I 50 migliori album del 2021 (25-1)

Il momento è giunto: siamo arrivati all’appuntamento più atteso per i fan di A-Rock, la seconda e più pregevole parte della classifica dei 50 migliori dischi dell’anno, quella che contiene le posizioni dalla 25 alla 1!

Nella prima metà abbiamo trovato artisti importanti, come Lorde, Lana Del Rey e The Killers. Chi si sarà aggiudicato il titolo di miglior CD del 2021? Buona lettura!

25) Paul McCartney, “McCartney III”

(POP – ROCK)

È vero, parliamo di un album di fine 2020, ma non potevamo lasciare l’ultimo lavoro di Sir Paul fuori dalla nostra classifica. Sir Paul McCartney non ha bisogno di introduzione: la sua è ormai una carriera leggendaria che, giunta al ventunesimo (!!) album di inediti, non vuole proprio fermarsi. “McCartney III” è la chiusura ideale della trilogia iniziata con l’esordio solista del 1970, “McCartney”, e proseguita poi con “McCartney II” (1980). La caratteristica di tutti questi CD è di essere suonati interamente da Paul in persona, che li ha spesso utilizzati per i suoi esperimenti più arditi (ad esempio Temporary Secretary), con atmosfere decisamente meno pop di un tipico disco dei Beatles, ma sempre appetibili da una larga fetta di pubblico.

“McCartney III” non è da meno: le 11 canzoni vanno dall’esperimento folk-blues di Long Tailed Winter Bird al pop-rock della squisita Find My Way al pop beatlesiano di Pretty Boys, per poi sfociare nella stramba Deep Deep Feeling, ben otto minuti di rock à la David Bowie su morbide tastiere. Insomma, un pot-pourri mai scontato, decisamente non coeso ma intrigante nel complesso. I risultati migliori Paul li raggiunge in Find My Way e Pretty Boys, mentre delude un po’ Women And Wives.

Liricamente, McCartney cerca di calarsi nella drammatica temperie storica del 2020: il CD, uscito a dicembre dello scorso anno, rievoca la triste condizione di isolamento totale in cui è stato arrangiato, specialmente in Find My Way (“You never used to be afraid in days like these, but now you’re overwhelmed by your anxieties” è un verso potente) e Seize The Day, che nella semplicità della lirica “It’s still alright to be nice” ci ricorda che la gentilezza è una qualità sottovalutata, specialmente in tempi di pandemia.

Un cantante della caratura di Paul McCartney, che era stato in grado di restare sulla cresta dell’onda anche negli anni ’10 del XXI secolo grazie alle collaborazioni di successo con Mark Ronson (Alligator e New) e Kanye West con Rihanna (FourFiveSeconds), aveva prodotto con “Egypt Station” (2018) un album lungo e caotico, che faceva presagire un’ispirazione ormai esaurita per il cantautore inglese. Ritrovarlo in così buona forma solo due anni dopo, capace di stupirci come ai bei tempi, è un’ulteriore dimostrazione che, nella musica, l’età non conta.

24) Indigo De Souza, “Any Shape You Take”

(ROCK)

Il secondo disco della cantante è una boccata di aria fresca in una scena indie rock un po’ ferma nel 2021. “Any Shape You Take” migliora ogni aspetto dell’esordio “I Love My Mom” (2018), passato un po’ in sordina: sia a livello compositivo che lirico Indigo si conferma matura e pronta a scrivere pagine importanti del genere nei prossimi anni.

I riferimenti della Nostra sono chiari: PJ Harvey, Fiona Apple e Alanis Morissette sono le prime icone femminili del pop-rock che vengono in mente ascoltandola. Tuttavia, De Souza non si limita a prendere spunto da queste grandi autrici: innestando su questa ricetta elementi grunge e quasi sperimentali (si senta Real Pain a tal proposito), “Any Shape You Take” è un CD figlio dei nostri tempi: in bilico fra speranza e disperazione, la giovane Indigo De Souza dimostra in realtà una maturità sorprendente.

Testualmente, infatti, la cantautrice è capace di trasmettere le sensazioni provate a causa di una relazione tossica del passato attraverso le urla disperate di Real Pain così come di farti sentire protetto in Hold U, quando canta “I will hold you” e “You are a good thing, I’ve noticed” convintamente. In Way Out appare il suo lato più sognatore quando sentiamo dirle “I wanna be a light”, mentre in Kill Me si riappropria di un tema a lei caro fin dal precedente album: “Call your mother, tell her you love her… Call my mother and tell her the same”.

In alcune canzoni, come la già citata Real Pain e Bad Dream, prevale un pessimismo molto forte; in altre, come 17, i toni sono più distesi. I pezzi migliori sono Hold U e Kill Me, mentre un po’ sotto la media Way Out. In generale, va detto, l’indie rock robusto, sperimentale a tratti di “Any Shape You Take” si fa quasi sempre apprezzare e i 38 minuti di durata del disco spingono il replay value (a differenza degli ultimi prolissi lavori di Drake e Kanye West, tanto per capirsi).

In conclusione, Indigo De Souza si conferma ragazza con del potenziale e “Any Shape You Take” è un CD molto interessante. Vedremo se in futuro saprà fare meglio, per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori dell’anno nel genere indie rock.

23) Lucy Dacus, “Home Video”

(ROCK)

Il terzo album a firma Lucy Dacus è un altro passo avanti in una discografia sempre più ricca. Dopo l’esordio raccolto di “No Burden” (2016) e il magnifico “Historian” (2018), questo lavoro è una svolta in direzione quasi pop. I pezzi sono più brevi e con ritornelli più accattivanti; non per questo, tuttavia, bisogna concludere che Lucy si sia “venduta”, contando anche i temi affrontati nel corso di “Home Video”.

Fin da subito, sulla stampa e tra i fan si sono scatenati i parallelismi con “Punisher”, il CD uscito l’anno passato e che ha fatto dell’amica Phoebe Bridgers un nuovo pilastro del mondo indie, con tanto di candidatura ai Grammy. In effetti, le somiglianze fra i due album sono numerose: il sound è indie rock con occasionali episodi folk, i temi trattati sono intimi e personali… Allo stesso modo, alcuni esperimenti della Dacus fanno di “Home Video” un LP autonomo e non indebitato con alcuna delle giovani donne che stanno rivoluzionando l’indie rock (basti citare, oltre a Phoebe Bridgers, anche Julien Baker e Courtney Barnett).

Dicevamo che Lucy affronta il proprio passato nel corso del CD: la sua gioventù non è stata semplice, essendo stata cresciuta a Richmond, in Virginia, da una famiglia conservatrice e molto religiosa, lei che da bisessuale è sempre stata nel mirino dei più intransigenti. L’iniziale, bellissima Hot & Heavy contiene il seguente verso: “You used to be so sweet, now you’re a firecracker on a crowded street”; invece VBS contiene una profezia fatta da un sacerdote, “A preacher in a t-shirt told me I could be a leader”. Tuttavia, nella stessa canzone la sua figura è ambivalente: “All it did, in the end, was make the dark feel darker than before”.

Il lavoro, nella sua onestà, a volte è davvero toccante, così come le melodie: oltre la già citata Hot & Heavy, ottime anche First Time e Thumbs. Invece inferiori alla media Partner In Crime, in cui Lucy sperimenta addirittura l’uso dell’autotune, con risultati controversi, e Christine.

In conclusione, “Home Video” è un CD molto nostalgico, in cui i ricordi dell’infanzia e della gioventù sono presentati in tutta la loro crudezza da una Lucy Dacus mai così aperta. Speriamo che il disco abbia, come “Punisher”, i riconoscimenti che merita. La cantautrice americana, infatti, si conferma tra le migliori nel suo genere e rafforza il suo status di ragazza prodigio.

22) SPIRIT OF THE BEEHIVE, “ENTERTAINMENT, DEATH”

(ROCK)

Il trio originario di Philadelphia ha dato origine, con “ENTERTAINMENT, DEATH”, a uno degli album più imprevedibili degli ultimi anni. Indie rock, psichedelia, noise, pop: tutto si mescola nel corso del CD. Canzoni brevi, sui tre minuti, ma anche una suite di quasi sette minuti: di tutto e di più anche in termini di durata delle melodie. Zack Schwartz, Rivka Ravede e Corey Wichlin, al loro quarto lavoro, confermano il bene che si diceva di loro anche riguardo i precedenti lavori.

Se c’è una differenza, è nella produzione: il lavoro è più curato rispetto al passato, sintomo di una maggiore autorevolezza anche in sede di etichetta discografica. I risultati, malgrado a volte siano fin troppo confusionari, sono a tratti irresistibili: la struttura tipica delle canzoni popolari è stravolta, spesso all’interno della stessa melodia (si senta a riguardo THERE’S NOTHING YOU CAN’T DO). ENTERTAINMENT inizia come un pastiche noise sperimentale, poi sboccia in un pezzo che richiama gli anni ’60. GIVE UP YOUR LIFE sembra quasi un brano del Ty Segall più psichedelico, DEATH invece rievoca i primi Pink Floyd. C’è un brano che si intitola I SUCK THE DEVIL’S COCK… Nessun commento aggiuntivo sul significato.

In generale, possiamo dire che l’umorismo non fa difetto alla band americana. Anche molte liriche testimoniano questo atteggiamento, a metà fra lo scanzonato e il nichilista: “Dust picks up and swallows us whole” canta convintamente Schwartz in ENTERTAINMENT. Invece in I SUCK THE DEVIL’S COCK lo sentiamo proclamare: “Another middle-class dumb American, falling asleep. He don’t appreciate constructive criticism”, compreso l’errore grammaticale. Infine, in RAPID & COMPLETE RECOVERY, abbiamo il verso più sognante ed evocativo del lotto: “Spanning lifetimes compressed in a vacuum, no limitations, you know what comes after”.

In concreto, però, malgrado questi momenti leggeri, il CD suona claustrofobico e ansiogeno; sentimenti che purtroppo tutti abbiamo provato nel corso dell’ultimo anno, colpiti come siamo dalla pandemia e dalle sue conseguenze. Non per questo però dobbiamo ignorare gli SPIRIT OF THE BEEHIVE; anzi, la band di Philadelphia, con “ENTERTAINMENT, DEATH” potrebbe avere scritto uno dei più originali album pandemici. Non un traguardo da poco, in un panorama musicale sempre più omologato.

21) For Those I Love, “For Those I Love”

(ELETTRONICA)

Il progetto For Those I Love incarna in realtà l’estetica di una sola persona, l’irlandese David Balfe: la genesi dell’album di esordio di questo nuovo protagonista della scena elettronica è davvero tragica.

Nel 2018 Paul Curran, grande amico e partner musicale di Balfe, si è tolto la vita; da quel momento David ha cercato di onorare nel modo giusto la memoria di Curran e di riportare alla memoria i bei momenti vissuti insieme. “For Those I Love”, come il titolo indica, è dedicato anche ai cari ancora in questo mondo: spesso nel modo di cantare di Balfe, quasi “spoken word” data la scarsa espressività della voce, si menzionano i familiari del Nostro e il fondamentale ruolo che hanno avuto e hanno tuttora nella vita del cantautore irlandese.

