Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 50 migliori album del 2021 (25-1)

Il momento è giunto: siamo arrivati all’appuntamento più atteso per i fan di A-Rock, la seconda e più pregevole parte della classifica dei 50 migliori dischi dell’anno, quella che contiene le posizioni dalla 25 alla 1!

Nella prima metà abbiamo trovato artisti importanti, come Lorde, Lana Del Rey e The Killers. Chi si sarà aggiudicato il titolo di miglior CD del 2021? Buona lettura!

25) Paul McCartney, “McCartney III”

(POP – ROCK)

È vero, parliamo di un album di fine 2020, ma non potevamo lasciare l’ultimo lavoro di Sir Paul fuori dalla nostra classifica. Sir Paul McCartney non ha bisogno di introduzione: la sua è ormai una carriera leggendaria che, giunta al ventunesimo (!!) album di inediti, non vuole proprio fermarsi. “McCartney III” è la chiusura ideale della trilogia iniziata con l’esordio solista del 1970, “McCartney”, e proseguita poi con “McCartney II” (1980). La caratteristica di tutti questi CD è di essere suonati interamente da Paul in persona, che li ha spesso utilizzati per i suoi esperimenti più arditi (ad esempio Temporary Secretary), con atmosfere decisamente meno pop di un tipico disco dei Beatles, ma sempre appetibili da una larga fetta di pubblico.

“McCartney III” non è da meno: le 11 canzoni vanno dall’esperimento folk-blues di Long Tailed Winter Bird al pop-rock della squisita Find My Way al pop beatlesiano di Pretty Boys, per poi sfociare nella stramba Deep Deep Feeling, ben otto minuti di rock à la David Bowie su morbide tastiere. Insomma, un pot-pourri mai scontato, decisamente non coeso ma intrigante nel complesso. I risultati migliori Paul li raggiunge in Find My Way e Pretty Boys, mentre delude un po’ Women And Wives.

Liricamente, McCartney cerca di calarsi nella drammatica temperie storica del 2020: il CD, uscito a dicembre dello scorso anno, rievoca la triste condizione di isolamento totale in cui è stato arrangiato, specialmente in Find My Way (“You never used to be afraid in days like these, but now you’re overwhelmed by your anxieties” è un verso potente) e Seize The Day, che nella semplicità della lirica “It’s still alright to be nice” ci ricorda che la gentilezza è una qualità sottovalutata, specialmente in tempi di pandemia.

Un cantante della caratura di Paul McCartney, che era stato in grado di restare sulla cresta dell’onda anche negli anni ’10 del XXI secolo grazie alle collaborazioni di successo con Mark Ronson (Alligator e New) e Kanye West con Rihanna (FourFiveSeconds), aveva prodotto con “Egypt Station” (2018) un album lungo e caotico, che faceva presagire un’ispirazione ormai esaurita per il cantautore inglese. Ritrovarlo in così buona forma solo due anni dopo, capace di stupirci come ai bei tempi, è un’ulteriore dimostrazione che, nella musica, l’età non conta.

24) Indigo De Souza, “Any Shape You Take”

(ROCK)

Il secondo disco della cantante è una boccata di aria fresca in una scena indie rock un po’ ferma nel 2021. “Any Shape You Take” migliora ogni aspetto dell’esordio “I Love My Mom” (2018), passato un po’ in sordina: sia a livello compositivo che lirico Indigo si conferma matura e pronta a scrivere pagine importanti del genere nei prossimi anni.

I riferimenti della Nostra sono chiari: PJ Harvey, Fiona Apple e Alanis Morissette sono le prime icone femminili del pop-rock che vengono in mente ascoltandola. Tuttavia, De Souza non si limita a prendere spunto da queste grandi autrici: innestando su questa ricetta elementi grunge e quasi sperimentali (si senta Real Pain a tal proposito), “Any Shape You Take” è un CD figlio dei nostri tempi: in bilico fra speranza e disperazione, la giovane Indigo De Souza dimostra in realtà una maturità sorprendente.

Testualmente, infatti, la cantautrice è capace di trasmettere le sensazioni provate a causa di una relazione tossica del passato attraverso le urla disperate di Real Pain così come di farti sentire protetto in Hold U, quando canta “I will hold you” e “You are a good thing, I’ve noticed” convintamente. In Way Out appare il suo lato più sognatore quando sentiamo dirle “I wanna be a light”, mentre in Kill Me si riappropria di un tema a lei caro fin dal precedente album: “Call your mother, tell her you love her… Call my mother and tell her the same”.

In alcune canzoni, come la già citata Real Pain e Bad Dream, prevale un pessimismo molto forte; in altre, come 17, i toni sono più distesi. I pezzi migliori sono Hold U e Kill Me, mentre un po’ sotto la media Way Out. In generale, va detto, l’indie rock robusto, sperimentale a tratti di “Any Shape You Take” si fa quasi sempre apprezzare e i 38 minuti di durata del disco spingono il replay value (a differenza degli ultimi prolissi lavori di Drake e Kanye West, tanto per capirsi).

In conclusione, Indigo De Souza si conferma ragazza con del potenziale e “Any Shape You Take” è un CD molto interessante. Vedremo se in futuro saprà fare meglio, per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori dell’anno nel genere indie rock.

23) Lucy Dacus, “Home Video”

(ROCK)

Il terzo album a firma Lucy Dacus è un altro passo avanti in una discografia sempre più ricca. Dopo l’esordio raccolto di “No Burden” (2016) e il magnifico “Historian” (2018), questo lavoro è una svolta in direzione quasi pop. I pezzi sono più brevi e con ritornelli più accattivanti; non per questo, tuttavia, bisogna concludere che Lucy si sia “venduta”, contando anche i temi affrontati nel corso di “Home Video”.

Fin da subito, sulla stampa e tra i fan si sono scatenati i parallelismi con “Punisher”, il CD uscito l’anno passato e che ha fatto dell’amica Phoebe Bridgers un nuovo pilastro del mondo indie, con tanto di candidatura ai Grammy. In effetti, le somiglianze fra i due album sono numerose: il sound è indie rock con occasionali episodi folk, i temi trattati sono intimi e personali… Allo stesso modo, alcuni esperimenti della Dacus fanno di “Home Video” un LP autonomo e non indebitato con alcuna delle giovani donne che stanno rivoluzionando l’indie rock (basti citare, oltre a Phoebe Bridgers, anche Julien Baker e Courtney Barnett).

Dicevamo che Lucy affronta il proprio passato nel corso del CD: la sua gioventù non è stata semplice, essendo stata cresciuta a Richmond, in Virginia, da una famiglia conservatrice e molto religiosa, lei che da bisessuale è sempre stata nel mirino dei più intransigenti. L’iniziale, bellissima Hot & Heavy contiene il seguente verso: “You used to be so sweet, now you’re a firecracker on a crowded street”; invece VBS contiene una profezia fatta da un sacerdote, “A preacher in a t-shirt told me I could be a leader”. Tuttavia, nella stessa canzone la sua figura è ambivalente: “All it did, in the end, was make the dark feel darker than before”.

