Rising: Model/Actriz

model actriz

I Model/Actriz.

Primo appuntamento del 2023 con la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. Quest’oggi ci focalizziamo sui Model/Actriz, gruppo americano che con l’esordio “Dogsbody” ci ha introdotti al loro mondo, duro e claustrofobico, ma da cui è difficile uscire una volta entrati.

Model/Actriz, “Dogsbody”

dogsbody

I Model/Actriz sono un quartetto originario di Brooklyn, attivi in realtà dal lontano 2016, ma “Dogsbody” è il loro primo CD; ed è una ventata di freschezza nella scena rock americana e non solo. Industrial, noise, elettronica e numerose altre influenze si mescolano, facendo della band un ibrido difficile da inquadrare: LCD Soundsystem, Talking Heads e Nine Inch Nails sono ispirazioni, ma nessuno suona esattamente come i Model/Actriz.

L’inizio del lavoro, in questo senso, è emblematico: Donkey Show è un assalto sonoro, una canzone davvero abrasiva e trascinante. Mosquito è invece quasi dance nel suo incedere, anche se poi la batteria tonante di Ruben Radlauer entra in scena con prepotenza. La suite Crossing GuardSlate è il momento migliore del CD, con la seconda che si inserisce direttamente nello spazio lasciato dalla prima, anche testualmente: Crossing Guard finisce con i versi “Oh it feels like, oh it feels like…”, per lasciare spazio a Slate, le cui prime parole sono “…Like pressure”.

Il disco contiene anche due momenti quasi delicati, Divers e Sun In, che sembrano preludere ad un futuro diverso per i Model/Actriz. Va detto che, come già accennato, i momenti migliori sono quelli più tosti musicalmente parlando: l’energia e la passione del gruppo sono davvero ammirevoli, così come da elogiare è la loro qualità di strumentisti. Dal canto suo, il cantante Cole Haden è trascinante, pur limitandosi spesso a declamare versi piuttosto che a cantarli.

In conclusione, “Dogsbody” è il miglior esordio del 2023 al momento nel mondo rock: i Model/Actriz hanno affinato negli anni una loro estetica, particolare e non accogliente verso l’ascoltatore medio, ma non per questo disprezzabile. Al contrario: il CD è candidato ad entrare nella top 10 dei migliori LP del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Recap: gennaio 2023

Gennaio è quasi terminato. Un mese ricco di nuove pubblicazioni e in cui A-Rock, come di consueto, ha analizzato anche delle uscite rilevanti pubblicate nel corso di dicembre 2022. Tra di esse contiamo i nuovi CD di MIKE, Little Simz, Stormzy e SZA. Abbiamo poi recensito il nuovo, brevissimo EP a firma PinkPantheress e i nuovi dischi dei Måneskin, di Mac DeMarco e dei The Murder Capital.

Little Simz, “NO THANK YOU”

no thank you

Annunciato e pubblicato nell’arco di una settimana, “NO THANK YOU” può sembrare semplicemente un CD che chiude un periodo trionfale per Little Simz. “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) l’ha resa una superstar e le ha fatto guadagnare il rispetto della critica, tanto che anche noi di A-Rock abbiamo eletto il CD come migliore di quell’anno. “NO THANK YOU”, tuttavia, non va sottovalutato.

Musicalmente, questo disco è un diretto discendente di “Sometimes I Might Be Introvert”, soprattutto in canzoni come Silhouette e X; allo stesso tempo, una traccia come Gorilla fa intravedere lati diversi di Little Simz, più sbarazzini. Insomma, abbiamo di fronte un CD variegato, ma breve al punto giusto (50 minuti) da non essere eccessivamente sovraccarico. Merito anche della produzione di Inflo, già leader dei SAULT, che dà al lavoro un tocco neo-soul non banale.

Liricamente, se in precedenza l’avevamo sentita trattare temi complessi come il rapporto col padre e con l’eredità degli artisti di colore, “NO THANK YOU” denuncia i mali dell’industria discografica: “You don’t even recognize who it is that you’re becoming, they don’t give a shit” (Heart On Fire) e “They don’t care if your mental is on the brink of something dark” (Angel) ne sono chiari esempi.

Le migliori canzoni di “NO THANK YOU” sono la magnifica Silhouette, che ha un azzeccatissimo cambio di base a metà pezzo; l’iniziale Angel, che apre egregiamente il lavoro; e Heart On Fire. Invece, inferiore alla media è solo la troppo breve Sideways.

In conclusione, “NO THANK YOU” si inserisce senza problemi in un’eredità artistica sempre più rilevante: Little Simz è ormai il simbolo del rap UK al femminile e una delle artiste più rilevanti di quest’epoca.

Voto finale: 8.

The Murder Capital, “Gigi’s Recovery”

gigi's recovery

Il secondo album della band post-punk irlandese continua a costruire su quanto di buono era contenuto in “When I Have Fears” (2019), provando allo stesso tempo ad ampliare il range sonoro dei The Murder Capital. I risultati sono ancora una volta buonissimi e ci fanno sperare di aver trovato un altro grande gruppo della nidiata magica d’Oltremanica, che ha portato alla luce talenti come IDLES, shame e Fontaines D.C., giusto per citarne alcuni esponenti.

Non tutto è punk o comunque assimilabile a questo genere in “Gigi’s Recovery”: The Murder Capital, infatti, diventa sinonimo di art rock (A Thousand Lives) e addirittura influenze elettroniche (The Stars Will Leave Their Stage). Va aggiunto, a onor del vero, che molte delle canzoni più riuscite sono di matrice punk, Crying e Return My Head su tutte.

Liricamente, il CD si impone come uno dei più profondi di questi primi momenti del 2023: James McGovern e compagni intraprendono in “Gigi’s Recovery” un viaggio alla scoperta di loro stessi, tra ammissioni di impotenza (“Strange feeling I’m dealing with, I can’t admit it – I’m losing grip”, in Existence) e domande esistenziali (“Is this our way to escape? Our way through the gates we built? Is this our end?”, da Crying). In Exist, infine, McGovern trova pace: “I’ll stay committed, I’ll make it stick. This morning I took ownership – to stay forever in my own skin”.

In conclusione, “Gigi’s Recovery” è un LP non facile, ma che regala piacevoli sorprese ad ogni ascolto. The Murder Capital è, indubbiamente, un nome sempre più importante nel panorama punk-rock europeo.

Voto finale: 8.

SZA, “SOS”

sos

Il secondo album di SZA arriva ben cinque anni dopo “CTRL”, che l’aveva fatta conoscere al pubblico di massa e, secondo molti, aveva fatto emergere una nuova grande promessa per l’R&B. Questa lunga attesa è stata in realtà riempita da numerosi singoli, molti dei quali hanno trovato spazio in “SOS”. Ma il prodotto finale è all’altezza delle tante speranze che avevamo riposto in lei?

Malgrado una lunghezza che può apparire eccessiva (23 pezzi per 68 minuti complessivi), buona parte di “SOS” è davvero ben fatta. Pezzi come Kill Bill, Blind e Good Old Days sono irresistibili; purtroppo, altri episodi sono inferiori alla media (SOS, Smoking On My Ex Pack, Conceited), ma non pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo. Menzione, infine, per gli ospiti di SZA: abbiamo protagonisti del rap (Don Toliver, Travis Scott) così come dell’indie rock (Phoebe Bridgers).

