Recap: agosto 2022

Agosto, diversamente dalla tradizione, si è rivelato un mese abbastanza affollato per la scena musicale. Ad A-Rock abbiamo recensito i nuovi lavori dei Muse, degli Hot Chip, di Julia Jacklin e dei Kasabian; inoltre, spazio ai brevi EP a firma Julien Baker e Liam Gallagher e al ritorno di Ezra Furman. Infine, analizziamo il primo CD collaborativo di Panda Bear e Sonic Boom, così come quello tra Danger Mouse e Black Thought. Buona lettura!

Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

cheat codes

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità e, pertanto, troveranno sicuramente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock. Siamo piuttosto sicuri che non saremo gli unici a dargli spazio.

Voto finale: 8.

Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

pre pleasure

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

Hot Chip, “Freakout/Release”

freakout release

Il nuovo CD degli inglesi Hot Chip, giunti ormai alla loro terza decade insieme, è un buon CD di musica elettronica. Partendo da una situazione drammatica, sia dal punto personale che da quello sociale, “Freakout/Release” riporta i britannici ai buoni livelli del precedente “A Bath Full Of Ecstasy” (2019).

Se il primo singolo di lancio Down poteva sembrare quasi scontato, fin troppo in linea col passato degli Hot Chip, gli altri due brani prescelti per promuovere il CD dimostravano ben altra stoffa: Eleanor usa un beat ballabilissimo, su cui Alexis Taylor (uno dei due frontman) parla degli effetti di una separazione dolorosa. Infine, Freakout/Release: siamo di fronte ad uno dei brani più carichi dell’intera produzione degli Hot Chip, quasi vicino alla techno, poco altro da aggiungere.

Va detto che abbiamo anche altri pezzi degni di nota: ad esempio, Broken e Time sono meritevoli di più di un ascolto. Inferiori alla media invece Hard To Be Funky e Guilty. Menzione, infine, per The Evil That Men Do, che presenta una sezione hip hop (!) nel finale.

Liricamente, Taylor e compagni sono più malinconici che mai: atteggiamento, come già detto, dovuto a circostanze personali (la morte dell’amico Philippe Zdar) e globali (la pandemia da Covid-19). I versi più significativi sono i seguenti: “Music used to be escape, now I can’t escape it” (la title track); “You can heal if you’re wounded, you can heal anytime” (Miss The Bliss); e “It holds me… I have no choice… All the rest is noise” (Not Alone). Emergono dunque segnali contrastanti, di depressione così come di ritrovato entusiasmo, sensazioni ben note a tutti noi passati per i lockdown pandemici.

In conclusione, “Freakout/Release” è probabilmente uno degli ultimi album propriamente pandemici, o almeno caratterizzabili come tali. Gli Hot Chip, dal canto loro, si confermano band consistente ed affidabile, incapace di comporre cattivi CD.

Voto finale: 7,5.

Ezra Furman, “All Of Us Flames”

all of us flames

Il nuovo lavoro della cantautrice americana si inserisce in una carriera di tutto rispetto: se il precedente “Twelve Nudes” (2019) era il CD più duro come sonorità della sua produzione, “All Of Us Flames” ricorda invece “Transangelic Exodus” (2018). Ad ogni modo, i risultati restano più che discreti.

Ezra Furman è una figura rispettata non solo per le sue qualità compositive, ma anche per la sua storia: il fatto di essere ebrea e transessuale allo stesso tempo, che in passato avrebbe portato discriminazioni a non finire, adesso la rende fiera. Prova ne siano alcuni riferimenti presenti in “All Of Us Flames”: “It’s not written in your Bibles, it’s a verse behind the verse only visible to an obsessive detail-oriented heathen Jew” canta, ad esempio, in Train Comes Through; mentre in Ally Sheedy In The Breakfast Club abbiamo una nota nostalgica a “the teenage girl I never got to be”. Altrove abbiamo testi più romantici (“You’ve got me in your arms… Maybe that’s all we need for warmth”, Forever In Sunset).

I migliori brani sono l’introduttiva Train Comes Through e Forever In Sunset, che ricorda il Bruce Springsteen di fine anni ’70. Inferiori alla media invece I Saw The Truth Underssing e Book Of Our Names, ma hanno il merito di mantenere coerente l’estetica del CD, pieno di riferimenti a PJ Harvey e alla scena rock anni ’00, soprattutto i Deerhunter.

In generale, Ezra Furman conferma il bene che si dice di lei ormai da una decina d’anni. “All Of Us Flames” non è un LP rivoluzionario, ma i suoi 47 minuti di durata scorrono bene e lo rendono ascoltabile da un vasto pubblico.

Voto finale: 7.

Panda Bear & Sonic Boom, “Reset”

reset

Il primo CD di Noah Lennox (Panda Bear), principale esponente degli Animal Collective, e Sonic Boom (Peter Kember), membro degli Spacemen 3, è in realtà derivato da una profonda stima reciproca che lega tra loro i due musicisti. I due, infatti, collaborano fin dai tempi di “Person Pitch” (2007), il bellissimo LP di Panda Bear, ma questa è la prima produzione in cui le canzoni sono scritte a quattro mani da Panda Bear e Sonic Boom.

“Reset” è un titolo azzeccato, dati i tempi grami in cui viviamo: servirebbe proprio un reset per ripartire, dopo anni contrassegnati da pandemia, guerre e tragedie legate al deterioramento ambientale. Le sonorità, peraltro, richiamano un’epoca più serena: gli anni ’60, quelli dei Beach Boys e del sunshine pop. Alla lunga la dolcezza dei risultati può quasi apparire stucchevole, ma nel complesso siamo di fronte a un buonissimo lavoro, forse il migliore di entrambi i musicisti dai tempi di “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015).

“Reset” si caratterizza come una lunga suite di brani che spesso si mescolano uno nell’altro; vi sono episodi puramente psichedelici come Livin’ In The After ed Everyday, così come altri che virano sull’elettronica (In My Body, Whirlpool). In generale, però, è da premiare l’abilità dei due di creare un lavoro coeso ed estremamente godibile, con gli highlights di Gettin’ To The Point ed Everything’s Been Leading To This, che richiamano le migliori melodie di “Person Pitch” e “Merriweather Post Pavilion” (2009) degli Animal Collective. Delude un po’ solo In My Body.

Liricamente, come spesso accade nei lavori ricchi di sample tratti dal passato, i contenuti spesso sono indefiniti; tuttavia, in certi tratti Lennox e Kember lasciano trasparire qualche contenuto più calato nel presente. Ne sono esempi i seguenti versi: “One dude’s sweat is another’s balm” (Go On), forse un accenno allo sfruttamento capitalistico; e “Well times are tough and the draw is raw” (Everything’s Been Leading To This).

In conclusione, entrambi gli artisti coinvolti nella realizzazione di “Reset” hanno prodotto migliori CD in passato; allo stesso tempo, sentire nuovamente Panda Bear e Sonic Boom così liberi e sereni ci fa pensare che ci sia ancora qualcosa della vecchia magia da esplorare.

Voto finale: 7.

Julien Baker, “B-Sides”

b sides

Il breve EP “B-Sides” trae origine, dalle stesse sessioni di registrazione che hanno portato Julien Baker a pubblicare “Little Oblivions” nel 2021. I brani sono riusciti e sarebbero potuti benissimo entrare nella tracklist del CD principale, facendo di “B-Sides” un buon lavoro, seppur molto breve.

Il disco comincia con Guthrie, un pezzo molto intimista che sarebbe stato benissimo nell’esordio della Nostra, “Sprained Ankle” (2015). Abbiamo poi due pezzi più movimentati, caratterizzati da un indie rock convincente, Vanishing Point e Mental Math, che alzano il livello dell’EP e sono fra i migliori a firma Julien Baker.

Liricamente, la Baker si dimostra cantautrice tremendamente onesta nell’affrontare i suoi demoni e nel rendere il pubblico partecipe delle sue problematiche. In Guthrie mette in questione la propria fede: “Used to call upon the spirit, now I think heaven lets it ring… Wanted so bad to be good, but there’s no such thing”. Invece Mental Math parla di ricordi del passato da studente, inframmezzati da considerazioni più ampie: “Trying not to freak out, staring at the ground, doing math in my head, how far is it down?”.

In conclusione, “Little Oblivions” aveva confermato quanto di buono si diceva di Julien Baker; questo EP non fa che mettere nuovamente in luce il talento, compositivo e lirico, di una delle cantautrici più promettenti della sua generazione.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher, “Diamond In The Dark”

diamond in the dark

Questo EP segue il successo dell’ultimo disco solista di R Kid, pubblicato pochi mesi fa. “C’MON YOU KNOW” non era il miglior lavoro a firma Liam Gallagher, ma faceva intravedere doti vocali e cantautorali ancora in buona forma e Diamond In The Dark, che dà il nome a questo EP, ne era uno dei migliori esempi.

Oltre a Diamond In The Dark, abbiamo in scaletta un remix del brano, a cura di DJ Premier, e una versione live del medesimo pezzo, presa dalla riedizione del concerto di Knebworth, la cui prima leggendaria edizione si tenne nel 1994 a firma Oasis. Infine, spazio alla b-side Bless You, che chiude abbastanza efficacemente un EP senza troppe pretese, ma non per questo mal riuscito.

Chiaramente non stiamo parlando di un prodotto imperdibile, ma i fan del più giovane dei fratelli Gallagher troveranno pane per i loro denti.

Voto finale: 6,5.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

Voto finale: 5.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Voto finale: 5.

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

Recap: febbraio 2019

Febbraio è ormai quasi finito. Un mese caratterizzato musicalmente da uscite interessanti, fra cui A-Rock ha deciso di recensire i nuovi dischi di Panda Bear, Beirut, Girlpool, The Twilight Sad e l’esordio dei Better Oblivion Community Center (in realtà un duo di personalità ben note come Phoebe Bridgers e Conor Oberst). Oltre a tutto ciò, abbiamo anche i ritorni di Jessica Pratt e dei Broken Social Scene.

Better Oblivion Community Center, “Better Oblivion Community Center”

better oblivion community center

Il duo formato da Phoebe Bridgers e Conor Oberst ha creato un disco breve ma affascinante, con una narrativa di fondo non banale e un’intesa fra i due protagonisti che ci fa pensare che in futuro potrebbero esserci altri CD a firma Better Oblivion Community Center.

L’inizio descrive perfettamente il mood del disco: Didn’t Know What I Was In For è un folk-rock ben confezionato, con ottime prove vocali e un perfetto bilanciamento fra le personalità di Phoebe e Conor. La Bridgers, ormai adusa alle collaborazioni di alto profilo dopo il progetto boygenius del 2018, mette soprattutto la sua abilità di confezionare brani evocativi con strumentazione semplice (si ascolti ad esempio Chesapeake); Oberst invece porta la sua maggiore esperienza nel creare dischi coesi musicalmente ma mai monotoni (ne sia esempio Exception To The Rule).

