un’aggiunta di valore a un catalogo ormai di spessore.

26) The Soft Pink Truth, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?”

(ELETTRONICA)

Il nuovo CD del progetto The Soft Pink Truth, capeggiato da una metà dei Matmos (Drew Daniel), si staglia come un album di musica elettronica davvero particolare. Diviso in due chiare metà, con le canzoni che prendono i propri titoli dalla frase che dà il nome al lavoro, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” è un LP raccolto ma allo stesso tempo accessibile.

The Soft Pink Truth rappresenta una valvola di sfogo per Daniel: mentre infatti nei Matmos prevalgono da sempre istinti avanguardisti, nei tempi morti il Nostro si dedica a remixare successi black metal (“Why Do The Heathen Rage?” del 2014) o a raccontare il lato gay del punk (“Do You Want New Wave Or Do You Want The Soft Pink Truth?” del 2004). Questo CD invece vuole essere un mezzo per protestare, seppur velatamente, contro la condizione politica attuale del mondo, sempre più capeggiato da leader inconsistenti e di estrema destra secondo Daniel.

La preghiera che dà il titolo al CD è un passo delle lettere di San Paolo ai Romani e dà forma ad un lavoro ambizioso: due suite di musica elettronica, impreziosite da sassofoni, pianoforte, atmosfere ambient e angeliche voci femminili. Drew Daniel vuole infatti trasmettere serenità, pur in un periodo non felice per il mondo, e ci riesce grazie a canzoni lunghe (spesso oltre i 5 minuti) ma mai monotone, sulla falsariga di altri artisti come Four Tet e DJ Koze. Ne sono esempi Grace e May Increase.

Nulla però è fuori posto, va detto, tanto che “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” si afferma come uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno.

La prima parte della lista si conclude qui. Chi saranno i 25 artisti capaci di entrare nella parte alta della classifica? Appuntamento fra pochi giorni per scoprirlo. Stay tuned!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

Recap: maggio 2020

Maggio è stato un mese piuttosto intenso per il mondo musicale. Abbiamo infatti assistito ai ritorni di Little Simz, Moses Sumney, Perfume Genius e The Soft Pink Truth. In più abbiamo l’esordio da solista della cantante dei Paramore Hayley Williams e il nuovo brevissimo EP a firma serpentwithfeet. Infine abbiamo recensito i lavori, usciti a sorpresa, delle stelline del pop Charli XCX e Carly Rae Jepsen. Buona lettura!

Perfume Genius, “Set My Heart On Fire Immediately”

perfume

Il quinto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un altro passo in avanti in una crescita che pare inarrestabile. Partito da un pop da camera molto timido, quasi solo pianoforte e voce, Perfume Genius si è aperto col tempo a generi come glam rock e art pop, raggiungendo vette altissime in “No Shape” (2017) e in questo “Set My Heart To Fire Immediately”, ad oggi il suo miglior CD.

La copertina farebbe pensare ad un disco minimale, in cui Hadreas si mette a nudo; è però anche vero che nei precedenti lavori non erano mancate introspezione e confessioni dolorose, basti pensare a “Too Bright” (2014). In realtà il lavoro è molto profondo e richiede diversi ascolti per essere apprezzato pienamente in tutta la sua bellezza. Alternando toni dimessi con pezzi decisamente intensi, infatti, Perfume Genius ha prodotto un lavoro complesso ma non per questo disprezzabile.

Infatti, la delicatezza di Just A Touch abbinata al rock quasi shoegaze di Describe fanno di “Set My Heart To Fire Immediately” un LP variegato come mai nella discografia di Hadreas, con risultati spesso sconvolgenti. I testi come sempre toccanti aggiungono ulteriore spessore al lavoro: On The Floor riguarda un sogno erotico che pare tanto reale da far dire al Nostro “I’m trying, but still I close my eyes… The dreaming bringing his face to mind”. In Describe parla della malattia di Crohn che lo perseguita ormai da tempo, mentre in Your Body Changes Everything emerge la sua fragilità: “Give me your weight, I’m solid. Hold me up, I’m falling down”. Infine, la produzione affidata a Blake Mills, che ha lavorato in passato anche con Laura Marling e Fiona Apple, corona un disco sontuoso.

In conclusione, Mike Hadreas pare aver raggiunto la piena maturità artistica. È un piacere sentirlo destreggiarsi così agilmente fra generi tanto diversi e con risultati quasi sempre ottimi. Perfume Genius è un progetto entrato a tutti gli effetti nell’Olimpo del pop.

Voto finale: 8,5.

Moses Sumney, “græ”

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Il nuovo album del musicista statunitense Moses Sumney ha avuto un rilascio decisamente strano. “græ (da pronunciarsi “grey”) è infatti un doppio album, di cui Sumney ha dapprima rilasciato la prima metà (il 21 febbraio) e solo il 15 maggio la seconda. Questa decisione di marketing non è certamente usuale, però ha avuto il merito di tenere i riflettori puntati sul giovane talento per più tempo.

“græ” segue di tre anni “Aromanticism”, che era entrato anche nella rubrica “Rising” di A-Rock per la sua capacità di essere minimalista ma allo stesso tempo capace di ispirarsi ai grandi del pop e del rock, da Prince in giù. Il nuovo doppio album a firma Moses Sumney non si limita a rivangare questi percorsi, anzi è decisamente più massimalista come ambizione e sonorità. Mescolando parti recitate (come insula e also also also and and and) con composizioni decisamente intricate e non riassumibili in un solo genere (si senta In Bloom), Moses si candida a volto decisivo del pop più sperimentale della nuova decade, sulla scia di Bjork.

La prima metà, come già ricordato pubblicata a febbraio, aveva fatto intravedere il potenziale capolavoro: pezzi come la conclusiva Polly e Virile lasciano di stucco per la loro bellezza, mentre altri come Cut Me richiedono più ascolti prima di entrare sottopelle e non lasciare più l’ascoltatore. Il tutto viene aiutato dalla voce di Moses Sumney, ancora più duttile che nell’esordio. Come ciliegina sulla torta citiamo i numerosi collaboratori: da Daniel Lopatin a Thundercat, passando per James Blake, il Nostro ha raccolto il meglio della scena pop/elettronica.

La seconda parte del lavoro è più autobiografica della prima. Sia Two Dogs che Me In 20 Years narrano episodi del passato di Sumney per proiettarlo poi nel futuro, mentre and so I come to isolation riprende insula per le tematiche di isolamento e solitudine che affronta, laddove la prima metà affrontava prevalentemente i temi della mascolinità tossica (Virile) e dell’identità (also also also and and and). I brani che spiccano sono le delicate Lucky Me e Keeps Me Alive, senza dimenticare Bless Me, ma nessuno è fuori posto.

In conclusione, malgrado la struttura a volte schizofrenica e la smodata ambizione di “græ” (che consta complessivamente di 20 brani per 65 minuti), che a volte può risultare indigesta, il CD è un concentrato di tutte le doti del promettente cantautore americano: inventiva, voce flessibile come poche e ritmiche imprevedibili. Se in futuro Moses riuscirà a smussare gli angoli più acuminati e inutilmente sperimentali della sua estetica, avremo un capolavoro fatto e finito.

Voto finale: 8.

Charli XCX, “how I’m feeling now”

charli

Il nuovo album della popstar inglese Charli XCX è un documento che, in futuro, sarà un rimando alla vita durante il lockdown. Mescolando i suoi soliti beats quasi industrial con melodie pop e voci robotiche, Charli ha creato un CD non perfetto, ma certo godibile, considerando anche le circostanze in cui è stato composto (in quarantena e in un periodo di tempo volutamente limitato).

Charlotte Aitchison (questo il vero nome dell’artista britannica), con “how i’m feeling now”, segue di un solo anno il riuscito “Charli” (2019), in cui grazie accanto a ospiti di spessore, da Sky Ferreira a Lizzo passando per Troye Sivan, era riuscita a dare un senso al “pop del futuro” di cui è stata spesso tacciata di essere un’anticipatrice. In “how i’m feeling now” capiamo subito che, accanto al livello puramente musicale, le liriche assumono un’importanza cruciale: accanto al tema dell’inquietudine emergono i temi dell’amore per il fidanzato e di come concepire la musica in questo periodo certo non facile.