Ma in cosa consiste musicalmente il lavoro? “For Those I Love” è un ottimo CD di musica elettronica: le basi vanno dalla house alla trance, passando per momenti più psichedelici. I momenti migliori sono le iniziali I Have A Love e You Stayed / To Live, ma anche la più tranquilla The Shape Of You risalta. Invece è inferiore alla media Top Scheme. In generale, si possono rintracciare influenze di Burial, Chemical Brothers e The Avalanches, con tocchi dei Primal Scream più rave, ma For Those I Love riesce a suonare originale, anche per il modo di affrontare un lutto altrimenti insopportabile.

I versi che restano impressi sono numerosi: “I felt like I had it all. I have a love, and it will never fade and neither will you, Paul. I love you bro” in I Have A Love è il più toccante di tutti. In Top Scheme viene alla luce il lato più politico e nichilista di Balfe: “It seems sometimes the love in these songs isn’t enough – because the world is fucked”. Infine, in Birthday / The Pain, abbiamo un momento filosofico, con più di un fondo di verità: “So we’ll spend the rest of our lives being brave, and hope that things will change, and age will still mark the time in the same way”.

“For Those I Love” non è un LP perfetto, come invece sostengono molte pubblicazioni inglesi (fra cui NME), ma certamente l’Irlanda si conferma terra ricca di spunti. Se prima la elogiavamo soprattutto per la scena punk e rock (U2, My Bloody Valentine e Fontaines D.C. ne sono luminosi esempi), anche nell’elettronica abbiamo trovato un nuovo esponente che pare destinato a scrivere pagine importanti in futuro.

20) Parannoul, “To See The Next Part Of The Dream”

(ROCK)

L’opera prima del misterioso progetto coreano Parannoul è un disco shoegaze in bassa fedeltà. Pochissimi sanno chi ci sia dietro al nome d’arte Parannoul: di certo sappiamo solo che è uno studente di Seul, che si descrive “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”. Inoltre, descrive le sue doti canore come “pessime”. Insomma, tutto congiura contro Parannoul: ma allora come è possibile che “To See The Next Part Of The Dream” sia un buon disco shoegaze?

Partiamo dal fatto che, per i cultori della perfezione musicale, magari amanti dei My Bloody Valentine, questo CD non rientra nei canoni dello shoegaze. I suoni sono sporchi, la fedeltà molto bassa, la voce pressoché inintelligibile… allo stesso tempo, però, le progressioni chitarristiche della lunghissima White Ceiling (dieci minuti precisi!) e dell’iniziale Beautiful World catturano l’ascoltatore meno pignolo. I riferimenti sono chiari: Ride, Slowdive, i primi M83… ma il dream pop di Extra Story e la quasi post-hardcore Youth Rebellion sono outliers davvero interessanti, che aprono nuove strade a Parannoul.

Anche le liriche, seppur cantate in coreano, se tradotte sono molto profonde, spesso disperate: “I wish no one had seen my miserable self, I wish no one had seen my numerous failures, I wish my young and stupid days to disappear forever” ne è solo l’esempio più calzante (Beautiful World). Il malessere giovanile è subito percepibile, così come la cultura emo che permea molta parte del CD.

In conclusione, “To See The Next Part Of The Dream” è un buon LP, di quelli che fanno capire quanto Internet possa essere benefico. Chi avrebbe mai sentito parlare di Parannoul e di questo album senza Bandcamp, Spotify e co.?

19) Wolf Alice, “Blue Weekend”

(ROCK)

Reduci dal grande successo di “Visions Of A Life” (2017), che li ha portati a vincere il primo Mercury Prize della loro giovane carriera, i Wolf Alice hanno cercato di cambiare leggermente una formula davvero efficace.

In passato li abbiamo sentiti sia nella loro versione più grunge, soprattutto nell’esordio “My Love Is Cool” (2015), che flirtare con lo shoegaze (nel già citato “Visions Of A Life”). L’ingrediente principale era però sempre stato un indie rock sbarazzino, con chiari riferimenti agli anni ’90, con la bella voce della frontwoman Ellie Rowsell a fare da collante.

“Blue Weekend” è un CD molto personale, anche e soprattutto nelle liriche, che spesso evocano rapporti amorosi del passato o l’importanza di esprimersi liberamente. Esemplare il seguente verso, in The Last Man On Earth: “Every book you take that you dust off from the shelf has lines between lines between lines that you read about yourself”, oppure questa frase, da No Hard Feelings: “It’s not hard to remember when it was tough to hear your name, crying in the bathtub to ‘Love Is A Losing Game’”. Ciò non va a discapito della spontaneità delle canzoni: Smile e The Beach II sono ottimi pezzi, con ritornelli che entrano nella testa dell’ascoltatore e non la lasciano più.

Sono altre però le sorprese: The Last Man On Earth è un grandioso pezzo pop, che evoca addirittura David Bowie e, fra le artiste emerse più recentemente, Weyes Blood. Abbiamo poi il folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love), in cui il batterista Joel Amey affianca la Rowsell nel canto. Invece, in Play The Greatest Hits, il bassista Theo Ellis è assoluto protagonista con una linea di basso davvero irresistibile. Tuttavia, è sempre Ellie Rowsell la protagonista: la sua voce assume diverse connotazioni, che si tratti di momenti più intimi (dolce in The Last Man On Earth) o più trascinanti (tiratissima in Play The Greatest Hits).

In conclusione, “Blue Weekend” non scrive la storia della musica: i rimandi al rock alternativo degli anni’90, dalla prima Alanis Morissette a Liz Phair, sono chiari. Tuttavia, è un piacere seguire l’evoluzione dei Wolf Alice e cercare di capire dove andranno a cadere nel loro prossimo lavoro. Il successo che li ha baciati in passato e, siamo sicuri, tornerà a far riempire loro i palazzetti di tutta Europa, è meritato.

18) Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, “A Beginner’s Mind”

(FOLK)

Sufjan Stevens è tornato a comporre musica folk: finalmente, verrebbe da dire! Affiancato dal giovane cantautore Angelo De Augustine, genera con “A Beginner’s Mind” un eccellente album folk, che lo fa tornare ai fasti di “Carrie & Lowell” (2015), anche se senza la portata di drammaticità di quel lavoro.

I due hanno infatti preso ispirazione da film del passato prossimo e remoto, da Il Silenzio Degli Innocenti a La Notte Dei Morti Viventi, creando una colonna sonora fittizia per questi film. Alle volte i riferimenti sono chiari (Back To Oz, Lady Macbeth In Chains), altre più velati (ad esempio You Give Death A Bad Name mescola zombie e Bon Jovi).

Musicalmente, siamo di fronte al ritorno al folk da parte di uno dei migliori cantautori della sua generazione, dopo gli esperimenti elettronici di “The Ascension” e “Aporia” dell’anno passato. Alcuni brani catturano subito l’ascoltatore, Back To Oz e Reach Out sono tra questi; in altri invece prevale forse la prudenza e Sufjan e Angelo non sperimentano, si senta It’s Your Own Body And Mind. In generale, tuttavia, nessuno dei 13 brani del CD suona fuori posto.

Testualmente, parlando di supposte colonne sonore per film del passato, i riferimenti ai capolavori citati sono numerosi, ma una frase spicca, contenuta in (This Is) The Thing, dedicata a La Cosa di John Carpenter: “This is the thing about people, you never really know what’s inside… Somewhere in the soul there’s a secret”.

In conclusione, il maestro Sufjan Stevens e il suo protegé Angelo De Augustine hanno prodotto, con “A Beginner’s Mind”, il miglior album folk dell’anno. Se serviva una conferma ulteriore del talento sconfinato di Stevens, ecco qua la prova.

17) Tyler, The Creator, “CALL ME IF YOU GET LOST”

(HIP HOP)

Tyler Gregory Okonma (questo il vero nome del Nostro) ha riesumato, con questo suo nuovo CD, alcuni tratti della sua prima parte di carriera. Se sia “Flower Boy” (2017) che “IGOR” (2019) avevano flirtato con il neo-soul, questo “CALL ME IF YOU GET LOST” è decisamente più hip hop. Anche i testi fanno i conti con il giovane Tyler, The Creator: in MASSA esclama “Yeah, when I turned 23 that’s when puberty finally hit me, my facial hair started growing, my clothing ain’t really fit me… See, I was shifting, that’s really why Cherry Bomb sounded so shifty”.

In effetti, “Cherry Bomb” (2015) è visto da molti come il peggior disco della sua produzione, confuso e prolisso; ma forse è stato proprio quello che gli ha fatto capire che anche il talento, se non addomesticato, non serve a nulla. Tyler, da quel momento, si è dedicato a rifarsi un’immagine pubblica più pulita e a puntare tutto sulla musica e non sulle provocazioni.

Il rapper omofobo e volgare delle origini lasciò il posto, in “Flower Boy”, a un ragazzo fragile, capace di confessare di avere avuto esperienze omosessuali in passato. Un cambiamento radicale, che fece bene anche alla sua musica, definitivamente sbocciata con “IGOR”, con tanto di Grammy vinto. “CALL ME IF YOU GET LOST” rappresenta un altro buon lavoro in una discografia sempre più interessante.

Per il nuovo lavoro, Tyler si serve anche di collaboratori di spessore: DJ Drama compare in molte canzoni, mentre Pharrell Williams e Lil Uzi Vert sono ospiti della potente JUGGERNAUT. Abbiamo poi Lil Wayne, uno dei riferimenti del giovane Tyler Okonma, in HOT WIND BLOWS e Domo Genesis, ex collega della Odd Future, in MANIFESTO. Tuttavia, questi ospiti non offuscano mai la figura principale, che nel corso del CD assume l’identità di Sir Baudelaire, come dichiara nell’omonima traccia iniziale, in omaggio al poeta dei “Fiori Del Male”.

Liricamente, come già accennato, Tyler continua a mostrare lati del suo carattere che, fino a “Wolf” (2013), ci erano del tutto sconosciuti. Ad esempio, in MANIFESTO analizza l’impatto delle sue azioni in chiave antirazzista sopra una base che pare presa in prestito da Kendrick Lamar: “Hit some protest up, retweeted positive messages, donated some funds… Am I doing enough or not doing enough?”. In MASSA confessa che sua madre, nel 2011, viveva in un rifugio. Invece, in WILSHIRE, emerge una storia d’amore con una ragazza fidanzata con un suo amico: i tormenti di Tyler sono evidenti, a un tratto pare pronto a sacrificare l’amicizia, subito dopo si pente e rinuncia all’amore… Insomma, confessioni a cuore aperto da parte sua (e inevitabili pettegolezzi sul fatto se la storia sia vera o meno).

Dicevamo che il rap la fa da padrone in “CALL ME IF YOU GET LOST”: i singoli di lancio, da LUMBERJACK a WUSYANAME, vanno fortemente in questa direzione. Tuttavia, allo stesso tempo, il Tyler più pop di “IGOR” non viene totalmente sacrificato: i due brani più ambiziosi, SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE e WILSHIRE, sono R&B di qualità. Questa varietà alle volte è confusionaria, ma i risultati generali sono ottimi.