Dicevamo che il CD ha una narrativa di fondo: i due immaginano di vivere in un centro chiamato appunto Better Oblivion Community Center, in realtà molto distopico, a metà fra “1984” e “Il Mondo Nuovo”. Il racconto è anche un mezzo per Bridgers e Oberst di affrontare i loro demoni: entrambi hanno spesso analizzato i temi della solitudine e della depressione, questa volta però calati in un contesto quasi di romanzo. Ad esempio, in My City Conor canta: “All this freedom just freaks me out”, mentre in Dylan Thomas Phoebe afferma polemica: “They say you’ve got to fake it, at least until you make it”.

I pezzi migliori sono la trascinante Dylan Thomas e Didn’t Know What I Was In For. Al contrario, Service Road è fin troppo lenta e prevedibile. In generale, i due non sono certo noti per essere innovatori, però questo “Better Oblivion Community Center” è un buon album, curato e sempre interessante.

In conclusione, dunque, Phoebe Bridgers continua la sua scalata nel mondo indie, mentre Conor Oberst mantiene la sua fama di artista capace di produrre sempre LP intriganti. Insomma, un piccolo trionfo per entrambi. Non si vede perché il progetto Better Oblivion Community Center non debba ripetersi in futuro.

Voto finale: 7,5.

Girlpool, “What Chaos Is Imaginary”

girlpool

Il terzo album degli statunitensi Girlpool è un buon disco di tipico indie rock, caratterizzato da pezzi generalmente interessanti ma che non distinguono molto i Girlpool da artisti come Lucy Dacus o Snail Mail.

Questo forse è il difetto maggiore di “What Chaos Is Imaginary”: gli highlights ci sono e sono molto evidenti, da Lucy’s alla più raccolta Stale Device, ma il caratteristico mix di folk e punk tipico dei lavori più “selvaggi” del duo formato da Cleo Tucker e Harmony Tividad è ormai svanito.

Una caratteristica interessante è il deciso cambio di voce di Tucker: Cleo sta infatti affrontando la transizione da donna a uomo e, per questo motivo, ha iniziato ad assumere forti dosi di testosterone, cambiando non solo i tratti somatici ma anche la voce. Tutto ciò aggiunge una nuova dimensione al suono dei Girlpool, ma non abbastanza da rendere il CD davvero immancabile. Non è poi un caso che le liriche riflettano spesso il passaggio da uno stato ad un altro, come in Pretty, quando la Tividad canta: “There was a person I once knew”, mentre Tucker afferma in Hire: “Will I make the matinée with my newest life and be that bright time?”.

I pezzi migliori sono i già menzionati Lucy’s e Stale Device; buona anche Hire, pezzo power pop che ricorda gli Oasis. Troppo prevedibile invece Where You Sink e in generale troppo lenta la seconda parte del disco. Diciamo che se i Girlpool avessero tagliato 2-3 brano il risultato sarebbe stato ancora più convincente; con 14 brani sullo stesso tracciato invece “What Chaos Is Imaginary” è solo un buon album indie rock, assolutamente orecchiabile e gradevole, ma anche forse un po’ troppo allineato ai trend presenti da anni nel genere.

Voto finale: 7,5.

Jessica Pratt, “Quiet Signs”

jessica pratt

Giunta al terzo album, la cantante originaria di San Francisco ha raggiunto la piena maturità artistica: in sole 9 canzone e 28 minuti di musica riesce a distillare tutte le qualità che l’hanno resa apprezzata dagli amanti del folk.

Jessica Pratt aveva pubblicato l’ultimo CD nel 2015: quattro anni dopo, il suo folk scarno resta comunque essenziale, ma si intravede la volontà di cambiare, inserendo elementi quasi psichedelici in alcuni pezzi.

La partenza di “Quiet Signs” è decisamente raccolta. La strumentale Opening Night vede al piano il compagno Matthew McDermott, mentre As The World Turns è un brano folk tipico nella sua brevità. Più efficace la parte centrale, con la doppietta formata da Poly Blue e This Time Around che rappresenta il momento migliore del CD.

In generale, se c’è una cosa per cui essere contemporaneamente delusi e soddisfatti è la brevità di “Quiet Signs”: se da un lato infatti dopo 4 anni era lecito aspettarsi un lavoro più lungo e articolato, dall’altro la Pratt è molto abile nel creare un mondo quasi ultraterreno con queste canzoni tranquille e semplici, a metà fra Joni Mitchell e Damien Rice.

In conclusione, “Quiet Signs” ripercorre il percorso di Adrianne Lenker, cantante dei Big Thief: ampliare la propria palette sonora con un LP breve ma efficace, sperimentando nuove sonorità. Non sarà un capolavoro, ma “Quiet Signs” è un’evoluzione benvenuta per Jessica Pratt e, forse, un antipasto di quel capolavoro che non sembra più così lontano.

Voto finale: 7,5.

Broken Social Scene, “Let’s Try The After Vol. 1”

broken social scene

I Broken Social Scene ci hanno preso gusto: dopo essere tornati a produrre nuova musica nel 2017 con il bel CD “Hug Of Thunder” e un’assenza di sette anni dalla scena, il collettivo canadese ha dato alle stampe il breve ma efficace EP “Let’s Try The After Vol. 1”. Un lavoro che in realtà non percorre sentieri nuovi per i Broken Social Scene, come il titolo sembrerebbe indicare, ma è senza dubbio un’ottima aggiunta ad una discografia imponente.

L’inizio è un brevissimo pezzo strumentale, The Sweet Sea, che anticipa un altro brano quasi puramente strumentale, Remember Me Young, che contiene solo dei vocalizzi della cantante Ariel Engle, privi di parole vere e proprie. Il primo vero highlight è Boyfriends, una canzone molto evocativa e degna di poter stare nei migliori dischi dei Broken Social Scene. Le ultime due canzoni sono 1972 e All I Want: la prima è un lento gradevole ma non irresistibile, mentre la seconda procede quasi su ritmi post-punk.

In conclusione, “Let’s Try The Future Vol. 1” è un EP ben strutturato e gradevole in molte sue parti, indizio che i Broken Social Scene (come del resto già il titolo del lavoro anticipa) hanno ancora molto da dare alla musica.

Voto finale: 7.

The Twilight Sad, “It Won’t Be Like This All The Time”

the twilight sad

Il quinto album della band punk scozzese The Twilight Sad contiene molti elementi interessanti, specialmente dal punto di vista ritmico, ma nessuna novità vera e propria rispetto al loro output passato o a quello di molte band di simili origini.

Purtroppo, infatti, in un genere molto frequentato come il post-punk, per spiccare veramente sugli altri occorre essere innovativi per un qualche aspetto: testi (si vedano gli IDLES), capacità di cambiare pelle ad ogni uscita (Iceage)… I The Twilight Sad sono molto efficaci nel trasmettere la sensazione di malessere che accompagna molti nel mondo moderno: esemplare il titolo [10 Good Reasons For Modern Drugs]. Tuttavia, tranne rare eccezioni, non ci sono da aspettarsi motivazioni per scegliere loro piuttosto che altri gruppi. Notiamo infatti influenze di Cure, My Bloody Valentine e Horrors; il mix crea un disco intrigante ma certo non originale.

Come già accennato in avvio, “It Won’t Be Like This All The Time” ha in sé alcune buone canzoni: VTr è trascinante, bella anche I’m Not Here [Missing Face]. Interessante poi l’indie rock di Let’s Get Lost. Contemporaneamente, però, pezzi prevedibili come l’iniziale [10 Good Reasons For Modern Drugs] e The Arbor portano il CD a risultare un po’ prevedibile in certi tratti.

In conclusione, i The Twilight Sad potevano sicuramente fare meglio: peccato, perché la bellezza cristallina di alcuni pezzi fa capire il talento di questi ragazzi. Sarà per la prossima.

Voto finale: 7.

Panda Bear, “Buoys”

panda bear

Il sesto album solista di Noah Lennox, in arte Panda Bear, richiama molto da vicino le atmosfere rarefatte e rilassate dei suoi primi lavori. Niente a che vedere con i ben più movimentati e imprevedibili ritmi di “Person Pitch” (2007), il punto più alto della sua discografia (non contando gli Animal Collective ovviamente).

Il primo singolo estratto da “Buoys”, la dolce Dolphin, aveva fatto ipotizzare il percorso del CD, poi puntualmente confermato: strumentazione contenuta, grande attenzione data alla voce di Lennox e ritmi rilassati. Panda Bear, va detto, è un artista esperto e intelligente: sapendo che un disco troppo lungo sulle stesse variazioni sarebbe stato difficilmente digeribile, ha optato per un LP di soli 9 brani, per un totale di soli 31 minuti di durata.

Scelta azzeccata, dato che in effetti “Buoys”, anche dopo ripetuti ascolti, non colpisce come i migliori lavori a firma Panda Bear: certo, highlights come la già citata Dolphin e la title track sono buonissimi, ma complessivamente il disco risulta monotono e poco coinvolgente. Ne sono esempio brani come Master e Inner Monologue.

Insomma, come già ribadito in occasione delle pubblicazioni degli anni scorsi, per Lennox e gli Animal Collective i tempi creativamente migliori sono alle spalle. Ascoltare nuova musica con la loro firma può certamente far piacere per ricordare i tempi della gioventù, ma qualitativamente ne siamo ben lontani.

Voto finale: 7.

Beirut, “Gallipoli”

beirut

Il quinto album di Zach Condon e compagni è un gradevole riassunto di tutte le caratteristiche che li hanno resi molto cari agli amanti dell’indie. Melodie graziose, testi inoffensivi oppure impressionistici, grande attenzione alla produzione: insomma, non un capolavoro, ma certamente un CD curato e accattivante.

A quattro anni dal discusso “No No No”, “Gallipoli” riesce a immergere pienamente l’ascoltatore nel folk-rock tipico di Condon grazie a brani riusciti come l’iniziale When I Die e Family Curse. Peccato che poi il desiderio di barocchismo strabordi nella title track e in Gauze Für Zah, altrimenti avremmo risultati ancora migliori.

Dicevamo che i Beirut non percorrono sentieri innovativi nel corso di “Gallipoli” (dedicato nel nome e in alcuni titoli di canzoni al nostro Paese): il mix di indie, folk e momenti solo leggermente psichedelici contribuisce a creare momenti davvero ottimi (ad esempio nella strumentale On Mainau Island), ma anche a tratti troppo zuccherosi (Gallipoli). Anche testualmente Condon non cerca di produrre manifesti personali o esprimere precise idee politiche o sociali, aumentando quel senso di leggerezza (o frivolezza) del disco.

In conclusione, “Gallipoli” piacerà sicuramente a chi già apprezza lo stile di Condon e compagni, mentre fa ben poco per conquistare nuovi fans. Non è necessariamente un peccato: a patto che la ricetta non diventi ripetitiva.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2019

Il nuovo anno è appena cominciato, ma ad A-Rock è già tempo di analizzare i nuovi CD in uscita. In particolare, volgiamo la nostra attenzione ai dischi più attesi del 2019, un anno che promette di chiudere più che degnamente la decade.