SZA si conferma quindi musicista di talento; anche i testi, nei loro momenti migliori, sono davvero iconici. “I might kill my ex… Not the best idea”, da Kill Bill, ne è un chiaro esempio. Snooze invece contiene il seguente verso: “How you threatening to leave and I’m the main one crying?”. Infine in Forgiveless, che vanta la collaborazione del defunto Ol’ Dirty Bastard (Wu-Tang Clan), SZA dichiara: “I’m too profound to go back and forth with no average dork”.

Ripetuti ascolti fanno emergere le melodie più riuscite, che avrebbero facilmente composto un CD imperdibile. Pur essendo sovraccarico di canzoni spesso simili le une alle altre, anche in questa forma “SOS” è una forte dichiarazione di intenti: speriamo che la minaccia di SZA di aver pubblicato il suo ultimo lavoro sia esagerata.

Voto finale: 7,5.

MIKE, “Beware Of The Monkey”

Beware of the Monkey

Il nuovo lavoro del rapper newyorkese mantiene i tratti più salienti della sua estetica, ma allo stesso tempo suona quasi euforico rispetto a passati CD come “tears of joy” (2019) e “Weight Of The World” (2020). L’evoluzione artistica di MIKE è lenta, ma costante.

Già nel precedente “Disco” (2021) avevamo intravisto un lato diverso di MIKE, più sereno e meno tormentato dalla perdita dei propri cari e dalla depressione. “Beware Of The Monkey” prosegue in questo percorso di uscita dal tunnel, soprattutto in pezzi come Nuthin I Can Do Is Wrng e No Curse Lifted (rivers of love). Allo stesso tempo, come già accennato, troviamo melodie dove il MIKE delle origini torna alla ribalta, ad esempio What Do I Do? e Swoosh 23.

Liricamente, troviamo momenti di puro flex, in cui il Nostro si vanta della propria abilità (“This my only chance left, to prove to y’all, I’m the best rapper in the fuckin’ world”, As 4 Me), così come momenti di maggiore fragilità (“Dread and blasphemy, sitting ’laxed in my apartment where these raps put me”, Tapestry). In Stop Worry!, aiutato da Sister Nancy, onora la memoria della madre.

In generale, il rap sperimentale e jazzato tipico di MIKE non ha ancora mostrato la corda: grazie a piccoli ma costanti cambiamenti l’ancora giovane newyorkese ha mantenuto un’altissima qualità media. “Beware Of The Monkey”, in questo senso, non intacca assolutamente un’eredità sempre più rilevante.

Voto finale: 7,5.

Stormzy, “This Is What I Mean”

This Is What I Mean

Per la seconda volta in carriera Stormzy ha pubblicato una raccolta di inediti nel periodo di non eleggibilità per la lista dei migliori 50 album dell’anno di A-Rock: pertanto, dopo “Heavy Is The Head”, pubblicato a dicembre 2019, abbiamo questo “This Is What I Mean”, un CD decisamente più intimo e R&B rispetto al passato, in cui Stormzy mostra la sua parte più suadente e meno rap.

Il rapper inglese in realtà sembrava aver anticipato un album vecchia maniera con la stratosferica Mel Made Me Do It, che vantava la collaborazione niente meno che di José Mourinho! Invece in “This Is What I Mean” questa canzone non è stata inclusa e il Nostro ha privilegiato melodie più dolci, si sentano ad esempio Please e Hide & Seek. Non tutto gira a meraviglia, ma nei suoi momenti migliori (Fire + Water, la title track) Stormzy dimostra tutto il suo talento.

Liricamente, abbiamo riferimenti a Dio (Holy Spirit) così come una dimostrazione di solidarietà verso Meghan Markle (Please), accanto a riferimenti più materiali (una sua vecchia disputa col collega Wiley in My Presidents Are Black, il sesso in Need You).

Insomma, non avessimo brani eccessivamente lenti come Holy Spirit, saremmo di fronte forse al miglior album a firma Stormzy. Nondimeno, “This Is What I Mean” è un buon CD, che tiene alto il nome del Nostro e rende evidente la sua duttilità. È possibile che il prossimo sia l’album della verità per Stormzy: vedremo se riuscirà a consegnare quel capolavoro che pare avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

PinkPantheress, “Take Me Home”

Take Me Home

PinkPantheress si conferma una delle figure più originali nel panorama musicale odierno: le tre canzoni di questo EP ammontano complessivamente a meno di otto minuti. Vi sono canzoni che hanno fatto la storia della musica, da Runaway di Kanye West a Blackstar di David Bowie, che da sole hanno una durata maggiore: tuttavia, PinkPantheress è diventata famosa proprio grazie alla sua estrema concisione.

Basti dire che il suo album d’esordio, “to hell with it” del 2021, durava appena 18 minuti, ma molte sue canzoni (della durata media di un minuto e mezzo) erano divenute virali su TikTok, trasformando la giovane inglese in una celebrità. “Take Me Home” riparte da dove PinkPantheress aveva lasciato, anche se contiamo una melodia di ben tre minuti e venti.

La prima canzone della scaletta, Boy’s A Liar, prodotta da Mura Masa, riparte precisamente dai tratti salienti di “to hell with it”: ritmi veloci, pop ballabile e leggerino, basso potente. Do You Miss Me? è invece più danzereccia, non a caso vantando la produzione di Kaytranada. Abbiamo infine la title track, la più complessa del lotto, con tanto di finale in salsa trap: questa è la traccia che segnala una crescita reale di PinkPantheress e ci rende davvero interessati al prossimo suo album vero e proprio.

“Take Me Home” non è quindi un EP eccessivamente ambizioso: va inteso probabilmente come uno stop and go in attesa del secondo CD della Nostra. Nel frattempo, godiamoci questi otto minuti di discreta musica pop.

Voto finale: 7.

Måneskin, “RUSH!”

rush

Il terzo CD dei Måneskin, il primo dopo aver trovato la fama planetaria, è pieno di difetti, ma in qualche modo porta a casa la pagnotta. Peccato, perché a tratti i ragazzi riescono a produrre pezzi davvero di qualità, ma la tracklist eccessivamente carica e qualche scelta discutibile intaccano il risultato complessivo.

Ad esempio: aver piazzato alcuni dei singoli recenti da loro pubblicati in fondo alla scaletta sembra una mossa puramente votata a massimizzare gli streaming, ma rendono il CD eccessivamente lungo (quasi 53 minuti) e non aggiungono nulla al risultato finale. BLA BLA BLA è una delle peggiori canzoni rock degli ultimi anni e ferma l’inizio promettente di “RUSH!”, KOOL KIDS scimmiotta incomprensibilmente il post-punk britannico.

Dall’altro lato, abbiamo alcuni pezzi indubbiamente riusciti: la doppietta iniziale OWN MY MINDGOSSIP (quest’ultima con Tom Morello) sprigiona adrenalina, LA FINE è un ottimo pezzo rock, GASOLINE migliora ad ogni ascolto, non male le ballate IL DONO DELLA VITA e IF NOT FOR YOU. In generale, come già ricordato, il CD pecca nella costruzione della scaletta: errore che potrà senza dubbio essere corretto nei futuri lavori della band.