La struttura del lavoro è davvero particolare: abbiamo una canzone che supera gli otto minuti, un’altra che quasi arriva a dieci! Ma poi allo stesso tempo contiamo numerosi intermezzi e brani che sembrano solo abbozzati… Insomma, una creatività incontenibile, non sempre efficace ma mai fine a sé stessa. Dei pochi brani che superano i tre minuti di durata, i migliori sono MASSA e SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE; buona anche LEMONHEAD. Invece sotto le attese RISE!.

In conclusione, il CD è un altro passo avanti per un artista imprescindibile se si vuole comprendere lo scenario hip hop contemporaneo. Tyler, The Creator si conferma cantautore maturo e baciato dal talento: il successo di pubblico e critica che ultimamente sta avendo è meritato.

16) shame, “Drunk Tank Pink”

(PUNK)

Il secondo disco degli shame, talentuosa band punk inglese, evita con abilità la “trappola del secondo album” che spesso colpisce gruppi che hanno scritto esordi fantastici quali “Songs Of Praise” (2018), che fra le altre cose era stato oggetto di una rubrica Rising di A-Rock ed era entrato sia nella lista dei migliori CD dell’anno che in quella dei migliori della decade 2010-2019.

Insomma, A-Rock attendeva con trepidazione “Drunk Tank Pink” e gli shame non hanno tradito. Il disco suona più feroce rispetto all’esordio, che flirtava con l’indie rock in larghi tratti. “Drunk Tank Pink” invece è un puro album punk: arrabbiato, feroce, oltre che influenzato dalla pandemia che ormai da un anno sta devastando le nostre vite. Questo sebbene il CD sia pronto da tempo: basti dire che già a febbraio 2020 il lavoro doveva essere pubblicato, ma il Covid-19 ne ha ritardato l’uscita.

E allora come mai il sentimento di isolamento traspare così chiaramente dalle liriche di “Drunk Tank Pink”? Il frontman Charlie Steen, dopo un tour estenuante seguito al successo di “Songs Of Praise”, si è auto-isolato in un ambiente a chiare tinte rosa (da qui il titolo) cercando di recuperare le forze fisiche e mentali. Lo stesso hanno fatto i suoi compagni di band, con effetti sorprendenti sul loro sound: come già accennato, il disco suona davvero feroce in alcuni tratti, si sentano per esempio 6/1 e la cacofonica Station Wagon che chiude il disco. Merito anche dello sperimentalismo alla chitarra di Sean Coyle-Smith e della produzione di James Ford, già all’opera con Arctic Monkeys e Foals.

Non per questo gli shame rinunciano totalmente all’essere amichevoli con l’ascoltatore: l’iniziale Alphabet è un ottimo singolo di lancio, così come Nigel Hitter. Tuttavia, le migliori canzoni sono quelle propriamente punk, su tutte Water In The Well. Invece sotto la media proprio Nigel Hitter.

Le liriche, come dicevamo, trasudano angoscia e malinconia malgrado siano state scritte pre-Covid: in March Day Steen urla “In my room, in my womb, is the only place I find peace”. Invece in Water In The Well emerge il lato più canzonatorio degli shame: “Which way is heaven, sir? We all got lost somehow” è un verso davvero ironico. Infine Station Wagon conclude epicamente “Drunk Tank Pink” con le seguenti, ambiziose parole: “Nobody said this was going to be easy and with you as my witness I’m going to try and achieve the unachievable”.

In generale, dunque, “Drunk Tank Pink” non è affatto una replica del fortunato “Songs Of Praise”, quanto piuttosto una prova ulteriore del talento degli shame. Il mondo punk inglese ha ufficialmente trovato un altro gruppo imprescindibile: ispirandosi un po’ ai Parquet Courts, un po’ ai Talking Heads (con spruzzate del jazz caro ai black midi), gli shame hanno scritto una pagina davvero importante del 2021.

15) SAULT, “Nine”

(SOUL – R&B)

Il quinto album in meno di tre anni del misterioso gruppo inglese SAULT è uno dei migliori CD di musica black del 2021. Uscito il 25 giugno e disponibile, sia in streaming che come download dal sito ufficiale del gruppo, per soli 99 giorni, “Nine” rende i SAULT un nome imprescindibile per gli amanti di soul, funk ed R&B.

Se l’anno scorso i britannici avevano pubblicato una densa coppia di album, intitolati “UNTITLED (Black Is) e “UNTITLED (Rise)”, con profondi significati politici, il 2021 li vede concentrati su affreschi di vita quotidiana nelle periferie di Londra. Il CD scorre bene, con durata (34 minuti) e numero di canzoni (dieci, con due intermezzi) accessibili a tutti. Fondendo abilmente il meglio della tradizione nera, con richiami a Marvin Gaye, Stevie Wonder e Kendrick Lamar, “Nine” è davvero un bel disco.

Anche liricamente i SAULT si confermano versatili e potenti: se nel brevissimo Mike’s Story l’ospite Micheal Ofo narra drammatici episodi della sua vita quotidiana da bambino, in Alcohol invece si parla degli effetti della dipendenza (“Oh alcohol, look what I’ve done… Oh alcohol, it was only supposed to be one”) e You From London ospita una Little Simz in gran forma, che spara versi come “I know killers in the streets, but I ain’t really involved. We don’t wanna cause any grief, but we get triggered when hearin’ the sound of police”.

Insomma, i SAULT restano tanto misteriosi quanto talentuosi. “Nine” rappresenta ad oggi il loro LP più compiuto, con tante tracce che restano impresse nella memoria dell’ascoltatore (soprattutto London Gangs e Bitter Streets) e nessun episodio davvero debole. In poche parole: stiamo parlando di uno dei migliori dischi dell’anno.

14) Magdalena Bay, “Mercurial World”

(POP)

Il primo disco dei Magdalena Bay, la band formata da Mica Tenenbaum e Matthew Lewin, è una ventata di aria fresca nella scena pop. Mescolando influenze variegate, da Grimes a Charli XCX passando per Carly Rae Jepsen, il duo riesce infatti a creare un CD davvero trascinante, ben sequenziato e ricco di ottimi pezzi synth pop.

Passando sopra la scelta di iniziare “Mercurial World” con The End e terminarlo con The Beginning, un po’ troppo fintamente anticonformista, i Magdalena Bay confermano il bene che si diceva di loro negli ambienti specialistici. Dalla title track a Chaeri, da You Lose! a Secrets (Your Fire), il CD è un trionfo per gli amanti tanto di Britney Spears quanto di Madonna, tanto per citare due veterane della scena. Insomma, abbiamo trovato un ottimo disco pop.

Non fosse per testi spesso deboli e una seconda metà leggermente sottotono (che contiene ad esempio la prevedibile Prophecy) rispetto alla squisita parte iniziale, staremmo parlando di un capolavoro. Tuttavia, contando che stiamo parlando di un esordio sulla lunga durata (a nome Magdalena Bay compaiono infatti anche un EP e due brevi mixtape), “Mercurial World” è davvero un successo e farà certamente comparire il nome dei Magdalena Bay in varie liste dei migliori album del 2021.

13) Turnstile, “GLOW ON”

(PUNK)

Giunti al terzo album di punk tanto duro quanto sperimentale, gli americani Turnstile hanno prodotto il migliore CD della loro carriera. Mescolando hardcore, rock alternativo, R&B (!) e dream pop (!!), la band con “GLOW ON” ha creato un’esperienza sonora davvero unica.

Sia chiaro, la sperimentazione è benvenuta, ma “GLOW ON” è un album di hardcore punk fatto e finito: pezzi come DON’T PLAY e HOLIDAY sono durissimi, tanto per capirsi. Invece abbiamo ad esempio UNDERWATER BOI e ALIEN LOVE CALL, che suonano quasi rilassanti. A chiudere il cerchio, il grande artista R&B Blood Orange (nome d’arte di Dev Hynes) collabora proprio in ALIEN LOVE CALL e LONELY DEZIRES, confondendo ancora di più le acque. Insomma, un cocktail sonoro incredibile e sorprendente, che ammalia sia i fan duri e puri sia, potenzialmente, il pubblico più mainstream.

Liricamente, il lavoro passa da liriche più riflessive (“Too bright to live! Too bright to die!” in HOLIDAY e “Still can’t fill the hole you left behind!” in FLY AGAIN) ad altri più trascinanti e pronti per i live incendiari della band, come “You really gotta see it live to get it” (NO SURPRISE) e “If it makes you feel alive! Well, then I’m happy to provide!” (BLACKOUT). La frase più rappresentativa dell’estetica dei Turnstile è però contenuta in HOLIDAY: “I can sail with no direction”.

I migliori brani sono BLACKOUT e MYSTERY, mentre un po’ sotto la media i brevi intermezzi HUMANOID / SHAKE IT UP e NO SURPRISE. In generale, tuttavia, siamo di fronte a un CD davvero innovativo per il genere hardcore e che potrebbe aprire la strada a molti gruppi nei prossimi anni, vogliosi di rischiare lo “sbarco” nel mondo più commerciale senza però tradire il genere.

12) Iceage, “Seek Shelter”

(ROCK – PUNK)

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

11) Floating Points, Pharoah Sanders & London Symphony Orchestra, “Promises”

(ELETTRONICA – JAZZ)

La collaborazione fra un grande veterano del jazz, un talentuoso compositore di musica elettronica e una tra le orchestre più stimate a livello mondiale non poteva che dare risultati interessanti. “Promises” è un lavoro molto ambizioso, che riesce nel complesso a mescolare abilmente i tre mondi messi a confronto e lascia brillare tutti e tre gli interpreti in eguale maniera.

Il CD si compone di nove movimenti composti da Sam Shepherd, in arte Floating Points, poi arrangiati assieme a Pharoah Sanders, leggenda vivente del jazz, e alla London Symphony Orchestra. Se all’inizio è difficile riuscire a capire cosa aspettarsi, col tempo e attraverso ripetuti ascolti “Promises” si rivela un LP molto ricco, ma non sovraccarico, in cui gli attori sono tutti protagonisti allo stesso livello.

Il primo movimento è decisamente rilassante, un pezzo ambient in cui il potente sax di Sanders si sente solo nella parte finale; invece poi nel successivo la situazione si ribalta e Shepherd lascia il palcoscenico all’orchestra e a Pharoah. Il lavoro è un continuo, sapiente alternarsi fra momenti più vivi (Movement 4) e altri più quieti (Movement 8), che creano un prodotto davvero imperdibile per gli amanti del jazz e della musica d’ambiente. I migliori momenti sono rintracciabili in Movement 1 e Movement 6, mentre è sotto la media Movement 9.

In conclusione, la collaborazione fra tre pesi massimi della scena musicale, rappresentanti di generi apparentemente distanti come musica classica, jazz ed elettronica, ha generato un lavoro davvero ben strutturato, i cui 46 minuti rappresentano un toccasana in tempi così difficili. Non per tutti, ma “Promises” almeno un ascolto lo merita.