Ne sono chiari esempi questi versi contenuti in anthems: “I’m so bored… Wake up late, eat some cereal, try my best to be physical, lose myself in a TV show, staring out to oblivion… all my friends are invisible”, oppure in detonate: “When I start to see fear it gets real bad”. Altrove, come già accennato, emergono temi più sereni, come in forever, dove Charli canta “I will always love you, I love you forever, I know in the future we won’t see each other.”

Musicalmente, il lavoro alterna pezzi più sperimentali (come pink diamond) ad altri più ballabili, quasi EDM (detonate). I risultati sono ragguardevoli, specialmente in enemy e la dolce 7 years, inoltre la brevità del CD (11 brani per 37 minuti complessivi) lo aiuta a mantenersi di buona qualità per tutta la sua durata.

Charli XCX si è anno dopo anno affermata come una delle popstar più aperte all’innovazione in un genere spesso accusato di essere fin troppo attento alla forma e poco alla sostanza. “how i’m feeling now”, oltre ad essere un’efficace testimonianza di come il Covid-19 ha impattato la psiche di tutti, è anche un buon LP. Cosa chiedere di più?

Voto finale: 8.

The Soft Pink Truth, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?”

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Il nuovo CD del progetto The Soft Pink Truth, capeggiato da una metà dei Matmos (Drew Daniel), si staglia come un album di musica elettronica davvero particolare. Diviso in due chiare metà, con le canzoni che prendono i propri titoli dalla frase che dà il nome al lavoro, “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” è un LP raccolto ma allo stesso tempo accessibile.

The Soft Pink Truth rappresenta una valvola di sfogo per Daniel: mentre infatti nei Matmos prevalgono da sempre istinti avanguardisti, nei tempi morti il Nostro si dedica a remixare successi black metal (“Why Do The Heathen Rage?” del 2014) o a raccontare il lato gay del punk (“Do You Want New Wave Or Do You Want The Soft Pink Truth?” del 2004). Questo CD invece vuole essere un mezzo per protestare, seppur velatamente, contro la condizione politica attuale del mondo, sempre più capeggiato da leader inconsistenti e di estrema destra secondo Daniel.

La preghiera che dà il titolo al CD è un passo delle lettere di San Paolo ai Romani e dà forma ad un lavoro ambizioso: due suite di musica elettronica, impreziosite da sassofoni, pianoforte, atmosfere ambient e angeliche voci femminili. Drew Daniel vuole infatti trasmettere serenità, pur in un periodo non felice per il mondo, e ci riesce grazie a canzoni lunghe (spesso oltre i 5 minuti) ma mai monotone, sulla falsariga di altri artisti come Four Tet e DJ Koze. Ne sono esempi Grace e May Increase.

Nulla però è fuori posto, va detto, tanto che “Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?” si afferma come uno dei migliori LP di musica elettronica dell’anno.

Voto finale: 8.

Hayley Williams, “Petals For Armor”

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Il primo disco solista della cantante dei Paramore arriva a tre anni da “After Laughter”, il CD che aveva rappresentato una svolta importante per il gruppo statunitense, decisamente più pop e new wave rispetto al passato. Hayley evolve ulteriormente il sound sperimentato in “After Laughter”, creando un lungo lavoro innovativo ma accessibile, che flirta col pop ma anche col post-rock.

Il CD è inoltre decisamente personale: la Williams ha infatti da poco divorziato dal partner con cui aveva condiviso gli ultimi dieci anni di vita, un momento quindi non facile per lei. Nelle liriche troviamo infatti spesso riferimenti a questo e alle conseguenze che ha avuto su di lei: in Leave It Alone canta “If you know how to love, best prepare to grieve”, mentre in Rose/Lotus/Violet/Iris, dove collaborano anche le boygenius (cioè Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridges), “he loves me now, he loves me not” pare echeggiare il gioco che tutti da bambini abbiamo fatto.

Il tono del disco è insolitamente dimesso: mentre i Paramore ci avevano abituato a CD di rock alternativo che invitavano a ballare l’ascoltatore, Hayley Williams in “Petals For Armor” raramente si concede momenti leggeri. Sudden Desire alterna toni leggeri a versi più intimisti, mentre Simmer e Leave It Alone rappresentano un’ottima doppietta iniziale ma non proprio accessibile, con quegli echi di Sigur Ros qua e là.

“Petals For Armor” era stato concepito inizialmente come un triplo EP, fatto ben rappresentato dalla struttura del lavoro: il primo terzo è riflessivo, il secondo accessibile e l’ultimo è un’affermazione della forza di Hayley Williams malgrado il tumulto passato nell’ultimo anno, tanto da concludersi con la bella frase “Won’t Give In To The Fear” in Crystal Clear. La promozione del CD è stata frammentaria proprio per questa confusione di fondo sulla struttura del lavoro, ma i risultati sono buoni.

“Petals For Armor” infatti contiene brani adatti ad ogni occasione: raccolti, ballabili, sperimentali e mainstream… Hayley Williams ha deciso di riversare molti dei suoi riferimenti musicali in questo LP, creando un aggregato magari non efficace in ogni sua parte ma certo non disprezzabile.

Voto finale: 7,5.

serpentwithfeet, “Apparition”

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Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, pare avere abbandonato il look “estremo” di qualche tempo fa. Lontani sono i piercing, la barba multicolor e l’assenza di capelli: adesso Wise si presenta al naturale, senza finzioni o maschere.

Anche musicalmente il brevissimo EP “Apparition” si distacca dal precedente CD “soil” (2018): i tre brani per complessivi 8 minuti sono puro pop, intervallato da momenti più R&B che quasi ricordano il Prince anni ‘80 o il primo Michael Jackson.

Specialmente da elogiare è Psychic, che chiude magnificamente il lavoro. Anche le altre due tracce, del resto, sono buone: A Comma si apre su un dolce pianoforte per poi essere rinforzata dalla bella voce di serpentwithfeet, mentre This Hill è una bella ballata.

In conclusione, “Apparition” è un regalo ai fans in tempi non facili, un bel gesto da parte di Josiah Wise, che con questo EP si candida una volta di più a scrivere pagine importanti dell’R&B degli anni ‘20 del XXI secolo.

Voto finale: 7,5.

Carly Rae Jepsen, “Dedicated Side B”

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L’artista canadese Carly Rae Jepsen, diventata enormemente famosa qualche anno fa con la hit Call Me Maybe, ha da quel momento cercato di essere rispettata anche dalla critica: attraverso CD efficaci come “E•MO•TION” (2015) e “Dedicated” (2019) Carly si è ritagliata una nicchia rilevante per i fans del pop non convenzionale, raccogliendo anche recensioni lusinghiere da pubblicazioni molto lontane fra loro come NME e Pitchfork.

Già con “E•MO•TION: Side B” (2016) la Jepsen aveva proposto una raccolta di b-sides molto intriganti, operazione ripetuta con “Dedicated Side B”. Le 12 tracce contenute nel disco non paiono per nulla scarti della lavorazione di “Dedicated”, tanto che paradossalmente il CD è per certi versi addirittura più riuscito del precedente LP.

Pezzi efficaci come l’introduttiva This Love Isn’t Crazy e Let’s Sort The Whole Thing Out sono fra i migliori mai scritti dalla cantautrice canadese, ma in realtà nessuno è fuori posto (addirittura con Summer Love si evocano i Tame Impala). Carly Rae Jepsen si conferma perciò artista davvero talentuosa, capace di sfornare hit su hit restando però integra e sorprendendo il proprio pubblico in ogni occasione.

“Dedicated Side B” si staglia pertanto come uno dei migliori lavori pop dell’anno, tramite un minutaggio perfetto e la capacità di consolarci in tempi di Covid-19 con melodie accattivanti ma mai scontate.

Voto finale: 7,5.

Little Simz, “Drop 6”

drop 6

La giovane rapper Little Simz continua la striscia vincente iniziata l’anno scorso con il bellissimo “GREY Area” con il conciso EP “Drop 6”, che come da titolo continua la serie “Drop” inaugurata nel 2014 con “Age 101: Drop 1”.