Liricamente, invece, i Nostri riescono a piazzare alcuni versi ben assestati: “You’re not iconic, you are just like them all, don’t act like you don’t know” (da GOSSIP) sembra rivolto tanto a loro stessi quanto a chi nell’industria musicale dubita di loro. In FEEL i Måneskin rievocano la “cocaina sul tavolo”, il presunto scandalo che ha rischiato di oscurare la loro vittoria all’Eurovision Song Contest del 2021. Infine, MARK CHAPMAN rievoca la figura dell’assassino di John Lennon e in GASOLINE Damiano David chiede: “How are you sleeping at night? How do you close both your eyes? Living with all of those lives on your hands?”, rivolto a Vladimir Putin e alle conseguenze della tragica invasione dell’Ucraina.

In conclusione, “RUSH!” non cancella i dubbi che molti avranno sui Måneskin, un fenomeno secondo loro costruito dai media piuttosto che basato su reali meriti artistici. Noi ad A-Rock vogliamo dare ancora una chance ai ragazzi romani: il prossimo LP sarà la prova della verità per il gruppo. Per il momento Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan potranno continuare a godersi gli altissimi numeri di streaming che “RUSH!” sicuramente regalerà loro.

Voto finale: 6.

Mac DeMarco, “Five Easy Hot Dogs”

five easy hot dogs

Il nuovo CD del cantautore canadese è composto da soli pezzi strumentali. Sebbene rappresenti un gradito cambio di passo in un’estetica che cominciava a farsi ripetitiva, nessuna delle melodie cattura davvero l’attenzione dell’ascoltatore, rendendo “Five Easy Hot Dogs” più adatto come musica di accompagnamento ad altre attività, che sia studiare o lavorare.

Mac ha deciso di comporre “Five Easy Hot Dogs” durante un lungo viaggio in America e Canada, tanto che le canzoni prendono i nomi dalle località in cui sono state composte. Alcune sono state composte nella medesima città: abbiamo infatti tre Vancouver, due Portland… DeMarco conferma il suo talento per gli arrangiamenti semplici, ma non per questo scontati; allo stesso tempo, la mancanza della parte cantata si fa sentire, soprattutto verso la fine del lavoro.

Nessuna delle 14 canzoni in scaletta, come detto, si distingue nettamente dalle altre, rendendo “Five Easy Hot Dogs” un CD gradevole e coerente, ma davvero leggero e poco memorabile. È davvero questo il destino di un cantautore una volta visto come uno dei migliori della sua generazione, che ha composto in passato CD interessanti come “2” (2012) e “Salad Days” (2014)?

Voto finale: 6.

I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!

I 20 migliori album del 2012

Ad A-Rock è ormai tradizione, prima di presentare le liste dei migliori e peggiori dischi dell’anno, fare un salto nel passato, per ripercorrere insieme i CD che più hanno segnato un certo anno.

Quest’anno la nostra attenzione si concentra sul 2012: un anno fondamentale per la scena musicale contemporanea, in cui artisti del calibro di Frank Ocean, Tame Impala e Kendrick Lamar hanno pubblicato i lavori che li hanno definitivamente fatti esplodere a livello di consenso di pubblico e critica. Inoltre, Beach House e Grizzly Bear hanno pubblicato quelli che sono, ad oggi, i migliori LP nella loro già pregiata produzione.

Chi avrà vinto il titolo di miglior disco del 2012? Buona lettura!

20) Miguel, “Kaleidoscope Dream” (R&B)

19) Parquet Courts, “Light Up Gold” (ROCK)

18) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (ROCK)

17) Grimes, “Visions” (POP – ELETTRONICA)

16) Ty Segall, “Slaughterhouse” / ”Hair” / ”Twins” (ROCK)

15) Mac DeMarco, “2” (ROCK)

14) Killer Mike, “R.A.P. Music” (HIP HOP)

13) Chromatics, “Kill For Love” (ELETTRONICA – ROCK)

12) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (ROCK)

11) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (PUNK – ROCK)

10) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (ELETTRONICA)

9) Alt-J, “An Awesome Wave” (ROCK)

8) Burial, “Kindred EP”/ ”Truant / Rough Sleeper EP” (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

7) Death Grips, “The Money Store” (HIP HOP – SPERIMENTALE)

6) Godspeed You! Black Emperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (ROCK – SPERIMENTALE)

5) Kendrick Lamar, “Good Kid, M.A.A.D. City” (HIP HOP)

4) Grizzly Bear, “Shields” (ROCK)

3) Beach House, “Bloom” (POP)

2) Tame Impala, “Lonerism” (ROCK)

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (R&B)

Che ne pensate di questi magnifici 20 album del 2012? Non esitate a lasciare commenti e suggerimenti!

Recap: novembre 2022

Anche novembre è finito. Un mese molto intenso, l’ultimo che conterà ai fini della redazione della classifica dei 50 migliori CD dell’anno di A-Rock, come di consueto. Recensiamo i nuovi album di Drake & 21 Savage, degli Special Interest e dei Phoenix. Inoltre, spazio a King Gizzard & The Lizard Wizard, Weyes Blood e Bruce Springsteen. Infine, lato hip hop, abbiamo avuto i due album di addio dei BROCKHAMPTON e il ritorno di Nas. Buona lettura!

Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

and in the darkness hearts aglow

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, secondo Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

Voto finale: 8,5.

Special Interest, “Endure”

endure

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

Voto finale: 8.

Nas, “King’s Disease III”

King's Disease III

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” / “Laminated Denim” / “Changes”

A-Rock non ha mai tentato un’impresa simile: recensire tre CD della stessa band, usciti nello stesso mese! Del resto, i King Gizzard & The Lizard Wizard ci hanno abituato fin troppo bene in termini di prolificità, mai però erano arrivati a questi livelli di follia. Ma andiamo con ordine.

Il primo LP (ben 63 minuti), “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

Il secondo album del lotto è “Laminated Denim”: composto di due lunghe suite di esattamente 15 minuti ciascuna (un’idea di simmetria già in parte affrontata dai Nostri in “Quarters!” del 2015), rappresenta un’ideale pausa prima dell’ultimo capitolo della trilogia. Sia The Land Before Timeland che Hypertension non rappresentano grosse innovazioni rispetto all’estetica complessiva degli australiani: krautrock e psichedelia la fanno da padrone.

Complessivamente, “Laminated Denim” è la minore delle tre pubblicazioni, sia nelle intenzioni che nella realizzazione, ma non sfigura.

Il terzo ad ultimo LP della mischia è “Changes”: un lavoro prettamente pop, con tracce di psichedelia che mantengono l’estetica degli aussie sui consueti binari. Ad essere precisi, questo è uno dei loro CD più pop, insieme forse a “Paper Mâché Dream Balloon” (2015): ne sono esempi la lunghissima title track e No Body. Ottima la jazzata Astroturf.

In generale, “Changes” chiude molto gradevolmente una trilogia di buona fattura, in cui i King Gizzard & The Lizard Wizard mostrano il loro lato migliore. Avremo sempre il dubbio che, se si concentrassero su un singolo disco, potrebbero davvero sfornare un capolavoro. Resta tuttavia ammirevole la loro dedizione alla musica, con pochi se non nessun pari al mondo.

Voto finale: 7,5.

BROCKHAMPTON, “The Family” / “TM”

I BROCKHAMPTON sono una delle boy band hip hop più celebri al mondo: la notizia del loro scioglimento ha in effetti provocato varie discussioni sui social e nella critica specializzata. I ragazzi hanno fatto le cose in grande: ben due CD per salutare i loro fan. I risultati, comprensibilmente, non sono ovunque impeccabili, ma Kevin Abstract e co. confermano il loro talento.