10) Nick Cave & Warren Ellis, “CARNAGE”

(ROCK)

Il nuovo disco della leggenda australiana del rock alternativo e del fidato Bad Seed Warren Ellis è un’altra aggiunta di spessore ad una discografia davvero magnifica. Si tratta peraltro della prima collaborazione fra i due non devota alla creazione di una colonna sonora per un film. Riprendendo alcuni dei territori musicali esplorati nei lavori recenti con i Bad Seeds e tornando ad alcune sonorità più rock del passato, Nick Cave ha scritto un CD perfetto per la pandemia che stiamo vivendo: a tratti angosciante, ma con un messaggio di speranza che dà conforto.

“CARNAGE”, letteralmente “massacro”, è un titolo intimidatorio, soprattutto in pieno Covid-19: tuttavia, il tema del virus è solo marginale rispetto alle riflessioni proposte da Cave ed Ellis. Emergono soprattutto i temi della fede e dell’amore, da sempre al centro della poetica di Nick Cave; ma se fino a “Push The Sky Away” (2013) c’era sempre una visione quasi demoniaca, da artista maledetto, la morte tragica del figlio Arthur nel 2015 ha radicalmente cambiato le carte in tavola per Nick Cave & The Bad Seeds, che da quel momento hanno privilegiato ritmi più compassati e sonorità quasi ambient, basti risentirsi “Ghosteen” (2019).

Testualmente, dicevamo che il disco tratta temi svariati: il “kingdom in the sky” ritorna più volte nel corso dell’opera, dapprima nell’iniziale Hand Of God e poi in White Elephant e Lavender Fields. Il messaggio più bello che viene trasmesso dal Nostro, contenuto in quest’ultima composizione, è però dedicato ai nostri cari che ci hanno lasciato: “Where did they go? Where did they hide? We don’t ask who, we don’t ask why there is a kingdom in the sky”. Infine, Shattered Ground affronta il tema del rapport tormentato fra il narratore e la sua partner, con una frase che molti di noi avranno pensato almeno una volta nella vita: “Oh, baby, don’t leave me”, che assume un significato ancora più evocativo in questi tempi difficili.

Il CD è molto compatto: otto brani per 40 minuti. Il contenuto musicale è però davvero notevole: passando dall’art pop di Albuquerque alle sonorità più dure di White Elephant, con in mezzo l’ottima Old Time e una seconda parte più raccolta, “CARNAGE” è uno dei migliori dischi di inediti pubblicati nel 2021. Nick Cave ha confermato ancora una volta un talento più unico che raro e, aiutato dal fido Warren Ellis, ha pubblicato un lavoro imprescindibile per gli amanti del cantautore australiano.

9) Squid, “Bright Green Field”

(PUNK – ROCK – SPERIMENTALE)

Le prime parole cantate da Ollie Judge in G.S.K., primo vero brano del CD d’esordio dei britannici Squid (se sorvoliamo l’intro ambient di Resolution Square), sono: “As the sun sets, on the Glaxo Klein, well it’s the only way that I can tell the time”. Beh, la dichiarazione d’intenti è chiara: gli Squid sono decisamente anticapitalisti e non esitano a farlo sapere immaginando un’isola distopica, su cui il settore industriale dei Big Pharma governa indisturbato. Se a ciò aggiungiamo che il frontman è il batterista del gruppo (piuttosto insolito eh?) e che, oltre al classico trio chitarra-basso-batteria, negli Squid trovano spazio sax, violini, trombe e chi più ne ha più ne metta, capirete che siamo di fronte a un lavoro piuttosto variegato e sfidante.

Le 11 canzoni che formano “Bright Green Field” sono pervase da questo senso di inquietudine, accentuato dal modo di cantare di Judge: nevrotico, paranoide, molto simile al David Byrne dei primi Talking Heads. Il riferimento alla band statunitense non è casuale: nei brani migliori del lavoro, da Narrator a Paddling, i Talking Heads sono un chiaro riferimento per gli Squid. Non dobbiamo però pensare che i giovani britannici siano solamente un ennesimo succedaneo della scena new wave e post-punk degli anni ’80.

Infatti, accanto a David Byrne & co., troviamo il post-rock degli Slint (2010), il rock danzereccio dei Franz Ferdinand (Paddling) e una parentesi drone francamente non molto riuscita, ma comunque indice di una voglia di sperimentare sconfinata (Boy Racers). Accanto a questo interessante cocktail sonoro troviamo, come già accennato, liriche spesso davvero pessimiste (un esempio è “You’re always small and there are things that you’ll never know”, in Boy Racers), quando non vere e proprie urla selvagge (Narrator, merito dell’ospite Martha Skye Murphy).

Il 2021 si è caratterizzato come l’anno in cui il rock è tornato sulle bocche di tutti, non tanto per le imprese dei vecchi leoni, ma piuttosto per l’emergere sulla scena underground, specialmente inglese, di band davvero intriganti, ambiziose e mai dome (citiamo, oltre agli Squid, i black midi e i Black Country, New Road). “Bright Green Field” non è un LP perfetto, ma sembra un ottimo antipasto di una carriera già ottimamente lanciata dall’EP del 2019 “Town Centre”. Gli Squid, dal canto loro, si candidano a grande rivelazione della scena punk-rock del 2021.

8) The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

(ROCK)

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

7) Godspeed You! Black Emperor, “G_d’s Pee AT STATE’S END!”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo CD del leggendario gruppo post-rock canadese è un highlight in una carriera già costellata di perle, sia molto in là nel tempo (“Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” del 2000) che più recenti (“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” del 2012). Il disco è infatti fra i più euforizzanti in un periodo di sospensione come quello che stiamo vivendo, in cui alla paura del virus si contrappone la speranza per le campagne vaccinali in corso. Che la luce sia finalmente in fondo al tunnel? I Godspeed You! Black Emperor, a tratti, ne paiono convinti.

In effetti, l’inizio del lavoro ci fa tornare alle lugubri atmosfere di “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”: A Military Alphabet, la prima delle quattro suite in cui è diviso “G_d’s Pee AT STATE’S END!”, è il pezzo più ossessivo e pessimista del lavoro. Al contrario, il tono della seguente Fire At Static Valley è più positivo e fa del post-rock quasi gradevole e accessibile, non una tipica caratteristica dei Godspeed You! Black Emperor.

Le due lunghe tracce che chiudono il lavoro, “GOVERNMENT CAME”OUR SIDE HAS TO WIN (for D.H.), mantengono questa dualità; tuttavia, a differenza dei lavori della prima fase della carriera del complesso di Montreal, il tono complessivo è di cauto ottimismo. È per questo che “G_d’s Pee AT STATE’S END!” è un ottimo LP per la vita durante la fase conclusiva (almeno speriamo) dell’emergenza Covid-19: se è vero che non siamo di fronte ad un disco puramente pop, d’altro canto la forza di queste quattro composizioni è innegabile e rende il 2021 davvero interessante per gli amanti del rock alternativo e sperimentale.

Un’ultima curiosità: il quattro pervade tutto il CD. Siamo infatti di fronte al quarto album della fase post reunion della band, le canzoni (pur elaborate) sono teoricamente quattro e probabilmente, come qualità, questo è il quarto più bel disco nell’intera produzione dei canadesi. Quest’ultimo dato è sufficiente per capire il talento di questi pilastri dello scenario rock.

6) Dave, “We’re All Alone In This Together”

(HIP HOP)

Avevamo lasciato Dave, il talentuoso rapper britannico di origine nigeriana, al successo dell’esordio “Psychodrama” (2019), che gli aveva fatto vincere il Mercury Prize e lo aveva reso una delle voci preminenti della nuova generazione inglese. Beh, tutta questa credibilità viene mantenuta, se non rinforzata, da “We’re All Alone In This Together”: un CD lungo, difficile, ma di infinita profondità e con testi sempre toccanti ed efficaci. Potremmo davvero essere di fronte al miglior rapper d’Oltremanica al momento, almeno parlando al maschile (si veda la posizione numero 1 della lista).

Le 12 canzoni di “We’re All Alone In This Together” sono variegate, possono contare su ospiti di spessore internazionale come James Blake e Stormzy… e allo stesso tempo creano un album di altissimo replay value. Passiamo dalla durezza di Verdansk ai ritmi quasi tropicali di System (con Wizkid) alla trap accennata di Clash (che vanta Stormzy), con le perle delle monumentali cavalcate Both Sides Of A Smile e Heart Attack, la prima di circa otto minuti e la seconda lunga quasi dieci!

Anticipavamo che il CD non è di immediata assimilazione, anche per i temi trattati da Dave: nei testi possiamo infatti ritrovare riferimenti alla vita degli immigrati di origine jugoslava costretti a emigrare nel Regno Unito durante la guerra degli anni ’90, così come la denuncia della maggiore ingiustizia mai patita da immigrati in terra inglese (rimpatriare nei Caraibi delle persone che avevano diritto di stare Oltremanica, privandoli dei loro averi e delle loro case). A chiudere il quadro, nell’introduttiva We’re All Alone il rapper parla di istinti suicidi sia per sé stesso che per il ragazzo con cui dialoga nel corso del brano, mentre nel pezzo finale Survivor’s Guilt si mette a piangere a causa di un attacco d’ansia… Del resto, da colui che aveva immaginato il suo esordio come la confessione di uno psicopatico non potevamo aspettarci di meno.

In conclusione, la ricchezza di significati e di sonorità fanno di “We’re All Alone In This Together” un album imprescindibile per gli amanti dell’hip hop. Dave si candida come re dello scenario rap britannico e, chissà, a sfondare anche in altre parti del mondo. La cosa più incredibile è che non si può essere sicuri che abbia raggiunto il picco delle proprie qualità: che si sia di fronte al nuovo Kendrick Lamar? La risposta al prossimo CD. Per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori prodotti hip hop dell’anno.

5) Silk Sonic, “An Evening With Silk Sonic”

(R&B – SOUL)

Ci sono collaborazioni che sembrano fatte apposta per nascere e prosperare: il progetto Silk Sonic, formato da Bruno Mars e Anderson .Paak, ne è un caso emblematico. “An Evening With Silk Sonic” è una gemma, capace di evocare le atmosfere del soul anni ’70 di Marvin Gaye e Stevie Wonder con delicatezza ma senza suonare come un plagio, anzi con hit indelebili che ne fanno un CD imperdibile in questo strano 2021.

Non sempre le partnership fra pesi massimi escono come erano state pensate: se in certi casi era impossibile che fallissero (David Bowie e i Queen, con Under Pressure), in altri hanno prodotto risultati contraddittori (Future e Drake in “What A Time To Be Alive” del 2015) oppure addirittura disastrosi (Lou Reed e i Metallica con “Lulu”, 2011). Beh, Silk Sonic è un caso a sé stante: non per forza Mars e .Paak parevano destinati al successo, ma “An Evening With Silk Sonic” è un piccolo capolavoro, che rende i Silk Sonic maggiori della somma dei singoli interpreti.