Il risultato non è trascendentale, come prevedibile, ma rappresenta la perfetta immagine di un’artista che, al picco delle proprie capacità, non si capacita di doversi fermare a causa del Coronavirus, reagendo come meglio sa: scrivendo canzoni. La frustrazione della rapper britannica è evidente in you should call mum: “Guess life forced me to calm down, get my mind right… Bored out of my mind. How many naps can I take? How many songs can I write?”. In might bang, might not invece il tono è decisamente più sfrontato ed ironico: “You ain’t seen no one like me since Lauryn Hill back in the ’90s”, mentre nella conclusiva where’s my lighter dichiara perentoria “I’m focusin’ on my next masterpiece”.

Frasi forti, ma pronunciate da chi ha già dimostrato di possedere un talento fuori dal comune. Va detto che questa attenzione ai testi è dovuta anche a basi decisamente più raccolte del solito, non espansive come in “GREY Area”. I beat sono infatti scheletrici, sia nei brani più mossi come might bang, might not che in quelli più tranquilli (where’s my lighter).

Little Simz si conferma un nome da tenere d’occhio nella scena hip hop britannica. “Drop 6” è un EP tanto breve quanto gradevole, capace di intrattenere i suoi fans in tempi certo non facili e bisognosi di svago.

Voto finale: 7.

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

I 50 migliori album del 2017 (25-1)

Già nella prima metà della lista dei 50 migliori CD del 2017 di A-Rock avevamo nomi altisonanti: Liam Gallagher, Vince Staples e Queens Of The Stone Age, per esempio. Chi conterrà questa seconda metà? E soprattutto: a chi andrà la palma di migliori album dell’anno? Buona lettura!

25) Laurel Halo, “Dust”

(ELETTRONICA)

Al terzo CD, possiamo dire che Laurel Halo ha mantenuto quello che le sue prime uscite promettevano. “Dust” è un grande album di musica elettronica, che mescola ambient e melodie più sperimentali, à la Aphex Twin. Insomma, in un anno non facile per questo genere (lontani i tempi di Jamie xx), la Halo si conferma grande interprete, malgrado la giovane età.

La prima traccia, la funkeggiante Sun To Solar, inizia un percorso molto affascinante attraverso musica ambient, sperimentalismo e ritmi più danzerecci, un intreccio che fa di “Dust” un disco imperdibile per gli amanti dell’elettronica. Jelly introduce ritmi quasi tribali, mentre Moontalk sembra quasi Prince. Convincono meno Koinos e le troppo brevi Arschkrieker e Nicht Ohne Risiko, mentre i veri highlights dell’album sono la già citata Moontalk e la intricata Syzygy. Non male anche la più raccolta Do U Ever Happen.

I testi sono, come spesso accade nel mondo della musica elettronica, molto criptici, spesso incomprensibili data la maniera in cui la voce viene trattata e manipolata. Va detto, a onor del vero, che anche nelle precedenti uscite la Halo aveva fatto intravedere questa tendenza, dando più importanza alle atmosfere create dalla musica; e i risultati le danno ragione.

In generale, dunque, non stiamo parlando di un capolavoro o di un LP capace di rivoluzionare la musica elettronica, nondimeno Laurel Halo conferma tutto il suo talento e ci fa sperare che l’elettronica abbia trovato una nuova, grande interprete.

24) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?”

(ROCK)

Noel è giunto ormai al terzo album con la sua nuova band, gli High Flying Birds. La sua è stata una graduale evoluzione: partito nel primo CD della sua nuova avventura con canzoni molto simili agli Oasis, già in “Chasing Yesterday” (2015) si erano intraviste aperture verso rock à la Strokes e psichedelia del tutto inedite per lui. Questo “Who Built The Moon?” è il miglior disco a firma Noel Gallagher da molti anni: oltre a proporre nuovi generi musicali ad un pubblico che era abituato al britpop vecchia maniera, Noel produce tre-quattro canzoni davvero notevoli, che entrano di diritto fra le sue migliori.

L’inizio è sorprendente: Fort Knox è un pezzo molto duro, quasi progressive, per un ex Oasis come lui. Ma le sorprese non sono finite: il più anziano dei due fratelli coltelli degli Oasis infatti si avventura nel glam rock (Keep On Reaching), utilizzando poi in altri pezzi addirittura il vocoder e mescolando influenze jazz (Holy Mountain). Le tastiere, poi, hanno un discreto peso. Insomma, un LP così ambizioso e innovativo da un cinquantenne non ce lo aspettavamo proprio. Merito anche del produttore, David Holmes, noto anche come musicista ardito e innovatore nel campo dell’elettronica.

Menzione finale per Dead In The Water, pezzo non incluso nella tracklist ufficiale ma acquistabile come traccia bonus: ricorda molto le b-sides migliori degli Oasis, in particolare Talk Tonight e Half The World Away. Ottime anche It’s A Beautiful World e She Taught Me How To Fly. Da non trascurare anche Black & White Sunshine. Meno riuscite Be Careful What You Wish For e If Love Is The Law, ma non intaccano eccessivamente il risultato complessivo.

In conclusione, il 2017 ha visto sfidarsi i fratelli Gallagher, oltre che con i soliti insulti via social o via intervista, anche musicalmente: mentre Liam, con “As You Were”, ha pubblicato un CD “conservatore”, chiaramente destinato ai fan prima maniera degli Oasis, Noel sembra aver trovato una sua nicchia più interessante, ma forse più rischiosa a fini puramente economici. Tuttavia, non si può non elogiare la voglia di sperimentare di uno degli artisti inglesi apparentemente più rigidi nelle loro posizioni degli ultimi venticinque anni. Aspettiamo con grande interesse la sua prossima prova.

23) Algiers, “The Underside Of Power”

(PUNK)

Raramente si sentono album che sanno mescolare così abilmente post-punk e musica nera come questo “The Underside Of Power”: gli Algiers, accanto al punk che aveva caratterizzato il loro esordio “Algiers” del 2015, riescono a inserire influenze soul che rendono il risultato ancora più intrigante. Non che queste ultime mancassero precedentemente, sia chiaro; tuttavia, sembravano messe lì puramente come ornamento, mentre in “The Underside Of Power” assumono una funzione più chiara e significativa. Il CD può quindi essere visto come un raffinamento del precedente: non si tratta di un album facile, tuttavia resta molto significativo, anche per i temi affrontati, come per esempio la lotta razziale dei neri per la parità con i bianchi e le storture che il capitalismo porta nella società.

L’intento è già chiaro a partire dalla prima canzone in scaletta, Walk Like A Panther: un inno duro e senza compromessi, supportato dall’ottima base ritmica fornita da Matt Tong (batterista ex Bloc Party) e la voce di Franklin James Fisher a urlare contro tutto ciò che di sbagliato c’è nel mondo, in particolare razzismo e diseguaglianze. Anche il titolo del secondo brano, Cry Of The Martyrs, è indicativo dei temi trattati. Non solo punk, però: come già accennato, gli Algiers, specialmente nella seconda parte, danno più spazio alla loro parte romantica, con accenni di soul e ritmiche meno aggressive. Ne sono esempi Mme Rieux e Hymn For An Average Man. Da non trascurare anche le due suite strumentali, Plague Years e Bury Me Standing.

I brani migliori, però, rimangono quelli più punk, come Walk Like A Panther e la title track; leggermente inferiori sono A Murmur. A Sign. e Cleveland, ma nessuno dei 12 brani delude. Il CD conferma quindi gli Algiers come una voce rilevante del panorama musicale inglese: vedremo dove li porterà il prossimo disco. Considerato che in soli due lavori hanno già esplorato rock, punk e soul, siamo davvero curiosi.

22) Four Tet, “New Energy”

(ELETTRONICA)

Annoverato in ogni classifica che si rispetti fra i migliori DJ del XXI secolo,  l’inglese Kieran Hebden, meglio conosciuto col nome d’arte Four Tet, ritorna sulle scene con il nono album di inediti. Il titolo è evocativo dello scopo di Hebden: cercare sempre di rinnovare il proprio sound e, contemporaneamente, mantenere le caratteristiche che lo hanno reso tanto amato. Negli ultimi anni, lo abbiamo visto collaborare con svariati artisti, fra cui Rihanna, Thom Yorke e Burial. Sono lontani i tempi dove la sua riservatezza era maniacale e la presenza sui social inesistente: adesso Four Tet ci tiene a far sapere tutto sui nuovi progetti intrapresi e sulle collaborazioni effettuate.

