Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 50 migliori album del 2017 (50-26)

Anche il 2017 è ormai agli sgoccioli. Un anno ricco di ritorni, musicalmente parlando: alcuni annunciati (Fleet Foxes, Gorillaz), altri inattesi (Liam Gallagher, Fever Ray). In generale, il livello è stato soddisfacente, ma non eccezionale: lontani sono il 2010, il 2011 e il 2015, anni che davvero hanno rivoluzionato il panorama musicale contemporaneo. Tuttavia, molti cantanti e gruppi hanno dimostrato che la musica può ancora comunicare qualcosa, sia al pubblico che alla sfera privata di ognuno di noi.

Iniziamo la nostra analisi dei 50 migliori album dell’anno con le posizioni dalla 50 alla 26. Ricordiamo qua alcuni artisti che, pur meritevoli, non sono entrati nella lista: Jay-Z, Charlotte Gainsbourg, Protomartyr, SZA, Gorillaz e Alt-J purtroppo non sono riusciti a produrre dischi sufficientemente buoni per entrare nella lista di A-Rock. Altri artisti molto attesi, come Arcade Fire e Weezer, hanno semplicemente pubblicato brutti LP, come già scritto nell’articolo pubblicato pochi giorni fa relativo ai 5 album più deludenti del 2017.

Parlando dei generi più in vista nel 2017, senza dubbio pop e hip hop hanno continuato a mietere successi e a riempire le classifiche dei brani più ascoltati. In particolare, nel pop abbiamo avuto prove eccellenti (St. Vincent, Lorde) che contribuiranno anche nei prossimi anni a rivitalizzare il genere; d’altro canto, l’hip hop ha visto consolidarsi due giovani stelle del firmamento rap contemporaneo (Vince Staples e Kendrick Lamar). Invece, per l’elettronica non è stato un anno facile: pochi gli LP davvero riusciti, malgrado ritorni imprevedibili (Fever Ray). Da sottolineare poi il balzo in avanti del folk, che con i CD di Fleet Foxes e Mount Eerie ha creato due capolavori destinati ad influenzare il genere per anni. Per quanto riguarda il rock, il 2017 è stato un anno di transizione: accanto a graditi ritorni (Queens Of The Stone Age, Grizzly Bear, LCD Soundsystem), abbiamo avuto delusioni cocenti (Arcade Fire, Weezer, U2). Aspettiamo con ansia il 2018 per il comeback di gruppi amati come Vampire Weekend ed Arctic Monkeys. Infine, nota di merito per il ritorno di due grandi band shoegaze, Ride e Slowdive, entrambe presenti nella nostra lista. Ma andiamo con ordine.

50) Liam Gallagher, “As You Were”

(ROCK)

Lo avevamo inserito al primo posto nella lista dei CD più attesi del 2017: il primo sforzo solista del più giovane e scapestrato dei fratelli Gallagher. Dopo la non felicissima esperienza con i Beady Eye, aveva giurato che non avrebbe mai fatto un album solista, considerata roba da checche (parole sue, non mie). Invece, ha infranto il suo voto e ha realizzato questo “As You Were”: accantonati gli insulti al fratello e ad altri artisti (fra cui A$AP Rocky, U2 e Coldplay), Liam sembra una persona più matura; e questo non farà altro che bene alla sua vita e, probabilmente, alla sua carriera.

I singoli scelti per promuovere il CD erano sembrati molto interessanti: Wall Of Glass è un ottimo brano britpop, che ricorda molto gli Oasis dei primi tre LP; Chinatown e For What It’s Worth sono più intime ma non meno efficaci. Tutto stava a valutare le altre nove canzoni in scaletta. Beh, il nostro non ha deluso le attese: non parliamo di un disco capace di rinverdire i fasti di “Definitely Maybe” (1994) o “(What’s The Story) Morning Glory?” (1995), però Liam dimostra a tutti che il talento negli Oasis non era solo appannaggio di Noel e fa meglio dei due album prodotti con i Beady Eye, “Different Gear, Steel Speeding” (2011) e “BE” (2013). Peccato che “As You Were” perda efficacia nella sua parte centrale e finale, altrimenti il risultato finale sarebbe anche potuto essere migliore. La chiusura con la potente I’ve All I Need riscatta tutto.

Tra i pezzi migliori, abbiamo la già citata Wall Of Glass; belle anche Bold e Greedy Soul. Convincono meno le ballate, fin troppo dolci e smielate: tranne la riuscita Universal Gleam, per esempio, Paper Crown e When I’m In Need sono i punti deboli del CD. In generale, fa piacere tornare agli anni ’90, con la energia e irriverenza che ci aspetteremmo da un Gallagher ma contemporaneamente una maturità prima lontana da Liam. Fanno riflettere i testi di For What It’s Worth, dove si scusa con tutti coloro che ha offeso; e di Chinatown, dedicata alle vittime dell’attentato terroristico di Londra.

In conclusione, questo album stupirà molti: chi pensava che sarebbe venuto fuori un fiasco assoluto e chi pensava il talento fosse solo nelle mani di Noel capirà che, senza la voce e il carisma di Liam, la favola degli Oasis non sarebbe mai stata possibile.

49) Priests, “Nothing Feels Natural”

(PUNK)

La band punk statunitense dei Priests, un quartetto per metà maschile e per metà femminile, regala un disco di rara intensità, di protesta politica e insieme molto ambizioso. I Priests, infatti, non si limitano a urlare i loro pensieri senza un costrutto; recuperando molta della scena post punk anni ’80, infatti, Katie Alice Greer e compagnia comunicano tutta la frustrazione provata per l’attuale situazione del mondo.

I pilastri su cui si fonda questo veloce CD, “Nothing Feels Natural” (già il titolo dice tutto), sono chiari: gli U2 delle origini, i Joy Division e gli Interpol sono chiari riferimenti. Non manca un veloce passaggio à la Deerhunter, nell’ammaliante (sì, è il titolo del brano). Le canzoni più belle dell’album sono l’iniziale Appropriate, concentrato di tutto il punk più recente nello spazio di appena 5 minuti, pezzo davvero clamoroso; la ossessiva No Big Bang; e la conclusiva Suck, che ricorda molto i Rapture di “Echoes”. Da non ignorare anche la potente title track.

Insomma, niente di innovativo o indimenticabile, ma dischi come questo “Nothing Feels Natural” ricordano che il punk ha ancora un’utilità, soprattutto in tempi grami come quelli attuali. La Greer si candida, infine, a diventare una voce punk femminile molto significativa, al pari delle Savages e delle Sleater-Kinney.

48) Vagabon, “Infinite Worlds”

(ROCK)

Vagabon è il nome d’arte della newyorkese di origine camerunense Lætitia Tamko. Il suo esordio, “Infinite Worlds”, può a pieno diritto essere annoverato fra i migliori album rock dell’anno. La Tamko riesce infatti a fondere perfettamente un indie rock di chiara ascendenza strokesiana con un dream pop molto ammaliante, di cui è simbolo la strumentale Mal A’ L’Aise. Le sole 8 tracce del disco impediscono un giudizio completo, poiché sarebbe piaciuto vedere pienamente in gioco il potenziale della giovane artista. Tuttavia, per quello che abbiamo sentito, possiamo dire che Vagabon ha talento da vendere. Riuscire a creare un disco coerente mescolando Strokes, Cocteau Twins e Bloc Party non era facile.

Tra le tracce migliori di questo “Infinite Worlds” abbiamo le iniziali The Embers e Fear & Force; la già ricordata Mal A’ L’Aise e Cold Apartment, tuttavia, non sono da meno. Insomma, un esordio coi fiocchi da parte di un’artista davvero promettente.

Jay Som e Vagabon, dunque, hanno rivitalizzato generi come indie rock e dream pop che sembravano su un binario morto. Assieme ai Car Seat Headrest, il cui secondo CD “Teens Of Denial” del 2016 ha fatto gridare al miracolo, sono fra le migliori speranze del rock contemporaneo.

47) Jay Som, “Everybody Works”

(ROCK)

A proposito di Jay Som, questo “Everybody Works” è già il secondo album della giovane artista Melina Duterte. Il primo, “Turn Into” (2016), era passato nel sostanziale anonimato malgrado le qualità che lasciava intuire. Era già formata infatti l’estetica della Duterte: un indie rock scanzonato e influenzato dal dream pop à la Arctic Monkeys di “Suck It And See”.

“Everybody Works” consolida questo sound, migliorando la produzione e la cura dei dettagli, facendo del CD un lavoro imperdibile per gli amanti dell’indie anni ’00. Già da qui capiamo che la giovane compositrice non propone nulla di clamorosamente innovativo, ma la raffinatezza con cui si ispira ad artisti molto più celebri (Arctic Monkeys, Beach House) senza cadere nel plagio è ammirevole.