“The Family” era l’album ufficialmente annunciato come addio al pubblico del progetto BROCKHAMPTON. Molto spesso in effetti troviamo messaggi agrodolci da parte dei membri del gruppo; l’eccessiva varietà di canzoni può risultare difficile ad assimilare ai primi ascolti, ma parlando di un CD che chiude una fase importante della vita dei BROCKHAMPTON era lecito aspettarsi un mix delle influenze che li hanno definiti.

Troviamo infatti brani soul (All That), hip hop (Take It Back, Basement) e molti che flirtano con svariati altri generi (Big Pussy, ad esempio, inizia quasi come un brano dei black midi più jazz, mentre Any Way You Want Me è puro lounge pop).

La cosa curiosa è che “The Family” suona spesso come un progetto solista di Kevin Abstract, da molti riconosciuto come il più talentuoso della compagnia, ma anche come un’influenza controversa sulla band. Prova ne sono alcuni versi, presi dalla title track: “I don’t feel guilty from wakin’ you up when you sleep, I don’t feel guilty from cuttin’ your verse from this beat, I don’t feel guilty for heat you caught from my tweets”. Altrove troviamo anche “Do we see each other? Hardly. Shit we made together? Godly. Did we sign for too many motherfuckin’ albums? Probably” (Gold Teeth) e “I wasn’t really there for my brothers… Barely present, more focused on bad relationships. It was good for my image, I got lost in it. That’s when I first started drinking, lost my hunger, man” (Brockhampton).

In generale, il CD suona frammentario, contando ben 17 brani per poco più di 35 minuti di durata. Questo è sempre stato il bello e il brutto dei BROCKHAMPTON: prolificità e varietà stilistica a discapito della coesione dei progetti.

La seconda gamba dell’addio dei BROCKHAMPTON è “TM”, un CD più collaborativo rispetto a “The Family” e per questo probabilmente da prendersi come il vero commiato della boy band. Abbiamo pezzi trap (FMG, LISTERINE) accanto ad altri pop (ANIMAL, MAN ON THE MOON) oppure R&B (DUCT TAPE): il polimorfismo dei Nostri è quindi sempre presente.

Liricamente, i temi sono molto simili a quelli affrontati da Abstract in “The Family”: la necessità di abbandonare il progetto BROCKHAMPTON unita alla nostalgia per i bei momenti passati insieme, visti però con uno sguardo più collettivo rispetto al CD fratello.

In conclusione, pur essendo di fronte a due lavori imperfetti, per differenti ragioni, i BROCKHAMPTON lasciano i fan con due opere incompiute, ma non disprezzabili. Vedremo in futuro se, da solisti, i membri della band saranno in grado di risolvere questo problema.

Voto finale: 7.

Phoenix, “Alpha Zulu”

alpha zulu

Il settimo album dei veterani dell’indie pop francese segue di ben cinque anni “Ti Amo” (2017), il loro album “italiano”. Thomas Mars e compagni hanno registrato il CD all’interno del Louvre e la copertina così evocativa è un gentile omaggio al museo; musicalmente, “Alpha Zulu” suona bene ed è certamente divertente. Non parliamo di un lavoro rivoluzionario per l’estetica dei francesi, ma nei suoi momenti migliori il CD riporta a “Wolfgang Amadeus Phoenix” (2009), il capolavoro dei Phoenix.

Il pezzo forte della selezione è senza dubbio Tonight, con la gradita collaborazione di Ezra Koenig dei Vampire Weekend: sembra proprio di tornare ai primi anni ’10, quando Phoenix e Vampire Weekend erano tra i principali protagonisti della scena indie rock mondiale. L’effetto nostalgia prosegue con la pregevole Winter Solstice, che sarebbe stata bene nei primi album del gruppo francese. Invece inferiori alla media Season 2 e All Eyes On Me, fin troppo prevedibili anche per una band “tradizionalista” come i Phoenix. Menzione poi per le più ballabili Alpha Zulu e The Only One, che provano a ringiovanire il pop sofisticato dei Phoenix attraverso ritmi quasi EDM.

“Alpha Zulu” riesce quindi a tenere Thomas Mars e co. sulla bocca di pubblico e critica attraverso 35 minuti di buona musica, divertente e ben costruita. Quello che ci vuole in tempi non semplici, certo; i più severi potrebbero però legittimamente pensare che, parlando di una band attiva da più di vent’anni, sarebbe anche benvenuto un cambio di passo. La risposta dei Phoenix sarebbe probabilmente la seguente: perché cambiare una formula che ancora funziona così bene?

Voto finale: 7.

Drake feat. 21 Savage, “Her Loss”

her loss

Il primo album collaborativo tra Drake e 21 Savage rappresenta un sicuro miglioramento rispetto ai recenti CD del primo. Se “Certified Lover Boy” (2021) e “Honestly, Nevermind” (2022) avevano deluso soprattutto la critica (restando invece intatto il successo commerciale), “Her Loss” trova un Aubrey Graham più a suo agio. Aiutato dal giovane collega, la superstar canadese ha infatti pubblicato il suo miglior lavoro da “Dark Lane Demo Tapes” (2020).

La parte iniziale del CD è davvero convincente: Rich Flex cambia beat almeno tre volte e sia 21 Savage che Drake sono pienamente in controllo della situazione. Buone anche le seguenti Major Distribution e On BS. Va detto che, soprattutto nella parte centrale, abbiamo momenti decisamente meno eccitanti: prova ne siano Hours Of Silence e Treacherous Twins. Menzione invece per Pussy & Millions, con la collaborazione di Travis Scott, e Circo Loco, in cui viene campionata One More Time dei Daft Punk. In generale, si fanno preferire le canzoni pienamente collaborative: quelle a sola firma Drake (Jumbotron Shit Poppin, I Guess It’s Fuck Me) e 21 Savage (3 AM On Glenwood), pur non totalmente disprezzabili, sono business as usual.

Liricamente, sia la copertina che il titolo del disco fanno presagire un lavoro amaro, fatto di invettive contro le numerose figure femminili che hanno tradito la fiducia dei due rapper. La conferma arriva puntuale: chi segue Drake con attenzione sa che questo non è un tema per nulla nuovo nella discografia del canadese, laddove 21 Savage è invece usualmente più focalizzato sulla vita di strada, spesso fatta di immagini crude.

In generale, tuttavia, siamo di fronte ad un buon LP. I 60 minuti di durata, pur con i già accennati inciampi, passano gradevolmente. Che sia un punto di ripartenza, almeno dal punto di vista artistico, per Drake? Dal lato suo, 21 Savage si conferma rapper talentuoso e meritevole del suo crescente successo.

Voto finale: 7.

Bruce Springsteen, “Only The Strong Survive”

only the strong survive

Il nuovo album del Boss è in realtà una raccolta di cover, in cui sono state riviste canzoni originariamente di stampo soul. Al centro del CD vi è la voce di Springsteen, allo stesso tempo consumata ed espressiva come mai prima; non parliamo di un disco fondamentale in una carriera già leggendaria, ma certamente i fan del rocker americano avranno soddisfazione ascoltando “Only The Strong Survive”.