Se negli anni scorsi avevamo menzionato come attesissimi i nuovi dischi di Liam Gallagher (2017) e Arctic Monkeys (2018), quest’anno noi amanti del rock abbiamo due band attese al varco: Vampire Weekend e Tame Impala. Partiamo dagli statunitensi: Ezra Koenig e compagni ci avevano illuso che il seguito del bellissimo “Modern Vampires Of The City” (2013) sarebbe arrivato l’anno scorso, ma hanno poi dichiarato che uscirà in primavera. Beh, dopo sei anni, l’attesa è spasmodica. Lo stesso vale per i Tame Impala: a quattro anni dallo squisito “Currents” gli assi della neo-psichedelia ci sorprenderanno ancora?

Abbiamo peraltro già delle date per degli artisti molto stimati da pubblico e critica: i Deerhunter hanno annunciato che il loro nuovo lavoro, “Why Everything Hasn’t Already Disappeared?”, uscirà il 18 gennaio, mentre “Dolphin”, nuovo CD di Noah Lennox aka Panda Bear, uscirà l’8 febbraio. Infine, i Weezer dovrebbero uscire con il famigerato “black album” il 1° marzo.

Restando nel rock, i Raconteurs, la creatura di Jack White in letargo dal 2008, hanno dichiarato che un loro nuovo lavoro uscirà nel 2019. Un gradito ritorno, soprattutto per Jack White, che nel 2018 con “Boarding House Reach” ha toccato il punto più sperimentale (per alcuni il più scadente) della sua discografia. Vedremo se tornerà sui più consueti terreni garage rock o se vorrà riprovare a stupire i suoi fans. A maggio dovrebbe uscire il seguito di “A Brief Inquiry Into Online Relationships”, il fantastico terzo LP dei The 1975. La band inglese ha più volte detto che desidera dare un seguito al CD nel 2019: il titolo provvisorio è “Notes On A Conditional Form”, ipotizzare la direzione del lavoro è però un terno al lotto, data la grande versatilità dimostrata da Matt Healy & co. negli anni. Thom Yorke dei Radiohead ha annunciato il seguito della colonna sonora del nuovo “Suspiria”, ma in forma di LP vero e proprio: avremo le stesse atmosfere spaventose? Sembra infine che i Coldplay potrebbero dare un seguito a “A Head Full Of Dreams” (2015). La svolta pop sarà definitivamente compiuta?

Passando al mondo dell’hip hop, il 2019 si preannuncia infuocato: l’ormai mitico “Yandhi” di Kanye West, originariamente in calendario per il 21 novembre 2018, potrebbe uscire da un giorno all’altro… tutto dipende dalle lune di Kanye, come ben sappiamo. Dopo lo zoppicante “Ye”, ci aspettiamo qualcosa in linea con la sua fama di artista visionario. Stesso discorso per Drake: dopo il deludente “Scorpion”, grande successo di pubblico ma indigesto ai critici, il 2019 per lui sarà decisivo. Abbiamo poi Danny Brown, uno dei rapper più arditi del panorama musicale odierno: il seguito di “Atrocity Exhibition” (2016) sarà all’altezza di una discografia così ambiziosa?

Nel mondo pop sono due le “reginette” attese alla definitiva consacrazione: Lana Del Rey e Sky Ferreira. La prima, di cui già sappiamo il titolo del nuovo disco (“Norman Fucking Rockwell”) e la sua data di uscita (29 marzo), saprà dare un degno seguito all’ambizioso “Lust For Life” del 2017? Per quanto riguarda Sky, il discorso è più articolato: di lei si erano perse le tracce dopo il bel “Night Time, My Time” del 2013. Sarà il 2019 l’anno buono per il suo erede? Lo vedremo, il titolo “Masochism” sembra prefigurare un LP piuttosto tormentato. Da segnalare poi il probabile nuovo disco di Lady Gaga, probabilmente più affine come sonorità ai primi lavori della diva che agli ultimi, che erano parsi più intimisti anche come sonorità. Come scordarsi poi di Rihanna? RiRi ha più volte anticipato che il suo nuovo lavoro avrà forti influenze dancehall, rifacendosi quindi ai suoi primi CD. Vedremo se manterrà la parola. Infine, Adele pare avere in rampa di lancio un nuovo disco dopo il clamoroso successo di “25” del 2015.

Analizziamo infine il variegato mondo dell’elettronica: il 2019 pare destinato a vedere i ritorni sulla scena musicale di molti artisti stimati da critica e pubblico. Primo fra tutti Flying Lotus: il talentuoso produttore non pubblica un CD da “You’re Dead!” (2014), l’attesa comincia ad essere prolungata. Altra figura molto rilevante attesa al varco è Grimes: la cantante canadese ha finalmente pronto il seguito all’ottimo “Art Angels” (2015), vedremo se la sua progressione artistica e di pubblico proseguirà. Anche il britannico James Blake pare aver finalmente pronto il seguito del complesso ma affascinante “The Colour In Anything” (2016). Infine, Anthony Gonzalez, mente degli M83, dovrà riscattare un lavoro opaco come “Junk”: ripetere i fasti di “Hurry Up, We’re Dreaming” è difficile, ma il talento non gli manca.

Abbiamo infine alcuni artisti che non pubblicano qualcosa da molti anni, ragion per cui preannunciare un loro ritorno è sempre complicato. Prendiamo i My Bloody Valentine: Kevin Shields aveva detto che un CD sarebbe uscito nel 2018, ma la deadline è stata infranta… vedremo se il 2019 ci porterà in dote il seguito di “m b v” (2013). Stesso discorso per i Chromatics: l’erede di “Kill For Love” vedrà mai la luce? Il 2019 potrebbe essere l’anno fatidico.

Il nuovo anno si preannuncia quindi un anno molto caldo musicalmente parlando: vedremo se gli artisti qui menzionati (e quelli che ancora non hanno annunciato nulla) confermeranno le nostre aspettative, le deluderanno oppure le supereranno. Di certo, non sarà un anno privo di emozioni!

Recap: gennaio 2018

Il tempo per metabolizzare i migliori album del 2017 è terminato: il 2018 è già iniziato e alcuni importanti artisti hanno già pubblicato dischi molto interessanti. Ad A-Rock ci soffermiamo su tre in particolare: Jeff Rosenstock, Ty Segall e Panda Bear.

Jeff Rosenstock, “POST-”

post

L’artista punk Jeff Rosenstock è al terzo album solista, dopo una carriera molto lunga in alcune band underground statunitensi. I suoi primi due CD, “We Cool?” (2015) e “WORRY.” (2016) erano indizi di quello che sarebbe stato “POST-”, tuttavia non erano riusciti come quest’ultimo lavoro.

Il disco mescola infatti molto abilmente punk, power pop e dream pop (!), creando una miscela esplosiva di Cloud Nothings e Beach House, cosa che può apparire strana, ma in realtà rende il CD davvero imperdibile.

L’inizio è fulminante. USA è un pezzo punk di notevole caratura, lungo e complesso (supera i 7 minuti), ma mai prevedibile o noioso: partenza punk, parte centrale pop e finale trascinante. Va detto che Rosenstock è molto astuto: concentra i brani migliori all’inizio e alla fine del disco. Non per caso, infatti, la conclusiva Let Them Win è bellissima: 11 minuti di invettive contro Trump e i suoi seguaci, a testimoniare l’importanza anche politica dell’album, sopra una base ritmica davvero potente. Il finale con tastiere sognanti è, infine, una degna conclusione per questo fantastico LP.

Molti titoli e testi richiamano l’attualità politica americana: abbiamo per esempio Powerlessness, Beating My Head Against A Wall e TV Stars. Musicalmente, come già detto, il disco alterna brani punk (come la già citata Powerlessness e Yr Throat) ad altri più melodici (ad esempio TV Stars e 9/10), ma l’insieme è abbastanza coerente.

In conclusione, “POST-” è uno dei primi grandi CD del 2018, già candidato ad entrare nella top 20 dell’anno. Quel che è certo è che il punk ha ancora molto da dire, soprattutto in tempi incerti come questi: Jeff Rosenstock ce lo ha ricordato.

Voto finale: 8.

Ty Segall, “Freedom’s Goblin”

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L’iperattivo Ty Segall, ragazzo prodigio del rock statunitense, è al decimo album di inediti a suo nome: un traguardo incredibile, considerato che Ty ha soli 31 anni e ha realizzato anche numerosi album collaborativi, greatest hits e CD live. Insomma, un artista davvero instancabile! Ciò, tuttavia, non ha influenzato la qualità dei suoi lavori: LP come “Slaughterhouse” (2012) o l’omonimo “Ty Segall” (2017) sono davvero notevoli.

Questo “Freedom’s Goblin”, il più lungo disco a firma Ty Segall in termini di canzoni e durata (19 pezzi per 72 minuti), è forse anche il suo lavoro più ambizioso; possiamo anzi dire che rappresenta un riassunto di tutto quello che musicalmente Ty ha passato negli ultimi dieci anni. Abbiamo pezzi hard rock (la bellissima Ever1’s A Winner e When Mommy Kills You), altri melodici (Rain e You Say All The Nice Things), alcuni quasi sperimentali (ad esempio Despoiler Of Cadaver, quasi elettronica, e Alta, aperta dal suono di un organo, strumento inusuale per l’artista californiano). Da sottolineare le lunghe She e And, Goodnight, due suite rock che mettono in mostra il talento di Ty, soprattutto come chitarrista. Ty potrebbe davvero essere il Jack White degli anni ’10. In generale, l’eccessivo numero di canzoni può rendere frammentario il disco, specialmente nella parte finale, ma i risultati sono generalmente ottimi.

Ty Segall sembra dunque aver trovato la definitiva maturità, a cavallo fra White Stripes e Led Zeppelin, con inserti melodici che quasi ricordano i Beatles (sentirsi My Lady’s On Fire e Cry Cry Cry per conferma). Il capolavoro definitivo sembra dietro l’angolo: forse una minore iperattività gli consentirebbe di focalizzarsi totalmente su un progetto e tirarne fuori il meglio. Detto questo, averne di artisti capaci di sfornare ogni anno un LP di livello così alto.

Voto finale: 8.

Panda Bear, “A Day With The Homies”

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Il nuovo EP a firma Noah Lennox, aka Panda Bear, è un insieme abbastanza riuscito di molte delle sonorità da lui sperimentate negli ultimi anni, sia nella carriera solista che negli Animal Collective. Troviamo infatti sia elettronica che psichedelia, con la caratteristica irriverenza di Noah. Tuttavia, i testi sono più pessimisti del solito: troviamo riferimenti a corde che stringono il collo, addii non voluti agli amici di un tempo… insomma, se per esempio in “Merryweather Post Pavilion” (2009) gli Animal Collective parlavano maggiormente di tematiche familiari, adesso Lennox si riferisce a situazioni in generale drammatiche, quasi angoscianti.