Degne di nota sono The Bus Song, Baybee e 1 Billion Dogs, dove addirittura si flirta con lo shoegaze; ma nessuna delle 10 tracce del disco è fuori posto. Insomma, un LP di ottima fattura e di grande fascino: quando il talento di Melina Duterte sboccerà definitivamente, ne sentiremo delle belle.

46) Mac DeMarco, “This Old Dog”

(POP – ROCK)

Il terzo album del talentuoso musicista canadese Mac DeMarco, “This Old Dog”, prosegue la lenta evoluzione che ha contraddistinto la sua breve ma prolifica carriera. Qui Mac suona tutti gli strumenti e canta in tutte le canzoni, curando anche la produzione: insomma, un egocentrismo notevole. Non è un caso, probabilmente, che anche i testi riflettano questo atteggiamento: nella ipnotica My Old Man troviamo riferimenti al tormentato rapporto con suo padre, Sister è dedicata alla sorella minore.

Non bisogna però pensare che nella vita di tutti i giorni DeMarco sia un maniaco à la Kanye West, un altro che di egocentrismo se ne intende. Anzi, vale il contrario: lui si dà sempre l’apparenza del ragazzo appena alzato dal letto, con l’aria trasandata e mezza addormentata. Contemporaneamente, però, egli è anche una persona fragile e insicura: lo dimostrano i testi presenti soprattutto nei precedenti lavori, come “2” (2012) e il bel “Salad Days” (2014).

A colpire è l’evoluzione stilistica del giovane Mac: se nei precedenti CD era maggiormente in evidenza l’aspetto indie rock (spaziando da Two Door Cinema Club a Ariel Pink e Real Estate, tanto per capirsi), in “This Old Dog” il pop è preponderante. Sia chiaro: non parliamo di cambiamenti radicali, come del resto era difficile aspettarsi da una persona “calma” e assorta come Mac. Tuttavia, questo è il primo LP a firma Mac DeMarco dove la produzione è brillante e la cura dei dettagli massima: ai fan della prima ora potrà non piacere troppo la perdita dell’ingenuità e (finta) noncuranza dei primi lavori, ma le persone cambiano con il passare del tempo e Mac sembra aver trovato la definitiva maturità, personale ed artistica.

Musicalmente parlando, “This Old Dog” presenta un Mac DeMarco molto simile ai lavori solisti di John Lennon e ad Harry Nilsson: insomma, due padri della musica moderna. Proprio per questo il CD non brilla per innovazione, ma ciò non va a discapito della qualità complessiva: prova ne sono la bella title track, My Old Man, Baby You’re Out e A Wolf Who Wears Sheeps’ Clothes. Strana ma riuscita anche On The Level, che flirta con l’elettronica soft. In generale, le canzoni sono brevi, addirittura Sister dura poco più di un minuto. Tuttavia, la particolarità di DeMarco è di saper sempre cambiare le carte in tavola: la lunghissima Moonlight On The River (più di 7 minuti) è l’ideale chiusura del lavoro.

In conclusione, “This Old Dog” è un interessante passo in avanti nella discografia di Mac DeMarco, un artista di cui non sappiamo mai cosa pensare: ci fa o ci è? Avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure no? Il giudizio è sospeso: “This Old Dog” rappresenta certamente il lavoro maggiormente personale e intimista del cantante canadese. Non vediamo l’ora di riascoltarlo in nuove tracce per dare un giudizio definitivo.

45) Elbow, “Little Fictions”

(ROCK)

Giunti al settimo lavoro di inediti, gli Elbow continuano il loro pregevole percorso artistico. Al ventesimo anno di attività (!), sono poche le band che possono vantare la loro longevità e, contemporaneamente, la medesima volontà di non adagiarsi mai su un rock prevedibile. “Little Fictions” rimanda al più bel CD del gruppo, quel “The Seldom Seen Kid” (2008) vincitore del Mercury Music Prize; tuttavia, Garvey e co. non cadono mai nell’ovvietà. Pur somigliando a tratti a pezzi da novanta del rock contemporaneo come Arcade Fire e Interpol (soprattutto in All Disco e Trust The Sun), la band mantiene una sua identità, fatta di ritmo pulsante, testi di solito riferiti all’amore e canzoni dense, ma molto riuscite, musicalmente e vocalmente. Ne sono esempio Magnificent (She Says) e la conclusiva Kindling; più prevedibile K2, ma è un peccato veniale in un album altrimenti eccellente.

44) Spoon, “Hot Thoughts”

(ROCK)

Il nono album dei veterani dell’indie rock statunitense mantiene alto il livello dei precedenti lavori di Britt Daniel & co., cercando contemporaneamente di instillare nuove sonorità nel tipico genere della band. Infatti, accanto al tradizionale indie rock, che ha fatto le fortune del gruppo anche grazie a stupendi lavori come “Kill The Moonlight” (2002), abbiamo dei passaggi di funk ed elettronica che rendono questo “Hot Thoughts” molto intrigante.

Non sono molte le band che riescono ad operare significativi cambiamenti nel loro sound 24 anni dopo la loro fondazione (gli Spoon sono infatti nati nel 1993) e dopo otto album di successo: la caratteristica peculiare della band texana è che hanno sempre sperimentato nuovi colori e ritmi nel loro sound, basandosi però su una stretta aderenza al mondo del rock. In generale, dunque, non c’è che da essere soddisfatti per un LP così variegato e riuscito: ecco, diciamo che se gli Strokes tornassero ai livelli dei loro primi lavori cercando di mantenere il percorso più sperimentale intrapreso dopo “Angles”, il loro CD suonerebbe così.

Tra i brani degni di nota abbiamo la title track, WhisperI’lllistentohearit e la super funk First Caress. Molto strana la quasi solo strumentale Pink Up, molto lunga ed elettronica, decisamente un pezzo poco spooniano; più tradizionale invece Can I Sit Next To You. La seconda parte perde leggermente vigore, ma i risultati sono comunque buoni.

In conclusione, “Hot Thoughts” si aggiunge meritatamente ad una discografia già eccellente: gli Spoon restano ancora un gruppo fondamentale per gli amanti dell’indie.

43) Paramore, “After Laughter”

(POP – ROCK)

Il quarto album dei Paramore è una rinfrescata necessaria al loro sound. La band capitanata da Hayley Williams, infatti, non si limita a percorrere i sentieri pop-rock delle origini, ma cerca di rifarsi al pop anni ’80 tipico di Police e Talking Heads.

“After Laughter” è il quinto album a firma Paramore, il primo dopo l’eponimo “Paramore” del 2013: se precedentemente il gruppo era famoso come alfiere della musica emo, i membri hanno sempre cercato di innovare, aprendo al funk e al pop-rock, sempre però nei sentieri ben precisi della musica emo. Tuttavia, rispetto ai contemporanei (per esempio, Tokyo Hotel e Brand New), i Paramore hanno mantenuto un livello di scrittura e profondità testuale ben maggiore: non solo ansie giovanili, ma anche temi delicati come il suicidio e la solitudine.

“After Laughter” era quindi atteso con trepidazione: Williams & co. avrebbero mantenuto il buon livello dei precedenti lavori? La risposta è un sì convinto: malgrado i numerosi avvicendamenti nella formazione, tra cui l’abbandono del bassista Jeremy Davis e il ritorno del primo batterista Zac Farro, dopo sei anni di pausa dalla band, la formula dei Paramore si è arricchita, come già ricordato, di chiari riferimenti al pop anni ’80 e ai complessi simbolo di quel periodo.

Un’operazione molto simile era stata effettuata dai The 1975 l’anno scorso, con ambizione e rischio ancora più grandi; i Paramore riescono a non cadere nel tranello della troppa voglia di fare e creano un prodotto compatto e godibile, una conferma del loro talento e versatilità.

Tra i brani migliori abbiamo Rose-Colored Boy e Told You So, che rendono la parte iniziale del CD davvero interessante; da ricordare anche Fake Happy, Pool e Grudges, che rievocano da vicino i Police e i Talking Heads al loro apice. Meno riuscite invece le ballate, come Forgiveness e la conclusiva Tell Me How.

In generale, va apprezzata la voglia di sperimentare nuove sonorità di un gruppo che avrebbe potuto tranquillamente continuare a far piangere adolescenti fragili suonando stanche e monotone canzoni emo, ma che invece non perde la voglia di sorprendere il proprio pubblico.

42) Big Thief, “Capacity”

(ROCK)

I Big Thief sono un complesso americano che suona un indie rock intimista come poche volte si è sentito, sia musicalmente che come tematiche affrontate. Il loro primo album, “Masterpiece” del 2016 (viva la modestia), era un buon connubio di pop e rock; in “Capacity” notiamo un affinamento della formula che li ha fatti conoscere.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio la bellissima voce di Adrianne Lenker, evocativa e fragile come solo le migliori voci femminili sanno essere: in Watering ne abbiamo un chiaro esempio. Le strumentazioni non sono né innovative né radicalmente differenti da “Masterpiece”, tuttavia il risultato complessivo è più convincente. Abbiamo infatti ottimi brani come l’intimista Pretty Things, Shark Smile (che parte quasi punk) e il nucleo del CD, la bellissima Mythological Beauty. Da non trascurare anche la parte finale del disco, con Haley e Mary come highlights.