Il lavoro, nella sua onestà, a volte è davvero toccante, così come le melodie: oltre la già citata Hot & Heavy, ottime anche First Time e Thumbs. Invece inferiori alla media Partner In Crime, in cui Lucy sperimenta addirittura l’uso dell’autotune, con risultati controversi, e Christine.

In conclusione, “Home Video” è un CD molto nostalgico, in cui i ricordi dell’infanzia e della gioventù sono presentati in tutta la loro crudezza da una Lucy Dacus mai così aperta. Speriamo che il disco abbia, come “Punisher”, i riconoscimenti che merita. La cantautrice americana, infatti, si conferma tra le migliori nel suo genere e rafforza il suo status di ragazza prodigio.

22) SPIRIT OF THE BEEHIVE, “ENTERTAINMENT, DEATH”

(ROCK)

Il trio originario di Philadelphia ha dato origine, con “ENTERTAINMENT, DEATH”, a uno degli album più imprevedibili degli ultimi anni. Indie rock, psichedelia, noise, pop: tutto si mescola nel corso del CD. Canzoni brevi, sui tre minuti, ma anche una suite di quasi sette minuti: di tutto e di più anche in termini di durata delle melodie. Zack Schwartz, Rivka Ravede e Corey Wichlin, al loro quarto lavoro, confermano il bene che si diceva di loro anche riguardo i precedenti lavori.

Se c’è una differenza, è nella produzione: il lavoro è più curato rispetto al passato, sintomo di una maggiore autorevolezza anche in sede di etichetta discografica. I risultati, malgrado a volte siano fin troppo confusionari, sono a tratti irresistibili: la struttura tipica delle canzoni popolari è stravolta, spesso all’interno della stessa melodia (si senta a riguardo THERE’S NOTHING YOU CAN’T DO). ENTERTAINMENT inizia come un pastiche noise sperimentale, poi sboccia in un pezzo che richiama gli anni ’60. GIVE UP YOUR LIFE sembra quasi un brano del Ty Segall più psichedelico, DEATH invece rievoca i primi Pink Floyd. C’è un brano che si intitola I SUCK THE DEVIL’S COCK… Nessun commento aggiuntivo sul significato.

In generale, possiamo dire che l’umorismo non fa difetto alla band americana. Anche molte liriche testimoniano questo atteggiamento, a metà fra lo scanzonato e il nichilista: “Dust picks up and swallows us whole” canta convintamente Schwartz in ENTERTAINMENT. Invece in I SUCK THE DEVIL’S COCK lo sentiamo proclamare: “Another middle-class dumb American, falling asleep. He don’t appreciate constructive criticism”, compreso l’errore grammaticale. Infine, in RAPID & COMPLETE RECOVERY, abbiamo il verso più sognante ed evocativo del lotto: “Spanning lifetimes compressed in a vacuum, no limitations, you know what comes after”.

In concreto, però, malgrado questi momenti leggeri, il CD suona claustrofobico e ansiogeno; sentimenti che purtroppo tutti abbiamo provato nel corso dell’ultimo anno, colpiti come siamo dalla pandemia e dalle sue conseguenze. Non per questo però dobbiamo ignorare gli SPIRIT OF THE BEEHIVE; anzi, la band di Philadelphia, con “ENTERTAINMENT, DEATH” potrebbe avere scritto uno dei più originali album pandemici. Non un traguardo da poco, in un panorama musicale sempre più omologato.

21) For Those I Love, “For Those I Love”

(ELETTRONICA)

Il progetto For Those I Love incarna in realtà l’estetica di una sola persona, l’irlandese David Balfe: la genesi dell’album di esordio di questo nuovo protagonista della scena elettronica è davvero tragica.

Nel 2018 Paul Curran, grande amico e partner musicale di Balfe, si è tolto la vita; da quel momento David ha cercato di onorare nel modo giusto la memoria di Curran e di riportare alla memoria i bei momenti vissuti insieme. “For Those I Love”, come il titolo indica, è dedicato anche ai cari ancora in questo mondo: spesso nel modo di cantare di Balfe, quasi “spoken word” data la scarsa espressività della voce, si menzionano i familiari del Nostro e il fondamentale ruolo che hanno avuto e hanno tuttora nella vita del cantautore irlandese.

Ma in cosa consiste musicalmente il lavoro? “For Those I Love” è un ottimo CD di musica elettronica: le basi vanno dalla house alla trance, passando per momenti più psichedelici. I momenti migliori sono le iniziali I Have A Love e You Stayed / To Live, ma anche la più tranquilla The Shape Of You risalta. Invece è inferiore alla media Top Scheme. In generale, si possono rintracciare influenze di Burial, Chemical Brothers e The Avalanches, con tocchi dei Primal Scream più rave, ma For Those I Love riesce a suonare originale, anche per il modo di affrontare un lutto altrimenti insopportabile.

I versi che restano impressi sono numerosi: “I felt like I had it all. I have a love, and it will never fade and neither will you, Paul. I love you bro” in I Have A Love è il più toccante di tutti. In Top Scheme viene alla luce il lato più politico e nichilista di Balfe: “It seems sometimes the love in these songs isn’t enough – because the world is fucked”. Infine, in Birthday / The Pain, abbiamo un momento filosofico, con più di un fondo di verità: “So we’ll spend the rest of our lives being brave, and hope that things will change, and age will still mark the time in the same way”.

“For Those I Love” non è un LP perfetto, come invece sostengono molte pubblicazioni inglesi (fra cui NME), ma certamente l’Irlanda si conferma terra ricca di spunti. Se prima la elogiavamo soprattutto per la scena punk e rock (U2, My Bloody Valentine e Fontaines D.C. ne sono luminosi esempi), anche nell’elettronica abbiamo trovato un nuovo esponente che pare destinato a scrivere pagine importanti in futuro.

20) Parannoul, “To See The Next Part Of The Dream”

(ROCK)

L’opera prima del misterioso progetto coreano Parannoul è un disco shoegaze in bassa fedeltà. Pochissimi sanno chi ci sia dietro al nome d’arte Parannoul: di certo sappiamo solo che è uno studente di Seul, che si descrive “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”. Inoltre, descrive le sue doti canore come “pessime”. Insomma, tutto congiura contro Parannoul: ma allora come è possibile che “To See The Next Part Of The Dream” sia un buon disco shoegaze?

Partiamo dal fatto che, per i cultori della perfezione musicale, magari amanti dei My Bloody Valentine, questo CD non rientra nei canoni dello shoegaze. I suoni sono sporchi, la fedeltà molto bassa, la voce pressoché inintelligibile… allo stesso tempo, però, le progressioni chitarristiche della lunghissima White Ceiling (dieci minuti precisi!) e dell’iniziale Beautiful World catturano l’ascoltatore meno pignolo. I riferimenti sono chiari: Ride, Slowdive, i primi M83… ma il dream pop di Extra Story e la quasi post-hardcore Youth Rebellion sono outliers davvero interessanti, che aprono nuove strade a Parannoul.