Musicalmente parlando, “A Day With The Homies” sembra un progetto che avrebbe potuto svilupparsi in un album vero e proprio: abbiamo difatti brani riusciti ed eclettici, nessuno dei quali fuori luogo. Molto interessante la sperimentale Part Of The Math, quasi shoegaze nella prima parte; carina l’iniziale Flight. La vera chicca è però Nod To The Folks, che sembra quasi un brano di Jamie xx o Caribou. Vediamo che sia i titoli delle canzoni che dell’EP fanno riferimento ad abbandoni, subiti più che imposti: che vi siano riferimenti alla vita privata di Panda Bear? Nessuno può saperlo, sta di fatto che però, liricamente parlando, “A Day With The Homies” è il lavoro più triste mai composto da Panda Bear.

La qualità è comunque più che buona e ci fa sperare che il meglio debba ancora venire per Noah Lennox, uno degli autori più creativi e che più hanno influenzato la scena indie degli ultimi 15 anni.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2018

Il 2018 si annuncia come un anno molto importante per la musica. Molti artisti sono attesi al varco, dopo album riusciti oppure dopo dei fiaschi, per capire se davvero le speranze che avevamo riposto in loro erano meritate o meno.

Se nel 2017 avevamo messo al primo posto fra gli album più attesi quello di Liam Gallagher, poi inserito nella lista dei 50 migliori dell’anno, quest’anno non possiamo che partire dagli Arctic Monkeys. Uno dei gruppi rock più famosi al momento, l’attesa per il loro ritorno, cinque anni dopo “AM”, è spasmodica: le scimmie artiche ci stupiranno ancora, cambiando nuovamente il loro sound, oppure si rifugeranno in territori già conosciuti? Conoscendo Alex Turner e compagni, la seconda alternativa ci pare poco plausibile; considerate poi le numerose collaborazioni che i membri della band hanno avuto negli ultimi cinque anni (Iggy Pop, Queens Of The Stone Age, Last Shadow Puppets), la possibilità di una svolta verso l’hard rock, già intravista in “AM”, è ipotizzabile.

Il mondo del rock, d’altra parte, non dipenderà nel 2018 solo dagli Arctic Monkeys: un altro gruppo che manca dal 2013 sono i Vampire Weekend. Dopo l’addio di Rostam Batmanglij, multistrumentista e creatore di molti dei maggiori successi della band, come cambierà il suono di Ezra Koenig & co.? Replicare la bellezza di “Modern Vampires Of The City” si rivelerà un’impresa troppo ardua?

Tra i gruppi rock più “stagionati”, importanti conferme sono attese da Franz Ferdinand ed Interpol. Mentre la band scozzese capitanata da Alex Kapranos sembra aver virato verso lidi elettronici, dopo l’addio del bassista Nick McCarthy, poco si sa ancora del nuovo lavoro degli Interpol, il primo dopo “El Pintor” (2014). Inoltre, i My Bloody Valentine, padri dello shoegaze, realizzeranno un nuovo album nel 2018, come confermato dal frontman Kevin Shields, cinque anni dopo il riuscito “m b v”: non poteva esserci notizia migliore per gli amanti del rock alternativo. Non ci scordiamo poi del grande Jack White, il cui terzo album solista promette di rinverdire i fasti del rock à la Led Zeppelin, come del resto ci aspettiamo da un ottimo chitarrista come lui. Sono infine attesi anche i Muse, tre anni dopo il deludente “Drones”: i tempi gloriosi di hit come Sing For Absolution e Starlight torneranno mai?

Fra i cantanti emergenti del mondo rock, meritano una citazione Courtney Barnett e Car Seat Headrest: entrambi vengono da ottimi album solisti, rispettivamente “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” di Courtney e “Teens Of Denial” di Toledo e compagni. In più, l’australiana l’anno scorso ha pubblicato un interessante album con l’amico Kurt Vile, “Lotta Sea Lice”. Per entrambi il momento della verità si avvicina: saranno solo meteore oppure il loro talento sboccerà definitivamente?

Passando alla musica elettronica, Damon Albarn sembra avere in cantiere un nuovo album dei Gorillaz, solo pochi mesi dopo “Humanz”: sarà all’altezza di un capolavoro come “Demon Days”? Inoltre, Damon vuole resuscitare anche il suo terzo progetto alternativo ai Blur, i The Good, The Bad & The Queen: si prospetta un anno impegnativo per lui. In più, Grimes sembra pronta a pubblicare un nuovo LP dopo il bel “Art Angels” (2015). Infine, il nuovo EP di Panda Bear, aka Noah Lennox, è previsto in uscita il 12 gennaio.

Per gli amanti del rap, il 2018 si annuncia un anno caldissimo: Drake non sta mai fermo, ormai lo conosciamo, dunque un suo CD nel 2018 non sarebbe del tutto fuori luogo. Invece, Kanye West, dopo la crisi nervosa dell’anno passato e le tensioni con la moglie Kim Kardashian, sembra pronto a tornare: dopo il controverso “The Life Of Pablo” (2016) Kanye pubblicherà un capolavoro degno della sua fama? Altri LP molto attesi sono i nuovi lavori di Danny Brown e Blood Orange: entrambi sono ormai nomi affermati nel panorama musicale contemporaneo, ma per la definitiva consacrazione occorre un ultimo step. Infine, molto ci aspettiamo da Frank Ocean: dopo la serie di singoli usciti nel 2017, un suo disco sembra prossimo all’uscita. Dal talentuoso musicista americano pretendiamo almeno un lavoro all’altezza di “Blonde” (2016): il fulminante “Channel Orange” del 2012 è migliorabile?

Concludiamo la nostra carrellata con uno sguardo al pop: già sono state annunciate le uscite di Justin Timberlake e Sky Ferreira. Per quanto lontani possano apparire, entrambi appartengono all’universo pop. Anche i The 1975 e FKA Twigs, dopo il grande successo dei precedenti LP “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” e “LP2”, sono attesi ad una conferma. Infine, Lady Gaga, dopo l’acustico “Joanne” (2016), pare voler tornare a ritmiche più sbarazzine ed in linea con i suoi precedenti lavori.

Insomma, il 2018 si prospetta molto stimolante: speriamo che una larga parte di questi cantanti mantenga le aspettative e che molti nuovi talenti emergano nella musica moderna. Buon 2018 a tutti!

I migliori album del 2015

Il 2015 è stato un anno da incorniciare per la musica: tanti artisti importanti hanno fatto il loro ritorno sulle scene dopo anni di assenza (Blur, Sleater-Kinney e Libertines su tutti); molte nuove leve hanno fatto la loro comparsa sulla scena, specialmente nel mondo del rock (basti ricordare Courtney Barnett e Wolf Alice); inoltre, giovani cantanti già emersi si sono confermati ad altissimi livelli, come la talentuosa FKA Twigs. Niente a che vedere con il 2014 quindi, che anzi si era (ahimè) distinto per lo scarso livello medio della produzione musicale, tranne alcune rarissime eccezioni: giusto Real Estate, Sun Kil Moon e Aphex Twin spiccavano.

Prima di iniziare, vorrei però nominare cinque dischi che, malgrado siano ben fatti, non hanno trovato posto nella Top 35 di fine anno: abbiamo l’hip hop di Vince Staples con “Summertime ’06”; Florence And The Machine con il bel “How Big, How Blue, How Beautiful”; i Dead Weather di Jack White con il potente “Dodge & Burn”; il debutto di Floating Points (nome d’arte dell’inglese Sam T. Shepherd), intitolato “Elaenia”; e infine l’indie rock sempre gradevole di Kurt Vile, che con “B’lieve I’m Goin’ Down” aggiunge un altro bel tassello alla sua ottima carriera. Noterete poi che, dopo i nomi degli artisti e i titoli dei rispettivi CD, ho inserito il genere predominante (o i generi) dell’album: un modo ulteriore per aiutare i lettori ad orientarsi nel magma musicale moderno e, magari, scoprire nuovi cantanti o generi.

Ecco qua dunque la scelta dei 35 migliori album dell’anno che sta per concludersi, con una precisazione: il ritorno sulla scena musicale di D’Angelo con “Black Messiah” è datato dicembre 2014, ma non metterlo in nessuna lista dei migliori album sarebbe stato un delitto imperdonabile. Per questo ho optato per una piccola eccezione, ma se non lo avete ancora sentito mi ringrazierete per il consiglio musicale!

35) Muse, “Drones”

(ROCK)

Al settimo album, i Muse decidono di tornare alle origini: suoni molto hard rock e pochi fronzoli. Questo almeno sembra ascoltando alcuni singoli estratti, soprattutto Reapers. I Muse però non rinunciano alle contaminazioni: il pop smielato di Mercy (un po’ ripetitiva) e della title track però paradossalmente rovina il risultato complessivo. Infatti, possiamo contare pezzi tosti ma convincenti come la già citata Reapers e The Handler; una potenziale canzone dei Depeche Mode come la riuscita Psycho e una suite di ben 10 minuti (The Globalist) all’attivo dell’album. Il passivo è rappresentato dalla vena politica data al tutto: perché inserire i richiami a “Full Metal Jacket” di Drill Sergeant e a Kennedy in JFK? Probabilmente per ragioni di marketing, ma i risultati sono quasi farseschi a tratti. Ecco, diciamo che se i Muse avessero osato fino in fondo (rock/metal al 100%, meno pop e prevedibili hit) probabilmente il risultato sarebbe stato ancora migliore. Non per questo però “Drones” è un CD da buttare, sia chiaro. Anzi…

34) Coldplay, “A Head Full Of Dreams”

(POP)

I Coldplay potranno non piacere, ma una cosa va detta: non hanno mai fatto l’errore di restare fermi, musicalmente parlando. A partire da “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), infatti, hanno virato progressivamente verso un “pop in technicolor” quanto mai ballabile e gradevole: se con “Ghost Stories” del 2014 era venuto fuori il lato pessimista e triste di Chris Martin (anche a seguito del divorzio da Gwyneth Paltrow), con il nuovo “A Head Full Of Dreams” la band britannica dà libero sfogo al suo lato sbarazzino e danzereccio. Tendenza evidente in brani come la title track e Adventure Of A Lifetime; tuttavia, i sempreverdi Coldplay non hanno avuto il coraggio di cambiare completamente pelle. Sono proprio i brani più classici, come Everglow e Army Of One, che deludono. Interessanti le collaborazioni con Beyoncé (in Hymn For The Weekend) e Noel Gallagher (nella bella Up&Up), sintomo che i Coldplay non hanno ancora esaurito le cartucce a loro disposizione: che R&B e britpop siano le prossime frontiere da esplorare per Martin & co.? Insomma, “A Head Full Of Dreams” non è certamente un lavoro perfetto, né tantomeno il migliore della produzione dei Coldplay (i primi due LP, “Parachutes” e “A Rush Of Blood To The Head”, sono probabilmente irraggiungibili); d’altro canto, però, se sono la più grande pop-rock band del mondo un motivo deve pur esserci, no? Se questo sarà davvero l’ultimo album della carriera del gruppo britannico, la chiusura non sarà stata certo un fiasco.