In conclusione, “Capacity” sicuramente amplierà la platea di fans dei Big Thief, un premio meritato per un gruppo certo non rivoluzionario, ma che sa usare gli ingredienti dell’indie rock più classico per creare brani mai banali.

41) Ride, “Weather Diaries”

(ROCK)

Il 2017 ha segnato il ritorno dello shoegaze sulla scena rock. Infatti, sia Slowdive che Ride sono tornati in attività, producendo nuovi CD sulla falsa riga di quelli che, a cavallo fra anni ’80 e ’90, avevano fatto pensare che una nuova stagione fosse possibile per il rock alternativo. In effetti, grunge e shoegaze sono state le ultime due grandi correnti di cambiamento nel rock.

“Weather Diaries” rappresenta perciò un gradito ritorno, che non intacca l’eredità della band britannica, in particolare quella dei due primi lavori, i bellissimi “Nowhere” (1990) e “Going Blank Again” (1992). Molto aveva fatto discutere la svolta verso sonorità meno difficili dello shoegaze nei due successivi lavori dei Ride, i poco riusciti “Carnival Of Light” (1994) e “Tarantula” (1996). Non è un caso che, dopo “Tarantula”, la band si sia sciolta. “Weather Diaries” cerca di recuperare le antiche sonorità, senza dimenticare però le parti migliori dei due tanto discussi ultimi CD a firma Ride. E i risultati sono davvero interessanti.

Sia chiaro: non parliamo di un LP innovativo o di un radicale cambiamento nel sound dei Ride, tuttavia è sempre piacevole ascoltare una band che sembrava appartenere al firmamento del rock tornare sui suoi passi senza aver perso lo smalto dei tempi migliori. Infatti, tranne un paio di leggeri passi falsi, “Weather Diaries” entra senza demeriti nell’eredità che i Ride lasceranno alla musica.

I brani migliori sono soprattutto nella parte iniziale: molto bello il duo rappresentato da Lannoy Point e Charm Assault. All I Want sarebbe buona, ma l’elettronica presente nel pezzo lo rovina parzialmente. Altre belle canzoni sono l’eterea Home Is A Feeling, la potente Cali e Impermanence. Tra i passi falsi abbiamo la title track, fin troppo monotona, e la strumentale Lateral Alice.

A questo punto possiamo dirlo: tutte le band più rappresentative dello shoegaze sono tornate a produrre musica nel nuovo millennio. Infatti, accanto a Slowdive e Ride, non scordiamoci che i My Bloody Valentine sono tornati con “m b v” nel 2013 e i Lush con l’EP “Blind Spot” nel 2016. Insomma, un trionfo per gli amanti del rock alternativo e, in generale, per chi apprezza la buona musica.

40) (Sandy) Alex G, “Rocket”

(ROCK)

Classe 1993, già 8 album alle spalle: se non parliamo di un prodigio, poco ci manca. Alexander Giannascoli, cantante di chiara origine italiana e con nome d’arte Alex G, da poco cambiato in (Sandy) Alex G, ricorda a tutti che la prolificità non è sempre sinonimo di lavori abborracciati: ne sia esempio anche l’instancabile Ty Segall. “Rocket”, tuttavia, è il primo album di Alex con l’etichetta Domino, fra le più importanti in ambito indie rock; e infatti il CD ha avuto maggior risonanza dei precedenti suoi LP.

“Rocket” colpisce soprattutto per la capacità di evocare tempi lontani senza sembrare un plagio di autori più quotati: prendendo spunto da autori come il compianto Elliott Smith e Wilco, con una spruzzata di Pavement, Alex G propone una summa dell’indie anni ’90-’00, colpendo per varietà stilistica e apparente semplicità di scrittura. Niente di clamorosamente innovativo, dunque, ma certo un lavoro molto interessante, da ascoltare per tutti gli amanti di quegli anni a cavallo di due secoli.

Parlando strettamente di musica, abbiamo ottime canzoni, soprattutto nella prima parte: il poker iniziale di canzoni, formato da Poison Root, Proud, County e Bobby, è per esempio molto riuscito, un po’ lo-fi, un po’ country e il restante terzo indie; colpisce poi la violenza quasi hard rock di Brick, mentre la strumentale Horse delude leggermente.

Nella seconda parte abbiamo invece come highlight la dolce Alina, ma anche Powerful Man non è trascurabile. In generale, a parte qualche passo falso, “Rocket” si mantiene su alti livelli, facendo sperare che il mondo dell’indie rock abbia trovato un nuovo, grande interprete in Alexander Giannascoli. L’età e il talento sono dalla sua parte: lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.

39) Mount Kimbie, “Love What Survives”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il duo formato da Dominic Maker e Kai Campos arriva ad un punto di svolta in una carriera già interessante: per la prima volta i Mount Kimbie inseriscono il rock nelle loro creazioni, creando un mix fra elettronica, funk e rock molto affascinante e, in gran parte, riuscito.

L’apertura è già radicalmente nuova per coloro che erano abituati ai Mount Kimbie come ad un duo dubstep: questo terzo album della loro produzione inizia infatti con Four Years And One Day e Blue Train Lines (che conta la collaborazione di King Krule), due brani fortemente influenzati dal rock, entrambi riusciti. I vecchi Mount Kimbie tornano in pezzi come You Look Certain (I’m Not Sure), altro highlight del CD, e la bella Delta, con base ritmica molto marcata e sintetizzatori ipnotici. Tra gli ospiti abbiamo, oltre a King Krule, anche altri artisti celebri: James Blake compare addirittura in due canzoni, We Go Home Together e How We Got By; ma contiamo anche Micachu (in Marylin) e Andrea Balency, vocalist dei Mount Kimbie in tour, che canta nella già citata You Look Certain (I’m Not Sure). Se We Go Home Together convince meno, la seconda collaborazione con James Blake, la conclusiva How We Got By, è più riuscita: il piano di James è come sempre sontuoso e si sposa benissimo con il mood del brano.

In generale, possiamo dire che i Mount Kimbie hanno operato un cambio molto importante nel loro tipico sound in “Love What Survives”, che sembra promettere molto bene per il futuro artistico del duo: è come sentire Depeche Mode e LCD Soundsystem fusi assieme, non una cosa banale quindi. Speriamo che i risultati possano ancora migliorare; ad ogni modo, questo LP merita pienamente di entrare nella lista dei 50 migliori dischi del 2017.

38) Grizzly Bear, “Painted Ruins”

(ROCK)

I Grizzly Bear venivano da due album di grande successo, sia con la critica che con il pubblico: “Veckatimest” (2009) e “Shields” (2012) avevano delineato un genere a metà fra rock e folk, con accenni di sperimentalismo e, contemporaneamente, di pop (ricordate Two Weeks?). Insomma, le aspettative per “Painted Ruins” erano molto elevate: ripetendosi avrebbero rischiato di non replicare la cristallina bellezza dei due lavori che hanno dato loro il successo, ma anche cambiare avrebbe comportato rischi notevoli.

I Grizzly Bear hanno optato per una soluzione di compromesso: nella lunga assenza dalle scene (ben cinque anni), hanno affinato il loro caratteristico genere e, allo stesso tempo, inserito delle interessanti sonorità elettroniche, che rendono il nuovo LP molto intrigante. Possiamo anzi dire che “Painted Ruins” è il CD più elettronico a firma Grizzly Bear; prova ne siano i due singoli Mourning Sound e Three Rings, tra i migliori brani del disco.

Tuttavia, la seconda parte del lavoro riporta alla mente i passati sforzi creativi del gruppo: per esempio, il rock di Cut-Out ricorda soprattutto “Veckatimest” e “Yellow House”, mentre l’intricata Glass Hillside (non bellissima) è più assimilabile alle atmosfere di “Shields”. Menzione finale per l’ottima chiusura del CD: come sempre, i Grizzly Bear mantengono il meglio alla fine. Sky Took Hold, in effetti, è a pieno diritto tra i migliori pezzi di “Painted Ruins”: una canzone epica al punto giusto, gran finale di un LP gradevole anche se non perfetto.

Purtroppo, infatti, Ed Droste e Daniel Rossen (menti e voci della band), forse anche a causa dello scarso dialogo intercorso nelle sessions di registrazione di “Painted Ruins”, dove si inviavano le loro bozze tramite mail, non raggiungono i miracolosi risultati di “Shields”: a parte la già menzionata Glass Hillside, non convince pienamente neppure Systole, ma sono peccati veniali.