Già i singoli di lancio avevano fatto pensare a un lavoro eccellente: Leave The Door Open è un’ottima ballata, Skate è un perfetto brano funk mentre Smoking Out The Window, pur leggermente inferiore agli altri due, è comunque un buonissimo pezzo. Se a questi aggiungiamo After Last Night, con la preziosa collaborazione di Thundercat e del veterano Bootsy Collins, già bassista dei Parliament-Funkadelic, abbiamo metà CD di perle. Il resto del lavoro contiene brani che, seppur discreti, non arrivano a questi livelli, ma il risultato complessivo è in ogni caso ottimo, contando anche la totale mancanza di tracce riempitivo (basti dire che “An Evening With Silk Sonic” dura a malapena 32 minuti), tanto che ci viene da desiderare che ci siano 2-3 canzoni in più per arrivare ai canonici 40 minuti, fatto sempre più raro nel panorama musicale odierno.

In conclusione, il progetto Silk Sonic, pur non brillando a volte di originalità (si senta Put On A Smile), raggiunge risultati davvero squisiti. Anderson .Paak è ormai pronto per il salto definitivo nel mainstream, mentre Bruno Mars, dal canto suo, si conferma infallibile produttore di hit. “An Evening With Silk Sonic”, ad oggi, è il miglior CD soul del decennio oltre che uno dei più belli del 2021.

4) Black Country, New Road, “For The First Time”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il giovane gruppo britannico, composto da ben sette elementi, quattro ragazzi e tre ragazze (tra cui sassofono e violino), ha pubblicato uno degli esordi più sorprendenti degli ultimi anni. Mescolando abilmente post-punk, jazz e post-rock, i Black Country, New Road si inseriscono nel solco dei black midi e di altre giovani band inglesi che stanno rivoluzionando la scena, denunciando allo stesso tempo i mali della società moderna.

“For The First Time” può sembrare un modo umile di introdurre la band al grande pubblico: il CD è infatti composto da sei canzoni, di cui due singoli, quindi gli inediti veri e propri sono solo quattro. Tuttavia, guardando il range coperto nel corso dei 40 minuti dell’album, si capisce che il vocalist Isaac Wood (dotato di un timbro molto simile a King Krule) e soci hanno operato una scelta corretta. I risultati, come già accennato, sono davvero incredibili a tratti.

Sorretti da una base ritmica clamorosa e con testi sempre calati nel presente, spesso amaro, che i membri del gruppo ben conoscono, i Black Country, New Road stupiscono fin da subito con Instrumental, che, come indica la parola, non ha testo ma serve da perfetta introduzione per le seguenti canzoni. Athens, France è uno dei brani più amichevoli del CD, non a caso scelto come singolo, mai prevedibile ma allo stesso tempo accessibile. Invece Science Fair è l’episodio più brutale, che ricorda gli Slint. Sunglasses è una traccia davvero epica, à la Nick Cave con tocchi di Godspeed You! Black Emperor che fa intravedere un possibile futuro per il gruppo. La delicata Track X (unica un po’ fuori contesto) e Opus chiudono un lavoro che richiede molteplici ascolti per esser apprezzato appieno.

In conclusione, “For The First Time” si candida ad esordio dell’anno in campo rock: sperimentale, feroce ma anche in alcuni tratti accessibile, è un disco che farà parlare di sé per lungo tempo. I Black Country, New Road hanno imposto degli standard molto alti per il loro futuro: vedremo se sapranno mantenerli. Inutile dire che, ad A-Rock, non vediamo l’ora di analizzare dove andranno a parare.

3) black midi, “Cavalcade”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori da ogni logica, ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

2) Billie Eilish, “Happier Than Ever”

(POP)

Era il CD più atteso dell’estate e ha pienamente mantenuto le aspettative. “Happier Than Ever”, il secondo album della popstar più brillante del momento, fa di Billie Eilish non solo un nome imprescindibile per capire il pop contemporaneo, ma anche la più seria candidata alla palma di album dell’anno in ottica Grammy, premio che lei ha già conquistato con il fulminante esordio “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” del 2019.

È difficile inquadrare il fenomeno Billie Eilish senza partire dalle sue origini: amante delle canzoni di Justin Bieber e delle altre popstar, la giovanissima Billie (intorno ai 13-14 anni) incomincia a postare le sue canzoni su Youtube e su Spotify. Il successo è immediato e il passaparola la porta a essere considerata una stella ancora prima di incidere un disco vero e proprio. L’EP “dont smile at me” (2017) è solo un antipasto prima dell’abbuffata di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, che la catapulta in una dimensione dove solo poche persone possono stare: adorata dai giovanissimi ma anche dai genitori più “progressisti”, amata dalla critica per le sonorità eterogenee rispetto al pop stereotipato che domina le classifiche, ma anche per i testi candidi sulle sue paure. Billie, infatti, non ha timore di parlare di istinti suicidi, visioni di amici seppelliti e mostri sotto il letto.

Il CD in realtà non è perfetto: ancora si respira una certa ingenuità in Billie e nel fratello Finneas, che produce tutti i suoi brani ed è spesso co-autore. Pezzi come Bad Guy e When The Party’s Over, tuttavia, sono irresistibili: specialmente il primo, ormai, è storia della musica. La ragazza con i capelli verdi, però, ha lasciato il passo ad un’altra incarnazione: capelli biondo platino, corpo non più nascosto sotto pesanti maglioni neri, in volto una malinconia evidente malgrado il titolo del lavoro, evidentemente ironico.

In effetti, c’è poco da stare allegri: il mondo è devastato da due anni da una pandemia terribile, Billie è osservata costantemente da paparazzi in cerca di scoop o stalker che la inseguono ovunque vada, non può avere una relazione amorosa normale a causa della sua fama… Tutto questo affiora, in modo più o meno evidente, in “Happier Than Ever”.

Fin dall’introduttiva Getting Older, infatti, i temi portanti del CD sono messi in evidenza: il titolo annuncia una Billie Eilish più matura, che non rinuncia all’ironia, “Things I once enjoyed just keep me employed now” canta convintamente. In Your Power emergono invece i rapporti di abuso stabiliti da alcuni uomini a danno delle ragazze più giovani e spesso indifese: “She was sleeping in your clothes, but now she’s got to get to class… Does it keep you in control, for you to keep her in a cage?”. Altrove emerge l’ansia per il futuro tipica dei giovani (“Know I’m supposed to be with someone, but aren’t I someone?”, my future) e la paura che le vengano attribuite dicerie non veritiere (“Stop, what the hell are you talking about? Get my pretty name out of your mouth”, Therefore I Am). Il tema che spesso emerge è però quello dell’amore tradito, finito male: nella title track il suo ex la chiama ubriaco da una Mercedes, Male Fantasy vede Billie perplessa mentre guarda un video pornografico.

Musicalmente, il CD è un trionfo: Eilish esplora folk (Your Power, Male Fantasy), pop elettronico à la Grimes (Oxytocin), R&B (OverHeated), trip hop (NDA), ritmi latini (Billie Bossa Nova) e addirittura il rock in stile Mitski nella title track. In mezzo abbiamo altri esperimenti davvero sorprendenti: my future parte come un semplice brano pop ma poi evolve in un brano quasi funk, con retrogusto jazz. Discorso a parte per Oxytocin e I Didn’t Change My Number: sono i due pezzi che più si avvicinano al pop gotico e a tinte horror di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, con il primo destinato a diventare un successo anche live della Nostra. Gli unici brani inferiori alla media stratosferica del CD sono Halley’s Comet, prevedibile, e Not My Responsibility, un brano spoken word dal forte significato ma debole melodicamente.

Chi credesse ancora che Billie Eilish è solamente un fenomeno mediatico, destinato a sgonfiarsi presto, dovrà ricredersi: “Happier Than Ever” è un lavoro completamente diverso dall’esordio, che pure aveva conquistato molti. Non sarebbe stato un peccato mortale tornare a quelle atmosfere; invece la cantautrice americana si è superata, optando per un lavoro composito, dove le 16 canzoni, tuttavia, non appaiono mai in sovrannumero. In poche parole, siamo di fronte ad una ragazza dal talento splendente.

1) Little Simz, “Sometimes I Might Be Introvert”

(HIP HOP)

Avevamo già capito dai singoli di essere di fronte ad un CD speciale. Introvert, Woman e I Love You, I Hate You sono colossali pezzi rap, ma non solo: Little Simz è capace, infatti, di flirtare con funk e soul in ugual maniera, creando un amalgama quasi perfetto. “Sometimes I Might Be Introvert”, in poche parole, è l’album migliore del 2021.

Little Simz, per i fan di lunga data di A-Rock, è un nome noto: inserita in un appuntamento della rubrica Rising e premiata con la palma di terzo miglior album del 2019 per “GREY Area”, il suo profilo era sempre stato sui taccuini anche della critica mainstream, ma non aveva mai sfondato completamente col pubblico, soprattutto quello al di fuori del Regno Unito. Ebbene, con questo CD è probabile che la notorietà della Nostra cresca; ed è un premio davvero meritato. Abbiamo trovato il contraltare a Kendrick Lamar, aspettando ovviamente il nuovo album di K-Dot, dato come ormai imminente.

Notiamo subito una cosa: le iniziali di “Sometimes I Might Be Introvert” danno SIMBI, che è il nomignolo con cui Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo è conosciuta fra gli amici più stretti. Non è un fatto casuale: molte volte nel corso del lavoro emerge questa duplicità, addirittura in Rollin Stone la sentiamo dire: “Can’t believe it’s Simbi here that’s had you listenin’… Well, fuck that bitch for now, you didn’t know she had a twin”, quasi come se stessimo assistendo ad uno sdoppiamento della sua personalità. Tuttavia, il tema del rapporto fra la Simbi privata e la Little Simz pubblica non è l’unico affrontato nel corso del CD.

Altrove abbiamo infatti la voglia di celebrità che colpisce molti di noi, specie in tempi di social network imperanti (“Why the desperate need for an applause?” domanda in Standing Ovation), l’assenza del padre (“Is you a sperm donor or a dad to me?” è forse il verso più bello della stupenda I Love You, I Hate You) così come la morte violenta del cugino, in Little Q Pt. 2. I versi più belli e potenti sono però contenuti in Introvert: “All we see is broken homes here and poverty, corrupt government officials, lies and atrocities. How they talking on what threatening the economy, knocking down communities to re-up on properties. I’m directly affected: it does more than just bother me”.

Non per questo, però, bisogna pensare che il CD sia troppo carico di tematiche e influenze; anzi, “Sometimes I Might Be An Introvert” spicca anche per l’incredibile abilità di Little Simz nel maneggiare generi diversi con uguale maestria. Se proprio vogliamo trovare un difetto nel disco, sono i numerosi intermezzi narrati dalla voce dell’attrice Emma Corrin, interprete di Diana Spencer nella serie tv The Crown e amica di Little Simz. Ma sarebbe un errore concentrarsi su di essi davanti a una tale quantità di canzoni magistrali.

Possiamo rintracciare i maestri di Simbi in Lauryn Hill, D’Angelo e lo stesso Kendrick Lamar, ma lei riesce a suonare puramente Little Simz. Se “GREY Area” era un LP scarno, con beat minimali su cui la Nostra rappava senza sosta, adesso c’è una intera orchestra che la supporta in alcuni brani, tra cui i due più belli del lavoro, Introvert e Woman. Altri pezzi imperdibili sono I Love You, I Hate You e la funkeggiante Protect My Energy.