33) Disclosure, “Caracal”

(ELETTRONICA – POP)

I fratelli Lawrence sono tornati: a due anni dal fortunato “Settle”, il loro fulminante esordio, il sound dei Disclosure è però decisamente differente. Se in “Settle” erano privilegiati suoni tipici della house e della disco music anni ’80, in “Caracal” i Lawrence, anche supportati da ospiti di assoluto prestigio (Lorde, The Weeknd e Sam Smith fra gli altri), virano decisamente verso la black music. Le migliori tracce, da Holding On a Willing & Able, passando per Nocturnal, ricalcano le sonorità tipiche dell’R&B; le tracce puramente dance si contano sulle dita di una mano e non sono certo indimenticabili (Jaded, con Howard Lawrence alla voce, la migliore). Complessivamente, dunque, un leggero passo indietro per il giovane duo britannico: la spontaneità di “Settle” è stata abbandonata a favore di suoni più maturi e più vari, ma generalmente meno trascinanti. Evolvere però non è certamente un peccato: per richiamare la Intro di “Settle”, “the reality is… everything changes.” Mai parole furono più veritiere.

32) Oneohtrix Point Never, “Garden Of Delete”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il produttore statunitense Daniel Lopatin, noto artisticamente con lo pseudonimo Oneohtrix Point Never, vince a mani basse il premio di “album più pazzo dell’anno” con “Garden Of Delete”. Il suo suono non è mai stato così destrutturato e frammentato: specialmente nella prima parte dell’album, si stenta a riconoscere la forma-canzone canonica. In mezzo però alle mille stranezze del CD (suoni eterei, voci lontane e storpiate da vari effetti e riverberi) si contano anche alcune melodie davvero affascinanti: la parte centrale di Ezra, il breve intermezzo SDFK, la lunga suite Mutant Standard e la romantica Child Of Rage sono notevoli. Se Lopatin avesse proseguito su questo tragitto, probabilmente i risultati sarebbero stati ancora migliori; tuttavia, la “crisi del settimo album” non si sente proprio. Pur non raggiungendo i brillanti risultati di “Replica” (2011), questo “Garden Of Delete” non è comunque per niente male.

31) Dr. Dre, “Compton”

(HIP HOP)

Quello che probabilmente sarà l’ultimo album della carriera di cantante di Andre Romelle Young (in arte Dr. Dre) è un trionfo: nato come soundtrack al film “Straight Outta Compton”, che narra dell’infanzia e dell’inizio della carriera di Dre nel gruppo N.W.A., “Compton” conta un bouquet di collaborazioni che farebbe impallidire chiunque: Kendrick Lamar, Eminem e Snoop Dogg tra i più celebri, ma si contano anche molte giovani leve della casa discografica di Dr. Dre. Musicalmente parlando, le partecipazioni di questi mostri sacri aiutano a rendere imperdibile un CD che contava già ottime basi. Bellissima è infatti Genocide con Kendrick e buona Talk About It: sono queste probabilmente le più belle canzoni del disco. Peccato per la parte centrale un po’ pesante, ma il finale riscatta pienamente questo piccolo difetto: le collaborazioni con Snoop Dogg (in One Shot One Kill e Satisfiction) ed Eminem (nella potente Medicine Man) sono tra i migliori pezzi hip hop dell’anno. Insomma, davvero un ottimo modo di concludere una già rimarchevole carriera da parte di Dr. Dre, già noto come produttore ed imprenditore (avete presente Beats?); insomma, un genio poliedrico, che in “Compton” ha riassunto alcune tra le pagine più importanti (e delicate) della sua tormentata adolescenza.

30) Brandon Flowers, “The Desired Effect”

(POP)

L’ultimo CD dei Killers risale ormai a tre anni fa: “Battle Born” (2012) purtroppo si era rivelato un totale fiasco. Troppo sovraccarico, artefatto e senza le grandi hit che avevano contraddistinto i precedenti lavori della band losangelina (basti ricordare Mr Brightside, Read My Mind e Human fra le altre). Ebbene, Brandon Flowers, frontman dei Killers, sforna il secondo album solista (il primo, “Flamingo”, è datato 2010) e “The Desired Effect” sorprende per qualità compositiva e coesione. Ottimi i primi due brani in scaletta, Dreams Come True e Can’t Deny My Love; ma in generale non ci sono pezzi davvero brutti o mediocri. Non male anche Still Want You (con coretti molto british) e Lonely Town, che ricorda molto i Duran Duran e i Depeche Mode delle origini. L’album è dunque una piacevole sorpresa, che dimostra che probabilmente “Battle Born” è stato solamente un passo falso. Anche Flowers ha ammesso che non era abbastanza buono in varie interviste: non resta che aspettare e sperare che tornino i fasti di “Hot Fuss” (2004), il fulminante esordio dei Killers. Di certo, “The Desired Effect” è il migliore LP di Flowers da sette anni a questa parte. E dimostra che il revival anni ’80 evidentemente non passa mai di moda: Dire Straits e Police hanno ancora una certa influenza sui musicisti contemporanei.

29) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Chasing Yesterday”

(ROCK)

“Inseguendo ieri”: questa la traduzione di “Chasing Yesterday”, secondo lavoro solista di Noel Gallagher, ex leader degli inglesi Oasis, una delle band simbolo del movimento britpop dei primi anni ’90. I timori di trovarsi di fronte ad un album rivolto solo al passato fortunatamente sono presto fugati: già al primo ascolto “Chasing Yesterday” si caratterizza per un maggior sperimentalismo rispetto al precedente “Noel Gallagher’s High Flying Birds”. Certo, mancano hit come If I Had A Gun… e The Death Of You And Me, ma anche il nuovo CD contiene pezzi interessanti come In The Heat Of The Moment e The Ballad Of The Mighty I. Colpisce inoltre Lock All The Doors, la base più strokesiana mai creata da un Gallagher. In generale, possiamo dire che i due album solisti di Noel si equivalgono, entrambi essendo sullo stesso (buonissimo) livello. Non capolavori, ma certamente godibili. In una scala “oasisiana”, possiamo collocare “Chasing Yesterday” ai livelli di “Dig Out Your Soul” (2008) e “Don’t Believe The Truth” (2005): non male, Noel.

28) The Weeknd, “Beauty Behind The Madness”

(POP – R&B)

Uno dei dischi dell’estate, il nuovo CD del canadese Abel Tesfaye, in arte The Weeknd. E già potrebbero arrivare le prime critiche: troppo commerciale, è solo un insieme di canzoncine da spiaggia… Tutto (parzialmente) vero, però i pregi di “Beauty Behind The Madness” sono senza dubbio maggiori dei difetti. Dopo vari mixtapes e due veri e propri album, “Trilogy” (2012, compilation di tre mixtapes precedenti) e il poco riuscito “Kiss Land” del 2013, “Beauty Behind The Madness” ritorna ai fasti del bel mixtape “House Of Balloons”, solo con maggiore attenzione alla parte melodica delle canzoni. Il genere è sempre un R&B molto pop, ma efficace: i singoli The Hills e Can’t Feel My Face sono davvero belli, meno la celeberrima Earned It (che faceva parte della colonna sonora del film tratto dalle “cinquanta sfumature di grigio”, che non commenterò per carità di patria). Sono intriganti anche i pezzi più romantici, come Acquainted e Real Life. In conclusione, se avessimo di fronte un LP da 50 minuti (e non 65) parleremmo di CD dell’anno o cose simili; purtroppo, alcuni pezzi non perfetti rovinano il quadro generale. Perdoniamo però The Weeknd, che con una voce del genere può permettersi anche qualche passo falso.

27) Hot Chip, “Why Make Sense?”

(ROCK – ELETTRONICA)

Gli Hot Chip sono giunti al sesto lavoro di inediti, ma il passare del tempo non sembra influire troppo sulla loro peculiare qualità di scrivere canzoni gradevoli, ballabili e senza impegno, contemporaneamente però trattando temi non semplici come la sensazione che la propria gioventù sia passata e i rapporti interpersonali, in ogni loro sfumatura. Tutta questa introduzione vuol significare che “Why Make Sense?” è un disco finalmente adulto; pur non raggiungendo la bellezza di “One Life Stand” (2010), non intacca la qualità media della produzione della band inglese. Una volta gli Hot Chip erano in un certo senso sottovalutati: considerati gli LCD Soundsystem in salsa british, hanno dimostrato di poter competere per la palma di “più importante band dance/funk del decennio” senza problemi. In “Why Make Sense?” troviamo brani efficaci come Huarache Lights, Cry For You (bello il finale à la Caribou) e Easy To Get; meno belle le ballate, come White Wine And Fried Chicken e in generale la parte centrale del CD. Il miglior pezzo è però la title track, che richiama decisamente i R.E.M. di “Monster”: segno forse che una svolta è in atto nel sound del gruppo? Il risultato è dunque apprezzabile: se consideriamo che è solamente il quarto LP più riuscito degli Hot Chip, si comprende che l’asticella è posta ad un livello davvero alto.

26) Destroyer, “Poison Season”

(ROCK – POP)

“Poison Season” è il decimo album di inediti della band canadese Destroyer, il primo dopo il bellissimo “Kaputt!” (2011). L’EP del 2013, “Five Spanish Songs”, era stata una piacevole parentesi “latina” nella produzione dei Destroyer, che però con “Poison Season” tornano sul sentiero tracciato nella loro ormai ventennale carriera. Questo CD non passerà alla storia come il loro più bel lavoro, ma di certo non abbassa il livello medio della loro produzione: Dream Lover è un capolavoro indie, mentre Forces From Above è più barocca, ma non meno efficace. Tuttavia, è la romanticissima The River la vera perla dell’album. Si nota un progressivo allentarsi del ritmo e della tensione in “Poison Season”, quasi che Bejar & co. cerchino il raccoglimento dell’ascoltatore prima della bella conclusione di Times Square, Poison Season II. In conclusione, se a tratti l’LP può apparire pesante e fin troppo sofisticato, è anche vero che di band che arrivano al loro decimo CD nelle brillanti condizioni dei Destroyer ne esistono (e ne sono esistite) pochissime.