Anche le liriche, seppur cantate in coreano, se tradotte sono molto profonde, spesso disperate: “I wish no one had seen my miserable self, I wish no one had seen my numerous failures, I wish my young and stupid days to disappear forever” ne è solo l’esempio più calzante (Beautiful World). Il malessere giovanile è subito percepibile, così come la cultura emo che permea molta parte del CD.

In conclusione, “To See The Next Part Of The Dream” è un buon LP, di quelli che fanno capire quanto Internet possa essere benefico. Chi avrebbe mai sentito parlare di Parannoul e di questo album senza Bandcamp, Spotify e co.?

19) Wolf Alice, “Blue Weekend”

(ROCK)

Reduci dal grande successo di “Visions Of A Life” (2017), che li ha portati a vincere il primo Mercury Prize della loro giovane carriera, i Wolf Alice hanno cercato di cambiare leggermente una formula davvero efficace.

In passato li abbiamo sentiti sia nella loro versione più grunge, soprattutto nell’esordio “My Love Is Cool” (2015), che flirtare con lo shoegaze (nel già citato “Visions Of A Life”). L’ingrediente principale era però sempre stato un indie rock sbarazzino, con chiari riferimenti agli anni ’90, con la bella voce della frontwoman Ellie Rowsell a fare da collante.

“Blue Weekend” è un CD molto personale, anche e soprattutto nelle liriche, che spesso evocano rapporti amorosi del passato o l’importanza di esprimersi liberamente. Esemplare il seguente verso, in The Last Man On Earth: “Every book you take that you dust off from the shelf has lines between lines between lines that you read about yourself”, oppure questa frase, da No Hard Feelings: “It’s not hard to remember when it was tough to hear your name, crying in the bathtub to ‘Love Is A Losing Game’”. Ciò non va a discapito della spontaneità delle canzoni: Smile e The Beach II sono ottimi pezzi, con ritornelli che entrano nella testa dell’ascoltatore e non la lasciano più.

Sono altre però le sorprese: The Last Man On Earth è un grandioso pezzo pop, che evoca addirittura David Bowie e, fra le artiste emerse più recentemente, Weyes Blood. Abbiamo poi il folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love), in cui il batterista Joel Amey affianca la Rowsell nel canto. Invece, in Play The Greatest Hits, il bassista Theo Ellis è assoluto protagonista con una linea di basso davvero irresistibile. Tuttavia, è sempre Ellie Rowsell la protagonista: la sua voce assume diverse connotazioni, che si tratti di momenti più intimi (dolce in The Last Man On Earth) o più trascinanti (tiratissima in Play The Greatest Hits).

In conclusione, “Blue Weekend” non scrive la storia della musica: i rimandi al rock alternativo degli anni’90, dalla prima Alanis Morissette a Liz Phair, sono chiari. Tuttavia, è un piacere seguire l’evoluzione dei Wolf Alice e cercare di capire dove andranno a cadere nel loro prossimo lavoro. Il successo che li ha baciati in passato e, siamo sicuri, tornerà a far riempire loro i palazzetti di tutta Europa, è meritato.

18) Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, “A Beginner’s Mind”

(FOLK)

Sufjan Stevens è tornato a comporre musica folk: finalmente, verrebbe da dire! Affiancato dal giovane cantautore Angelo De Augustine, genera con “A Beginner’s Mind” un eccellente album folk, che lo fa tornare ai fasti di “Carrie & Lowell” (2015), anche se senza la portata di drammaticità di quel lavoro.

I due hanno infatti preso ispirazione da film del passato prossimo e remoto, da Il Silenzio Degli Innocenti a La Notte Dei Morti Viventi, creando una colonna sonora fittizia per questi film. Alle volte i riferimenti sono chiari (Back To Oz, Lady Macbeth In Chains), altre più velati (ad esempio You Give Death A Bad Name mescola zombie e Bon Jovi).

Musicalmente, siamo di fronte al ritorno al folk da parte di uno dei migliori cantautori della sua generazione, dopo gli esperimenti elettronici di “The Ascension” e “Aporia” dell’anno passato. Alcuni brani catturano subito l’ascoltatore, Back To Oz e Reach Out sono tra questi; in altri invece prevale forse la prudenza e Sufjan e Angelo non sperimentano, si senta It’s Your Own Body And Mind. In generale, tuttavia, nessuno dei 13 brani del CD suona fuori posto.

Testualmente, parlando di supposte colonne sonore per film del passato, i riferimenti ai capolavori citati sono numerosi, ma una frase spicca, contenuta in (This Is) The Thing, dedicata a La Cosa di John Carpenter: “This is the thing about people, you never really know what’s inside… Somewhere in the soul there’s a secret”.

In conclusione, il maestro Sufjan Stevens e il suo protegé Angelo De Augustine hanno prodotto, con “A Beginner’s Mind”, il miglior album folk dell’anno. Se serviva una conferma ulteriore del talento sconfinato di Stevens, ecco qua la prova.

17) Tyler, The Creator, “CALL ME IF YOU GET LOST”

(HIP HOP)

Tyler Gregory Okonma (questo il vero nome del Nostro) ha riesumato, con questo suo nuovo CD, alcuni tratti della sua prima parte di carriera. Se sia “Flower Boy” (2017) che “IGOR” (2019) avevano flirtato con il neo-soul, questo “CALL ME IF YOU GET LOST” è decisamente più hip hop. Anche i testi fanno i conti con il giovane Tyler, The Creator: in MASSA esclama “Yeah, when I turned 23 that’s when puberty finally hit me, my facial hair started growing, my clothing ain’t really fit me… See, I was shifting, that’s really why Cherry Bomb sounded so shifty”.

In effetti, “Cherry Bomb” (2015) è visto da molti come il peggior disco della sua produzione, confuso e prolisso; ma forse è stato proprio quello che gli ha fatto capire che anche il talento, se non addomesticato, non serve a nulla. Tyler, da quel momento, si è dedicato a rifarsi un’immagine pubblica più pulita e a puntare tutto sulla musica e non sulle provocazioni.

Il rapper omofobo e volgare delle origini lasciò il posto, in “Flower Boy”, a un ragazzo fragile, capace di confessare di avere avuto esperienze omosessuali in passato. Un cambiamento radicale, che fece bene anche alla sua musica, definitivamente sbocciata con “IGOR”, con tanto di Grammy vinto. “CALL ME IF YOU GET LOST” rappresenta un altro buon lavoro in una discografia sempre più interessante.

Per il nuovo lavoro, Tyler si serve anche di collaboratori di spessore: DJ Drama compare in molte canzoni, mentre Pharrell Williams e Lil Uzi Vert sono ospiti della potente JUGGERNAUT. Abbiamo poi Lil Wayne, uno dei riferimenti del giovane Tyler Okonma, in HOT WIND BLOWS e Domo Genesis, ex collega della Odd Future, in MANIFESTO. Tuttavia, questi ospiti non offuscano mai la figura principale, che nel corso del CD assume l’identità di Sir Baudelaire, come dichiara nell’omonima traccia iniziale, in omaggio al poeta dei “Fiori Del Male”.