Questa è la seconda raccolta di cover di Bruce, dopo “We Shall Overcome: The Seeger Sessions” (2006) e segue “Letter To You” (2020): le canzoni sono state arrangiate durante il lockdown pandemico nel suo studio col fidato collaboratore Ron Aniello, ma senza la E-Street Band. Se quindi la base ritmica può risultare più soft del solito, allo stesso tempo si ha una maggiore cura per la composizione complessiva e, come già detto, maggiore spazio per la voce del Nostro.

Alcune canzoni risultano prevedibili (The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, When She Was My Girl), ma nei suoi momenti migliori abbiamo un buon disco di Bruce Springsteen: Nightshift e Do I Love You (Indeed I Do) sono buonissime reinterpretazioni.

In generale, un CD di cover rappresenta solitamente un modo per gli artisti di omaggiare i propri riferimenti e ricaricare le batterie in vista di nuovi album di inediti. Se “Western Stars” (2019) e il già menzionato “Letter To You” erano highlight di fine carriera per Springsteen, speriamo che la trilogia di album del Boss post “High Hopes” (2014) si chiuda in maniera soddisfacente nel prossimo futuro.

Voto finale: 6,5.

Rising: Courting

Courting

I Courting.

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata agli artisti emergenti. La nostra attenzione oggi è per i Courting, band originaria di Liverpool che suona un indie rock molto ibrido, con forti influenze post-punk.

Courting, “Guitar Music”

Guitar Music

Rileggendo i profili della presente rubrica, molti sono dedicati alla debordante scena indie/punk inglese: Fontaines D.C., black midi, shame, Black Country, New Road… i Courting logicamente sono in parte riconducibili ad alcune di queste band, tuttavia hanno cercato di suonare più strani ed originali, riuscendoci per buona parte dei 32 minuti di “Guitar Music”.

Il CD inizia infatti con una distesa di white noise, su cui Cosplay / Twin Cities si dispiega: siamo quasi in territorio glitch pop. In Loaded invece il frontman Sean Murphy-O’Neill affronta una strofa addirittura con l’autotune. Altrove abbiamo momenti più tipicamente rock, come la riuscita Tennis e la trascinante Famous. Menzione, infine, per il britpop di Jumper, degno dei Blur, e la lunga cavalcata di Uncanny Valley Forever. Resta un po’ fuori contesto proprio Cosplay / Twin Cities, dimenticabile anche Crass (Redux). Possiamo dire che, rispetto all’EP di esordio “Grand National” (2021), in “Guitar Music” abbiamo un suono più vario, ma proprio per questo anche più inconsistente.

In generale, “Guitar Music” è sicuramente “musica per chitarra”, come da titolo, tuttavia intesa in senso lato. Sia chiaro, non siamo di fronte ad un album rivoluzionario, ma i Courting senza dubbio cercano di rendere più originale una miscela sonora che sta diventando forse un tantino troppo frequentata Oltremanica. Quando avranno capito con precisione che direzione dare alla loro estetica, saremo probabilmente davanti ad un altro ottimo complesso punk rock britannico.

Voto finale: 7,5.

Rising: Chat Pile

chat pile

I Chat Pile.

L’esordio della band originaria degli Stati Uniti era degno di una puntata delle rubrica Rising, che ad A-Rock rappresenta una sorta di “tagliando” per la qualità di un giovane artista. Ma andiamo con ordine e analizziamo “God’s Country”, uno dei più brutali album rock del 2022.

Chat Pile, “God’s Country”

god's country

I Chat Pile sono un quartetto statunitense, proveniente da uno degli Stati americani più desolati, l’Oklahoma. Tratti peculiari: terra di minatori, città abbandonate, gravi disuguaglianze… insomma, un incubo, secondo quanto descritto dalla band.

“God’s Country” è un CD potente: metal, noise rock e punk si mescolano in molte tracce, grazie ad una base strumentale sempre efficace ed aggressiva e alla voce di Raygun Busch, a volte cupissima e altre espressiva come quella del miglior Trent Reznor.

Abbiamo poi canzoni che parlano di macellerie, ma forse accennano anche alle stragi compiute con sempre maggiore frequenza (Slaughterhouse); inni di protesta contro i crescenti problemi ad avere una casa propria (Why); Pamela, infine, tratta di un padre che, nell’illusione di poter tornare con la moglie, ammazza il proprio figlio. Menzione da questo punto di vista per alcuni versi contenuti nelle tracce che compongono “God’s Country”: “All the blood, all the blood… And the fuckin’ sound, man” (Slaughterhouse); “Broken faces and jamming fingers and goddamn dust in my eyes for the rest of my life” (The Mask); e infine “It’s the sound of a fuckin’ gun, it’s the sound of your world collapsing” (Anywhere).

Insomma, un LP non per deboli di cuore, sia musicalmente che liricamente. I Chat Pile, del resto, non vogliono scrivere canzoni commerciali, malgrado pezzi come Anywhere e Pamela siano, tutto sommato, appetibili anche ad un pubblico non di nicchia. Lo scopo della band, come dichiarato in varie interviste, è in realtà quello di catturare l’ansia e la paura di vedere il mondo che si autodistrugge, a causa dell’attività umana. Menzione, infine, per la folle cavalcata finale di grimace_smoking_weed_jpeg; meno comprensibile, invece, il momento intimista di I Don’t Care If I Burn.

L’estate 2022 è stata, in effetti, un periodo tragico sotto vari punti di vista, non ultimo quello ambientale, che ha fatto capire una volta per tutte i danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla nostra vita di tutti i giorni. “God’s Country”, pur essendo un titolo molto americano, in realtà è riferibile a molti Paesi: i Chat Pile, pur con un sound ancora da raffinare e una rabbia che terrà lontano il pubblico più mainstream, lo hanno capito e hanno composto una colonna sonora terribile, ma proprio per questo azzeccata.

Voto finale: 8.

Recap: aprile 2022

Aprile è stato davvero un mese ricchissimo di uscite imperdibili, in ogni genere: hip hop, rock, dream pop… A-Rock ha recensito i nuovi lavori di Jack White, Red Hot Chili Peppers, Father John Misty e Vince Staples. Come se non bastasse, abbiamo analizzato anche il ritorno di Kurt Vile, dei Fontaines D.C. e degli Spiritualized. Come dimenticare poi la pubblicazione del nuovo lavoro di Pusha T, il secondo CD dell’australiana Hatchie e il ritorno dei Bloc Party? Buona lettura!

Fontaines D.C., “Skinty Fia”

skinty fia

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativ), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

Voto finale: 8,5.

Jack White, “Fear Of The Dawn”

Fear of the-Dawn

Il nuovo CD di Jack White, il primo dei due annunciati per il 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Voto finale: 8.

Father John Misty, “Chloë And The Next 20th Century”

chloe and the next 20th century

Il quinto CD di Josh Tillman firmato con il nome d’arte di Father John Misty è una reinvenzione radicale: il cantautore folk rock sbruffone e logorroico che abbiamo imparato a conoscere e amare (oppure disprezzare) negli scorsi anni in CD come “I Love You, Honeybear” (2015) e “Pure Comedy” (2017) lascia il posto ad un narratore che fa degli anni ’50 il suo riferimento. Siamo in piena atmosfera golden age hollywoodiana: big band, swing e jazz sono i tre generi che, inaspettatamente, spesso affiorano nel corso di “Chloë And The Next 20th Century”, si senta Chloë a riguardo per un assaggio.