25) Libertines, “Anthems For Doomed Youth”

(ROCK)

Un nuovo album dei Libertines era altamente improbabile anche solo da concepire un anno fa: Pete Doherty sembrava ormai definitivamente perso, tra problemi di droga e sentimentali; Carl Barât aveva intrapreso una (non esaltante) nuova avventura con i Dirty Pretty Things. Insomma, dopo soli due album di inediti la carriera del gruppo inglese sembrava già finita. Poi, all’improvviso, l’incredibile notizia: Libertines pronti alla reunion, con nuovo CD annesso. In generale, possiamo dire che “Anthems For Doomed Youth” non raggiunge i livelli dell’esordio della band, quell’”Up The Bracket” (2002) che ha contribuito a formare molti gruppi indie rock successivi. E’ però sicuramente migliore di “The Libertines” del 2004 e di gran parte del lavoro di Barât con i Dirty Pretty Things e del Doherty frontman dei Babyshambles. Quindi, in sintesi, davvero niente male: pezzi come Barbarians e Gunga Din, se fossero stati scritti nell’epoca pre-Strokes, avrebbero fatto gridare al miracolo. La stessa title track non è male, così come la conclusiva Dead For Love (evidente il richiamo alle vicissitudini occorse fra Doherty e Kate Moss). “Anthems For Doomed Youth” regala quindi un buon LP ai fan del britpop e del rock più sbarazzino, due dei generi dove Doherty e Barât eccellono. E conferma che, se la sua produzione non fosse stata fermata dai continui periodi in rehab, Pete Doherty sarebbe uno dei più importanti cantanti della sua generazione.

24) Foals, “What Went Down”

(ROCK)

Il quarto lavoro di studio degli inglesi Foals, “What Went Down”, può essere catalogato come uno dei CD rock migliori del 2015. Considerati gli inizi underground, i Foals hanno fatto decisi passi avanti verso il rock da stadio (U2 e Coldplay sono maestri in questo): già dalla title track capiamo questo trend. La voce di Yannis Philippakis è più roca e tirata che mai, molto di più per esempio che nel precedente LP “Holy Fire” (2013). Certo, la band inglese non inventa nulla: i riferimenti a Cure, Arctic Monkeys e in genere l’indie dei primi anni 2000 è innegabile. Il CD resta comunque molto piacevole, sapendo mescolare sapientemente i generi musicali coinvolti nel mix “foalsiano”. In generale possiamo affermare senza tema di smentita che “What Went Down” è il lavoro più qualitativamente equilibrato nella produzione dei Foals, peraltro quasi sempre non disprezzabile: dal pop di Birch Tree al rock di What Went Down, già citata, tutto gira a meraviglia. Uno dei più intriganti CD britannici dell’anno: e considerando che il 2015 contava artisti UK del calibro di Jamie xx, Florence And The Machine e Mumford And Sons (rispettivamente: magnifico il lavoro di Jamie, buono quello di Florence, pessimo quello dei Mumford And Sons) non era così scontato.

23) Wilco, “Star Wars”

(ROCK)

Giunti al nono album di inediti, gli statunitensi Wilco si confermano ad alti livelli. Stiamo parlando di una delle band di alternative rock più significative degli ultimi vent’anni: “Yankee Hotel Foxtrot” del 2002 è uno degli album più importanti del decennio, oltre che una delle più strazianti testimonianze dello scoramento degli Stati Uniti post-11 settembre 2001. “Star Wars” si afferma come un lavoro abbastanza sperimentale, ma contemporaneamente in grado di non scontentare i fans più tradizionalisti della band. Le prime due tracce, la breve EKG e More…, sono molto beatlesiane, mentre la seguente Random Name Generator è molto più nel tradizionale solco tracciato da Jeff Tweedy & co. negli ultimi anni. Un po’ R.E.M. (come in The Jock Explained), un po’ Grizzly Bear (nella bella You Satellite), i Wilco riescono a stare sempre sul pezzo, pur con un album che non supera i 40 minuti di lunghezza. E con già otto album alle spalle non era una missione così scontata. PS: “Star Wars” è stato distribuito gratuitamente sul sito ufficiale del gruppo. Perché gli U2 non prendono nota e, la prossima volta, non fanno anche loro così invece di obbligare i clienti Apple a possedere il loro CD? Un po’ di umiltà non fa male.

22) Tobias Jesso Jr, “Goon”

(POP)

Può un album incentrato esclusivamente sul pianoforte e sulla voce del cantante (l’esordiente canadese Tobias Jesso Jr) essere in grado di tenere concentrato l’ascoltatore per tutti i suoi 46 minuti di durata? Beh, evidentemente sì. Jesso Jr, malgrado sia al primo lavoro da solista, riesce a catturare anche i non amanti della musica pop romantica, con pezzi come Can’t Stop Thinking About You (molto classica, non a caso posta come apertura del CD) e Without You (più complessa, anche come orchestrazione). Come si capisce dai titoli dei brani, il tema principale è l’amore, ma Tobias lo racconta con grazia, senza essere obbligatoriamente strappalacrime. Ovviamente il primo riferimento a cui si guarda ascoltando “Goon” è Elton John, ma anche artisti meno celebri rientrano nel novero delle influenze di Jesso Jr. Nel mondo infatti vi sono pianisti stimati come Lang-Lang o il nostro Ludovico Einaudi, ma indubbiamente avere voci fresche come Tobias Jesso Jr aiuta a mantenere la passione per una parte della scena musicale magari ricercata e di nicchia, ma che sa regalare perle come “Goon”. Una delle maggiori promesse del pop mondiale: questo è Tobias Jesso Jr.

21) Natalie Prass, “Natalie Prass”

(POP)

L’esordio della cantautrice americana Natalie Prass richiama fortemente le atmosfere pop e jazz anni ’60, ma cerca di rinnovarle e attualizzarle al XXI secolo. Un’operazione tentata molte volte, ma la giovane Prass raggiunge vette notevoli: la iniziale My Baby Don’t Understand Me è più vellutata, mentre la seguente Bird Of Prey è più mossa e con la batteria più in evidenza. In generale, le nove canzoni del CD riescono nel loro intento primario: intrattenere e rilassare. Poi è ovvio: non si può parlare di capolavoro. Di certo però “Natalie Prass” è uno dei tanti ottimi esordi che hanno fatto scrivere a molti esperti che il 2015 può cambiare radicalmente il panorama musicale, risultato che il 2014 aveva clamorosamente fallito, caratterizzandosi anzi, come già accennato, per una qualità media piuttosto scialba. Peccato per la breve durata del lavoro (circa 38 minuti), altrimenti la posizione in classifica sarebbe stata anche migliore.

20) FFS, “FFS”

(ROCK – POP)

Non chiamatelo supergruppo (così hanno chiesto più volte i membri degli FFS)! La band nasce dall’unione degli Sparks (nati negli anni ’70 a Los Angeles e autori del fondamentale “Kimono My House” nel 1974, che fondeva benissimo art rock e glam) e i Franz Ferdinand (band scozzese celebre per l’eponimo fulminante esordio, datato 2004, uno dei manifesti dell’indie rock dei primi anni 2000). Insomma, non un incontro fra uguali: gli uni apparentemente pronti per la pensione, gli altri magari non al top della condizione, ma sempre sulla cresta dell’onda. “FFS” riesce però a non sembrare finto o artefatto: pezzi come Police Encounters, Piss Off e Johnny Delusional non rimangono indifferenti agli amanti dell’indie rock. I 12 pezzi di “FFS” riescono abilmente a intrattenere il pubblico, che può trovare pezzi scanzonati come barocchi o addirittura suite lunghe più di 6 minuti (la ironica Collaborations Don’t Work). Non un capolavoro, ma certamente oltre le più rosee aspettative. L’esperimento si riproporrà in futuro? Staremo a vedere, ma se il livello replicherà quello di “FFS” ne vedremo delle belle.

19) Viet Cong, “Viet Cong”

(PUNK)

Questo disco nasce nella tragedia: infatti i Viet Cong sono solo apparentemente una band post-punk canadese al loro primo lavoro. Essi infatti hanno origine dagli Women, ma non comprendono il chitarrista Christopher Reimer, morto nel 2012. I rimanenti membri dei Viet Cong hanno quindi già alle spalle una solida esperienza, ma questo album si staglia come il loro migliore lavoro: suoni distorti, pezzi lunghi e profondamente evocativi (l’ultima Death dura addirittura 11 minuti!) e chitarre potentissime, il tutto accompagnato da una batteria sempre sul pezzo. Su tutto si staglia la bellissima March Of Progress, miglior pezzo punk dell’anno e highlight dell’album. Insomma, un LP di ottima fattura, che malgrado la breve durata (soli 37 minuti) è in grado di compendiare tutta la drammaticità e la disperazione di quattro uomini che hanno perso non solo un compagno di band, ma anche un caro amico.

18) Joanna Newsom, “Divers”

(POP – FOLK)

La bella Joanna è giunta al quarto album, ma lo smalto è rimasto quello dei tempi migliori. In “Divers” la cantante (e arpista) americana ricorda le atmosfere del Barocco e del Rococò: melodie sofisticate, strumentazione abbondante e tonalità della voce che varia da canzone a canzone, a seconda del mood richiesto. Vi sono infatti pezzi più intimisti come Sapokanikan e la title track; altri più ritmati, come la bella Leaving The City. Ottima inoltre la chiusura del CD, con sia A Pin-Light Bent sia Time, As A Symptom che colpiscono l’ascoltatore. Peccato per alcuni pezzi leggermente fuori fuoco, come The Things I Say e You Will Not Take My Heart Alive, altrimenti la posizione finale sarebbe stata ancora migliore. In conclusione, rispetto alla maratona espressa con “Have One On Me” del 2010 (tre CD, oltre due ore di durata totale!), “Divers” si mostra più “modesto”, ma non per questo meno efficace. Un altro prezioso tassello alla già ottima carriera di Joanna Newsom è stato dunque aggiunto grazie a “Divers”. Menzione finale per la copertina, davvero magnifica: senza dubbio fra le migliori create nel 2015.

17) Beach House, “Depression Cherry” / “Thank Your Lucky Stars”

(POP)

I Beach House hanno fatto le cose in grande quest’anno: non uno, ma addirittura due album pubblicati in meno di due mesi! La cosa più interessante è che entrambi meritano applausi. Partiamo dall’analisi del primo in ordine temporale, ovvero “Depression Cherry”. Giunti alla quinta fatica di studio, il duo statunitense ritorna a un suono più etereo rispetto ai due magnifici album che precedono “Depression Cherry”, vale a dire “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Se il CD può essere considerato una sorta di ritorno alle origini per Legrand e Scally, bisogna ammettere che la qualità è leggermente inferiore a “Teen Dream” e “Bloom”. L’ottima Sparks richiama lo shoegazing appena accennato di 10 Mile Stereo del 2010, mentre altre canzoni (su tutte l’introduttiva Levitation e 10:37) riecheggiano le atmosfere di “Devotion”(2008), secondo LP della band. In generale, “Depression Cherry” colpisce positivamente per la coesione sonora e ritmica, ma manca dei colpi di genio a cui i Beach House ci avevano abituato. Per quanto riguarda “Thank Your Lucky Stars”, possiamo dire che si mantiene su ottimi livelli, superando nel complesso il predecessore per coesione e qualità delle melodie (esemplari le belle Majorette e Elegy To The Void), anche se resta il tono tremendamente malinconico di “Depression Cherry”. In conclusione, un anno davvero ottimo per il dream pop, che con Beach House e Deerhunter ha ritrovato alcuni dei suoi maggiori esponenti in buone condizioni. Un ultimo appunto sui nostri beneamati Beach House: non sarebbe stato meglio fare una sintesi fra le due sessions di registrazione e pubblicare un solo CD di, per esempio, 11-12 canzone invece che due da 9? Allora sì che il lavoro sarebbe facilmente entrato nella top 10 dei migliori LP del 2015… Ma del resto, quando un gruppo come i Beach House omaggia i suoi fans con ben due raccolte di inediti in un anno, dobbiamo anche protestare?