Liricamente, come già accennato, Tyler continua a mostrare lati del suo carattere che, fino a “Wolf” (2013), ci erano del tutto sconosciuti. Ad esempio, in MANIFESTO analizza l’impatto delle sue azioni in chiave antirazzista sopra una base che pare presa in prestito da Kendrick Lamar: “Hit some protest up, retweeted positive messages, donated some funds… Am I doing enough or not doing enough?”. In MASSA confessa che sua madre, nel 2011, viveva in un rifugio. Invece, in WILSHIRE, emerge una storia d’amore con una ragazza fidanzata con un suo amico: i tormenti di Tyler sono evidenti, a un tratto pare pronto a sacrificare l’amicizia, subito dopo si pente e rinuncia all’amore… Insomma, confessioni a cuore aperto da parte sua (e inevitabili pettegolezzi sul fatto se la storia sia vera o meno).

Dicevamo che il rap la fa da padrone in “CALL ME IF YOU GET LOST”: i singoli di lancio, da LUMBERJACK a WUSYANAME, vanno fortemente in questa direzione. Tuttavia, allo stesso tempo, il Tyler più pop di “IGOR” non viene totalmente sacrificato: i due brani più ambiziosi, SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE e WILSHIRE, sono R&B di qualità. Questa varietà alle volte è confusionaria, ma i risultati generali sono ottimi.

La struttura del lavoro è davvero particolare: abbiamo una canzone che supera gli otto minuti, un’altra che quasi arriva a dieci! Ma poi allo stesso tempo contiamo numerosi intermezzi e brani che sembrano solo abbozzati… Insomma, una creatività incontenibile, non sempre efficace ma mai fine a sé stessa. Dei pochi brani che superano i tre minuti di durata, i migliori sono MASSA e SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE; buona anche LEMONHEAD. Invece sotto le attese RISE!.

In conclusione, il CD è un altro passo avanti per un artista imprescindibile se si vuole comprendere lo scenario hip hop contemporaneo. Tyler, The Creator si conferma cantautore maturo e baciato dal talento: il successo di pubblico e critica che ultimamente sta avendo è meritato.

16) shame, “Drunk Tank Pink”

(PUNK)

Il secondo disco degli shame, talentuosa band punk inglese, evita con abilità la “trappola del secondo album” che spesso colpisce gruppi che hanno scritto esordi fantastici quali “Songs Of Praise” (2018), che fra le altre cose era stato oggetto di una rubrica Rising di A-Rock ed era entrato sia nella lista dei migliori CD dell’anno che in quella dei migliori della decade 2010-2019.

Insomma, A-Rock attendeva con trepidazione “Drunk Tank Pink” e gli shame non hanno tradito. Il disco suona più feroce rispetto all’esordio, che flirtava con l’indie rock in larghi tratti. “Drunk Tank Pink” invece è un puro album punk: arrabbiato, feroce, oltre che influenzato dalla pandemia che ormai da un anno sta devastando le nostre vite. Questo sebbene il CD sia pronto da tempo: basti dire che già a febbraio 2020 il lavoro doveva essere pubblicato, ma il Covid-19 ne ha ritardato l’uscita.

E allora come mai il sentimento di isolamento traspare così chiaramente dalle liriche di “Drunk Tank Pink”? Il frontman Charlie Steen, dopo un tour estenuante seguito al successo di “Songs Of Praise”, si è auto-isolato in un ambiente a chiare tinte rosa (da qui il titolo) cercando di recuperare le forze fisiche e mentali. Lo stesso hanno fatto i suoi compagni di band, con effetti sorprendenti sul loro sound: come già accennato, il disco suona davvero feroce in alcuni tratti, si sentano per esempio 6/1 e la cacofonica Station Wagon che chiude il disco. Merito anche dello sperimentalismo alla chitarra di Sean Coyle-Smith e della produzione di James Ford, già all’opera con Arctic Monkeys e Foals.

Non per questo gli shame rinunciano totalmente all’essere amichevoli con l’ascoltatore: l’iniziale Alphabet è un ottimo singolo di lancio, così come Nigel Hitter. Tuttavia, le migliori canzoni sono quelle propriamente punk, su tutte Water In The Well. Invece sotto la media proprio Nigel Hitter.

Le liriche, come dicevamo, trasudano angoscia e malinconia malgrado siano state scritte pre-Covid: in March Day Steen urla “In my room, in my womb, is the only place I find peace”. Invece in Water In The Well emerge il lato più canzonatorio degli shame: “Which way is heaven, sir? We all got lost somehow” è un verso davvero ironico. Infine Station Wagon conclude epicamente “Drunk Tank Pink” con le seguenti, ambiziose parole: “Nobody said this was going to be easy and with you as my witness I’m going to try and achieve the unachievable”.

In generale, dunque, “Drunk Tank Pink” non è affatto una replica del fortunato “Songs Of Praise”, quanto piuttosto una prova ulteriore del talento degli shame. Il mondo punk inglese ha ufficialmente trovato un altro gruppo imprescindibile: ispirandosi un po’ ai Parquet Courts, un po’ ai Talking Heads (con spruzzate del jazz caro ai black midi), gli shame hanno scritto una pagina davvero importante del 2021.

15) SAULT, “Nine”

(SOUL – R&B)

Il quinto album in meno di tre anni del misterioso gruppo inglese SAULT è uno dei migliori CD di musica black del 2021. Uscito il 25 giugno e disponibile, sia in streaming che come download dal sito ufficiale del gruppo, per soli 99 giorni, “Nine” rende i SAULT un nome imprescindibile per gli amanti di soul, funk ed R&B.

Se l’anno scorso i britannici avevano pubblicato una densa coppia di album, intitolati “UNTITLED (Black Is) e “UNTITLED (Rise)”, con profondi significati politici, il 2021 li vede concentrati su affreschi di vita quotidiana nelle periferie di Londra. Il CD scorre bene, con durata (34 minuti) e numero di canzoni (dieci, con due intermezzi) accessibili a tutti. Fondendo abilmente il meglio della tradizione nera, con richiami a Marvin Gaye, Stevie Wonder e Kendrick Lamar, “Nine” è davvero un bel disco.

Anche liricamente i SAULT si confermano versatili e potenti: se nel brevissimo Mike’s Story l’ospite Micheal Ofo narra drammatici episodi della sua vita quotidiana da bambino, in Alcohol invece si parla degli effetti della dipendenza (“Oh alcohol, look what I’ve done… Oh alcohol, it was only supposed to be one”) e You From London ospita una Little Simz in gran forma, che spara versi come “I know killers in the streets, but I ain’t really involved. We don’t wanna cause any grief, but we get triggered when hearin’ the sound of police”.

Insomma, i SAULT restano tanto misteriosi quanto talentuosi. “Nine” rappresenta ad oggi il loro LP più compiuto, con tante tracce che restano impresse nella memoria dell’ascoltatore (soprattutto London Gangs e Bitter Streets) e nessun episodio davvero debole. In poche parole: stiamo parlando di uno dei migliori dischi dell’anno.