Ci eravamo lasciati con “God’s Favourite Customer” (2018), un CD più semplice del passato e pensavamo che la parabola di FJM sarebbe proseguita sulla stessa traiettoria; invece, “Chloë And The Next 20th Century” apre prospettiva nuovissime per Tillman. Già il titolo è un tuffo nel passato: cosa intende Tillman con la menzione del ventesimo secolo? In realtà, studiando attentamente i testi e immergendosi nelle atmosfere oniriche del CD, il riferimento è più chiaro. Il futuro, secondo Father John Misty, non esiste; o meglio, meglio non pensarci, visto il drammatico momento storico che stiamo vivendo… quasi come se fossimo ancora nel XX secolo, quello delle due guerre mondiali e di svariate altre tragedie.

La Chloë citata spesso nel corso del lavoro è, in fondo, solo uno dei tanti personaggi dissoluti che abitano le undici canzoni che formano “Chloë And The Next 20th Century”: una starlet del mondo cinematografico, il cui partner precedente è tragicamente deceduto. Ben sei morti arrivano nel corso del CD, di cui una, la più toccante, è quella del gatto del narratore, oggetto della bellissima Goodbye Mr Blue.

Se abbiamo highlights come la citata Goodbye Mr Blue, Funny Girl e Q4, non tutto il resto dell’album gira a meraviglia: ad esempio, Kiss Me (I Loved You) e We Could Be Strangers sono inferiori alla media dei componimenti del lavoro. Tuttavia, l’ambizione di Father John Misty, completamente calato in questa nuova surreale atmosfera, rende anche questi momenti in qualche modo memorabili. Menzione, infine, per Olvidado (Otro Momento), il momento bossa nova (!!) che nessuno si aspettava da Josh Tillman.

“Chloë And The Next 20th Century”, in conclusione, è il meno “tillmaniano” degli LP a firma Father John Misty. I risultati non sono perfetti, ma tengono alta la bandiera del cantautorato più ricercato e creano nuovi, inesplorati spazi per la carriera futura di uno dei più talentuosi musicisti americani della sua generazione.

Voto finale: 8.

Pusha T, “It’s Almost Dry”

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Il quarto album solista di Pusha T non aggiunge nulla ad un’estetica ormai ben conosciuta: rime dure, basi potenti, testi molto gangsta rap, ospiti scelti con cura. “It’s Almost Dry”, in questo senso, può essere una delusione per coloro che cercano un disco rap avventuroso e sperimentale; ma, del resto, chi ascolta King Push con queste idee in testa al giorno d’oggi?

Il CD segue “Daytona” (2018), da molti riconosciuto come il miglior lavoro a firma Pusha T dai tempi dei Clipse, il duo formato col fratello No Malice con cui si è fatto conoscere nei primi anni ’00. Le sette canzoni, prodotte da Kanye West, erano tanto dure quanto irresistibili; in questo “It’s Almost Dry” è più variegato, potendo contare anche sulla collaborazione di Pharrell Williams, JAY-Z e Kid Cudi tra gli altri, oltre all’amico Kanye.

I risultati, pur leggermente inferiori, sono comunque buoni e paragonabili a “Daytona”, specialmente nei momenti migliori: ad esempio la doppietta iniziale formata da Brambleton e Let The Smokers Shine The Coupes, così come Diet Coke e Neck & Wrist, sono tracce di ottima fattura. Invece inferiori alla media Rock N Roll e Scrape It Off, ma complessivamente i 35 minuti di “It’s Almost Dry” scorrono bene e il CD mostra una coesione e una compattezza non facili da trovare in molti lavori hip hop recenti.

Liricamente, prima accennavamo al fatto che Pusha T sa essere tanto sincero quanto feroce nelle sue canzoni: molti ricorderanno il suo diss con Drake, concluso con la stratosferica The Story Of Adidon. Ebbene, in “It’s Almost Dry” il bersaglio del Nostro è l’ex manager dei Clipse, Anthony Gonzalez, che è stato condannato a otto anni in carcere per aver gestito un cartello della droga da 20 milioni di dollari. In un’intervista del 2020 Gonzalez dichiarò: “il 95% dei brani dei Clipse parlavano della mia vita”. A tal proposito, il verso più potente è racchiuso in Let The Smokers Shine The Coupes: “If I never sold dope for you, then you’re 95 percent of who?”.

In generale, pertanto, “It’s Almost Dry” è un buon CD hip hop vecchio stampo. Il 44enne Pusha T dimostra ancora una volta la propria, pregiata stoffa: non staremo parlando del suo miglior lavoro, ma certamente questo disco merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7,5.

Red Hot Chili Peppers, “Unlimited Love”

unlimited love

Sedici anni dopo “Stadium Arcadium”, John Frusciante è tornato nel gruppo. I Red Hot Chili Peppers, al loro dodicesimo album di inediti, ritornano quasi naturalmente alle atmosfere dei primi anni ’00: i risultati non saranno radicali come ai loro esordi o semi-perfetti come ai tempi di “Californication” (1998), ma “Unlimited Love” migliora i risultati degli ultimi lavori del complesso e allunga, chissà per quanto, la gloriosa storia del gruppo californiano.

Pur troppo lungo di almeno 10-12 minuti, con canzoni evitabili come The Great Apes e One Way Traffic, il CD suona bene, organicamente, nel modo in cui ormai siamo abituati che suoni un disco dei Red Hot Chili Peppers: alternativo ma non troppo, con tre grandi musicisti (il batterista Chad Smith, il bassista Flea e John Frusciante alla chitarra) ad accompagnare i deliri di Anthony Kiedis. In più, vi sono perle pop come Not The One, che ricorda (pur con risultati peggiori) la grande hit Snow (Hey Oh) del 2006.

Il pezzo migliore è il primo singolo utilizzato per promuovere il CD, la brillante Black Summer, ma non trascuriamo Here Ever After e Aquatic Mouth Dance (quest’ultima con testo ai limiti dell’assurdo). Non male anche It’s Only Natural. Invece deludono le già menzionate The Great Apes e One Way Traffic, ma anche Whatchu Thinkin’ non è all’altezza.

L’aspetto lirico di “Unlimited Love” è problematico, ma allo stesso tempo semplice: Frusciante e co. non sono mai stati grandi autori, semplicemente non è di loro interesse. Nel corso delle 17 canzoni che compongono il CD abbiamo: un’invettiva sul traffico (One Way Traffic), la descrizione della cosiddetta “aquatic mouth dance” nell’omonima canzone, Kiedis che intona il seguente verso: “Please, love, can I have a taste? I just wanna lick your face” (She’s A Lover). No, non siamo di fronte a Bob Dylan.

In conclusione, “Unlimited Love” è un LP che piacerà molto a chi è fan (o lo è stato in passato) dei RHCP: i quattro californiani non hanno perso nulla della loro irriverenza e voglia di far ballare il pubblico. Chi si aspettava novità nel sound della band farà meglio a passare la prossima volta: pare che la band abbia già pronta un’altra raccolta di inediti. Di certo possiamo dire che “Unlimited Love” supera in qualità sia “I’m With You” (2011) che “The Getaway” (2016), i due CD incisi con Josh Klinghoffer in mancanza del leggendario John Frusciante. L’assenza di quest’ultimo è stata profondamente avvertita, ma godiamoci questo momento di pace, con la band al completo: potrebbe non durare.

Voto finale: 7,5.