16) Björk, “Vulnicura”

(POP – SPERIMENTALE)

Ottavo album di studio per la celebre cantante finlandese Björk: chi pensasse che la parabola discendente sia ormai iniziata si sbaglia di grosso. Alle soglie dei cinquant’anni, Björk al contrario con “Vulnicura” ritorna, se non ai fasti dei suoi primi album “Debut” (1993) e “Post” (1995), certamente a “Vespertine” (2001), cosa non scontata. Il lavoro è una sorta di concept album riguardo la separazione della cantante dall’ex marito Matthew Barney e le sue conseguenze sull’animo di Björk. La doppietta iniziale di canzoni, formata da Stonemilker e Lionsong, a metà fra Massive Attack e musica sinfonica, è bellissima; anche il resto del CD però non si fa disprezzare, con la lunghissima Black Lake (ben 10 minuti) a fare da nucleo dell’intero LP. In generale, le 9 tracce di “Vulnicura” rappresentano un ritorno allo sperimentalismo new wave che ha fatto la fortuna della cantante finlandese e un netto passo avanti rispetto al penultimo “Biophilia” (2011): inatteso no, ma certo non pronosticabile.

15) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School”

(ELETTRONICA)

Dopo 4 anni di assenza dalle scene, i Neon Indian di Alan Palomo tornano finalmente sulla scena con “VEGA INTL. Night School”. Se i due precedenti lavori, “Psychic Chasms” del 2009 e “Era Extraña” del 2011, avevano contribuito ad accendere i riflettori sul giovane compositore messicano, con il nuovo LP Palomo compie un deciso passo avanti. Il percorso chillwave ed elettronico continua, ma accanto a questi due generi troviamo abbondanti tracce di funk, dance e musica anni ’80. I risultati sono discontinui, ma complessivamente davvero notevoli: colpiscono in particolare la trascinante Slumlord, Techno Clique e la quasi reggae Annie, ma anche C’Est La Vie (Say The Casualties!) non è per niente male. I Neon Indian non sono mai stati così ambiziosi: lo si nota dalla complessità di alcune composizioni e dal fluire continuo dei beat, che non lasciano mai sazio l’ascoltatore. Ciò dimostra che l’eredità di Prince, Stevie Wonder e James Brown non è andata perduta. Diciamo che, se ci sarà un quarto CD dei Tame Impala sul solco tracciato da “Currents”, probabilmente esso suonerà molto simile a “VEGA INTL. Night School”: ed è un grosso complimento per Palomo & co.

 14) Father John Misty, “I Love You, Honeybear”

(ROCK)

Uscire da una band al culmine del successo può segnare la fine prematura di una promettente carriera. Per Josh Tillman, ex percussionista della band americana Fleet Foxes, ciò al contrario ha rappresentato un nuovo inizio: al secondo album da solista sotto il nome di Father John Misty, Tillman scrive una grande pagina del rock degli ultimi anni. Se nelle liriche egli spesso analizza i problemi (piccoli e grandi) della classe media, come avere un bambino e i problemi che comporta oppure i rapporti con la moglie (esemplari la title track e Ideal Husband), è nelle parti più ironiche che Tillman dà il meglio di sé. Titoli come Bored In The USA o The Night Josh Tillman Came To Our Apartment sono di facile interpretazione. Musicalmente parlando, “I Love You, Honeybear” si distanzia molto dai due album dei Fleet Foxes: il rock predomina, ma un tocco di elettronica viene aggiunto qua e là (ottima True Affection). In conclusione, un ottimo CD, che testimonia come Tillman avesse ragione a sentirsi sminuito ad essere “solo” il batterista dei Fleet Foxes: egli è ad ora uno dei migliori cantautori americani.

13) FKA Twigs, “M3LL155X”

(TRIP HOP – ELETTRONICA)

Dopo il fortunato esordio dello scorso anno, la promettente cantautrice inglese Tahliah Debrett Barnett, meglio nota come FKA Twigs, torna con un agile EP: il titolo suona incomprensibile, ma va interpretato come “Melissa”, a sentire Barnett. “LP1”, l’esordio su CD di Twigs, aveva colpito l’anno passato per la sua abilità nel resuscitare un genere apparentemente morto e sepolto come il trip-hop. Questo genere aveva avuto cultori del livello di Morcheeba, Gorillaz e Massive Attack; era però da anni che non si sentiva un uno-due così efficace come quello di FKA Twigs. Le cinque canzoni di “M3LL155X” colpiscono per coerenza e coesione, rendendo il tutto godibile e molto intrigante: brani come Figure 8 e In Time sono davvero affascinanti, così come la oscura Glass & Patron, quasi techno in certi tratti. Tahliah Debrett Barnett dimostra ancora una volta il suo sconfinato talento e ci fa bramare di sapere verso quali lidi si dirigerà con il suo prossimo album vero e proprio. Attendiamo fiduciosi.

12) Blur, “The Magic Whip”

(ROCK)

Primo album di canzoni inedite in 13 anni, primo nella formazione originale addirittura in 20: il rischio di imbattersi in un album fatto solo per vendere copie ai nostalgici del britpop inglese anni ’90 era altissimo. I Blur d’altro canto ci avevano abituato fin troppo bene, così come il Damon Albarn solista e con i Gorillaz (altra sua fortunata creatura). Fortunatamente, i nostri timori sono stati presto fugati: dalla bellissima Lonesome Street alla delicata My Terracotta Heart, dall’acid rock di Go Out all’elettronica di Thought I Was A Spaceman, “The Magic Whip” risulta essere una delizia pop, per ascoltatori giovani e meno giovani. Non mancano aperture al prog rock (nella conclusiva Mirrorball) e richiami “gorillaziani” (Ghost Ship e Ice Cream Man), ma la vera meraviglia arriva con There Are Too Many Of Us: Albarn & co. affrontano il problema del sovrappopolamento con una marcetta trascinante. La battaglia delle band è definitivamente vinta a scapito degli arcirivali Oasis. Bentornati, Blur.

11) D’Angelo & The Vanguard, “Black Messiah”

(SOUL – R&B)

D’Angelo ha impiegato 14 anni a comporre un nuovo album di studio (il pluripremiato “Voodoo” risale infatti al 2001). Solo pigrizia oppure cura maniacale? Senza dubbio la seconda, ma non va dimenticato che il cantautore soul statunitense ha anche avuto gravi problemi di droga e alcol durante questo periodo di inattività. D’Angelo torna così alla ribalta con “Black Messiah”: 12 brani che spaziano dal rock al funk al soul, un concentrato della musica nera degli ultimi 30 anni. La qualità delle canzoni è generalmente molto alta: Ain’t That Easy ricorda Frank Ocean, mentre la marcia di 1000 Deaths è trascinante anche grazie alla perfetta fusione tra chitarra e basso. La parte centrale dell’album si focalizza più sul pop e l’intimità delle melodie: Sugah Daddy e Really Love sono le migliori. Da aggiungere il brano dedicato al grande Desmond Tutu Till It’s Done (Tutu) e il richiamo di “Ritorno Al Futuro” con le due parti di Back To The Future. Assieme a “To Pimp A Butterfly”, “Black Messiah” è il miglior album soul dell’anno. Piccola nota a margine: è vero, questo LP è uscito a fine 2014, ma sembrava un peccato non includerlo in nessuna lista dei migliori album (troppo tardi per il 2014, troppo presto per il 2015). Fidatevi: merita più di un ascolto.

10) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper”

(ELETTRONICA)

Al quinto album solista, Noah Lennox (in arte Panda Bear) è intimista come non mai: “Panda Bear Meets The Grim Reaper” rappresenta un altro step di una carriera davvero fantastica, sia solista che facendo parte degli Animal Collective, di cui è fondatore e leader. Accanto a canzoni più tradizionali come Mr Noah e Crossroads (molti i richiami ad artisti elettronici contemporanei come i Daft Punk, ma anche agli anni ’80) ne troviamo infatti altre più raccolte come Tropic Of Cancer (dedicata al padre morto per cancro) e Lonely Wanderer, che sembra richiamare la sua condizione di “girovago solitario”. Stupisce questa apertura in un uomo di solito molto geloso della sua privacy come Lennox: era dai tempi della seconda parte di “Feels” (2005) e da Brother Sport in “Merriweather Post Pavilion” (2009), entrambi peraltro album degli Animal Collective, che non si notava tale sua caratteristica. Tanto di cappello a Panda Bear dunque: ce ne fossero di artisti coraggiosi come lui nel panorama musicale contemporaneo…

9) Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit”

(ROCK)

Il titolo sembra anticipare un album prolisso e pretenzioso; beh, nessuna impressione può essere più sbagliata. Courtney Barnett si candida a esordiente indie rock del decennio: la giovane cantante australiana ritorna a inizio XXI secolo, età dell’oro dell’indie, quando nacquero band come Strokes e Franz Ferdinand. Le prime due canzoni Elevator Operator e Pedestrian At Best sono manifesti delle intenzioni della Barnett; Small Poppies addirittura ricorda i Led Zeppelin. Il suo suono riesce però a contaminarsi anche con White Stripes e il pop à la Robbie Williams, ottenendo risultati spesso straordinari: la conclusiva Boxing Day Blues ne è un valido esempio. L’immediatezza di “Sometimes I Sit And Think…” è paragonabile a “Vampire Weekend” e “Teen Dream” (tanto per citare due band come Vampire Weekend e Beach House che di immediatezza se ne intendono). Chiaramente il CD di per sé non sarà un capolavoro di sperimentalismo o arditezza stilistica, ma la musica deve anche essere svago, giusto? Quindi: benvenuta Courtney e grazie per aver riaperto (anche se per poco più di 35 minuti) l’armadio dei nostri ricordi, quando sembrava che l’indie dovesse soppiantare il mainstream.