Il CD recupera alcune sonorità già sentite nella lunga carriera di Hebden, in particolare dal bellissimo “Rounds” (2003) che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Sono poi presenti influenze di The Field e Caribou, che rendono la tavolozza sonora di Four Tet colorata come non mai. Abbiamo infatti un gradevole intreccio di ambient, dance e IDM, che rendono “New Energy” un’altra ottima aggiunta ad una discografia già ingombrante.

Fra i brani migliori, abbiamo la ipnotica Lush; l’affascinante Two Thousand And Seventeen, che può essere messa fra i migliori brani elettronici dell’anno; la dolce You Are Loved; e SW9 9SL, che ricorda il Caribou più danzereccio. Meno belle Alap e Tremper, ma ciò è dovuto sia all’eccessiva brevità (per esempio le due tracce citate durano meno di due minuti) e, forse, alla volontà di Hebden di rendere il disco uniforme e coerente come sonorità, a discapito della varietà (Memories).

In conclusione, se non si tratta del suo miglior LP, poco ci manca: Four Tet conferma ancora una volta il suo grande talento e ci dona uno dei più riusciti dischi di musica elettronica dell’anno. Il piano soffuso di Daughter e la conclusiva Planet valgono da soli un ascolto.

21) Perfume Genius, “No Shape”

(POP – ELETTRONICA)

Il quarto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un sontuoso lavoro pop. Se i precedenti suoi CD si contraddistinguevano per un pop più ermetico e minimal di quello mainstream, in “No Shape” Hadreas è più aperto, sia come tematiche trattate che come sonorità.

Le 13 canzoni che compongono l’album, per un totale di 43 minuti di durata, formano un lavoro conciso e affascinante, con due chiare metà: se la prima è caratterizzata da ritmi gioiosi, la seconda è molto più drammatica e misteriosa, richiamando le sonorità di Brian Eno e del David Bowie più ambient. Insomma, Perfume Genius ha orchestrato un LP molto ambizioso e mai fuori fase: al netto di momenti che possono piacere meno di altri, il livello complessivo di “No Shape” è altissimo e avvicina Hadreas ai grandi autori pop contemporanei, su tutti Anohni (il fu Antony Hegarty).

Nella prima parte colpiscono particolarmente Otherside e Slip Away, mentre nella seconda ricordiamo soprattutto Run Me Through e la maestosa Alan, che chiudono l’album. La migliore è però Every Night: poco meno di 3 minuti di pop da camera fragile e ipnotico, con la bella voce di Perfume Genius a dominare. Dicevamo prima che vi sono pezzi leggermente più deboli, che abbassano il livello medio del CD: abbiamo ad esempio Just Like Love e Go Ahead, ma sono peccati veniali in un lavoro davvero notevole.

Dal punto di vista dei testi, l’omosessualità del cantante viene nuovamente fuori in molte delle canzoni, ma non con la negatività dei precedenti lavori: se nei primi suoi CD si parlava di abusi fisici e di sostanze stupefacenti, già in “Too Bright” (2014) cominciava a vedersi la luce in fondo al tunnel. In questo “No Shape” possiamo addirittura leggere dei riferimenti all’attualità politica, in particolare alla polemica sui diritti per le coppie gay: “How long must we live right before we don’t even have to try?” canta Hadreas in Valley General.

“No Shape” è dunque l’album più completo e riuscito di Perfume Genius: merita senza dubbio un posto d’onore tra gli album pop-elettronici più belli degli ultimi anni.

20) Broken Social Scene, “Hug Of Thunder”

(ROCK)

Dopo 7 anni, il ritorno dei canadesi Broken Social Scene rappresenta un ottimo momento per tornare ad ascoltare musica inedita da parte di uno dei gruppi indie rock più amati degli ultimi 15 anni. Il quinto album del collettivo canadese è un distillato di tutte le loro migliori qualità: forte base ritmica, voci soffuse, atmosfere quasi shoegaze.

Il ritorno di Leslie Feist segna il ritorno di uno dei membri di maggior successo al di fuori del gruppo e, contemporaneamente, un’iniezione di adrenalina pura nel sound della band: prova ne sia Halfway Home, il primo singolo utilizzato per promuovere il CD. Tutto gira bene, specialmente nella prima parte dell’album, con brani potenti e riusciti come la già citata Halfway Home, la vibrante Protest Song e la magnifica Vanity Pail Kids.

La seconda parte del disco è più raccolta ed intimista, facendoci scoprire il lato più pop dei Broken Social Scene: i migliori pezzi sono Towers And Masons e Please Take Me With You. Un po’ monotona invece Gonna Get Better. Questo passo falso viene però subito compensato dall’epica canzone finale, Mouth Guards Of The Apocalypse, che chiude degnamente un ottimo CD.

In conclusione, la band canadese non introduce radicali cambiamenti nel sound che ne ha fatto la fortuna in passato, come era facile aspettarsi. Tuttavia, “Hug Of Thunder” segna il ritorno di un altro amatissimo gruppo della scena indie rock, in un anno trionfale per gli amanti del genere: Spoon, Phoenix, Arcade Fire e Broken Social Scene sono tornati con lavori molto interessanti, anche se non sempre degni delle pesanti eredità che i rispettivi gruppi possiedono. Ciò aggiunge ancora più valore a questo “Hug Of Thunder”. Bentornati, Broken Social Scene.

19) Moses Sumney, “Aromanticism”

(R&B – SOUL)

L’esordio del giovane cantante afroamericano Moses Sumney, “Aromanticism”, esprime già nel titolo molti dei temi trattati. Lui dichiara di essere una persona a-romantica, cioè incapace di provare sentimenti per le altre persone, uomini o donne che siano. I testi sono infatti venati di malinconia e tristezza a causa di questa sua caratteristica, che gli impedisce di legarsi agli altri esseri umani. Tuttavia, ciò gli consente di avere uno sguardo distaccato sulla realtà ed estrapolarne così alcuni dettagli sempre interessanti. Oltre a questo, le canzoni in questo suo esordio sono in genere riuscite e la sua voce, un mix tra Prince e Thom Yorke, è sublime.

L’inizio è molto soft: sembra di tornare a “Blonde” di Frank Ocean, con atmosfere ancora più rarefatte e voce ancora più eterea. Già alla quarta canzone, però, l’atmosfera dei primi brani scompare: Quarrel è un capolavoro fatto e finito, con coda strumentale da brividi. Allo stesso modo, Lonely World ricorda il Prince anni ’80 con la sua vocina acuta e la chitarra in primo piano, poi sboccia in un pezzo rock clamoroso. Anche la seconda parte ha gemme notevoli, per esempio la romantica Doomed, che ricorda molto Frank Ocean. Deludono leggermente Stoicism e Don’t Bother Calling, ma il voto al CD resta positivo.

In generale, il soul/R&B sembra aver trovato un’altra, grandissima voce: per certi versi, questo disco ricorda “Malibu” di Anderson .Paak del 2016, solo più raffinato e meno movimentato. “Aromanticism” è, pertanto, certamente da annoverare fra i migliori esordi musicali di musica nera degli ultimi anni.

18) The Horrors, “V”

(ELETTRONICA – ROCK)

Dopo quattro album sempre più arditi, gli Horrors sono tornati: con “V” il gruppo inglese stupisce ancora una volta il proprio pubblico, cimentandosi con l’acid rock e il synth rock tipici rispettivamente degli U2 in “Achtung Baby” e dei Depeche Mode. Ma possiamo citare anche le influenze di Primal Scream e Cure come fondamentali. Insomma, Badwan e compagni non tradiscono le aspettative, ancora una volta: possiamo dire senza tema di smentita che gli Horrors sono fra le cinque-sei band rock più significative al momento, la loro capacità di reinventarsi ad ogni CD ne è la dimostrazione.

Tre anni dopo il pregevole “Luminous”, gli Horrors piazzano come sempre i migliori brani nella prima parte del disco, per poi virare verso lidi più sperimentali nella seconda. La prima canzone della tracklist, Hologram, presenta sintetizzatori e basso in prima linea, con la bella voce di Faris Badwan ad amalgamare il tutto: già un primo assaggio della svolta presente in “V” è proposta qua. La successiva Press Enter To Exit, accanto ad una critica della moderna società digitale, ricorda molto il rock acido dei Primal Scream e degli U2 dei primi anni ’90 del secolo scorso. La fantastica triade iniziale è completata dal primo singolo estratto dal disco, quella Machine quasi industrial che ricorda molto i Nine Inch Nails.