Hatchie, “Giving The World Away”

giving the world away

Il secondo album della giovane cantante dream pop australiana migliora molti aspetti rispetto all’acerbo esordio “Keepsake” del 2019, cercando una maggiore varietà sia nei testi che nell’offerta artistica. Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma “Giving The World Away” apre opzioni interessanti per Hatchie.

Avevamo recensito “Keepsake” in un profilo della rubrica Rising, scrivendo che, pur dimostrando del potenziale, Hatchie aveva ancora da percorrere molta strada prima di affermarsi definitivamente. Tre anni dopo, con in mezzo una devastante pandemia, Harriette Pillbeam (questo il vero nome di Hatchie) ha composto un lavoro che non lavora solamente sui noti terreni dream pop e shoegaze, con chiari rimandi agli anni ’90, ma cerca di esplorare anche terreni nuovi come la dance (Quicksand) e il pop zuccheroso da classifica (Take My Hand).

L’inizio è folgorante: Lights On e This Enchanted rappresentano due ottimi brani, pur avendo il primo chiari rimandi al passato e il secondo essendo un pezzo shoegaze probabilmente già composto meglio dagli Slowdive ai tempi di “Souvlaki” (1993). Purtroppo, arrivano poi due episodi molto deboli, le prevedibili Twin e Take My Hand. Un po’ tutto il CD ha queste montagne russe in termini di qualità, circostanza che influenza negativamente i risultati complessivi. Più avanti nella tracklist abbiamo, ad esempio, la monotona title track accostata alla buona The Key.

In termini lirici, se in “Keepsake” eravamo di fronte ad un breakup album piuttosto convenzionale, in “Giving The World Away” emergono le conseguenze che i lockdown pandemici hanno avuto sulla psiche dell’australiana: Pillbeam, infatti, ha addirittura messo in discussione il suo futuro nel mondo della musica. Nel singolo Quicksand, ad esempio, Hatchie dichiara sconsolata: “I used to think that this was something I could die for. I hate admitting to myself that I was never sure”. In The Key sentiamo invece: “Lost sight of who I’m supposed to be, but within the chaos I can see I’m not me”. Sunday Song probabilmente contiene i versi più malinconici: “Sick of waiting for something heaven sent… Can’t you see all that I see in you?”.

In conclusione, “Giving The World Away” mantiene Hatchie nel percorso intrapreso in “Keepsake”, cercando allo stesso tempo di innovare il sound della cantante australiana. Il CD rappresenta sicuramente un progresso e ci fa pensare che il meglio debba ancora venire nella carriera di Harriette Pillbeam.

Voto finale: 7,5.

Spiritualized, “Everything Was Beautiful”

everything was beautiful

Il nuovo disco della band capitanata da Jason Pierce aka J. Spaceman prosegue il percorso nel genere space rock intrapreso fin da inizio carriera, inserendo allo stesso tempo dei rimandi blues innovativi, ma non sempre centrati. I risultati non saranno i migliori di una carriera che ha visto in passato dei capolavori come “Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space” (1997), ma dimostrano che siamo di fronte ad una band viva e pronta a sfidare le proprie convenzioni.

“Everything Was Beautiful” segue “And Nothing Hurt” (2018) e completa una celebre frase di Kurt Vonnegut, anche se invertendone le due parti. Il precedente CD era stato annunciato come l’ultimo della band britannica, ma la presenza di “Everything Was Beautiful” non va presa come un mero modo di spremere più denaro dai fan. Anzi, vale il contrario: il pubblico affezionato allo space rock più sognante degli Spiritualized sarà deluso da parentesi molto à la Rolling Stones come Best Thing You Never Had (The D Song), un pezzo puramente blues. Lo stesso dicasi per The A Song (Laid In Your Arms), a dire il vero il momento più debole del lotto.

In generale, comunque, i 44 minuti del lavoro scorrono agilmente e il CD merita più di un ascolto per essere analizzato con la dovuta attenzione. Rispetto a “And Nothing Hurt”, il lavoro è decisamente più vario, ma non migliore: semplicemente, Pierce e compagni stavolta hanno voluto sperimentare, con risultati alterni.

Se infatti Let It Bleed (For Iggy) è buona, delude la già citata The A Song (Laid In Your Arms). Highlight del disco resta l’introduttiva Always Together With You, uno dei migliori brani della produzione recente degli Spiritualized. Buona anche la dolce Crazy.

In conclusione, non tutto di “Everything Was Beautiful” convince appieno, però gli Spiritualized si dimostrano ancora nel pieno delle forze, pur con trent’anni di carriera alle spalle (!). Già questa è una ottima notizia.

Voto finale: 7.

Kurt Vile, “(watch my moves)”

watch my moves

Arrivato quattro anni dopo “Bottle It In”, il nuovo CD del cantautore americano Kurt Vile riprende da dove lo avevamo lasciato: folk rock di qualità, rilassante e mai troppo eccentrico. Gli amanti del cantautorato vecchia maniera troveranno pane per i loro denti; gli altri, beh, magari non lo gradiranno appieno, ma “(watch my moves)” merita almeno un ascolto.

A dire il vero “Bottle It In” (2018) non è l’ultimo lavoro a firma Kurt Vile prima di questo: il breve EP di cover “Speed, Sound, Lonely KV” (2020) era parso un omaggio ai fan durante il lockdown, ma non per questo era da ignorare. “(watch my moves)” è un LP lungo e denso (73 minuti per 15 canzoni complessive), con durate dei brani molto varie, dai due minuti scarsi a oltre sette, senza contare (shiny things), brevissimo intermezzo di 58 secondi. Tuttavia, il mood generale del disco è piuttosto uniforme, un plus ma anche un minus, soprattutto sulla lunga distanza.

Ad ogni modo, Kurt piazza comunque due ottimi brani, Mount Airy Hill (Way Gone) e Jesus On A Wire (che vanta la collaborazione di Cate Le Bon) sono infatti gli highlights assoluti del lavoro. Menzioniamo poi Wages Of Sin, canzone poco conosciuta di Bruce Springsteen la cui cover è presente nella parte finale della tracklist di “(watch my moves)”. Invece l’iniziale Goin On A Plane Today e Kurt Runner sono un po’ monotone, ma sono da mettere in conto in un album di Vile, così come i testi surreali.

A questo proposito, menzioniamo i due versi più significativi: “Thoughts become pictures become movies in my mind, welcome to the KV horror drive in movie marathon… But I’m just kidding and I’m just playing” (Like Exploding Stones); “Even if I’m wrong, gonna sing-a-my song till the ass crack o’ dawn… And it’s probably gonna be another long song” (Fo Sho). Non è mai chiaro se prendere seriamente o meno le dichiarazioni del Nostro, ma la sua sottile ironia mischiata con le acute osservazioni sul presente lo rendono un narratore magari inaffidabile, ma godibile.

In conclusione, “(watch my moves)” non aggiunge nulla di significativo ad una discografia che si conferma solida: magari non saremo ai livelli degli ottimi CD dei primi anni ’10 “Smoke Ring For My Halo” (2011) e “Wakin’ On A Pretty Daze” (2013), ma anche quest’ultimo disco non lascerà l’amaro in bocca ai fan di Kurt Vile. Se cercate innovazione o rock sperimentale, passate oltre.

Voto finale: 7.