8) Sleater-Kinney, “No Cities To Love”

(PUNK)

Dunque: qua parliamo di uno dei più sorprendenti ritorni sulla scena musicale degli ultimi anni. Le Sleater-Kinney sono state negli anni ’90 una delle band-simbolo del movimento punk femminile americano (non a caso chiamato “riot grrl”), assieme alle Hole di Courtney Love. Dopo aver sfornato sei ottimi CD, nel 2006 si erano sciolte, dedicandosi a progetti solisti. Nove anni dopo, l’evento: la reunion. E i risultati sono ancora una volta ottimi: le tre ex ragazze rivoltose si scoprono più mature, ma i cavalli di battaglia sono sempre i soliti, dalla critica al capitalismo sfrenato, alla discriminazione verso il sesso femminile, alla lotta alla povertà. Il punk delle origini non si è diluito, anzi: in poco più di 30 minuti le Sleater-Kinney sfornano dieci potenziali hit punk/rock, nessuna delle quali sfigura. Spiccano Price Tag, la title-track e A New Wave, una delle tracce dell’anno. Incredibile come i Cloud Nothings nel 2014 e quest’anno Viet Cong e Sleater-Kinney abbiano resuscitato un movimento (il punk) che sembrava oramai aver dato tutto. Insomma, un trionfo: come testimoniano Blur e Sleater-Kinney (ma anche i My Bloody Valentine nel 2013), le reunion a volte riescono ad aggiungere capitoli interessanti a carriere già leggendarie.

7) Grimes, “Art Angels”

(ELETTRONICA – POP)

Era uno dei dischi più attesi dell’anno. Claire Boucher, la cantante canadese meglio conosciuta come Grimes, nel 2012 aveva stupito tutti con “Visions”, suo terzo lavoro di studio ma primo ad avere un certo successo, superbo CD che mescolava elettronica e pop in maniera davvero unica. In “Art Angels” Grimes torna alla stessa formula già sperimentata in “Visions”, con minore inventiva ma superiore confidenza nei propri mezzi. I risultati sono ancora una volta ottimi: brani come la potente SCREAM, la title track e la ottima Venus (a cui ha collaborato Janelle Monáe) sono concepibili solo da un genio della musica moderna come Grimes, molto maturata anche vocalmente. La perla del CD è però World Princess Part II, uno dei migliori pezzi pop dell’anno. Album per certi versi folle, “Art Angels”, ma nondimeno accattivante e ben fatto: i pochi passi falsi (come California) sembrano confermare che la perfezione non è di questo mondo. Top 10 pienamente meritata per “Art Angels” e per Claire Boucher, una delle poche artiste per cui si possa dire: nessuno suona come lei.

6) Deerhunter, “Fading Frontier”

(ROCK – POP)

I Deerhunter non sono mai stati apprezzati per le canzoni allegre o il clima gioioso dei loro album. Anzi, molto spesso valeva il contrario: a partire dal secondo lavoro di studio “Cryptograms”(2007) fino a “Monomania” (2013), la loro cifra stilistica era sempre stato un indie rock venato di ambient music e pop, aggressivo e con testi riguardanti temi scottanti come morte, sessualità, guerra… “Fading Frontier” è perciò una gradita scoperta: un album che cresce ad ogni ascolto, accessibile e decisamente più commerciale rispetto ai citati lavori precedenti. Si ritorna dunque alle melodie dream pop di “Halcyon Digest” (2010), capolavoro del gruppo. Bradford Cox e Lockett Pundt, frontman e chitarrista dei Deerhunter, oltre che menti creative della band, danno sfogo alla loro vena più intimista e serena. I testi d’altra parte non sono banali nemmeno in “Fading Frontier”: in Take Care “copiano” un titolo ai Beach House, ma trattano di storie d’amore finite male; in All The Same narrano le disavventure di un uomo che perde moglie e figli, ma trasforma le proprie debolezze in forza per riemergere. Il brano migliore è però Breaker, primo pezzo con parte canora condivisa fra Cox e Pundt nella produzione dei Deerhunter, che riecheggia Beach House e Real Estate. Bella anche Living My Life, che sembra quasi ispirarsi a Bon Iver. Nessuno dei 9 piccoli gioielli che compongono questo LP può dirsi fuori posto: un altro tassello alla già ottima carriera dei Deerhunter è stato aggiunto. E l’eredità del gruppo americano inizia a farsi davvero ingombrante, con una qualità media tremendamente alta.

5) Kendrick Lamar, “To Pimp A Butterfly”

(HIP HOP)

Kendrick torna dopo il pluripremiato “Good Kid, M.A.A.D. City” (2012) e le aspettative sono più alte che mai: tornerà agli stessi, straordinari livelli? La risposta è: decisamente sì. Anzi, per certi versi “To Pimp A Butterfly” riesce in una missione che “Good Kid…” aveva tralasciato: ridare orgoglio alla comunità nera, colpita come abbiamo visto da tragici eventi negli Stati Uniti, soprattutto a causa degli scontri con le forze di polizia. Mentre infatti il secondo album solista narrava l’infanzia dell’autore, “To Pimp A Butterfly” denuncia le discriminazioni subite dagli afroamericani statunitensi (For Free, ma anche For Sale e How Much A Dollar Cost? sono chiari esempi). Musicalmente parlando, il CD allarga lo spettro musicale di Lamar, passando dal jazz (in For Free) ai ritmi della musica africana (Momma). Notevoli le collaborazioni con due mostri sacri del rap come Snoop Dogg (in Institutionalized) e Dr. Dre (in Wesley’s Theory). La bellissima King Kunta è probabilmente il miglior pezzo hip hop dell’anno. Infine, la parte finale della conclusiva MortalMan è davvero fantastica. Insomma, un trionfo lungo più di 78 minuti: un classico dell’hip hop moderno e un LP che può anche parlare ai non appassionati del genere (chi scrive ne è un esempio). Lamar può tranquillamente essere nominato “artista afroamericano dell’anno”.

4) Wolf Alice, “My Love Is Cool”

(ROCK)

L’esordio rock dell’anno. Al primo album di studio, gli inglesi Wolf Alice tirano fuori un album semplicemente splendido, che riesce a mescolare con grande abilità generi fra loro diversi (grunge, alternative rock e pop), grazie anche alle meravigliose voci di Ellie Rowsell e Joff Oddie, che un po’ giocano a fare gli xx e un po’ i My Bloody Valentine. Non vi sono brani sbagliati o fuori posto: anzi, il terzetto iniziale (Turn To Dust, Bros e Your Loves Whore) è probabilmente il migliore del 2015. Altri pezzi non trascurabili sono Lisbon e la conclusiva The Wonderwhy, che ricordano gli Interpol di “Turn On The Bright Lights”; invece Giant Peach gioca a fare gli Strokes. Non sarà il nuovo “Loveless” o “Kid A”, ma certamente “My Love Is Cool” resterà anche in futuro come uno dei migliori esordi degli anni ’10 del XXI secolo. Complimenti ai Wolf Alice, sperando che il loro non sia solamente un fuoco di paglia, ma l’inizio di una bella carriera: il talento sembra esserci.

3) Tame Impala, “Currents”

(ROCK)

Coraggio: ecco una delle parole chiave per descrivere la svolta dei Tame Impala. Dopo due album riusciti come “Innerspeaker” (2010) e “Lonerism” (2012), ci saremmo aspettati un inevitabile passo falso del quintetto australiano. Beh, mai impressione fu più sbagliata: la band “aussie” capitanata da Kevin Parker non finisce di stupire, pubblicando un CD davvero gradevole. “Currents” si distacca dalla psichedelia dei due precedenti lavori, virando decisamente verso una elettronica zuccherosa e tremendamente ammaliante. Eventually e Cause I’m A Man ne sono esempi notevoli (la prima inizia potente, poi diventa quasi Bee Gees; la seconda è una ballata davvero buona), ma il vero capolavoro è Let It Happen: 7 minuti piazzati ad inizio album (il rischio supponenza o arroganza era altissimo) a imitare i Daft Punk, con parte centrale quasi “tamarra” e voce di Parker quanto mai distorta. Clamorosa Past Life, con duetto fra Parker e una misteriosa seconda voce su base R&B: brano da urlo. Da non sottovalutare anche Yes, I’m Changing e Disciples, unico pezzo che ricorda il passato psichedelico del gruppo. Insomma, “Currents” segna una svolta fondamentale nella carriera dei Tame Impala, a questo punto uno dei maggiori gruppi rock contemporanei. Ma sorge spontanea una domanda: possiamo ridurre Parker & co. al rock? Direi proprio di no. “Currents” amplia notevolmente il loro range sonoro, passando per elettronica e funk. Chapeau ad una delle più significative band contemporanee.

2) Jamie xx, “In Colour”

(ELETTRONICA)

Ormai la musica elettronica rischia di diventare un genere troppo inflazionato: questo sembra infatti essere il trend della musica contemporanea. Daft Punk, Burial, Caribou, Aphex Twin: tutti devono per forza suonare come uno di questi capisaldi della EDM (Electronic Dance Music), i più sostengono. Ebbene, non è così: l’esordio solista di Jamie Smith (in arte Jamie xx), batterista degli osannati xx, colpisce per la freschezza del suono. Si va dal post dubstep di Gosh al pop molto à la xx di Stranger In A Room (cantata non a caso dal collega di gruppo Oliver Sim), ma le perle sono prevalentemente club music: la tesissima Hold Tight e la bella The Rest Is Noise colpiscono l’ascoltatore. Tuttavia, i veri capolavori sono Loud Places e SeeSaw, con Romy Madley-Croft (l’altra componente degli xx) a condurre le danze: due brani pop/elettronici raffinati e affascinanti, tra i più riusciti dell’anno. “In Colour” è semplicemente uno dei migliori CD di musica elettronica del decennio, capace di suonare innovativo pur in un genere molto “frequentato” come la EDM: ecco il grande pregio di Jamie xx.

1) Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell”

(FOLK)

Sufjan Stevens non è mai stato un artista facile: fin dagli esordi si era prefisso obiettivi ambiziosi e allo stesso tempo complessi (raccontare gli Stati americani, reinventare le canzoni della tradizione natalizia made in USA…), ma con “Carrie & Lowell” la missione è di quelle apparentemente impossibili: narrare il lutto per la morte della madre senza apparire patetico o, peggio, uno sciacallo pronto a sfruttare un lutto per ragioni puramente economiche. Beh, Sufjan riesce straordinariamente bene a superare anche questa missione: canzoni come Should Have Known Better, Death With Dignity e la meravigliosa Fourth Of July sono fra le migliori mai composte in carriera, con liriche davvero commoventi. In generale, quello che musicalmente rimane impresso di “Carrie & Lowell” è la straordinaria coesione e la perfezione stilistica, che lo rendono il migliore album pop del decennio. Inoltre, finalmente Stevens non si dilunga eccessivamente nella durata e nel numero delle canzoni presenti, riducendo il CD a 12 canzoni invece che le solite 18-19. Una vera perla, insomma, che rende magici i 45 minuti scarsi di durata di “Carrie & Lowell”. Il premio di miglior CD del 2015 non poteva essere più meritato.

Non esitate a commentare per eventuali suggerimenti o, ovviamente, critiche alla mia selezione! Spero che i 40 album menzionati sappiano intrattenervi, commuovervi e farvi ballare: auguriamoci che il 2016 sia così ricco di bei CD come il 2015. A presto, cari lettori di A-Rock!