14) Magdalena Bay, “Mercurial World”

(POP)

Il primo disco dei Magdalena Bay, la band formata da Mica Tenenbaum e Matthew Lewin, è una ventata di aria fresca nella scena pop. Mescolando influenze variegate, da Grimes a Charli XCX passando per Carly Rae Jepsen, il duo riesce infatti a creare un CD davvero trascinante, ben sequenziato e ricco di ottimi pezzi synth pop.

Passando sopra la scelta di iniziare “Mercurial World” con The End e terminarlo con The Beginning, un po’ troppo fintamente anticonformista, i Magdalena Bay confermano il bene che si diceva di loro negli ambienti specialistici. Dalla title track a Chaeri, da You Lose! a Secrets (Your Fire), il CD è un trionfo per gli amanti tanto di Britney Spears quanto di Madonna, tanto per citare due veterane della scena. Insomma, abbiamo trovato un ottimo disco pop.

Non fosse per testi spesso deboli e una seconda metà leggermente sottotono (che contiene ad esempio la prevedibile Prophecy) rispetto alla squisita parte iniziale, staremmo parlando di un capolavoro. Tuttavia, contando che stiamo parlando di un esordio sulla lunga durata (a nome Magdalena Bay compaiono infatti anche un EP e due brevi mixtape), “Mercurial World” è davvero un successo e farà certamente comparire il nome dei Magdalena Bay in varie liste dei migliori album del 2021.

13) Turnstile, “GLOW ON”

(PUNK)

Giunti al terzo album di punk tanto duro quanto sperimentale, gli americani Turnstile hanno prodotto il migliore CD della loro carriera. Mescolando hardcore, rock alternativo, R&B (!) e dream pop (!!), la band con “GLOW ON” ha creato un’esperienza sonora davvero unica.

Sia chiaro, la sperimentazione è benvenuta, ma “GLOW ON” è un album di hardcore punk fatto e finito: pezzi come DON’T PLAY e HOLIDAY sono durissimi, tanto per capirsi. Invece abbiamo ad esempio UNDERWATER BOI e ALIEN LOVE CALL, che suonano quasi rilassanti. A chiudere il cerchio, il grande artista R&B Blood Orange (nome d’arte di Dev Hynes) collabora proprio in ALIEN LOVE CALL e LONELY DEZIRES, confondendo ancora di più le acque. Insomma, un cocktail sonoro incredibile e sorprendente, che ammalia sia i fan duri e puri sia, potenzialmente, il pubblico più mainstream.

Liricamente, il lavoro passa da liriche più riflessive (“Too bright to live! Too bright to die!” in HOLIDAY e “Still can’t fill the hole you left behind!” in FLY AGAIN) ad altri più trascinanti e pronti per i live incendiari della band, come “You really gotta see it live to get it” (NO SURPRISE) e “If it makes you feel alive! Well, then I’m happy to provide!” (BLACKOUT). La frase più rappresentativa dell’estetica dei Turnstile è però contenuta in HOLIDAY: “I can sail with no direction”.

I migliori brani sono BLACKOUT e MYSTERY, mentre un po’ sotto la media i brevi intermezzi HUMANOID / SHAKE IT UP e NO SURPRISE. In generale, tuttavia, siamo di fronte a un CD davvero innovativo per il genere hardcore e che potrebbe aprire la strada a molti gruppi nei prossimi anni, vogliosi di rischiare lo “sbarco” nel mondo più commerciale senza però tradire il genere.

12) Iceage, “Seek Shelter”

(ROCK – PUNK)

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

11) Floating Points, Pharoah Sanders & London Symphony Orchestra, “Promises”

(ELETTRONICA – JAZZ)

La collaborazione fra un grande veterano del jazz, un talentuoso compositore di musica elettronica e una tra le orchestre più stimate a livello mondiale non poteva che dare risultati interessanti. “Promises” è un lavoro molto ambizioso, che riesce nel complesso a mescolare abilmente i tre mondi messi a confronto e lascia brillare tutti e tre gli interpreti in eguale maniera.

Il CD si compone di nove movimenti composti da Sam Shepherd, in arte Floating Points, poi arrangiati assieme a Pharoah Sanders, leggenda vivente del jazz, e alla London Symphony Orchestra. Se all’inizio è difficile riuscire a capire cosa aspettarsi, col tempo e attraverso ripetuti ascolti “Promises” si rivela un LP molto ricco, ma non sovraccarico, in cui gli attori sono tutti protagonisti allo stesso livello.

Il primo movimento è decisamente rilassante, un pezzo ambient in cui il potente sax di Sanders si sente solo nella parte finale; invece poi nel successivo la situazione si ribalta e Shepherd lascia il palcoscenico all’orchestra e a Pharoah. Il lavoro è un continuo, sapiente alternarsi fra momenti più vivi (Movement 4) e altri più quieti (Movement 8), che creano un prodotto davvero imperdibile per gli amanti del jazz e della musica d’ambiente. I migliori momenti sono rintracciabili in Movement 1 e Movement 6, mentre è sotto la media Movement 9.

In conclusione, la collaborazione fra tre pesi massimi della scena musicale, rappresentanti di generi apparentemente distanti come musica classica, jazz ed elettronica, ha generato un lavoro davvero ben strutturato, i cui 46 minuti rappresentano un toccasana in tempi così difficili. Non per tutti, ma “Promises” almeno un ascolto lo merita.

10) Nick Cave & Warren Ellis, “CARNAGE”

(ROCK)

Il nuovo disco della leggenda australiana del rock alternativo e del fidato Bad Seed Warren Ellis è un’altra aggiunta di spessore ad una discografia davvero magnifica. Si tratta peraltro della prima collaborazione fra i due non devota alla creazione di una colonna sonora per un film. Riprendendo alcuni dei territori musicali esplorati nei lavori recenti con i Bad Seeds e tornando ad alcune sonorità più rock del passato, Nick Cave ha scritto un CD perfetto per la pandemia che stiamo vivendo: a tratti angosciante, ma con un messaggio di speranza che dà conforto.

“CARNAGE”, letteralmente “massacro”, è un titolo intimidatorio, soprattutto in pieno Covid-19: tuttavia, il tema del virus è solo marginale rispetto alle riflessioni proposte da Cave ed Ellis. Emergono soprattutto i temi della fede e dell’amore, da sempre al centro della poetica di Nick Cave; ma se fino a “Push The Sky Away” (2013) c’era sempre una visione quasi demoniaca, da artista maledetto, la morte tragica del figlio Arthur nel 2015 ha radicalmente cambiato le carte in tavola per Nick Cave & The Bad Seeds, che da quel momento hanno privilegiato ritmi più compassati e sonorità quasi ambient, basti risentirsi “Ghosteen” (2019).