Non bisogna credere, infatti, che il CD sia un fiasco; anzi, “Painted Ruins” entra di diritto fra i migliori CD dell’anno, magari non nei primi 10, ma certamente nei primi 50. Non siamo ai livelli di “Shields”, vero capolavoro del gruppo, ma certamente “Yellow House” è alla portata di “Painted Ruins”. Tutto dipende da cosa ci aspettavamo dai Grizzly Bear: non sono mai stati fermi nelle loro posizioni, quindi aspettarsi una copia dei passati dischi sarebbe stato un’illusione. Un po’ di elettronica non ha fatto altro che bene alla band: vedremo dove li porterà questo nuovo percorso, ma abbiamo piena fiducia nelle capacità dei Grizzly Bear di reinventarsi costantemente senza perdere lo smalto e il gusto per la sperimentazione che li hanno sempre contraddistinti.

37) Queens Of The Stone Age, “Villains”

(ROCK)

Il settimo album della gloriosa band simbolo dell’hard rock anni ’00 era atteso con trepidazione da fans e critica: Josh Homme e compagni avrebbero cambiato ancora una volta la loro ricetta sonora, dopo la rivoluzione pop di “…Like Clockwork” (2013)? I QOTSA sono stati, ancora una volta, molto furbi ed abili: non hanno stravolto la base ritmica trovata quattro anni fa; tuttavia, con poche ma azzeccate innovazioni hanno mantenuto fresco il loro sound, del resto sempre al passo con i tempi.

Partiamo, quindi: “Villains” arriva quattro anni dopo “…Like Clockwork”, album fondamentale nella discografia dei Queens Of The Stone Age; non il loro migliore (inarrivabili in tal senso “Rated R” e “Songs For The Deaf”), tuttavia aveva lasciato intravedere il lato più melodico della band, con canzoni quasi pop come la title track e Kalopsia. La presenza di ospiti di spessore, da Alex Turner a Mark Lanegan, aveva poi arricchito la formula vincente del disco. Pertanto, il metal delle origini è ormai abbandonato: come sarebbe suonato il settimo album di un gruppo così rinnovato musicalmente?

In “Villains” possiamo parlare di funk-rock: le prime due, bellissime tracce del CD, Feet Don’t Fail Me e il singolo The Way We Used To Do, sono la grande intro al disco. Le sole 9 canzoni farebbero pensare ad un lavoro pigro del gruppo; in realtà, molte superano i 5 minuti di durata e le strutture delle melodie sono spesso complesse e intricate. La durata complessiva, non a caso, raggiunge i 48 minuti.

Gli highlights sono almeno quattro: oltre alle già citate Feet Don’t Fail Me e The Way We Used To Do, abbiamo il secondo singolo The Evil Has Landed e la più melodica Fortress. Meno bella la frenetica Head Like A Haunted House, che è anche la più breve traccia del CD. Non trascurabile, infine, la conclusiva Villains Of Circumstance. I testi fanno spesso riferimento al diavolo e alla sua presenza nel mondo: Homme e co. si rendono conto che viviamo in tempi difficili e, sebbene non stiamo parlando di Bob Dylan o Leonard Cohen, i testi riflettono ciò con ironia e arguzia.

In conclusione, i QOTSA si confermano band fondamentale dello scenario rock mondiale: nonostante la mancanza di collaborazioni eccellenti che avevano contraddistinto i precedenti LP del complesso statunitense, i risultati sono comunque molto buoni. Lavorare con Iggy Pop ha ampliato ancora di più gli orizzonti musicali di Josh Homme, che si conferma grande artista rock. Le “regine dell’età della pietra” sono entrate definitivamente nell’età moderna, con un hard rock funkeggiante e molto ballabile.

36) Ty Segall, “Ty Segall”

(ROCK)

Registrato con Steve Albini, uno dei migliori produttori su piazza, questo “Ty Segall”, nono album dell’omonimo multistrumentista americano, è un altro tassello prezioso in una sempre più sorprendente carriera. Ty ha sempre perseguito un genere a metà fra il rock anni ’70, vicino soprattutto a Rolling Stones e Velvet Underground, e la scena indie anni ’90-‘2000, su tutti Strokes e Pavement. Il CD è un’ulteriore affermazione di questa estetica: le prime due canzoni, Break A Guitar e Warm Hands (Freedom Returned), sono davvero riuscite. In particolare Warm Hands (Freedom Returned) è un fantastico mix di hard rock, garage rock e punk. Una sorta di suite rock, tremendamente ambiziosa ma davvero bellissima. Il resto dell’album scivola via gradevolmente, ma non raggiunge i picchi di Warm Hands: Ty ha infatti posto nella seconda parte del suo nuovo LP alcune delle canzoni pop da lui scritte più intimiste di sempre, ad esempio Talkin’ e Orange Color Queen.

In generale, dunque, niente di clamorosamente rivoluzionario o innovativo per il rock, ma Ty Segall si conferma ancora una volta come una delle voci più autorevoli del settore. Ah, dimenticavo: ha appena 30 anni… Che il meglio debba ancora arrivare?

35) Wolf Alice, “Visions Of A Life”

(ROCK)

Il secondo album del giovane gruppo inglese dimostra ancora una volta il loro immenso talento. “Visions Of A Life” cerca di innestare qualche novità nel sound della band: se l’esordio “My Love Is Cool” (2015) entrò nella top 5 dei più bei album del 2015 di A-Rock era perché sapeva fondere benissimo il rock anni ’90 di Nirvana e Verve con i più contemporanei Arctic Monkeys e Libertines. Nel nuovo LP, Ellie Rowsell e compagni introducono anche tratti shoegaze nel loro sound, ma ricordano in certi punti anche il pop degli M83.

L’inizio del CD è ottimo: Heavenward è un ottimo brano shoegaze, che sembra composto da My Bloody Valentine o Slowdive; Beautifully Unconventional è intrigante come i migliori momenti di “My Love Is Cool”. Avrete notato quanti riferimenti a band del passato ci sono in “Visions Of A Life”: il tratto che sembrava più caratteristico dei Wolf Alice, un folk-rock lento o duro a seconda delle circostanze, è un po’ in secondo piano in questo secondo album. Solo nel finale, con Sadboy e St. Purple & Green, si torna alle sognanti atmosfere di “My Love Is Cool”. Tuttavia, i risultati restano comunque gradevoli: le già ricordate Heavenward e Beautifully Unconventional sono belle, così come Sky Musings, forse il vero highlight, con la voce della Rowsell al top. Non trascurabile anche la conclusiva title track, un’epica suite da oltre 7 minuti.

In conclusione, non stiamo parlando del disco che riscrive la storia del rock inglese, come alcune pubblicazioni d’Oltremanica sembrano pensare (vero, NME?). Nondimeno, una band del talento e dell’eclettismo dei Wolf Alice non è rinvenibile in America o, comunque, nel resto del continente europeo. Attendiamo con ansia la terza prova del complesso britannico, per dare una valutazione definitiva dei Wolf Alice.

34) Sampha, “Process”

(R&B – POP – SOUL)

Il 29enne Sampha Sisay, conosciuto con il nome d’arte Sampha, ha già alle spalle due EP e numerose collaborazioni con importanti artisti della scena black internazionale: Drake, Solange Knowles e Kanye West tra gli altri. Il suo primo LP, “Process”, tratta il soul in maniera molto contemporanea: vale a dire infarcendolo di elettronica e un pizzico di R&B. I risultati sono magnifici nei suoi tratti migliori: il duo rappresentato da Plastic 100°C e Blood On Me è davvero riuscito, così come la conclusiva What Shouldn’t I Be?. La canzone più introspettiva è  (No One Knows Me) Like The Piano, in cui ricorda l’infanzia e il ruolo che il pianoforte ha avuto nella sua formazione.

I riferimenti musicali sono molto alti: James Blake su tutti, ma anche tracce di The Weeknd e Maxwell compaiono qua e là. Soprattutto Under ricorda il modo di cantare del migliore The Weeknd. In conclusione, dunque, Sampha non inventa nulla, ma tratta il meglio dei grandi maestri citati ottenendo un risultato molto buono, 40 minuti passati ascoltando 10 canzoni mai banali o prevedibili. Insieme a FKA Twigs, il giovane Sampha si candida ad essere un importante esponente della scena black britannica, ma non solo.

33) Lana Del Rey, “Lust For Life”

(POP)

Il quinto album della popstar Lana Del Rey, “Lust For Life”, si apre subito con una novità: nella cover Lana sorride, lei che fino a qualche tempo fa era presa in giro per i suoi testi tragici e la tristezza che le sue canzoni emanavano. Tuttavia, non si pensi che “Lust For Life” sia un CD allegro: cadremmo in un errore madornale. Lana mantiene il caratteristico spleen, cercando però di ampliare la propria palette sonora e ingaggiando ospiti di tutto rispetto.