In conclusione, “Sometimes I Might Be An Introvert” è il primo album rap davvero imperdibile del decennio 2020-2029. Chissà se qualcuno riuscirà in futuro a scrivere pagine altrettanto importanti in questo genere; per il momento godiamoci questo lavoro, il compimento di otto anni di carriera da parte di Little Simz, nuovo volto simbolo della scena hip hop britannica.

Il podio è quindi formato da due ragazze e un giovane gruppo britannico, che rappresentano tre dei generi più importanti al momento: rock, pop e rap. In quanto a diversità e varietà di generi, mai A-Rock aveva avuto un terzetto di così ampie vedute: un altro segno che la buona musica, quando colpisce l’ascoltatore, non conosce confini o pregiudizi di sorta.

Che ve ne pare di questa lista? Vi convince o avreste preferito vedere altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: febbraio 2021

Anche febbraio è finito. Un mese molto interessante, in cui segnaliamo le nuove pubblicazioni del progetto The Weather Station, dei Weezer, dei Cloud Nothings, di Madlib e di slowthai. Inoltre analizziamo i nuovi lavori di Julien Baker, King Gizzard & The Lizard Wizard, Nick Cave & Warren Ellis e della cantautrice Cassandra Jenkins. Per chiudere, daremo un’occhiata al primo “greatest hits” di The Weeknd. Buona lettura!

The Weeknd, “The Highlights”

the highlights

Chi segue A-Rock da un po’ di tempo sa che Abel Tesfaye, aka The Weeknd, ha secondo noi un posto speciale fra i cantanti pop della nuova generazione. I suoi primi tre lavori, i mixtape che nel 2011 cambiarono la faccia dell’R&B, il famosissimo “House Of Balloons” e i successivi “Thursday” e “Echoes”, sono entrati nella lista dei 200 più bei CD della scorsa decade. Inoltre, i più recenti “Beauty Behind The Madness” (2015) e “After Hours” (2020) sono listati nelle fra i migliori lavori dei rispettivi anni di pubblicazione. Non dimentichiamoci poi che, nella lista delle canzoni migliori del decennio, Abel ha un numero non trascurabile di menzioni.

Insomma, la collezione delle sue canzoni più rinomate non può che essere un appuntamento imperdibile per gli amanti del performer canadese. Starboy, The Hills, Can’t Feel My Face, Blinding Lights… sono tutte presenti le hits più celebri del Nostro. Casomai possiamo obiettare sul mancato inserimento di altre grandi melodie, come House Of Balloons/Glass Table Girls e Montreal, come della totale assenza di pezzi tratti da “Kiss Land” (2013), ma sono inezie in un canzoniere già ricolmo di classici a soli 30 anni di età.

The Weeknd è ormai un nome consolidato nel panorama pop e R&B, autore anche di collaborazioni con Kendrick Lamar, Daft Punk e Lana Del Rey, solo per citare tre dei nomi più rilevanti. “The Highlights” è una raccolta curata e completa, al netto di alcune assenze di peso. Resta comunque fondamentale per entrare nella discografia della star più brillante del panorama musicale contemporaneo.

Voto finale: 8,5.

Nick Cave & Warren Ellis, “CARNAGE”

carnage

Il nuovo disco della leggenda australiana del rock alternativo e del fidato Bad Seed Warren Ellis è un’altra aggiunta di spessore ad una discografia davvero magnifica. Si tratta peraltro della prima collaborazione fra i due non devota alla creazione di una colonna sonora per un film. Riprendendo alcuni dei territori musicali esplorati nei lavori recenti con i Bad Seeds e tornando ad alcune sonorità più rock del passato, Nick Cave ha scritto un CD perfetto per la pandemia che stiamo vivendo: a tratti angosciante, ma con un messaggio di speranza che dà conforto.

“CARNAGE”, letteralmente “massacro”, è un titolo intimidatorio, soprattutto in pieno Covid-19: tuttavia, il tema del virus è solo marginale rispetto alle riflessioni proposte da Cave ed Ellis. Emergono soprattutto i temi della fede e dell’amore, da sempre al centro della poetica di Nick Cave; ma se fino a “Push The Sky Away” (2013) c’era sempre una visione quasi demoniaca, da artista maledetto, la morte tragica del figlio Arthur nel 2015 ha radicalmente cambiato le carte in tavola per Nick Cave & The Bad Seeds, che da quel momento hanno privilegiato ritmi più compassati e sonorità quasi ambient, basti risentirsi “Ghosteen” (2019).

Testualmente, dicevamo che il disco tratta temi svariati: il “kingdom in the sky” ritorna più volte nel corso dell’opera, dapprima nell’iniziale Hand Of God e poi in White Elephant e Lavender Fields. Il messaggio più bello che viene trasmesso dal Nostro, contenuto in quest’ultima composizione, è però dedicato ai nostri cari che ci hanno lasciato: “Where did they go? Where did they hide? We don’t ask who, we don’t ask why there is a kingdom in the sky”. Infine, Shattered Ground affronta il tema del rapport tormentato fra il narratore e la sua partner, con una frase che molti di noi avranno pensato almeno una volta nella vita: “Oh, baby, don’t leave me”, che assume un significato ancora più evocativo in questi tempi difficili.

Il CD è molto compatto: otto brani per 40 minuti. Il contenuto musicale è però davvero notevole: passando dall’art pop di Albuquerque alle sonorità più dure di White Elephant, con in mezzo l’ottima Old Time e una seconda parte più raccolta, “CARNAGE” è ad oggi uno dei migliori dischi di inediti pubblicati nel 2021 (escludiamo infatti il greatest hits di The Weeknd che trovate sopra). Nick Cave ha confermato ancora una volta un talento più unico che raro e, aiutato dal fido Warren Ellis, ha pubblicato un lavoro imprescindibile per gli amanti del cantautore australiano.

Voto finale: 8.

Julien Baker, “Little Oblivions”

little oblivions

Il terzo album della cantautrice originaria del Tennessee è un ulteriore sviluppo del suono sperimentato nell’ottimo “Turn Out The Lights” (2017), il disco che aveva fatto conoscere Julien Baker ad un pubblico più ampio rispetto all’intimo “Sprained Ankle” (2015). Avere una band al completo a supportarla le consente di dare un sound più forte in certi tratti, rendendo “Little Oblivions” il suo CD più variegato.

Le premesse per un buon lavoro erano già state intraviste nei singoli di lancio: sia Hardline che Faith Healer sono highlights immediati del lavoro, le ancore a cui agganciare i brani più raccolti come Crying Wolf e Song In E. In generale, Julien non è mai parsa tanto aperta come sonorità, più vicino all’indie rock dell’amica Phoebe Bridgers di “Punisher” (2020) che al folk delle origini.

Ma, come abbiamo imparato nel corso degli anni, sono i testi la vera meraviglia, per certi versi la parte più angosciante del processo creativo della Baker. La sua sincerità disarmante è particolarmente evidente nei versi più tetri del lavoro: “What if it’s all black, baby, all the time?” canta in Hardline, mentre in Heatwave immagina di prendere l’intera cintura di Orione e legarsela attorno al collo per impiccarsi. Invece in Ringside si picchia fino a sanguinare e in Favor, assistita dalle sue compagne nella band boygenius (Phoebe Bridgers e Lucy Dacus), canta straziata “What right had you not to let me die?”. Essere cresciuta nel sud degli Stati Uniti, omosessuale e profondamente cristiana, ha lasciato tracce indelebili nella psiche della giovane cantautrice, che vengono alla luce nei suoi dischi.

In conclusione, un album che ha brani riusciti come Hardline e Faith Healer (senza scordare Relative Fiction) non può che essere valutato positivamente. Se a questo aggiungiamo testi tanto pessimisti quanto toccanti e una crescita personale e artistica evidente, “Little Oblivions” diventa imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

Voto finale: 8.

Cassandra Jenkins, “An Overview On Phenomenal Nature”

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Il secondo album della cantautrice statunitense riafferma una volta di più che il panorama cantautorale femminile è più vivo che mai: negli ultimi anni abbiamo visto emergere volti destinati a scrivere pagine rilevanti in futuro (Phoebe Bridgers, Lucy Dacus, Julien Baker e Sharon Van Etten solo per citarne alcune) e Cassandra Jenkins si aggiunge meritatamente a questa schiera.

“An Overview on Phenomenal Nature” ritmicamente si presenta come un CD a metà fra folk e art pop, un po’ la versione aggiornata al 2021 di “Bon Iver, Bon Iver” (2011) dell’omonimo progetto. Le canzoni sono ovattate, virano alle volte verso il country (Michelangelo), ma pezzi come Hard Drive mostrano tutto il talento compositivo della Nostra.

Liricamente, le sole sette canzoni descrivono soprattutto quadretti di vita quotidiana: una testimonianza di una guardia giurata di un museo; il dolore di sentire che un tuo idolo d’infanzia, con cui avresti dovuto intraprendere un tour, si è suicidato; sentimenti divergenti come sarcasmo e frustrazione… I versi che restano più impressi sono i seguenti: “Empty space is my escape” (Crosshairs), “Baby, go get in the ocean… The water, it cures everything” (New Bikini) e il potente “We’re gonna put your heart back together, are you ready?” in Hard Drive.

In conclusione, la brevità del lavoro gioca sia a favore che contro il risultato finale: se da un lato la noia non affiora mai, è anche vero che i soli 31 minuti ci fanno desiderare qualcosa in più, contando il finale quasi ambient di The Ramble abbiamo infatti soli sei brani cantautorali veri e propri. “An Overview On Phenomenal Nature” resta però davvero interessante nei suoi passaggi migliori e merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

The Weather Station, “Ignorance”

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Il quinto album della cantautrice Tamara Lindeman, meglio conosciuta come leader del progetto The Weather Station, è una decisa svolta verso territori art pop. Se originariamente la si poteva inquadrare nel folk tipico dei cantautori anni ’60, “Ignorance” ricorda i CD recenti di Weyes Blood e Sharon Van Etten, con un tocco jazz in alcuni brani che arricchisce ulteriormente la ricetta.

Il brano migliore è l’iniziale Robber, un inno anticapitalista che è una lenta progressione verso il raffinato jazz della coda strumentale. Ora che The Weather Station si è arricchita di una band al completo a supportarla (chitarra, basso, sassofono e ben due percussionisti), la differenza rispetto ai minimali CD degli esordi è notevole. Anche Atlantic, la seconda canzone in scaletta, è uno dei migliori esempi di questo nuovo stile di Tamara Lindeman.

Nella seconda parte del lavoro la qualità sembra calare leggermente, a causa di pezzi più prevedibili come Loss e Separated, ma i risultati complessivi restano più che buoni. Da evidenziare anche alcuni passaggi lirici di “Ignorance”: il tema portante (come anche il nome del progetto anticipa) è il cambiamento climatico e l’ignoranza che pervade molti su un tema considerato da Lindeman ineludibile per i prossimi anni. In Atlantic il verso “I should really know better than to read the headlines” è emblematico e nella stessa canzone abbiamo anche “My god, I thought, ‘What a sunset.’”, davvero poetico. È poi interessante l’uso della voce di Lindeman: mai alta nel mix, piuttosto quasi uno strumento come gli altri.