Testualmente, dicevamo che il disco tratta temi svariati: il “kingdom in the sky” ritorna più volte nel corso dell’opera, dapprima nell’iniziale Hand Of God e poi in White Elephant e Lavender Fields. Il messaggio più bello che viene trasmesso dal Nostro, contenuto in quest’ultima composizione, è però dedicato ai nostri cari che ci hanno lasciato: “Where did they go? Where did they hide? We don’t ask who, we don’t ask why there is a kingdom in the sky”. Infine, Shattered Ground affronta il tema del rapport tormentato fra il narratore e la sua partner, con una frase che molti di noi avranno pensato almeno una volta nella vita: “Oh, baby, don’t leave me”, che assume un significato ancora più evocativo in questi tempi difficili.

Il CD è molto compatto: otto brani per 40 minuti. Il contenuto musicale è però davvero notevole: passando dall’art pop di Albuquerque alle sonorità più dure di White Elephant, con in mezzo l’ottima Old Time e una seconda parte più raccolta, “CARNAGE” è uno dei migliori dischi di inediti pubblicati nel 2021. Nick Cave ha confermato ancora una volta un talento più unico che raro e, aiutato dal fido Warren Ellis, ha pubblicato un lavoro imprescindibile per gli amanti del cantautore australiano.

9) Squid, “Bright Green Field”

(PUNK – ROCK – SPERIMENTALE)

Le prime parole cantate da Ollie Judge in G.S.K., primo vero brano del CD d’esordio dei britannici Squid (se sorvoliamo l’intro ambient di Resolution Square), sono: “As the sun sets, on the Glaxo Klein, well it’s the only way that I can tell the time”. Beh, la dichiarazione d’intenti è chiara: gli Squid sono decisamente anticapitalisti e non esitano a farlo sapere immaginando un’isola distopica, su cui il settore industriale dei Big Pharma governa indisturbato. Se a ciò aggiungiamo che il frontman è il batterista del gruppo (piuttosto insolito eh?) e che, oltre al classico trio chitarra-basso-batteria, negli Squid trovano spazio sax, violini, trombe e chi più ne ha più ne metta, capirete che siamo di fronte a un lavoro piuttosto variegato e sfidante.

Le 11 canzoni che formano “Bright Green Field” sono pervase da questo senso di inquietudine, accentuato dal modo di cantare di Judge: nevrotico, paranoide, molto simile al David Byrne dei primi Talking Heads. Il riferimento alla band statunitense non è casuale: nei brani migliori del lavoro, da Narrator a Paddling, i Talking Heads sono un chiaro riferimento per gli Squid. Non dobbiamo però pensare che i giovani britannici siano solamente un ennesimo succedaneo della scena new wave e post-punk degli anni ’80.

Infatti, accanto a David Byrne & co., troviamo il post-rock degli Slint (2010), il rock danzereccio dei Franz Ferdinand (Paddling) e una parentesi drone francamente non molto riuscita, ma comunque indice di una voglia di sperimentare sconfinata (Boy Racers). Accanto a questo interessante cocktail sonoro troviamo, come già accennato, liriche spesso davvero pessimiste (un esempio è “You’re always small and there are things that you’ll never know”, in Boy Racers), quando non vere e proprie urla selvagge (Narrator, merito dell’ospite Martha Skye Murphy).

Il 2021 si è caratterizzato come l’anno in cui il rock è tornato sulle bocche di tutti, non tanto per le imprese dei vecchi leoni, ma piuttosto per l’emergere sulla scena underground, specialmente inglese, di band davvero intriganti, ambiziose e mai dome (citiamo, oltre agli Squid, i black midi e i Black Country, New Road). “Bright Green Field” non è un LP perfetto, ma sembra un ottimo antipasto di una carriera già ottimamente lanciata dall’EP del 2019 “Town Centre”. Gli Squid, dal canto loro, si candidano a grande rivelazione della scena punk-rock del 2021.

8) The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

(ROCK)

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

7) Godspeed You! Black Emperor, “G_d’s Pee AT STATE’S END!”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo CD del leggendario gruppo post-rock canadese è un highlight in una carriera già costellata di perle, sia molto in là nel tempo (“Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” del 2000) che più recenti (“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” del 2012). Il disco è infatti fra i più euforizzanti in un periodo di sospensione come quello che stiamo vivendo, in cui alla paura del virus si contrappone la speranza per le campagne vaccinali in corso. Che la luce sia finalmente in fondo al tunnel? I Godspeed You! Black Emperor, a tratti, ne paiono convinti.

In effetti, l’inizio del lavoro ci fa tornare alle lugubri atmosfere di “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”: A Military Alphabet, la prima delle quattro suite in cui è diviso “G_d’s Pee AT STATE’S END!”, è il pezzo più ossessivo e pessimista del lavoro. Al contrario, il tono della seguente Fire At Static Valley è più positivo e fa del post-rock quasi gradevole e accessibile, non una tipica caratteristica dei Godspeed You! Black Emperor.

Le due lunghe tracce che chiudono il lavoro, “GOVERNMENT CAME”OUR SIDE HAS TO WIN (for D.H.), mantengono questa dualità; tuttavia, a differenza dei lavori della prima fase della carriera del complesso di Montreal, il tono complessivo è di cauto ottimismo. È per questo che “G_d’s Pee AT STATE’S END!” è un ottimo LP per la vita durante la fase conclusiva (almeno speriamo) dell’emergenza Covid-19: se è vero che non siamo di fronte ad un disco puramente pop, d’altro canto la forza di queste quattro composizioni è innegabile e rende il 2021 davvero interessante per gli amanti del rock alternativo e sperimentale.

Un’ultima curiosità: il quattro pervade tutto il CD. Siamo infatti di fronte al quarto album della fase post reunion della band, le canzoni (pur elaborate) sono teoricamente quattro e probabilmente, come qualità, questo è il quarto più bel disco nell’intera produzione dei canadesi. Quest’ultimo dato è sufficiente per capire il talento di questi pilastri dello scenario rock.

6) Dave, “We’re All Alone In This Together”

(HIP HOP)

Avevamo lasciato Dave, il talentuoso rapper britannico di origine nigeriana, al successo dell’esordio “Psychodrama” (2019), che gli aveva fatto vincere il Mercury Prize e lo aveva reso una delle voci preminenti della nuova generazione inglese. Beh, tutta questa credibilità viene mantenuta, se non rinforzata, da “We’re All Alone In This Together”: un CD lungo, difficile, ma di infinita profondità e con testi sempre toccanti ed efficaci. Potremmo davvero essere di fronte al miglior rapper d’Oltremanica al momento, almeno parlando al maschile (si veda la posizione numero 1 della lista).

Le 12 canzoni di “We’re All Alone In This Together” sono variegate, possono contare su ospiti di spessore internazionale come James Blake e Stormzy… e allo stesso tempo creano un album di altissimo replay value. Passiamo dalla durezza di Verdansk ai ritmi quasi tropicali di System (con Wizkid) alla trap accennata di Clash (che vanta Stormzy), con le perle delle monumentali cavalcate Both Sides Of A Smile e Heart Attack, la prima di circa otto minuti e la seconda lunga quasi dieci!