Tra i singoli utilizzati per promuovere il disco, infatti, troviamo delle collaborazioni con The Weeknd (la bella title track) e con A$AP Rocky (le meno riuscite Summer Bummer e Groupie Love). Oltre a questi due artisti abbiamo dei featuring anche con il figlio di John Lennon, Sean, Playboi Carti e Stevie Nicks. È da sottolineare come, a parte la title track, queste tracce siano tra le più deboli dell’album: sia le due con A$AP Rocky che Tomorrow Never Came con Sean Lennon Ono (chiaro riferimento alla celeberrima Tomorrow Never Knows dei Beatles) che Beautiful People Beautiful Problems con Stevie Nicks non convincono proprio. Meglio la Lana solista, quindi.

Ne abbiamo la dimostrazione nelle belle Love, Cherry e Get Free, che chiude il disco quasi con accenni di dream pop. Una caratteristica di “Lust For Life”, infatti, è che Lana amplia notevolmente il numero di generi affrontati: dal pop dolente all’R&B, fino al country e appunto al dream pop. Tutto questo fa molto ben sperare per il futuro della carriera della signorina Elizabeth Woolridge Grant, vero nome di Lana: se saprà fondere adeguatamente tutti questi ingredienti, il prossimo lavoro potrebbe davvero ridefinire la musica pop, un po’ quello che Lorde ha fatto quest’anno con l’eccellente “Melodrama”.

Menzione finale per la bella voce di Lana, asset fondamentale della popstar, sfruttata a dovere lungo tutto il CD e specialmente in Heroin e God Bless America – And All The Beautiful Women In It, non a caso fra le migliori canzoni di “Lust For Life”. È una voce che sa trasmettere sofferenza e sogno, che si sposa benissimo con il pop raffinato e melanconico di Lana. La collaborazione con Abel Tesfaye aka The Weeknd è un’altra prova di tutto ciò.

In conclusione, “Lust For Life” è il più bel CD nella carriera di Lana Del Rey: un’artista costantemente cresciuta, sia artisticamente che come seguito popolare. Peccato che “Lust For Life” sia composto da 16 canzoni per 72 minuti di durata: con due-tre canzoni e dieci minuti di riempitivo in meno avremmo avuto un mezzo capolavoro. Così il disco è “solamente” buono, ma il talento di Lana ci fa ben sperare per il prossimo futuro.

32) Courtney Barnett & Kurt Vile, “Lotta Sea Lice”

(ROCK)

L’album collaborativo tra due degli artisti indie rock più amati degli ultimi anni non poteva che essere un successo. Courtney Barnett e Kurt Vile, del resto, sono anche due spiriti apparentemente affini: spesso associati al mondo degli “slacker”, cioè di quelle persone scansafatiche che non lavorano ma si dilettano ad analizzare la realtà con occhio disincantato e ironico, hanno entrambi caratteri riservati e attenti al mondo che li circonda. “Lotta Sea Lice” trova le sue radici, come del resto era prevedibile, negli stili musicali dei due: il rock-country di Kurt e l’indie più sanguigno di Courtney si fondono spesso perfettamente, con risultati complessivi buonissimi.

L’inizio dell’album è incantevole: la lunga Over Everything è un trionfo, fra i migliori pezzi del 2017 e a pieno diritto fra gli highlights delle produzioni di entrambi gli artisti. Le 9 canzoni fanno pensare ad un album pigro, in realtà ogni pezzo è perfettamente incastrato nel quadro generale e, pur non replicando la bellezza di Over Everything, non guasta il CD nel complesso. Abbiamo infatti la più tranquilla Let It Go e la “barnettiana” Fear Is Like A Forest; poi viene Outta The Woodwork, che potrebbe stare benissimo in un disco di Kurt Vile. Molto carina anche Continental Breakfast.

In generale, colpisce l’intesa fra i due: le voci si sovrappongono continuamente, creando una sinergia notevole fra i due cantanti e la melodia sottostante. Le uniche parziali delusioni vengono da Outta The Woodwork, troppo lenta, e On Script, ma non pregiudicano un voto più che positivo al disco.

In conclusione, questo “Lotta Sea Lice” si inserisce perfettamente nelle discografie di Kurt Vile e Courtney Barnett: chissà che non possa essere replicato in futuro. Le basi di partenza per un altro ottimo LP ci sono tutte.

31) Vince Staples, “Big Fish Theory”

(HIP HOP)

Il secondo, attesissimo album del rapper Vince Staples lo trova ad un bivio fondamentale nella sua fino ad ora fulminante carriera: mentre nel precedente CD, l’acclamato “Summertime ‘06” (2015), Vince presentava un rap meditativo e più calmo di molti suoi colleghi, già nell’EP dello scorso anno, “Prima Donna”, avevamo intravisto un cambiamento in atto: ritmi più cupi, temi trattati molto difficili (su tutti il suicidio, basta sentirsi la title track).

“Big Fish Theory” fonde fra loro elettronica e hip hop in un modo davvero unico: Staples, infatti, cerca di adattare i beat spesso ossessivi della dance al suo flow, come sempre fluviale e mai banale. I risultati non sono perfetti, ma senza dubbio buoni: spiccano in particolare le grandi collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Kendrick Lamar, e i numerosi produttori di grido coinvolti, come Flume e Justin Vernon.

I temi trattati sono, ancora una volta, ancorati alla morte e al suicidio: in più interviste Vince Staples ha confermato di essere stato sconvolto dalla morte di Amy Winehouse e dal trattamento da lei ricevuto dai media mentre era ancora in vita. Non è un caso che il rapper, nella vita quotidiana, mantenga un profilo molto basso, lontano dai paparazzi e dagli eccessi: anni luce lontano da Kanye West, insomma. L’omaggio ad Amy arriva in Alyssa Interlude, dove viene proposta un’intervista da lei rilasciata nel 2006, perfettamente funzionale al brano e all’intero disco.

Tra le canzoni migliori abbiamo Big Fish, 745 e Yeah Right, la collaborazione con Kendrick: possiamo dire che sono a confronto i due migliori rapper della loro generazione. Tra i difetti del disco abbiamo l’eccessiva brevità (dura appena 36 minuti) e la frammentazione, che non ne rende facile l’ascolto. Tuttavia, i meriti del CD sono molti: in un tweet poi cancellato, Staples aveva proclamato spavaldo che “Big Fish Theory” sarebbe stato un disco futuristico. Beh, non sarà un LP superbo, ma certamente rappresenta un passo da gigante nella discografia di Vince Staples e un’interessante fusione fra elettronica ed hip hop.

30) The xx, “I See You”

(ELETTRONICA – POP)

Il terzo lavoro del trio inglese si è fatto attendere per ben cinque anni: risale infatti al 2012 “Coexist”. Tutti iniziarono ad apprezzare gli xx fin dall’esordio, l’eponimo CD del 2009 che conteneva le hit Intro, Basic Space e Crystalised. Questo “I See You” arriva a due anni dal primo LP solista di Jamie xx, il magnifico “In Colour”, un concentrato della miglior musica elettronica passata e presente. Le influenze club sono evidente in “I See You”, ma gli xx riescono contemporaneamente a mantenere le proprie radici di band indie pop, con strumentazione minimale e le voci di Oliver Sim e Romy Madley-Croft più mature e affascinanti come sempre nei loro scambi. Alcune canzoni stonano con il passato della band (A Violent Noise e Dangerous), ma non dobbiamo pensare che l’intero lavoro sia puramente elettronico. Abbiamo infatti anche Say Something Loving e la conclusiva Test Me, che mantengono intatto il nucleo del suono xx, seppur con più ritmo e movimento. Le voci eteree presenti in Lips sembrano prese da un film di Sorrentino; On Hold invece è il singolo più commerciale, ma non per questo inferiore. Menzione finale per Brave For You, composta da Romy per la madre morente: un pezzo toccante e molto espressivo. Insomma, non un lavoro perfetto e coeso stilisticamente, ma senza dubbio un importante passo in avanti nella discografia degli xx, finalmente usciti dal loro guscio e pronti a spiccare il volo verso lidi sonori fino a poco tempo fa inesplorati. Sì, ci erano proprio mancati.

29) Laura Marling, “Semper Femina”

(FOLK)

La cantautrice inglese Laura Marling è ormai giunta al sesto lavoro di inediti: un traguardo rimarchevole, soprattutto se consideriamo il fatto che ha appena 27 anni. Questo “Semper Femina”, riecheggiando nel titolo il motto dei marines americani “semper fidelis”, denota il tema portante dell’album: essere donna oggi. I risultati sono davvero ottimi, con punte di delicatezza e raffinatezza stilistica notevoli.