Insomma, gli ingredienti del CD sono già presenti nei primi tre brani della scaletta. A completare la tavolozza sonora sono alcune ballate, sulla falsariga di quella Change Your Mind che, in “Luminous”, aveva fatto storcere il naso ai fans duri e puri del gruppo, ma che tuttavia era ben riuscita e aggiungeva un tocco romantico prima sconosciuto agli Horrors. Tra le migliori in “V” abbiamo Ghost e Gathering. Belle anche World Below e la sperimentale Weighed Down. Meno riuscita It’s A Good Life, ma è un peccato veniale in un LP ottimo.

In generale, quindi, “V” non raggiunge le vette compositive di “Primary Colours” (2009) e “Skying” (2011), nondimeno aggiunge un altro capitolo molto interessante alla discografia degli Horrors, sempre più a buon diritto inseribili fra i gruppi di musica alternativa più significativi del nuovo millennio.

17) Julien Baker, “Turn Out The Lights”

(ROCK – POP)

Il secondo album della giovane cantante americana Julien Baker è un ottimo esempio della nouvelle vague del mondo indie, caratterizzata da una più massiccia presenza di donne rispetto al passato. Ricordiamo ad esempio Courtney Barnett e Angel Olsen; adesso anche la Baker fa parte del gruppo.

“Turn Out The Lights” combina piacevolmente pianoforte e chitarre, con la bella voce di Julien a fare da collante alle canzoni. La prima vera traccia del disco, dopo la breve intro Over, è già espressiva del tono del disco: Appointments ha un mood fortemente malinconico, batterie e basso sono completamente assenti e il testo parla di appuntamenti falliti e relazioni finite. Su questa falsariga si sviluppa poi tutto il disco.

I testi, dunque, sono molto pessimisti: già nell’esordio “Sprained Ankle” avevamo notato questo male di vivere nella Baker, sentimento che sembra essersi acuito in “Turn Out The Lights”. Le liriche, infatti, contengono versi come “Do I deserve to be here? Will I ever be ok?” oppure “There’s more whiskey than blood in my veins”. Insomma, si accenna a tendenze suicide ed alcolismo senza mezzi termini. La disperazione tuttavia non angustia le melodie, che restano potenti e toccanti allo stesso tempo.

La Baker si inserisce, musicalmente parlando, a cavallo fra dream pop e indie rock: un po’ Beach House e un po’ Wolf Alice, diciamo. Niente di radicale, quindi, ma il CD resta davvero bellissimo e degno di più di un ascolto. Fra le tracce migliori abbiamo la già citata Appointments e la title track; buona anche la conclusiva Claws In Your Back. Meno riuscite Shadowboxing e Sour Breath (da segnalare comunque per le tristissime liriche “The harder I swim, the faster I sink”), ma il risultato complessivo resta ottimo.

In conclusione, il talento di Julien Baker sembra essere definitivamente sbocciato: con una voce così, poi, tutto diventa più facile. Speriamo che la disperazione che sembra pervadere la giovane cantante non si riveli troppo pesante per la sua apparentemente fragile anima.

16) Fever Ray, “Plunge”

(ELETTRONICA)

Erano otto anni che Karin Dreijer non produceva un album solista; la metà femminile dei Knife (l’altra era il fratello Olof), con l’esordio solista “Fever Ray” (2009), aveva fatto capire che, anche senza i Knife, per lei un radioso futuro nel mondo della musica era possibile. “Plunge” conferma ulteriormente questo fatto: attraverso canzoni a volte complesse, altre quasi pop, Karin appare in splendida forma, tanto da produrre uno dei migliori album di musica elettronica dell’anno.

I temi trattati dalla cantante svedese riguardano soprattutto l’amore e il sesso; accanto ad essi, però, un messaggio politico non può mancare. Spesso infatti anche i Knife avevano affrontato temi legati alla sfera pubblica, per esempio i diritti degli omosessuali o le storture del capitalismo. Fever Ray, parlando dell’amore carnale, denuncia la non parità dei diritti fra maschi e femmine e le violenze a cui le donne sono sottoposte da parte di uomini prepotenti, questione quanto mai attuale in queste settimane.

I pezzi migliori sono Must’t Hurry, This Country e Red Trails. Convincono meno Falling, IDK About You e la parte centrale del disco, tuttavia i risultati complessivi sono apprezzabili. Restano superiori i due LP più maturi dei Knife, “Silent Shout” (2006) e “Shaking The Habitual” (2013). Tuttavia, l’eclettismo e la cura maniacale di “Plunge” lo rendono imprescindibile per gli amanti dell’elettronica e dei Knife.

15) The National, “Sleep Well Beast”

(ROCK)

Il settimo album dei The National, uno dei gruppi indie rock più famosi e apprezzati della scena americana, è anche il loro lavoro più intimo e cupo: le sonorità del CD sono molto raccolte, con il piano che ha un’importanza maggiore rispetto ai precedenti lavori del gruppo, anche di LP più maturi come gli eccellenti “High Violet” (2010) e “Trouble Will Find Me” (2013).

Il tutto è già evidente dalla prima traccia: Nobody Else Will Be There ricorda i Radiohead per la tristezza che emana, con un Matt Berninger protagonista con la sua voce bella e profonda. La seconda canzone, Day I Die, è forse la migliore del disco e mette invece ancora una volta in evidenza la base ritmica dei The National, con i fratelli Dessner al top della condizione: la chitarra di Bryce regala rasoiate bellissime, ma anche il basso si fa sentire. Stiamo parlando di uno fra i migliori pezzi indie rock dell’anno: pensare che sia stato scritto da una band con quasi venti anni di carriera alle spalle è impressionante.

I pezzi più rock si confermano i migliori del lotto: sono ottime anche The System Only Dreams In Total Darkness e Turtleneck, a buon diritto fra tra gli highlights del disco. Del resto, però, i The National sono famosi per aver imparato a fondere, nel corso della loro splendida carriera, rock e melodia: così anche pezzi con pianoforte preponderante come la già citata Nobody Else Will Be There o la title track conquistano man mano che se ne scoprono i dettagli.

Peccato per pezzi meno belli, che sembrano compiuti solo a metà: forse i numerosi progetti solisti intrapresi dai membri del gruppo negli ultimi anni hanno influito. Ne sono esempi Born To Beg e I Still Destroy You, strano esperimento elettronico che poi evolve in una canzone rock un po’ frenetica. Migliore invece la ipnotica Guilty Party. In generale, però, sebbene non siamo dalle parti dei capolavori (sì, al plurale) della band, come “Alligator” o “High Violet”, questo “Sleep Well Beast” non sfigura nella discografia dei The National, che anzi si confermano band imprescindibile per gli amanti del rock, dall’indie a quello più raffinato.

14) Slowdive, “Slowdive”

(ROCK)

È ufficiale: lo shoegaze è ancora vivo e lotta insieme a noi. Dopo il clamoroso ritorno nel 2013 degli alfieri di questo genere, i My Bloody Valentine, con il magnifico “m b v”, adesso anche gli Slowdive sono tornati a produrre nuova musica. E pensare che questo è solo il quarto album della band britannica, il primo dopo “Pygmalion” del 1995. Un’attesa di ben 22 anni, ma ripagata: i risultati di “Slowdive” raggiungono le vette artistiche dei precedenti lavori del gruppo, non rovinando un’eredità che inizia ad essere davvero ingombrante.

Gli Slowdive, infatti, riprendono da dove avevano finito: un genere a metà fra shoegaze e dream pop. Con parametri odierni, possiamo dire che in loro troviamo Beach House, M83 e My Bloody Valentine in egual misura. Nei suoi momenti migliori, “Slowdive” è davvero eccellente: l’iniziale Slomo è sognante e affascinante, anche grazie alla perfetta voce di Rachel Goswell; Don’t Know Why è davvero ipnotica, per merito soprattutto alle voci eteree della Goswell e di Neil Halstead; infine, Sugar For The Pill flirta col pop e contiene una magnifica linea di basso, inusuale per una band shoegaze. Ma è proprio per questi dettagli che amiamo gli Slowdive, no?