Anticipavamo che il CD non è di immediata assimilazione, anche per i temi trattati da Dave: nei testi possiamo infatti ritrovare riferimenti alla vita degli immigrati di origine jugoslava costretti a emigrare nel Regno Unito durante la guerra degli anni ’90, così come la denuncia della maggiore ingiustizia mai patita da immigrati in terra inglese (rimpatriare nei Caraibi delle persone che avevano diritto di stare Oltremanica, privandoli dei loro averi e delle loro case). A chiudere il quadro, nell’introduttiva We’re All Alone il rapper parla di istinti suicidi sia per sé stesso che per il ragazzo con cui dialoga nel corso del brano, mentre nel pezzo finale Survivor’s Guilt si mette a piangere a causa di un attacco d’ansia… Del resto, da colui che aveva immaginato il suo esordio come la confessione di uno psicopatico non potevamo aspettarci di meno.

In conclusione, la ricchezza di significati e di sonorità fanno di “We’re All Alone In This Together” un album imprescindibile per gli amanti dell’hip hop. Dave si candida come re dello scenario rap britannico e, chissà, a sfondare anche in altre parti del mondo. La cosa più incredibile è che non si può essere sicuri che abbia raggiunto il picco delle proprie qualità: che si sia di fronte al nuovo Kendrick Lamar? La risposta al prossimo CD. Per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori prodotti hip hop dell’anno.

5) Silk Sonic, “An Evening With Silk Sonic”

(R&B – SOUL)

Ci sono collaborazioni che sembrano fatte apposta per nascere e prosperare: il progetto Silk Sonic, formato da Bruno Mars e Anderson .Paak, ne è un caso emblematico. “An Evening With Silk Sonic” è una gemma, capace di evocare le atmosfere del soul anni ’70 di Marvin Gaye e Stevie Wonder con delicatezza ma senza suonare come un plagio, anzi con hit indelebili che ne fanno un CD imperdibile in questo strano 2021.

Non sempre le partnership fra pesi massimi escono come erano state pensate: se in certi casi era impossibile che fallissero (David Bowie e i Queen, con Under Pressure), in altri hanno prodotto risultati contraddittori (Future e Drake in “What A Time To Be Alive” del 2015) oppure addirittura disastrosi (Lou Reed e i Metallica con “Lulu”, 2011). Beh, Silk Sonic è un caso a sé stante: non per forza Mars e .Paak parevano destinati al successo, ma “An Evening With Silk Sonic” è un piccolo capolavoro, che rende i Silk Sonic maggiori della somma dei singoli interpreti.

Già i singoli di lancio avevano fatto pensare a un lavoro eccellente: Leave The Door Open è un’ottima ballata, Skate è un perfetto brano funk mentre Smoking Out The Window, pur leggermente inferiore agli altri due, è comunque un buonissimo pezzo. Se a questi aggiungiamo After Last Night, con la preziosa collaborazione di Thundercat e del veterano Bootsy Collins, già bassista dei Parliament-Funkadelic, abbiamo metà CD di perle. Il resto del lavoro contiene brani che, seppur discreti, non arrivano a questi livelli, ma il risultato complessivo è in ogni caso ottimo, contando anche la totale mancanza di tracce riempitivo (basti dire che “An Evening With Silk Sonic” dura a malapena 32 minuti), tanto che ci viene da desiderare che ci siano 2-3 canzoni in più per arrivare ai canonici 40 minuti, fatto sempre più raro nel panorama musicale odierno.

In conclusione, il progetto Silk Sonic, pur non brillando a volte di originalità (si senta Put On A Smile), raggiunge risultati davvero squisiti. Anderson .Paak è ormai pronto per il salto definitivo nel mainstream, mentre Bruno Mars, dal canto suo, si conferma infallibile produttore di hit. “An Evening With Silk Sonic”, ad oggi, è il miglior CD soul del decennio oltre che uno dei più belli del 2021.

4) Black Country, New Road, “For The First Time”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il giovane gruppo britannico, composto da ben sette elementi, quattro ragazzi e tre ragazze (tra cui sassofono e violino), ha pubblicato uno degli esordi più sorprendenti degli ultimi anni. Mescolando abilmente post-punk, jazz e post-rock, i Black Country, New Road si inseriscono nel solco dei black midi e di altre giovani band inglesi che stanno rivoluzionando la scena, denunciando allo stesso tempo i mali della società moderna.

“For The First Time” può sembrare un modo umile di introdurre la band al grande pubblico: il CD è infatti composto da sei canzoni, di cui due singoli, quindi gli inediti veri e propri sono solo quattro. Tuttavia, guardando il range coperto nel corso dei 40 minuti dell’album, si capisce che il vocalist Isaac Wood (dotato di un timbro molto simile a King Krule) e soci hanno operato una scelta corretta. I risultati, come già accennato, sono davvero incredibili a tratti.

Sorretti da una base ritmica clamorosa e con testi sempre calati nel presente, spesso amaro, che i membri del gruppo ben conoscono, i Black Country, New Road stupiscono fin da subito con Instrumental, che, come indica la parola, non ha testo ma serve da perfetta introduzione per le seguenti canzoni. Athens, France è uno dei brani più amichevoli del CD, non a caso scelto come singolo, mai prevedibile ma allo stesso tempo accessibile. Invece Science Fair è l’episodio più brutale, che ricorda gli Slint. Sunglasses è una traccia davvero epica, à la Nick Cave con tocchi di Godspeed You! Black Emperor che fa intravedere un possibile futuro per il gruppo. La delicata Track X (unica un po’ fuori contesto) e Opus chiudono un lavoro che richiede molteplici ascolti per esser apprezzato appieno.

In conclusione, “For The First Time” si candida ad esordio dell’anno in campo rock: sperimentale, feroce ma anche in alcuni tratti accessibile, è un disco che farà parlare di sé per lungo tempo. I Black Country, New Road hanno imposto degli standard molto alti per il loro futuro: vedremo se sapranno mantenerli. Inutile dire che, ad A-Rock, non vediamo l’ora di analizzare dove andranno a parare.

3) black midi, “Cavalcade”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori da ogni logica, ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

2) Billie Eilish, “Happier Than Ever”

(POP)

Era il CD più atteso dell’estate e ha pienamente mantenuto le aspettative. “Happier Than Ever”, il secondo album della popstar più brillante del momento, fa di Billie Eilish non solo un nome imprescindibile per capire il pop contemporaneo, ma anche la più seria candidata alla palma di album dell’anno in ottica Grammy, premio che lei ha già conquistato con il fulminante esordio “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” del 2019.