In generale, dunque, “Ignorance” musicalmente non introduce nulla di radicale nel mondo del pop più raffinato. The Weather Station ha prodotto un LP che ricorda quasi uno dei recenti album dei Destroyer, un pop raffinato e sontuoso a tratti, arricchito da liriche spesso acute. Che sia la svolta per Tamara Lindeman? Attendiamo il suo prossimo lavoro per una valutazione più precisa.

Voto finale: 7,5.

Weezer, “OK Human”

ok human

Dopo un 2019 da molti salutato come il peggior anno della ormai lunga carriera dei Weezer, che ha visto l’uscita dei mediocri “Weezer (Teal Album)” e “Weezer (Black Album)”, seguito dal 2020 che tutti conosciamo, Rivers Cuomo & co. hanno in mente un 2021 ricco di sorprese: due CD in uscita, il qui presente “OK Human” e “Van Weezer”, e il tour più atteso dagli amanti del pop-punk, l’Hella Mega Tour in compagnia di Green Day e Fall Out Boy.

La partenza del 2021 è in realtà una boccata d’ossigeno per una band sempre in bilico fra grandi dischi (soprattutto negli anni ’90 del secolo scorso) e flop colossali (uno su tutti: “Make Believe” del 2005). “OK Human” riecheggia ironicamente nel titolo “OK Computer” dei Radiohead (e un brano si intitola Here Comes The Rain, ricorda qualcosa?), ma in realtà i Weezer scanzonati lasciano in questo lavoro il posto a un gruppo maturo, coinvolto come tutti nei lockdown pandemici e con poca voglia di scherzare. Cuomo riecheggia i maestri pop del passato, dai Beach Boys a Serge Gainsbourg passando per Harry Nilsson, con garbo; l’uso di un’intera orchestra arricchisce la ricetta, echeggiando Elton John nei suoi momenti migliori.

I risultati, come già accennato, sono confortanti: al tredicesimo album di inediti (non contando il “Teal Album” che era una raccolta di cover), Rivers Cuomo pare aver trovato una veste che gli si addice oltre quella della rockstar piena di complessi. Pezzi come Playing My Piano e Bird With A Broken Wing sono davvero riusciti, ma in realtà la coesione e la brevità del lavoro (soli 30 minuti) tengono lontana la voglia dei Weezer di sperimentare, che spesso ha fatto deragliare lavori nati sotto una buona stella.

In ambito testuale, i Nostri non lesinano riferimenti all’attualità: Playing With My Piano contiene il verso più rilevante, “Kim Jong-Un could blow up my city, I’d never know”. È una frase che può essere presa come uno scherzo di cattivo gusto o una candida ammissione di impotenza di fronte a qualcosa di incontrollabile: per i Weezer l’unico modo di comunicare con l’esterno è un pianoforte, tanto che la realtà fa un passo indietro. Altrove abbiamo riferimenti all’uso smodato dei social media (Screens) a alla storia della musica (All My Favorite Songs), più prevedibili ma centrati considerando il mood del disco.

In conclusione, dunque, “OK Human” è il disco più convincente dei Weezer dai tempi del “White Album” del 2016: un LP coeso, ben strutturato e sincero, che farà felici i fans del gruppo più affascinati dalla vena pop di Rivers Cuomo e compagni.

Voto finale: 7,5.

Madlib, “Sound Ancestors”

sound ancestors

Il nuovo album di uno dei più leggendari producer viventi di musica hip hop (indimenticabili le sue collaborazioni col defunto MF DOOM) è un CD collaborativo con l’altrettanto stimato Four Tet, nome d’arte di Kieran Hebden. “Sound Ancestors” è un ottimo distillato dello stile dei due autori, che dimostrano una chimica non banale e assemblano un lavoro a metà fra elettronica e rap davvero interessante nelle sue parti migliori.

La gestazione di “Sound Ancestors” è stata lunga: da due anni Otis Jackson Jr. (questo il vero nome di Madlib) inviava dei beats a Four Tet, che nel corso del tempo ha rimodellato il tutto per dare origine alle tracce che compongono il disco. Non per questo però il lavoro è fin troppo elaborato; anzi, specialmente nella seconda parte del CD, i tradizionali campionamenti di Madlib, non particolarmente abbelliti e anzi grezzi, la fanno da padrone, si senta a questo proposito Latino Negro.

La frammentarietà di “Sound Ancestors”, che ammonta a 16 canzoni per 41 minuti totali, rende a volte difficile seguire le peregrinazioni di Madlib e Four Tet, ma la qualità di molte composizioni sopperisce tranquillamente: pezzi come Theme De Crabtree, ottimo inserto jazz, e la folle Loose Goose sono davvero notevoli. Altrove Hebden fa valere maggiormente la sua presenza (si senta Hopprock), mentre altri pezzi sono troppo astratti (la title track ad esempio).

In conclusione, “Sound Ancestors” è un’ulteriore dimostrazione del talento di Madlib, produttore sempre imprevedibile e degno erede del mitico J Dilla (a cui ha dedicato anche un brano del CD, Two For 2 – For Dilla). Per gli amanti dell’hip hop, il disco è davvero imperdibile; ma anche per i semplici curiosi “Sound Ancestors” è un LP che non lascerà indifferenti.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “L.W.”

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Il nuovo album dell’infaticabile band australiana non smentisce la loro fama di collettivo sempre voglioso di sperimentare: passando dal pop quasi beatlesiano a ritmi più psichedelici, se non hard rock, “L.W.” è l’ennesima dimostrazione del talento di Stu Mackenzie e compagni.

Il CD forma un’ideale coppia col precedente “K.G.”, che flirtava addirittura con il rock mediorientale e nordafricano; questa volta i King Gizzard & The Lizard Wizard fanno una sorta di riassunto di dieci anni di attività, un po’ per ricaricare le batterie un po’ per accontentare i fans di ogni tipo, da quelli metallari a quelli più mainstream.

Rispetto al fratello “K.G.”, questo lavoro è più riuscito e riesce in maniera più convincente ad assemblare tutti i vari tipi di rock provati nel corso della carriera dai Nostri, dal garage allo psichedelico al folk. La chiusura K.G.L.W. si propone quindi come ideale chiusura del cerchio, coi suoi ritmi duri e quasi fuori posto in un LP per il resto tranquillo. I brani migliori sono Supreme Ascendancy e l’epica K.G.L.W., mentre delude un po’ Pleura.

In conclusione, i King Gizzard & The Lizard Wizard si confermano voce tanto prolifica quanto imprescindibile per gli amanti del rock più scanzonato, capaci di passare nel giro di pochi anni dal garage rock (“12 Bar Bruise”, esordio del 2012) al metal (“Infest The Rats’ Nest” del 2019), attraversando ogni altro tipo di sonorità rock, spesso con risultati davvero soddisfacenti. “L.W.” rientra in questa categoria: evidentemente il lockdown ha stimolato la creatività della band. Li aspettiamo al varco alla prossima prova, che a occhio e croce non dovrebbe tardare ad arrivare.

Voto finale: 7,5.

slowthai, “TYRON”

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Il 2020 di slowthai non è stato facile: pronto a spiccare definitivamente il volo dopo l’ottimo esordio “Nothing Great About Britain” (2019), elogiato da molte pubblicazioni specializzate e da un pubblico crescente, ha subito una sorta di linciaggio pubblico a causa della sua folle apparizione agli NME Awards, in cui si è preso a male parole con la conduttrice Katherine Ryan e successivamente con una persona del pubblico, essendo necessario addirittura l’intervento delle guardie presenti per farlo sloggiare. Insomma, un fiasco totale.

Successivamente la questione si è spenta, con la stessa Ryan che ha accettato le scuse e slowthai autore di post affranti sui social network. La rabbia dovuta a questa pessima apparizione pubblica lo ha portato a rintanarsi nella sua psiche, tanto che “TYRON” è un CD decisamente più introspettivo e meno politico di “Nothing Great About Britain”.

“TYRON” è diviso in due metà, la prima più movimentata (e con i titoli tutti in maiuscolo) e la seconda più raccolta (con tracklist in minuscolo), quasi uno specchio del suo carattere, sensibile ma folle allo stesso tempo. Quasi un doppio CD racchiuso in soli 35 minuti: un rischio, che però non produce cattivi risultati. Certo, sono lontani i tempi dello slowthai scatenato di Doorman, stupenda traccia del disco precedente, ma anche in questo album gli highlights non mancano, con una maggiore qualità delle composizioni, abbastanza a sorpresa, nella parte più melodica del lavoro.

Sottolineiamo specialmente il parco ospiti: da Denzel Curry a A$AP Rocky, passando per James Blake e Skepta, slowthai ha usato il suo accresciuto successo per strappare collaborazioni con nomi importanti nel mondo hip hop. I brani migliori sono la quasi folk push e i tried, mentre delude nhs, troppo infantile. Da menzionare anche CANCELLED, con un ottimo Skepta.

Testualmente, il lavoro è ambivalente, come già accennato: da un lato troviamo lo slowthai feroce, che in CANCELLED si scaglia contro la cancel culture che sta piagando le democrazie occidentali nella loro versione più “puritana”; dall’altro abbiamo quello che elogia il servizio sanitario nazionale inglese (nhs) e rima Harry Potter con “lobster” e “vodka” (CANCELLED).

In conclusione, “TYRON” è un erede che non soffre della “sindrome da secondo disco” nei confronti di “Nothing Great About Britain”: slowthai è in forma, gli ospiti arricchiscono il lavoro e la struttura a due facce, per quanto strana e rischiosa, paga. Non male, ma sappiamo che lui può fare di meglio: lo aspettiamo in tempi più sereni e senza la pressione di dover rifarsi una reputazione.

Voto finale: 7.

Cloud Nothings, “The Shadow I Remember”

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Il nuovo album del gruppo punk-rock statunitense li trova ormai a proprio agio nel sound che li fece conoscere al pubblico grazie a lavori riusciti come “Attack On Memory” (2012) e “Here And Nowhere Else” (2014). Se l’inventiva non è il principale tratto distintivo di “The Shadow I Remember”, di certo il CD non lascia l’ascoltatore rilassato.

Destreggiandosi abilmente fra indie rock e sonorità più robuste, i Cloud Nothings hanno costruito un altro lavoro curato, con liriche frammentarie che trattano il tema della pandemia e dei lockdown necessari per sconfiggerla (o, almeno, contrastarla). I risultati, come già accennato, non sono trascendentali, ma nemmeno mediocri.

Dylan Baldi e compagni hanno abbandonato le grandi cavalcate di 8 minuti (Wasted Days) o addirittura di 10 (Dissolution), tornando verso territori più accessibili, simili a quelli percorsi da “Life Without Sound” (2017). I migliori pezzi sono Nothing Without You e Am I Something, mentre deludono The Spirit Of e Open Rain.

In generale, i Cloud Nothings sembrano aver smarrito quell’ambizione che li rendeva davvero eccitanti; “The Shadow I Remember” probabilmente non verrà ricordato da nessuno dei loro fans come il loro miglior CD. Tuttavia, non si può parlare di un cattivo disco: semplicemente, eravamo stati abituati troppo bene.