Il mood generale del CD è malinconico: il genere folk con venature pop e soft rock, tipico anche di artisti come Sufjan Stevens e Joanna Newsom, aiuta molto a trasmettere questo sentimento. Le melodie sono in generale semplici, quasi spoglie, spesso ridotte alla voce della Marling, la chitarra e un sottofondo morbido di tastiere. Non sarà una grande novità nel mondo della musica, ma chi lo è di questi tempi?

Restano impresse soprattutto canzoni come Soothing e Nothing, Not Nearly, con quest’ultima che ricorda molto la Angel Olsen di “My Woman” (2016). Del resto, nessuna delle 9 tracce dell’LP è fuori posto: colpisce positivamente, infatti, la coesione del CD. “Semper Femina”, in conclusione, si staglia come uno dei migliori lavori folk dell’anno. Laura Marling, se sboccerà completamente, potrà diventare la Joni Mitchell del XXI secolo.

28) Stormzy, “Gang Signs & Prayer”

(HIP HOP – SOUL)

L’esordio tanto atteso del giovane artista inglese Stormzy è uno dei migliori CD dell’anno di musica grime. Cosa si intende con questo termine? Il solco seguito è senza dubbio quello dell’hip hop, ma il grime è ancora più duro e i temi trattati riguardano di solito la vita nei sobborghi delle grandi città britanniche. Insomma, un qualcosa di molto simile al gangsta rap degli anni ’90 del secolo scorso, solo ambientato in UK. Skepta (artista che ha anche collaborato all’ultimo CD di Drake) ne è il massimo esponente, ma Stormzy è il giovane rampante che cerca di far conoscere il grime anche al di fuori della ristretta cerchia dei fans “ortodossi”.

Stormzy tenta di raggiungere questo scopo mescolando al grime anche sonorità più morbide, fino ad avvicinarsi al gospel e al soul. Esperimento ambizioso e, per la verità, in gran parte riuscito. Infatti, dopo la partenza sparata con First Things First e Cold, abbiamo anche brani più intimisti come Blinded By Your Grace, Pt.1 e Velvet/Jenny Francis (Interlude).

I temi trattati sono in gran parte sintetizzabili nel titolo dell’album: “Gang Signs & Prayer” infatti parla prevalentemente dei temi tipici del grime, con le basi oscure e ossessive che caratterizzano il genere. Potrà non piacere, ma all’interno dell’hip hop è senza dubbio un’innovazione che sta rivitalizzando il mondo della musica black.

Con 16 canzoni e una durata vicina ai 60 minuti, non tutto può essere perfetto; tuttavia, aspettiamo con impazienza una nuova prova da parte del giovane Stormzy, per capire meglio se in lui prevarrà la parte rap o quella più melodica del gospel/soul. Per ora, questo “Gang Signs & Prayer” è un ottimo esordio per uno dei maggiori talenti nati nella musica nera degli ultimi anni.

27) Drake, “More Life”

(HIP HOP)

Il nuovo LP della superstar canadese del rap Drake era attesissimo, sia dal pubblico che dalla critica. Il precedente CD, “Views” del 2016, aveva il record di essere il primo album a totalizzare un miliardo di streaming su Apple Music e aveva passato ben 13 settimane in testa alla Billboard 200. Insomma, un successo clamoroso, sottolineato dai famosissimi singoli One Dance e Hotline Bling. Tuttavia, i critici (noi di A-Rock compresi) erano stati molto scettici nell’accoglienza di “Views”, troppo lungo e sovraccarico di influenze per piacere.

La domanda che tutti si ponevano era: Drake tornerà alla bellezza di “Take Care” (2011) o dovremo sorbirci un altro mattone? Ebbene, malgrado l’eccessivo numero di brani (22!) e una lunghezza che supera gli 80 minuti (!), “More Life” è decisamente migliore del predecessore. Drake è riuscito a creare una sintesi efficace fra rap e pop, creando un prodotto magari sovraccarico, soprattutto verso la fine, ma molto affascinante e intrigante.

L’inizio, in particolare, è molto solido: molto riuscite Free Smoke e No Long Talk, pezzi rap quasi feroci per lo stile cui ci aveva abituato l’artista canadese. Invece Passionfruit è più gioiosa e pop, ma non per questo meno efficace. Altro brano “commerciale” è Madiba Riddim, che va a comporre una parentesi più leggera assieme a Get It Together. I veri capolavori, però, sono 4422 (con Sampha) e Gyalchester, pezzo trap molto tosto.

Anche la parte centrale di “More Life” contiene brani interessanti, a differenza di “Views”. Abbiamo infatti Can’t Have Everything e Glow, con quest’ultima che contiene un featuring con Kanye West.

Parlando di ospiti, la lista è davvero sterminata: oltre a Kanye e Sampha, abbiamo Young Thug, PartyNextDoor (presente nella non memorabile Since Way Back), 2 Chainz, Skepta e Travis Scott. Insomma, il gotha del mondo hip hop internazionale.

Unica pecca, dicevamo, è l’alto numero di canzoni: senza brani deboli come il già citato Since Way Back, Fake Love e Ice Melts parleremmo di un lavoro eccellente. Così, invece, è solo un buonissimo CD da parte di un rapper molto talentuoso, ma voglioso di strafare e collezionare record di streaming e incassi. Così facendo, purtroppo, la qualità complessiva ne risente; nondimeno, questo “More Life” è ai livelli di “Take Care”, cosa per niente scontata date le premesse.

Nel bene o nel male, parleremo di questo CD fino a fine anno: possiamo dire, però, che senza ombra di dubbio anche i critici saranno soddisfatti stavolta.

26) Gas, “Narkopop”

(ELETTRONICA)

Dopo ben 17 anni di assenza dalla scena musicale, il musicista tedesco Wolfgang Voigt è tornato a produrre musica con il nome d’arte Gas. La sua cifra stilistica è sempre stata una musica ambient molto evocativa e intensa, simile al miglior Brian Eno e ad Aphex Twin. Da lui hanno preso spunto vari altri artisti, tra cui il danese The Field.

Certo, molto è cambiato rispetto al 2000: ora la musica elettronica è diventata mainstream, soppiantando il rock e migrando verso lidi sempre più commerciali. Tuttavia, Gas mantiene intatte le sue caratteristiche peculiari: 10 canzoni senza titolo (o meglio, intitolate semplicemente Narkopop 1, Narkopop 2 e così via) per 78 minuti di durata. Un album dunque impegnativo, ma di ottima fattura e, per questo, godibile: i paesaggi evocati da Voigt sono come sempre onirici, tanto da ricordare le atmosfere di David Lynch e del compositore Angelo Badalamenti. Nessuna aggiunta al sound specifico di Gas, insomma, ma certamente “Narkopop” rappresenta un ottimo ritorno alla musica per Voigt, un po’ quello che “Syro” nel 2014 era stato per Aphex Twin.

Degne di nota sono in particolare la seconda suite, intitolata appunto Narkopop 2, da cui sembra iniziare realmente l’album, dopo una prima melodia un po’ fiacca; in Narkopop 4 Voigt evoca quasi una marcia militare; poi nelle successive Narkopop 5 e Narkopop 6 l’ambiente si fa più dolce, generando due melodie magnifiche. Invece, in Narkopop 8 l’atmosfera è più lugubre e ossessiva. Chiude il CD Narkopop 10, un’odissea di 17 minuti di non facile lettura, ma senza dubbio curata fin nei minimi dettagli.

In conclusione, Wolfgang Voigt dimostra ancora una volta tutto il suo talento: il quinto LP a firma Gas si aggiunge ad un catalogo già di eccellente qualità, fondamentale per tutti gli amanti della musica elettronica.

La prima parte dei 50 migliori album del 2017 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento fra pochi giorni con la seconda parte della lista. Stay tuned!

Cosa ci eravamo persi?

Anche quest’anno, come il 2016, si è rivelato ricco di importanti uscite: il ritorno dei Gorillaz e dei Fleet Foxes e i nuovi lavori di star come Lorde, Drake e Kendrick Lamar hanno preso molta attenzione nel pubblico e nei media. Noi di A-Rock abbiamo fatto il possibile, ma inevitabilmente qualche CD lo abbiamo lasciato per strada nelle nostre analisi. Ecco quindi un breve riassunto delle uscite più rilevanti degli ultimi mesi che sono comunque degne di un ascolto.

Thundercat, “Drunk”

thundercat

La parabola di Stephen Bruner (meglio conosciuto come Thundercat) è davvero curiosa. Venuto alla ribalta come bassista di grande talento, con collaborazioni del calibro di Kanye West e Flying Lotus, da qualche anno a questa parte ha iniziato a scrivere musica di persona, producendo CD molto interessanti, un mix di funk, jazz e rock. La sua vita ha subito una virata decisiva con la morte dell’amico e collaboratore Austin Peralta nel 2012: da quel momento, il tema della morte e una malinconia a volte opprimente permeano i suoi lavori.