I difetti principali del lavoro sono due, il ristretto numero di canzoni (appena 8) e la monotona conclusione: Falling Ashes infatti, nei suoi 8 minuti di durata, rende fin troppo pessimista e malinconica l’ultima parte del CD. In generale, però, la qualità è molto alta, come già ribadito: l’ascolto di questo LP è consigliato a tutti coloro che vogliono sperimentare nuove forme di rock, entrando nel mondo dello shoegaze e immergendosi pienamente in un insieme di chitarre distorte, voci che si rincorrono e atmosfere ambient. Insomma, un estratto di puro shoegaze.

13) Thundercat, “Drunk”

(ROCK – JAZZ – SOUL)

La parabola di Stephen Bruner (meglio conosciuto come Thundercat) è davvero curiosa. Venuto alla ribalta come bassista di grande talento, con collaborazioni del calibro di Kanye West e Flying Lotus, da qualche anno a questa parte ha iniziato a scrivere musica di persona, producendo CD molto interessanti, un mix di funk, jazz e rock. La sua vita ha subito una virata decisiva con la morte dell’amico e collaboratore Austin Peralta nel 2012: da quel momento, il tema della morte e una malinconia a volte opprimente permeano i suoi lavori.

Ne è emblema anche questo “Drunk”, quarto album a nome Thundercat di Bruner. La partenza è quasi serena: un insieme di pezzi velocissimi e nervosi, infusi di funk (Captain Stupido), jazz (Uh Uh) e momenti à la Prince, come in A Fan’s Mail (Tron Suite II). Il mood dell’album si fa però progressivamente più triste, fino a diventare disperato nella parte conclusiva (emblematica DUI).

Menzione finale per le collaborazioni: se Thundercat ha convinto artisti del calibro di Pharrell Williams, Kendrick Lamar e Wiz Khalifa a far parte di “Drunk” un motivo ci sarà. In particolare, la traccia con K-Dot, Walk On By, è molto riuscita; bella anche Show You The Way.

In conclusione, un LP con 23 canzoni, per una durata totale di oltre un’ora, non può essere perfetto; “Drunk”, però, in certi tratti ci va davvero vicino. Tra i migliori CD di musica nera degli ultimi anni.

12) Arca, “Arca”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il terzo album del musicista venezuelano Alejandro Ghersi, meglio noto come Arca, è il suo CD più intimo e personale. Innanzitutto, in “Arca” Ghersi per la prima volta canta nella sua lingua d’origine, lo spagnolo: ciò, apparentemente, al fine di svelarci di più sulla sua idea di amore e di sessualità. Entrambi questi temi sono sempre stati al centro della sua produzione e l’ambiguità mantenuta al riguardo era uno degli enigmi maggiori riguardo ad Arca, come uomo e come musicista.

Musicalmente parlando, “Arca” mantiene l’intelaiatura dei suoi precedenti lavori, rispettivamente “Xen” (2014) e “Mutant” (2015): vale a dire una musica ambient molto ricercata, a tratti criptica e in altri più sinuosa e accattivante. Rispetto ai due predecessori, tuttavia, questo album dà più attenzione alla parte melodica, quasi pop, dell’estetica di Arca: ne sono esempi i due magnifici brani iniziali, Piel e Anoche. La parte centrale contiene le tracce più sperimentali, come Reverie e Castration. Altro pezzo da ricordare è Coraje, dalla melodia davvero delicata; meno riuscita è Whip, troppo chiassosa. La costruzione del CD si rivela comunque straordinaria: la parte conclusiva ritorna alle sonorità minimali e commoventi dell’inizio, sottolineate dal canto fragile di Ghersi. Ne sono esempi perfetti Miel e Fugaces.

In generale, colpisce la continua evoluzione di questo talentuoso artista, capace di produrre canzoni per pezzi da 90 come Kanye West, FKA Twigs e Bjork, e contemporaneamente mantenere una feconda attività di cantante solista, peraltro di buonissima qualità. Questo “Arca” è il culmine di tutto ciò, un lavoro contemporaneamente misterioso e pop, difficile e fragile: insomma, uno dei migliori CD di musica elettronica degli ultimi anni, non molto lontano da “In Colour” di Jamie xx e “Hopelessness” di Anohni.

11) St. Vincent, “MASSEDUCTION”

(POP)

Annie Clark, meglio conosciuta col nome d’arte St. Vincent, sembra incapace di sbagliare un LP. Il suo nuovo lavoro, “MASSEDUCTION”, è un trionfo per gli amanti del pop. Annie ci aveva già fatto intravedere il suo lato più pop, specialmente nel riuscitissimo omonimo album del 2014. Tuttavia, la sua straordinaria abilità di mescolare pop ed indie rock l’aveva sempre distinta dal mainstream. Le sue schitarrate selvagge, poi, a metà fra Plant e Fripp, rendevano le sue canzoni imprevedibili.

Per questo stupisce per certi versi la svolta verso il pop più zuccheroso: questa mossa rischia di alienare molti fan della prima ora, ma è stata fatta con la speranza di ampliare contemporaneamente la platea di ascoltatori. “MASSEDUCTION” ricorda “Melodrama” di Lorde per alcuni tratti comuni delle due cantanti: fascino particolare, nessun timore a parlare dei propri sentimenti, talento fuori dal comune. Anche le due voci sono assimilabili. Tuttavia, mentre Lorde è solo al secondo CD, Annie Clark è già al sesto (comprendendo anche il disco collaborativo con David Byrne). La creatività non è decisamente venuta meno, comunque: contiamo difatti tracce molto interessanti come Los Ageless e Pills, che parlano delle persone che cercano di non invecchiare mai attraverso ritocchi o farmaci in maniera molto ironica. Belle anche le romantiche ballate New York ed Happy Birthday, Johnny. Convincono meno le canzoni troppo anni ’80, che ricordano molto (fin troppo) Police e Depeche Mode: ne sono esempi Sugarboy e la title track.

I testi, come già accennato, prendono di mira prevalentemente la cultura dell’eterna bellezza e dell’apparenza come unico valore, in un mondo dominato dai social e dai selfie. Ecco, diciamo che se gli Arcade Fire fossero stati ispirati avrebbero partorito un CD complessivamente buono come “MASSEDUCTION” e non il poco riuscito “Everything Now”.

In conclusione, questo non è certamente il disco più riuscito di St. Vincent: “Strange Mercy” (2011) e “St. Vincent” (2014) sono irraggiungibili, tuttavia Annie Clark ci ha fatto vedere di essere una artista a tutto tondo, capace anche di esplorare generi nuovi senza perdere la propria identità. Per quanti cantanti di oggi possiamo dire lo stesso?

10) Father John Misty, “Pure Comedy”

(ROCK)

Il terzo LP solista di Joshua Tillman, in arte Father John Misty, era molto atteso: dopo un eccellente secondo lavoro come “I Love You, Honeybear” (2015) e l’abilità mostrata, sia nelle interviste rilasciate che sui social, di cogliere come pochi lo spirito dei tempi, eravamo tutti curiosi di vedere cosa mai avrebbe dissacrato in questo “Pure Comedy”. Ebbene, i risultati sono clamorosi, per molti versi nel bene ed altri nel male: quasi 75 minuti di durata, 13 canzoni di cui una di 13 minuti (!) e una ironia molto amara riguardo ai tempi, politici e non, dove siamo immersi.

Musicalmente parlando, “Pure Comedy” amplia i generi affrontati da Tillman: accanto al folk delle origini (è stato batterista dei Fleet Foxes fino al 2012), adesso abbiamo un rock molto denso e raffinato, a tratti orchestrale nella sua magniloquenza. I risultati, quando tutto gira per il meglio, sono ottimi: ne sono prova Pure Comedy e Total Entertainment Forever, le due tracce iniziali del disco. Altrove, nondimeno, la combinazione risulta eccessivamente monotona: in particolare ciò accade nella parte centrale del lavoro, fin troppo adagiata in un plateau sonoro fatto di rock acustico e molto simile fra un brano e l’altro. Emblema di tutto ciò è l’interminabile Leaving LA, 13 minuti davvero lunghi e difficili da apprezzare.

La situazione si risolleva nella brillante parte finale, dove Tillman torna a fare quello che lo ha reso così amato dal pubblico: non concentrarsi su sé stesso, quanto dare uno sguardo disincantato sul mondo, aiutato da un folk-rock con intarsi elettronici davvero ammaliante. I migliori brani sono proprio le ultime due canzoni della tracklist, So I’m Growing Old On Magic Mountain e In Twenty Years Or So.