Voto finale: 6,5.

Recap: novembre 2020

Novembre è ormai finito. Un mese tranquillo rispetto al gran numero di dischi usciti ad ottobre, in cui A-Rock si è concentrato anche sui dischi dal vivo. Abbiamo infatti i nuovi CD live dei The War On Drugs e di Nick Cave; oltre a questi due album le recensioni riguardano il ritorno dei King Gizzard & The Lizard Wizard, il nuovo LP di Miley Cyrus e il breve EP a firma Phoebe Bridgers.

Nick Cave, “Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandria Palace”

nick cave

L’album del cantautore australiano lo vede cimentarsi in versioni decisamente intime di alcuni dei suoi più grandi successi. Nick Cave e il pianoforte, nessun pubblico e zero pause; gli 84 minuti del CD però scorrono serenamente, con canzoni classiche riviste ma non stravolte e una selezione che spazia dagli esordi al recente “Ghosteen”, toccando anche il progetto Grinderman. Quale regalo migliore per i fans del Re Inchiostro?

Questa volta, quindi, Nick non è accompagnato dai fidi Bad Seeds, ma non per questo il live risulta povero: anzi il carico emozionale di canzoni strazianti come quelle estratte da “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), ovvero dai lavori composti dopo la tragica scomparsa del figlio Arthur, è ancora maggiore in questa versione ridotta all’essenziale. “Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandria Palace” è quindi un LP davvero importante, soprattutto per gli amanti del Nostro, che troveranno una sorta di greatest hits in versione acustica.

Quasi un terzo dei brani riprodotti è stato estrapolato dal capolavoro di Nick Cave & The Bad Seeds, “The Boatman’s Call” (1997), ma abbiamo anche successi più vecchi come The Mercy Seat (da “Tender Prey” del 1988) e The Ship Song, contenuta in “The Good Son” del 1990. Contiamo però anche un inedito, Euthanasia, che ben si sposa col ciclo inaugurato da “Push The Sky Away” (2013). I più riusciti sono Sad Waters e Nobody’s Baby Now, ma nessuno è fuori fuoco o tale da interrompere la magia di godersi la bella voce di Nick Cave accompagnata solo dal pianoforte.

In conclusione, questo CD farà la felicità dei fans recenti e di primo pelo di Nick Cave, mai così profondo e toccante. Certo, la staticità data da suonare solo il pianoforte per quasi un’ora e mezzo può risultare evidente alla lunga, ma l’ascolto rimane consigliato.

Voto finale: 8.

The War On Drugs, “LIVE DRUGS”

live drugs

Il primo disco live del complesso originario di Philadelphia è un gradito regalo per fans e pubblico in generale. I The War On Drugs sono infatti uno dei gruppi rock più rispettati degli ultimi anni, vincitori del Grammy per Miglior Album Rock per “A Deeper Understanding” (2017) e degni eredi di Bruce Springsteen. “LIVE DRUGS” è quindi non per caso uno dei migliori album live del 2020 e un’ulteriore dimostrazione del talento di Adam Granduciel e compagni.

Il flusso dei pezzi è decisamente piacevole e ben orchestrato e le canzoni, pur essendo registrate in momenti diversi dell’ultimo tour, paiono essere state suonate una di seguito all’altra. A farla da padrone sono i singoli di maggior successo della band, tratti prevalentemente da “Lost In The Dream” (2014) e dal già citato “A Deeper Understanding”. A stupire è l’inclusione di Buenos Aires Beach, presa da “Wagonwheel Blues” (2008), oltre che di Accidentally Like A Martir, cover di un brano di Warren Zevon.

Come sempre nei live, a fare la differenza deve essere la capacità dell’artista di suonare in maniera credibile e appassionata le versioni di studio e, magari, di adottare quei due/tre accorgimenti che rendano il pezzo davvero indimenticabile. È il caso di Strangest Thing, quasi piatta fino al devastante assolo che anche nella versione “pulita” fa decollare il pezzo. Da elogiare anche An Ocean Between The Waves, che apre magistralmente “LIVE DRUGS”; invece sotto la media la parte centrale del lavoro.

In generale, la cadenza triennale dei nuovi CD dei The War On Drugs ci aveva fatto sperare che il 2020 avrebbe visto venire alla luce il quinto lavoro del gruppo americano; sfortunatamente per il momento non è questo il caso. Non è male tuttavia avere un LP dal vivo di Adam Granduciel e co., una testimonianza ulteriore che il rock può ancora scrivere pagine di grande musica.

Voto finale: 8.

Miley Cyrus, “Plastic Hearts”

plastic hearts

La popstar americana ha prodotto, con “Plastic Hearts”, il suo CD più rock; questa è un’altra svolta in una carriera che ne ha già avute molte, non tutte contraddistinte da successo di critica e di pubblico. Se la fu Hannah Montana era partita da un pop tanto ovvio quanto amato dalle adolescenti di mezzo mondo, i successivi tentativi avevano spaziato fra hip hop (“Bangerz” del 2013) e country-pop (“Younger Now” del 2017) per poi tornare in territori rap (l’EP “She Is Coming” del 2019). Nessuna di queste direzioni musicali aveva portato alla consacrazione della figlia di Billy Ray Cyrus, tanto che la Nostra aveva addirittura tentato di collaborare con i Flaming Lips nel fiasco “Miley Cyrus & Her Dead Petz” (2015) per trovare pace.

È strano, ma non improbabile, che una carriera di tale successo ma tanto controversa trovi il suo miglior risultato in un 2020 tragico per Cyrus: “She Is Coming” doveva essere il primo EP di una trilogia, ma la pandemia, il divorzio dall’attore Liam Hemsworth e gli incendi che hanno colpito gli Stati Uniti, distruggendo i suoi archivi, hanno convinto Miley a scartare l’idea e a buttarsi a capofitto nel rock anni ’80, condividendo cover dei Blondie e dei The Cranberries e componendo, con “Plastic Hearts”, il primo CD ad oggi della sua epoca rock. Che sia questo il futuro di Miley Cyrus?

Gli episodi degni di nota sono molti: dal pop-rock di WTF Do I Know, che pare una hit di P!nk, al successo meritato dei singoli Midnight Sky e Prisoner (quest’ultimo con la collaborazione di Dua Lipa), passando per la title track, il CD brilla davvero in molte sue parti. È un peccato che vi siano anche episodi più prevedibili come Hate Me e Never Be Me, che intaccano il risultato finale, altrimenti avremmo il capolavoro definitivo a firma Miley Cyrus. Menzioniamo anche gli altri collaboratori di un album davvero ricco anche sotto questo punto di vista: Billy Idol, Stevie Nicks, Mark Ronson e Angel Olsen sono i nomi più prestigiosi.

Liricamente, “Plastic Hearts” faceva presagire testi arrabbiati, anche a causa del divorzio da Hemsworth, invece Miley cerca anche di parlare di altri aspetti della sua vita, dalle dipendenze alla depressione. Nulla di nuovo nel mondo pop; il verso più ovvio, forse, ma anche il più onesto è “I don’t miss you, but I think of you and I don’t know why”, contenuto in High, chiaramente diretto all’ex marito. Altra lirica potente, questa volta contro la stampa, è “I was tryin’ to own my power, still I’m tryin’ to work it out… and at least it gives the paper somethin’ they can write about” (Golden G String).

Mescolando pop, rock e country, una delle popstar più sopravvalutate (secondo molti) dello scenario musicale ha trovato la sua voce, peraltro esplorando territori che non le parevano consoni. Miley Cyrus potrebbe aver composto il CD della svolta, quello che le darà confidenza nei propri mezzi e il rispetto della critica. Vedremo dove la porterà l’ispirazione: finora non ha mai composto un LP sulla stessa linea del precedente…

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “K.G.”

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L’instancabile band australiana ha pubblicato il sedicesimo (!) album di studio di una carriera tanto frenetica quanto avventurosa e, nei suoi tratti migliori, eccitante. Dal garage rock di “12 Bar Bruise” (2012) al metal di “Infest The Rats’ Nest” (2019), passando per il rock psichedelico di quasi tutti i lavori nel mezzo e il jazz-rock di “Sketches Of Brunswick East” (2017), i King Gizzard & The Lizard Wizard si sono affermati come uno dei gruppi fondamentali della scena rock.

“K.G.” prova ad ampliare ulteriormente i confini sonori del gruppo, flirtando con atmosfere mediorientali, basti sentire K.G.L.W. e Straws In The Wind. Nei pezzi che fin da subito fanno presa sul pubblico però la formula vincente resta quella del garage rock, magari più educato rispetto alle origini, mescolato con abbondanti dosi di psichedelia. I migliori esempi sono Automation e la stramba Intrasport, che pare presa da un disco dei Primal Scream; convince meno invece Honey.

Se passati LP come “Flying Microtonal Banana” e “Polygondwanaland”, entrambi facenti parte del folle 2017 dei King Gizzard, che li vide pubblicare cinque (!!) CD, erano fin da subito entrati fra i preferiti dei fans, questo “K.G.” richiede maggiore pazienza. Non è un lavoro disprezzabile, anzi il complesso aussie continua a sperimentare, ma non raggiunge le vette dei dischi più folli e riusciti dei KG&TLW. Averne, però, di artisti così sfrontati e incuranti di mantenere fedele il pubblico più conservatore.

Voto finale: 7.

Phoebe Bridgers, “Copycat Killer”

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Il 2020 ha portato a Phoebe Bridgers tante soddisfazioni: un album, “Punisher”, da molti considerato uno fra i migliori dell’anno, candidature multiple ai Grammy e un’esposizione al grande pubblico decisamente aumentata rispetto al raccolto esordio “Stranger In The Alps” (2017).

Insomma, immaginarla reinventare alcuni dei migliori brani di “Punisher” in chiave acustica e, verrebbe da dire, lirica, non era prevedibile. “Copycat Killer” ricalca un po’ l’operazione estetica praticata da Angel Olsen con “All Mirrors” (2019) e “Whole New Mess” (2020), ma al contrario. Le quattro tracce che compongono questo breve EP sono quindi molto lontane dall’estetica folk-rock della Nostra, ma non disprezzabili, grazie anche alla collaborazione di Rob Moose, già visto in compagnia di artisti del calibro di Bon Iver, FKA twigs e The Killers.

Kyoto, ad esempio, in “Punisher” era un grande pezzo indie rock; in “Copycat Killer” invece perde qualsiasi ritornello, diventando un pezzo quasi à la Dirty Projectors. Invece Chinese Satellite mantiene sostanzialmente intatta la struttura originale. I restanti due pezzi, Savior Complex e Punisher, chiudono un CD davvero strano, ma che apre scenari inesplorati per Phoebe.

La voce della cantautrice splende più che mai in “Copycat Killer”, specialmente in Punisher, rendendo chiaro (per chi ancora ne dubitasse) che il mondo indie ha trovato un’interprete davvero talentuosa. Se il 2020 di Bridgers già prima era speciale, con questo EP si può considerare coronato in maniera trionfale.

Voto finale: 7.