Ne è emblema anche questo “Drunk”, quarto album a nome Thundercat di Bruner. La partenza è quasi serena: un insieme di pezzi velocissimi e nervosi, infusi di funk (Captain Stupido), jazz (Uh Uh) e momenti à la Prince, come in A Fan’s Mail (Tron Suite II). Il mood dell’album si fa però progressivamente più triste, fino a diventare disperato nella parte conclusiva (emblematica DUI).

Menzione finale per le collaborazioni: se Thundercat ha convinto artisti del calibro di Pharrell Williams, Kendrick Lamar e Wiz Khalifa a far parte di “Drunk” un motivo ci sarà. In particolare, la traccia con K-Dot, Walk On By, è molto riuscita; bella anche Show You The Way.

In conclusione, un LP con 23 canzoni, per una durata totale di oltre un’ora, non può essere perfetto; “Drunk”, però, in certi tratti ci va davvero vicino. Tra i migliori CD di musica nera degli ultimi anni.

Voto finale: 8,5.

Vince Staples, “Big Fish Theory”

big fish theory

Il secondo, attesissimo album del rapper Vince Staples lo trova ad un bivio fondamentale nella sua fino ad ora fulminante carriera: mentre nel precedente CD, l’acclamato “Summertime ‘06” (2015) Vince presentava un rap meditativo e più calmo di molti suoi colleghi, già nell’EP dello scorso anno, “Prima Donna”, avevamo intravisto un cambiamento in atto: ritmi più cupi, temi trattati molto difficili (su tutti il suicidio, basta sentirsi la title track).

“Big Fish Theory” fonde fra loro elettronica e hip hop in un modo davvero unico: Staples, infatti, cerca di adattare i beat spesso ossessivi della dance al suo flow, come sempre fluviale e mai banale. I risultati non sono perfetti, ma senza dubbio buoni: spiccano in particolare le grandi collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Kendrick Lamar, e i numerosi produttori di grido coinvolti, come Flume e Justin Vernon.

I temi trattati sono, ancora una volta, ancorati alla morte e al suicidio: in più interviste Vince Staples ha confermato di essere stato sconvolto dalla morte di Amy Winehouse e dal trattamento da lei ricevuto dai media mentre era ancora in vita. Non è un caso che il rapper, nella vita quotidiana, mantenga un profilo molto basso, lontano dai paparazzi e dagli eccessi: nessun Kanye West, insomma. L’omaggio ad Amy arriva in Alyssa Interlude, dove viene proposta un’intervista da lei rilasciata nel 2006, perfettamente funzionale al brano e all’intero disco.

Tra le canzoni migliori abbiamo Big Fish, 745 e Yeah Right, la collaborazione con Kendrick: possiamo dire che sono a confronto i due migliori rapper della loro generazione. Tra i difetti del disco abbiamo l’eccessiva brevità (dura appena 36 minuti) e l’eccessiva frammentazione, che non ne rende facile l’ascolto. Tuttavia, i meriti del CD sono molti: in un tweet poi cancellato, Staples aveva proclamato spavaldo che “Big Fish Theory” sarebbe stato un disco futuristico. Beh, non sarà un LP superbo, ma certamente rappresenta un passo da gigante nella discografia di Vince Staples e un’interessante fusione fra elettronica ed hip hop.

Voto finale: 8.

Paramore, “After Laughter”

paramore

Il quarto album dei Paramore è una rinfrescata necessaria al loro sound. La band capitanata da Hayley Williams, infatti, non si limita a percorrere i sentieri pop-rock delle origini, ma cerca di rifarsi al pop anni ’80 tipico di Police e Talking Heads.

“After Laughter” è il quinto album a firma Paramore, il primo dopo l’eponimo “Paramore” del 2013: se precedentemente il gruppo era famoso come alfiere della musica emo, i membri hanno sempre cercato di innovare, aprendo al funk e al pop-rock, sempre però nei sentieri ben precisi della musica emo. Tuttavia, rispetto ai contemporanei (per esempio, Tokyo Hotel e Brand New), i Paramore hanno mantenuto un livello di scrittura e profondità testuale ben maggiore: non solo ansie giovanili, ma anche temi delicati come il suicidio e la solitudine.

“After Laughter” era quindi atteso con trepidazione: Williams & co. avrebbero mantenuto il buon livello dei precedenti lavori? La risposta è un sì convinto: malgrado i numerosi avvicendamenti nella formazione, tra cui l’abbandono del bassista Jeremy Davis e il ritorno del primo batterista Zac Farro, dopo sei anni di pausa, la formula dei Paramore si è arricchita, come già ricordato, di chiari riferimenti al pop anni ’80 e alle band simbolo di quel periodo.

Un’operazione molto simile era stata effettuata dai The 1975 l’anno scorso, con ambizione e rischio ancora più grandi; i Paramore riescono a non cadere nel tranello della troppa voglia di fare e creano un prodotto compatto e godibile, una conferma del loro talento e versatilità.

Tra i brani migliori abbiamo Rose-Colored Boy e Told You So, che rendono la parte iniziale del CD davvero interessante; da ricordare anche Fake Happy, Pool e Grudges, che rievocano da vicino i Police e i Talking Heads al loro apice. Meno riuscite invece le ballate, come Forgiveness e la conclusiva Tell Me How.

In generale, va apprezzata la voglia di sperimentare nuove sonorità di un gruppo che avrebbe potuto tranquillamente continuare a far piangere adolescenti fragili suonando stanche e monotone canzoni emo, ma che invece non perde la voglia di sorprendere il proprio pubblico.

Voto finale: 8.

(Sandy) Alex G, “Rocket”

alex g

Classe 1993, già 8 album alle spalle: se non parliamo di un prodigio, poco ci manca. Alexander Giannascoli, cantante di chiara origine italiana e con nome d’arte Alex G, da poco cambiato in (Sandy) Alex G, ricorda a tutti che la prolificità non è sempre sinonimo di lavori abborracciati: ne sia esempio anche l’instancabile Ty Segall. “Rocket”, tuttavia, è il primo album di Alex con l’etichetta Domino, fra le più importanti in ambito indie rock; e infatti il CD ha avuto maggior risonanza dei precedenti suoi LP.

“Rocket” colpisce soprattutto per la capacità di evocare tempi lontani senza sembrare un plagio di autori più quotati: prendendo spunto da autori come il compianto Elliott Smith e Wilco, con una spruzzata di Pavement, Alex G propone una summa dell’indie anni ’90-’00, colpendo per varietà stilistica e apparente semplicità di scrittura. Niente di clamorosamente innovativo, dunque, ma certo un lavoro molto interessante, da ascoltare per tutti gli amanti di quegli anni a cavallo di due secoli.

Parlando strettamente di musica, abbiamo ottime canzoni, soprattutto nella prima parte: il poker iniziale di canzoni, formato da Poison Root, Proud, County e Bobby, è per esempio molto riuscito, un po’ lo-fi, un po’ country e il restante terzo indie; colpisce poi la violenza quasi hard rock di Brick, mentre la strumentale Horse delude leggermente.

Nella seconda parte abbiamo invece come highlight la dolce Alina, ma anche Powerful Man non è trascurabile. In generale, a parte qualche passo falso, “Rocket” si mantiene su alti livelli, facendo sperare che il mondo dell’indie rock abbia trovato un nuovo, grande interprete in Alexander Giannascoli. L’età e il talento sono dalla sua parte: lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.

Voto finale: 8.

Spoon, “Hot Thoughts”

spoon

Il nono album dei veterani dell’indie rock statunitense mantiene l’alto livello dei precedenti lavori di Britt Daniel & co., cercando contemporaneamente di instillare nuove sonorità nel tipico genere della band. Infatti, accanto al tradizionale indie rock, che ha fatto le fortune del gruppo anche grazie a stupendi lavori come “Kill The Moonlight” (2002), abbiamo dei passaggi di funk ed elettronica che rendono questo “Hot Thoughts” molto intrigante.

Non sono molte le band che riescono ad operare significativi cambiamenti nel loro sound 24 anni dopo la loro fondazione (gli Spoon sono infatti nati nel 1993) e dopo otto album di successo: la caratteristica peculiare della band texana è che hanno sempre sperimentato nuovi colori e ritmi nel loro sound, basandosi però su una stretta aderenza al mondo del rock. In generale, dunque, non c’è che da essere soddisfatti per un LP così variegato e riuscito: ecco, diciamo che se gli Strokes tornassero ai livelli dei loro primi lavori cercando di mantenere il percorso più sperimentale intrapreso dopo “Angles”, il loro CD suonerebbe così.

Tra i brani degni di nota abbiamo la title track, WhisperI’lllistentohearit e la super funk First Caress. Molto strana la quasi solo strumentale Pink Up, molto lunga ed elettronica, decisamente un pezzo poco spooniano; più tradizionale invece Can I Sit Next To You. La seconda parte perde leggermente vigore, ma i risultati sono comunque buoni.