Liricamente, come sempre in un album di Father John Misty, gli spunti di riflessione non mancano: da un riferimento agli Oculus Rift in rima con Taylor Swift (potete immaginare in che contesto) alla religione (“They get terribly upset when you question their sacred texts, written by woman-hating epilectics”), da una critica alla tecnologia (“There are some visionaries among us developing some products to aid us in our struggle to survive, on this godless rock that refuses to die”) a della sana e onesta autoironia (“So I never learned to play the lead guitar. I always more preferred the speaking parts”).

Insomma, un lavoro non semplice, sia musicalmente che per i contenuti affrontati. Tuttavia, se affrontato nella giusta prospettiva e colto appieno, “Pure Comedy” si staglia come un ottimo CD di musica rock impegnata; e dimostra un coraggio non comune da parte di Joshua Tillman, che affronta temi delicati in maniera sempre pungente e intelligente. Non un capolavoro, ma qualcosa di molto simile sì.

9) Run The Jewels, “Run The Jewels 3”

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è il loro migliore, quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora. Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima. Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

8) Waxahatchee, “Out In The Storm”

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield e dalla sorella gemella Allison, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsi una prima idea di questo genere. L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile.

Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

Liricamente, il CD è un tipico breakup album, di quelli che gli artisti compongono sempre più di recente: basti pensare a Ryan Adams e Dirty Projectors, solo per restare nel 2017. Karen Crutchfield canta difatti “everyone will hear me complain… everyone will pity my pain”; il verso forse più drammatico è però “I will unravel when no one sees what I see”. Insomma, sorprende l’abilità della Crutchfield di fondere inni spesso trascinanti con tematiche così delicate e tristi per lei.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, con interpreti come Strokes, Franz Ferdinand e Bloc Party (tutti i componenti di questi gruppi sono uomini, solo recentemente i BP hanno ingaggiato una batterista donna), ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo, ma che negli ultimi due-tre anni sembra essersi rivitalizzato. E Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

7) LCD Soundsystem, “American Dream”

(ELETTRONICA – ROCK)

Ma siamo nel 2017? La domanda sembra mal posta, tuttavia, ha un senso: gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, con un concerto finale avvenuto al Madison Square Garden, riempito fino all’ultimo posto, con più di tre ore di musica e ospiti di spessore (come gli amici Arcade Fire). L’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

Ciò non significa che i membri del gruppo siano rimasti inattivi negli scorsi anni: Murphy si è dato alla produzione e a collaborazioni eccellenti (Arcade Fire, David Bowie), gli altri membri hanno suonato con band affini (come Al Doyle, che ha collaborato con gli Hot Chip) oppure si sono dati a DJ sessions. Poi, nel 2016, l’annuncio shock, tanto atteso dai fans del gruppo: gli LCD tornavano insieme. Da qui in poi è storia: i loro concerti erano sempre attesissimi e i membri cercavano di ritrovare l’antica chimica, fra hit intramontabili come All My Friends e Losing My Edge e nuovi brani.

Ancora più significativa fu la notizia che la band stava registrando un nuovo disco: “American Dream”, questo il titolo, sarebbe uscito il 1° settembre. L’attesa era altissima: si sarebbero ripetuti su eccellenti livelli oppure il tutto era solo un’operazione per fare soldi? Conoscendo Murphy, la seconda alternativa sembrava improbabile; fatto confermato dal CD, che entra a pieno diritto fra i migliori del 2017 e merita un posto di rilievo nella discografia degli LCD Soundsystem.

L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile: sì, gli LCD sono tornati al top della condizione. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco e molto polemica: Murphy canta contro un suo ex partner di lavoro, Tim Goldsworthy, che lo ha insultato ultimamente e ha intentato causa contro Murphy per una presunta truffa da lui subita. Il tono del brano, non a caso, è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

6) The War On Drugs, “A Deeper Understanding”

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala.

Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album. A colpire è poi l’ambizione mostrata da Adam Granduciel e soci: dopo aver conquistato il successo anche di pubblico con il precedente “Lost In The Dream” (2014), avremmo potuto aspettarci un CD di transizione o, peggio, una brutta copia del precedente. Invece, la band continua ad essere creativa e a mostrarsi incessantemente pronta ad esplorare nuovi sentieri musicali.

Le tematiche trattate in “A Deeper Understanding” rispecchiano il titolo del lavoro: Granduciel conduce un’analisi approfondita del suo Io più intimo, spesso evocando solamente i temi a lui più cari (la solitudine, l’ossessione per il minimo dettaglio, l’alienazione su tutti). In generale, possiamo ribadire che non ascoltiamo i The War On Drugs per accedere a nuove verità sul mondo o sulla società, quanto piuttosto per immergerci in paesaggi musicali affascinanti e senza tempo. Missione compiuta, ed egregiamente, in “A Deeper Understanding”.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del momento, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

5) Kendrick Lamar, “DAMN.”

(HIP HOP)

Il nuovo CD del miglior rapper in circolazione? Non poteva che essere un evento. Tuttavia, Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: K-Dot infatti invitava i suoi fan ad aspettare il 7 aprile per avere novità su nuova musica in uscita a suo nome. Detto, fatto: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto disco di Kendrick Lamar, in data 14 aprile.

Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

I risultati forse non raggiungono i risultati eccellenti di “Good Kid, M.A.A.D. City” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), considerati giustamente tra gli album hip hop più importanti del nuovo millennio. Non a caso, questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni, come invece accadeva nei due LP citati prima, dove Kendrick parlava della vita per un giovane di colore nella sua città natale (Compton) e del razzismo strisciante negli Stati Uniti. Adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica.

Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD merita la top 5 dei più belli del 2017. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare, quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è una ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva. Poco prima dello sparo che chiudeva la prima canzone, però, si sentono dei suoni: essi rappresentano probabilmente la vita del personaggio della canzone, tanto che poi DUCKWORTH. si chiude con la ripresa proprio di BLOOD..

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

I versi migliori del disco? Sono contenuti in LOYALTY. (“Tell me who you are loyal to. Is it money? Is it fame? Is it weed? Is it drink?”), PRIDE. (“Love’s gonna get you killed, but pride’s gonna be the death of you and you and me”, forse riferito agli episodi di razzismo e uccisioni di giovani neri ad opera delle forze dell’ordine) e LOVE. (“If I minimize my net worth, would you still love me?”).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un serissimo candidato alla palma di miglior album hip hop dell’anno.

4) Lorde, “Melodrama”

(POP)

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

Già dalla copertina vediamo che qualcosa è cambiato: se in “Pure Heroine” avevamo semplicemente il titolo e l’artista, senza alcuna immagine, in “Melodrama” campeggia un ritratto molto affascinante della giovane Ella, quasi un quadro impressionista. Ma i cambiamenti di maggiore portata sono artistici.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Anche tematicamente, del resto, c’è un tema che lega fra loro le 11 canzoni del disco: Lorde immagina di trovarsi ad un party e di viverlo pensando anche ai problemi che non solo la riguardano personalmente, ma che sono riferibili a più o meno tutti i giovani millennials, per esempio la rottura di un fidanzamento e le sue conseguenze, la voglia di vivere il momento senza freni, gli effetti dell’improvvisa fama…

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio, al pari di “Lemonade” di Beyoncé e “Art Angels” di Grimes. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima.

Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

In conclusione, stiamo parlando di un’artista nel pieno delle sue potenzialità: se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde. Meno Katy Perry e Miley Cyrus, più Lorde: ecco un auspicio che ho per il futuro della musica pop.

3) Mount Eerie, “A Crow Looked At Me”

(FOLK)

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il nuovo CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte di Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la morte dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando lui e una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato. In effetti, le similitudini con il bellissimo “Carrie & Lowell” (2015) di Sufjan Stevens sono molte, a partire dal tema principale e passando per le sonorità. Qualcosa di simile a questo “A Crow Looked At Me” lo avevano anche prodotto Nick Cave e i suoi fidati Bad Seeds l’anno passato, anche in quella circostanza influenzati da un tremendo lutto (la morte del figlioletto di Cave), nell’eccellente “Skeleton Tree”.