Vince Staples, “RAMONA PARK BROKE MY HEART”

ramona park broke my heart

Il quinto lavoro del rapper californiano è stato composto durante le stesse sessioni che avevano portato a “Vince Staples” del 2021. Le aspettative erano ambivalenti: da un lato, da uno del talento di Staples è sempre lecito aspettarsi un lavoro di qualità. Dall’altro, però, “Vince Staples” era stato visto da molti (compresi noi di A-Rock) come il CD più debole della sua produzione; pertanto, un disco “gemello” non avrebbe aggiunto nulla ad una carriera che pareva in leggera flessione.

“RAMONA PARK BROKE MY HEART” prosegue in parte il percorso intrapreso nel precedente lavoro, ma riesce a migliorarne alcuni aspetti. Ad esempio, la voce annoiata di Vince rimane, quasi come se lui volesse staccarsi dalle storie drammatiche che vengono narrate nel corso delle sedici canzoni che compongono il CD. Allo stesso tempo, però, le basi sono più variegate e vive, rendendo il lavoro complessivamente più gradevole e digeribile. Menzione per i pochi, ma azzeccati ospiti presenti nel corso del lavoro: Mustard, Lil Baby e Ty Dolla $ign contribuiscono a rendere le canzoni in cui sono presenti più imprevedibili, basti citare EAST POINT PRAYER (con Lil Baby) e LEMONADE (con Ty Dolla $ign).

Gli highlights del lavoro sono ROSE STREET e WHEN SPARKS FLY, mentre deludono gli intermezzi NAMELESS e THE SPIRIT OF MONSTER KODY. In generale, “RAMONA PARK BROKE MY HEART” si staglia  come un album con uno sguardo sul passato, soprattutto sulle drammatiche traversie passate dal Nostro nel corso della sua ancora giovane vita. Ad esempio, in WHEN SPARKS FLY Vince dichiara: “I’m ashamed to say I think I hate you now… ‘cause I can’t save you now”. Altrove il tono è meno malinconico, anzi quasi orgoglioso: “It’s handshakes and hugs when I come around” (MAGIC).

Sia chiaro, i tempi gloriosi dell’esordio “Summertime ‘06” (2015) oppure dello sperimentale “Big Fish Theory” (2017) sono purtroppo lontani; tuttavia, “RAMONA PARK BROKE MY HEART” recupera un po’ del mordente che aveva reso il nome Vince Staples uno dei più caldi del panorama hip hop americano nello scorso decennio. Non si tratta di un capolavoro, però speriamo che la ripartenza sia dietro l’angolo per Staples.

Voto finale: 7.

Bloc Party, “Alpha Games”

alpha games

I Bloc Party mancavano dalle scene da ben sei anni: al 2016 risale infatti “Hymns”, il disco che all’epoca definimmo come un deciso cambio di passo, ma nella direzione sbagliata. Mischiando gospel con melodie elettroniche, il CD era un fiasco su più o meno tutta la linea, facendo rimpiangere non solo i tempi del fondamentale “Silent Alarm” (2005), ma anche di “A Weekend In The City” (2007).

“Alpha Games”  ritorna alle sonorità indie rock che hanno fatto la fortuna del gruppo britannico, un po’ quanto tentato da “Four” (2012): anche in questa occasione, tuttavia, l’energia dei tempi migliori non è presente nella maggior parte dei brani. Abbiamo momenti interessanti come l’iniziale Day Drinker, in cui il cantato di Kele Okereke rasenta l’hip hop, oppure la buona Traps. Accanto a questi troviamo però Rough Justice e By Any Means Necessary, che sembrano b-side dei tempi d’oro del gruppo. Peccato poi che Callum Is A Snake, con potente base punk, duri solo due minuti.

Il maggior problema di “Alpha Games” è che pare estratto da un anno a caso tra il 2001 e il 2007: i Bloc Party, malgrado i cambi di formazione avvenuti nel corso degli anni, che hanno portato Gordon Moakes (basso) e Matt Tong (batteria) ad essere rimpiazzati, con perdite, da Justin Harris e Louise Bartle, sono tornati alla fine alle sonorità delle origini, ovviamente con minor impatto e ispirazione.

Pur rappresentando quindi un progresso rispetto ad “Hymns”, “Alpha Games” resta un lavoro mediocre, in cui i Bloc Party si aggrappano a quello che sanno fare meglio (un indie rock sbarazzino e ballabile) con disperazione, forse sapendo che mai torneranno alla miracolosa creatività che ha reso “Silent Alarm” un disco fondamentale degli anni ’00.

Voto finale: 6.

Rising: SOUL GLO & Wet Leg

Quest’oggi la rubrica Rising parla di due gruppi: uno punk statunitense, i SOUL GLO, che sta riscrivendo le regole del genere attraverso un aggressivo mix che integra hip hop e metal; e un duo indie rock tutto femminile di origine inglese, le Wet Leg. Buona lettura!

SOUL GLO, “Diaspora Problems”

Diaspora Problems

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

Voto finale: 8,5.

Wet Leg, “Wet Leg”

wet leg album

L’esordio del duo originario dell’Isola di Wight è una ventata di novità nello scenario indie rock d’Oltremanica, salutato da recensioni entusiastiche nella madrepatria, forse troppo (spicca il 10/10 di NME), ma anche negli Stati Uniti (8/10 da parte di Rolling Stone, ad esempio). In sintesi: siamo di fronte ad uno dei CD con maggiore hype degli ultimi tempi. I risultati? Soddisfacenti.

“Wet Leg” contiene innumerevoli citazioni di artisti del passato: I Don’t Wanna Go Out contiene esattamente lo stesso riff di The Man Who Sold The World di David Bowie. Abbiamo poi riferimenti ad Arctic Monkeys, The Strokes, Blur, Pavement, addirittura My Bloody Valentine (la quasi shoegaze Valentine)… insomma, ogni fan dell’indie rock più o meno recente troverà pane per i suoi denti. Aggiungiamo dei testi sbarazzini, quando non completamente nonsense, e il quadro sarà completo.

Una cosa è certa: Rhian Teasdale and Hester Chambers, le due giovanissime che formano le Wet Leg, si divertono molto. Sono anche baciate dal successo, forse in parte imprevisto: nel Regno Unito Chaise Longue, uno dei migliori brani del lotto, è una hit fatta e finita. Buone poi Valentine e Loving You, mentre sotto la media Supermarket e Oh No. Menzione, infine, per Too Late Now, che chiude ottimamente il lavoro.

Dicevamo che liricamente il CD lascia a desiderare: legittimo, considerando che parliamo di due ragazze al loro primo lavoro. Tuttavia, rime come “You’re so woke, Diet Coke” (Oh No) sono davvero evitabili. Altrove emerge invece un occhio molto acuto: esemplare Piece Of Shit, in cui le Wet Leg se la prendono con la mascolinità tossica che ancora oggi troppe volte emerge: “I’m such a slut? Alright, whatever helps you sleep at night”. Infine, menzione per un verso molto giovanilistico, ma non per questo banale: “Are you gonna stay young forever? You said yeah—and I just walk away”, contenuto in I Don’t Wanna Go Out.

In conclusione, “Wet Leg” è un esordio che merita almeno un ascolto: la ricetta di Teasdale e Chambers potrà suonare a tratti troppo derivativa, ma l’energia e la spontaneità dei migliori momenti del lavoro fanno intravedere un notevole talento. Vedremo in futuro se le Wet Leg manterranno queste aspettative o meno: di tempo per farlo ne hanno a volontà.

Voto finale: 7,5.