In conclusione, “Hot Thoughts” si aggiunge meritatamente ad una discografia già eccellente: gli Spoon restano ancora un gruppo fondamentale per gli amanti dell’indie.

Voto finale: 8.

Stormzy, “Gang Signs & Prayer”

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L’esordio tanto atteso del giovane artista inglese Stormzy è uno dei migliori CD dell’anno di musica grime. Cosa si intende con questo termine? Il solco seguito è senza dubbio quello dell’hip hop, ma il grime è ancora più duro e i temi trattati riguardano di solito la vita nei sobborghi delle grandi città britanniche. Insomma, un qualcosa di molto simile al gangsta rap degli anni ’90 del secolo scorso, solo ambientato in UK. Skepta (artista che ha anche collaborato all’ultimo CD di Drake) ne è il massimo esponente, ma Stormzy è il giovane rampante che cerca di far conoscere il grime anche al di fuori della ristretta cerchia dei fans “ortodossi”.

Stormzy tenta di raggiungere questo scopo mescolando al grime anche sonorità più morbide, fino ad avvicinarsi al gospel e al soul. Esperimento ambizioso e, per la verità, in gran parte riuscito. Infatti, dopo la partenza sparata con First Things First e Cold, abbiamo anche brani più intimisti come Blinded By Your Grace, Pt.1 e Velvet/Jenny Francis (Interlude).

I temi trattati sono in gran parte sintetizzabili nel titolo dell’album: “Gang Signs & Prayer” infatti parla prevalentemente dei temi tipici del grime, con le basi oscure e ossessive che caratterizzano il genere. Potrà non piacere, ma all’interno dell’hip hop è senza dubbio un’innovazione che sta rivitalizzando il mondo della musica black.

Con 16 canzoni e una durata vicina ai 60 minuti, non tutto può essere perfetto; tuttavia, aspettiamo con impazienza una nuova prova da parte del giovane Stormzy, per capire meglio se in lui prevarrà la parte rap o quella più melodica del gospel/soul. Per ora, questo “Gang Signs & Prayer” è un ottimo esordio per uno dei maggiori talenti nati nella musica nera degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

SZA, “CTRL”

sza

L’esordio della giovane Solána Imani Rowe, in arte SZA, arriva dopo due brevi EP, “S” e “Z”. Ci saremmo aspettati una “A” per chiudere la trilogia, invece la cantante americana ha optato per “CTRL”. Il titolo, in effetti, è evocativo di un tema che pervade molti brani nel CD: il controllo della propria sessualità e della propria femminilità. “CTRL”, infatti, tratta in pressoché ogni pezzo la questione della libertà sessuale della giovane SZA, ma non solo: il messaggio può essere universalmente inteso ed è molto attuale. Basti pensare, ad esempio, al proliferare delle app per incontri e alla superficialità che i rapporti amorosi, soprattutto fra gli adolescenti, denotano da alcuni anni a questa parte.

Musicalmente parlando, l’album è un ottimo esempio di R&B moderno, con inserti di hip hop (basti guardare agli ospiti, da Kendrick Lamar a Travis Scott). SZA sfodera le canzoni migliori all’inizio e alla fine: molto bella la doppietta iniziale rappresentata da Supermodel e Love Galore, così come la conclusiva 20 Something. La caratteristica più apprezzabile è che il disco sembra avere un andamento circolare: come partiamo, vale a dire con un brano semplice e con strumentazione minimale, così arriviamo. Delude, purtroppo, la collaborazione con Kendrick, la scialba Doves In The Wind: il suo verso è fuori contesto, a dimostrazione che lui è “solamente” il miglior rapper in circolazione, l’R&B non fa per lui.

Altri brani riusciti, per contro, sono la vivace Prom e Pretty Little Birds; delude invece la parte centrale del disco, un po’ monotona. In generale, insomma, sono rintracciabili sia le influenze che i principali difetti del CD: se Solange, The Weeknd e Frank Ocean sono i riferimenti artistici di SZA, non tutti sono in grado di costruire capolavori come “Channel Orange” oppure “A Seat At The Table”. Aspettiamo SZA alla seconda prova: la stoffa sembra esserci.

Voto finale: 7,5.

Feist, “Pleasure”

feist pleasure

Il quinto album della canadese Leslie Feist, precedentemente nei Broken Social Scene, è un concentrato delle sue migliori qualità: coesione sonora, bel tono di voce e dettagli sempre sorprendenti ad impreziosire le canzoni (il breve intermezzo heavy metal alla fine di A Man Is Not His Song è davvero divertente).

In generale, l’indie rock di “Pleasure” è più pensoso del solito: se pensiamo ai principali interpreti del genere, ad esempio Strokes e Franz Ferdinand, si delinea un genere veloce e ballabile. In realtà, questo CD è molto più complesso e denso di quanto si possa pensare: le canzoni superano spesso i 5 minuti di durata e il rock si intreccia al chamber pop. Insomma, Feist risulta in “Pleasure” un mix fra PJ Harvey e Angel Olsen: due fra le massime interpreti femminili del rock contemporaneo.

Il CD si apre con la rockettara title track, fra i pezzi migliori del disco. Accanto ad essa tuttavia, come già accennato, troviamo pezzi molto più “tranquilli” come Lost Dreams e Young Up, altri due highlights. Non male anche Get Not High, Get Not Low e Any Party. Tra i punti deboli, contiamo la fin troppo lunga e monotona Baby Be Simple; la collaborazione con Jarvis Cocker, frontman dei Pulp, rende Century passabile, altrimenti non sarebbe nulla di speciale.

Il giudizio complessivo resta comunque positivo: non parliamo del lavoro della vita per Feist, ma certamente un altro solido lavoro che va ad aggiungersi ad un’ottima discografia. Nessuna replica del bellissimo “The Reminder” (2007), insomma, ma “Pleasure” non deluderà i fan dell’artista canadese.

Voto finale: 7,5.

Julie Byrne, “Not Even Happiness”

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Il secondo CD della cantante folk statunitense Julie Byrne ha attirato l’attenzione della critica fin dall’uscita, il 27 gennaio 2017. Un insieme di 9 canzoni (meglio, 8 più un breve intermezzo strumentale) che colpiscono per la capacità delle melodie, spesso molto semplici peraltro, di evocare davvero un mondo di sentimenti.

In particolare, la giovane Byrne riesce, anche grazie alla sua voce profonda, a ricordare i grandi maestri del genere, su tutti Bob Dylan e Sufjan Stevens. Le canzoni di per sé non sono clamorosamente innovative o radicali, ma creano un CD coeso e malinconico sui sentimenti provati dalla cantautrice (il titolo “Not Even Happiness” dice tutto a riguardo).

Le canzoni migliori sono Sleepwalker e Natural Blue, ma anche Follow My Voice è molto affascinante. Il ridotto numero di canzoni impedisce di valutare appieno la bravura della Byrne, ma la stoffa sembra esserci. La attendiamo alla fatidica prova del terzo album.

Voto finale: 7,5.

Ryan Adams, “Prisoner”

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Il sedicesimo album solista di Ryan Adams (EP compresi), star americana del country e del rock, è anche il suo più personale. Infatti, il tema principale trattato nel CD è il dolore provato dopo il divorzio dalla cantante Mandy Moore. Un “breakup album”, dunque, che tuttavia non ricorda neanche lontanamente i Dirty Projectors dell’omonimo album “Dirty Projectors” uscito a marzo: Adams si mantiene nei consueti sentieri del rock/country, alternativo ma orecchiabile, genere che ne ha fatto la fortuna.

Non siamo sugli eccellenti livelli di “Heartbreaker” (2000), vero capolavoro di Adams, ma almeno al buonissimo “Gold” (2001) questo “Prisoner” ci si avvicina. Degne di nota sono Do You Still Love Me, che già nel titolo dice tutto; la calda Haunted House; e la riuscita Anything I Say To You Now. Ma il vero capolavoro è Shiver And Shake, che ci fa capire come Adams abbia ancora molto da dare alla musica. Per contro, Breakdown e Outbound Train sono puro filler; ma con Adams ormai sappiamo che è una tassa da pagare in ogni suo lavoro.

In conclusione, esprimiamo qua un pensiero che molti condivideranno: probabilmente, se fosse stato meno prolifico e maggiormente concentrato sulla qualità delle singole uscite (evitabile, ad esempio, il remix traccia per traccia di “1989” di Taylor Swift), la carriera di Ryan Adams sarebbe stata anche più brillante. Peccato, ma godiamoci perle come questo “Prisoner”: chissà quante ne avremo ancora da un artista al sedicesimo (!) LP/EP di inediti in 17 anni di carriera.

Voto finale: 7.