La domanda sorgerà spontanea: un CD tanto intriso di tragedia e dramma come giustifica un titolo così apparentemente bizzarro? Le 11 canzoni che compongono il disco hanno proprio lo scopo di spiegare questa immagine; anzi, possiamo dire che il compimento del lavoro, Crow, è il fine ultimo dell’intero LP.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a ribadire il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

In conclusione, però, cosa ha quindi di particolare l’immagine del corvo che fissa il cantante? Mount Eerie si candida a miglior liricista del 2017: una mattina, ci dice, sua figlia mormora qualcosa nel sonno dopo che i due erano andati in gita insieme nella foresta che hanno vicino casa. Sua figlia dice distintamente la parola “crow”, evocando la figura di un corvo; Elverum, proprio in quel momento, immagina che proprio nel corvo chiamato dalla figlia possa celarsi l’anima di sua moglie Geneviève. Improvvisamente, egli per un secondo vede proprio la sua figura, che però scompare subito dopo, lasciando il posto a un corvo che, questa volta nella vita vera, fissa il cantante e la figlioletta.

Un qualcosa di così delicato e straziante erano anni che non lo ascoltavamo. Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma secondo noi di A-Rock questo album merita il podio tra i migliori dischi dell’anno. Anzi, il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello pessimista che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere il tuo tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire da un momento all’altro, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

2) King Krule, “The OOZ”

(ROCK – SPERIMENTALE – JAZZ)

Rock, punk, trip hop, jazz, R&B: ecco alcuni dei generi affrontati con successo da Archy Marshall nel suo nuovo CD a nome King Krule. Le numerose identità artistiche assunte da Archy (Zoo Kid, King Krule, il suo nome) hanno significato spesso alcuni cambi nel sound dei dischi prodotti: più ingenui i brani di Zoo Kid, molto eclettici quelli di King Krule, elettronici quelli a nome Archy Marshall. In “The OOZ”, il giovane cantante inglese propone una ricchissima collezione (19 canzoni per 77 minuti di durata), molto varia, sia come lunghezza dei pezzi che come sonorità. Come già accennato, abbiamo pezzi feroci (come la bellissima Dum Surfer e Half Man Half Shark), brani jazz (le belle ballate Czech One e Logos), altri che ricordano i Blur di “13” (Lonely Blue e Biscuit Town).

In generale, stupisce come finalmente Archy sia riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento pur producendo un disco che molti potrebbero bollare come incoerente o troppo ambizioso: un ventunenne che produce con uguale facilità brani rock, jazz e punk non è comune. Inoltre, malgrado il gran numero di brani nella scaletta, nessuno è puramente usato come riempitivo; belli poi i richiami interni al CD, per esempio le due versioni di Bermondsey Bosom, prima “left” poi “right”.

I testi, come sempre nelle canzoni a nome King Krule, affrontano il lato sporco del mondo, in particolare della vita di un giovane di periferia: solitudine, criminalità, droga. Non è un disco facile, come avrete capito: tuttavia, per gli ascoltatori pazienti e amanti della musica ambiziosa e sperimentale, “The OOZ” è un trionfo. Fra i brani migliori abbiamo le già ricordate Dum Surfer e Czech One; non male anche l’enigmatica A Slide In (New Drugs) e The Cadet Leaps, che sembra presa da un disco di Brian Eno. Ottima la title track. Meno riuscite invece Midnight 01 (Deep Sea Diver) e Emergency Blimp, ma non rovinano un LP davvero fantastico. Le influenze sono numerose, ma proprio per questo il sound creato da King Krule è unico: un po’ Massive Attack, un po’ Joy Division, un po’ Tom Waits ecc.

In conclusione, Archy Marshall ha finalmente prodotto quel capolavoro che critica e pubblico aspettavano, ciò che “6 Feet Beneath The Moon” non era stato, malgrado la hype creata da alcuni media specializzati.

1) Fleet Foxes, “Crack-Up”

(FOLK)

Il complesso di Seattle, sei anni dopo “Helplessness Blues” e dopo una pausa durata tre anni, a causa del ritorno all’università del leader Robin Pecknold, è tornata sulla scena musicale con l’attesissimo “Crack-Up”. Beh, i risultati sono semplicemente eccezionali.

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, I Should See Memphis ricorda quasi gli Animal Collective nel finale, dopo un inizio dolce.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk. “Crack-Up” resterà senza dubbio come uno dei migliori album dell’intero decennio. Ecco perché lo premiamo come album dell’anno.

Ebbene sì: il ritorno dei Fleet Foxes concentra tutte le loro migliori qualità, non potevamo non premiarlo come CD più riuscito del 2017. Voi cosa ne pensate? Non esitate a commentare! Ci vediamo a gennaio. Buone feste da A-Rock!

Rising: Moses Sumney & Jlin

Nella nuova puntata della nostra serie sui cantanti emergenti del panorama musicale internazionale, ci occupiamo di Moses Sumney e Jlin: due voci che vogliono cambiare il panorama di R&B e musica elettronica, con coraggio e talento, le cui carriere sembrano promettere molto bene.

Moses Sumney, “Aromanticism”

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L’esordio del giovane cantante afroamericano Moses Sumney, “Aromanticism”, esprime già nel titolo molti dei temi trattati. Lui dichiara di essere una persona a-romantica, cioè incapace di provare sentimenti per le altre persone, uomini o donne che siano. I testi sono infatti venati di malinconia e tristezza a causa di questa sua caratteristica, che gli impedisce di legarsi agli altri esseri umani. Tuttavia, ciò gli consente di avere uno sguardo distaccato sulla realtà ed estrapolarne così alcuni dettagli sempre interessanti. Oltre a questo, le canzoni in questo suo esordio sono in genere riuscite e la sua voce, un mix tra Prince e Thom Yorke, è sublime.

L’inizio è molto soft: sembra di tornare a “Blonde” di Frank Ocean, con atmosfere ancora più rarefatte e voce ancora più eterea. Già alla quarta canzone, però, l’atmosfera dei primi brani scompare: Quarrel è un capolavoro fatto e finito, con coda strumentale da brividi. Allo stesso modo, Lonely World ricorda il Prince anni ’80 con la sua vocina acuta e la chitarra in primo piano, poi sboccia in un pezzo rock clamoroso. Anche la seconda parte ha gemme notevoli, per esempio la romantica Doomed, che ricorda molto Frank Ocean. Deludono leggermente Stoicism e Don’t Bother Calling, ma il voto al CD resta positivo.

In generale, il soul/R&B sembra aver trovato un’altra, grandissima voce: per certi versi, questo disco ricorda “Malibu” di Anderson .Paak del 2016, solo più raffinato e meno movimentato. “Aromanticism” è, pertanto, certamente da annoverare fra i migliori esordi musicali di musica nera degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

Jlin, “Black Origami”

jlin

La cantante americana Jlin si conferma una delle maggiori esponenti del footwork. Di cosa parliamo esattamente quando ci riferiamo al footwork? Esso è un movimento appartenente alla musica elettronica, che punta molto sulla ritmica delle canzoni, sacrificando le atmosfere più sognanti o ambient e aumentando il peso specifico assegnato a percussioni e tamburi. Tra i maggiori esponenti abbiamo DJ Rashad e, appunto, Jlin. Questo “Black Origami”, suo secondo album dopo “Dark Energy” del 2015, può essere considerato un concentrato delle caratteristiche del footwork.

I testi sono pressoché incomprensibili, ma del resto non è questo lo scopo della giovane Jlin: apprezzabile è invece la sezione ritmica del CD, mai banale e spesso davvero trascinante. Sia chiaro: non parliamo di canzoni ballabili o orecchiabili, l’album è anzi coerente nella sua densità e non facilità di ascolto. Abbiamo brani più “semplici”, come la title track, ma anche altri puramente “percussionisti”, come Kyanite.

Tra i brani migliori abbiamo la già ricordata Black Origami, la brevissima Calcination e Never Created, Never Destroyed. Debole invece 1%. In generale, tuttavia, per chi vuol farsi un’idea più chiara del concetto di footwork e delle sue principali caratteristiche, questo lavoro è fortemente consigliato. Potrà non piacere, ma stiamo parlando di una delle correnti più innovative della scena elettronica mondiale.

Voto finale: 7,5.