È difficile inquadrare il fenomeno Billie Eilish senza partire dalle sue origini: amante delle canzoni di Justin Bieber e delle altre popstar, la giovanissima Billie (intorno ai 13-14 anni) incomincia a postare le sue canzoni su Youtube e su Spotify. Il successo è immediato e il passaparola la porta a essere considerata una stella ancora prima di incidere un disco vero e proprio. L’EP “dont smile at me” (2017) è solo un antipasto prima dell’abbuffata di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, che la catapulta in una dimensione dove solo poche persone possono stare: adorata dai giovanissimi ma anche dai genitori più “progressisti”, amata dalla critica per le sonorità eterogenee rispetto al pop stereotipato che domina le classifiche, ma anche per i testi candidi sulle sue paure. Billie, infatti, non ha timore di parlare di istinti suicidi, visioni di amici seppelliti e mostri sotto il letto.

Il CD in realtà non è perfetto: ancora si respira una certa ingenuità in Billie e nel fratello Finneas, che produce tutti i suoi brani ed è spesso co-autore. Pezzi come Bad Guy e When The Party’s Over, tuttavia, sono irresistibili: specialmente il primo, ormai, è storia della musica. La ragazza con i capelli verdi, però, ha lasciato il passo ad un’altra incarnazione: capelli biondo platino, corpo non più nascosto sotto pesanti maglioni neri, in volto una malinconia evidente malgrado il titolo del lavoro, evidentemente ironico.

In effetti, c’è poco da stare allegri: il mondo è devastato da due anni da una pandemia terribile, Billie è osservata costantemente da paparazzi in cerca di scoop o stalker che la inseguono ovunque vada, non può avere una relazione amorosa normale a causa della sua fama… Tutto questo affiora, in modo più o meno evidente, in “Happier Than Ever”.

Fin dall’introduttiva Getting Older, infatti, i temi portanti del CD sono messi in evidenza: il titolo annuncia una Billie Eilish più matura, che non rinuncia all’ironia, “Things I once enjoyed just keep me employed now” canta convintamente. In Your Power emergono invece i rapporti di abuso stabiliti da alcuni uomini a danno delle ragazze più giovani e spesso indifese: “She was sleeping in your clothes, but now she’s got to get to class… Does it keep you in control, for you to keep her in a cage?”. Altrove emerge l’ansia per il futuro tipica dei giovani (“Know I’m supposed to be with someone, but aren’t I someone?”, my future) e la paura che le vengano attribuite dicerie non veritiere (“Stop, what the hell are you talking about? Get my pretty name out of your mouth”, Therefore I Am). Il tema che spesso emerge è però quello dell’amore tradito, finito male: nella title track il suo ex la chiama ubriaco da una Mercedes, Male Fantasy vede Billie perplessa mentre guarda un video pornografico.

Musicalmente, il CD è un trionfo: Eilish esplora folk (Your Power, Male Fantasy), pop elettronico à la Grimes (Oxytocin), R&B (OverHeated), trip hop (NDA), ritmi latini (Billie Bossa Nova) e addirittura il rock in stile Mitski nella title track. In mezzo abbiamo altri esperimenti davvero sorprendenti: my future parte come un semplice brano pop ma poi evolve in un brano quasi funk, con retrogusto jazz. Discorso a parte per Oxytocin e I Didn’t Change My Number: sono i due pezzi che più si avvicinano al pop gotico e a tinte horror di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, con il primo destinato a diventare un successo anche live della Nostra. Gli unici brani inferiori alla media stratosferica del CD sono Halley’s Comet, prevedibile, e Not My Responsibility, un brano spoken word dal forte significato ma debole melodicamente.

Chi credesse ancora che Billie Eilish è solamente un fenomeno mediatico, destinato a sgonfiarsi presto, dovrà ricredersi: “Happier Than Ever” è un lavoro completamente diverso dall’esordio, che pure aveva conquistato molti. Non sarebbe stato un peccato mortale tornare a quelle atmosfere; invece la cantautrice americana si è superata, optando per un lavoro composito, dove le 16 canzoni, tuttavia, non appaiono mai in sovrannumero. In poche parole, siamo di fronte ad una ragazza dal talento splendente.

1) Little Simz, “Sometimes I Might Be Introvert”

(HIP HOP)

Avevamo già capito dai singoli di essere di fronte ad un CD speciale. Introvert, Woman e I Love You, I Hate You sono colossali pezzi rap, ma non solo: Little Simz è capace, infatti, di flirtare con funk e soul in ugual maniera, creando un amalgama quasi perfetto. “Sometimes I Might Be Introvert”, in poche parole, è l’album migliore del 2021.

Little Simz, per i fan di lunga data di A-Rock, è un nome noto: inserita in un appuntamento della rubrica Rising e premiata con la palma di terzo miglior album del 2019 per “GREY Area”, il suo profilo era sempre stato sui taccuini anche della critica mainstream, ma non aveva mai sfondato completamente col pubblico, soprattutto quello al di fuori del Regno Unito. Ebbene, con questo CD è probabile che la notorietà della Nostra cresca; ed è un premio davvero meritato. Abbiamo trovato il contraltare a Kendrick Lamar, aspettando ovviamente il nuovo album di K-Dot, dato come ormai imminente.

Notiamo subito una cosa: le iniziali di “Sometimes I Might Be Introvert” danno SIMBI, che è il nomignolo con cui Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo è conosciuta fra gli amici più stretti. Non è un fatto casuale: molte volte nel corso del lavoro emerge questa duplicità, addirittura in Rollin Stone la sentiamo dire: “Can’t believe it’s Simbi here that’s had you listenin’… Well, fuck that bitch for now, you didn’t know she had a twin”, quasi come se stessimo assistendo ad uno sdoppiamento della sua personalità. Tuttavia, il tema del rapporto fra la Simbi privata e la Little Simz pubblica non è l’unico affrontato nel corso del CD.

Altrove abbiamo infatti la voglia di celebrità che colpisce molti di noi, specie in tempi di social network imperanti (“Why the desperate need for an applause?” domanda in Standing Ovation), l’assenza del padre (“Is you a sperm donor or a dad to me?” è forse il verso più bello della stupenda I Love You, I Hate You) così come la morte violenta del cugino, in Little Q Pt. 2. I versi più belli e potenti sono però contenuti in Introvert: “All we see is broken homes here and poverty, corrupt government officials, lies and atrocities. How they talking on what threatening the economy, knocking down communities to re-up on properties. I’m directly affected: it does more than just bother me”.

Non per questo, però, bisogna pensare che il CD sia troppo carico di tematiche e influenze; anzi, “Sometimes I Might Be An Introvert” spicca anche per l’incredibile abilità di Little Simz nel maneggiare generi diversi con uguale maestria. Se proprio vogliamo trovare un difetto nel disco, sono i numerosi intermezzi narrati dalla voce dell’attrice Emma Corrin, interprete di Diana Spencer nella serie tv The Crown e amica di Little Simz. Ma sarebbe un errore concentrarsi su di essi davanti a una tale quantità di canzoni magistrali.

Possiamo rintracciare i maestri di Simbi in Lauryn Hill, D’Angelo e lo stesso Kendrick Lamar, ma lei riesce a suonare puramente Little Simz. Se “GREY Area” era un LP scarno, con beat minimali su cui la Nostra rappava senza sosta, adesso c’è una intera orchestra che la supporta in alcuni brani, tra cui i due più belli del lavoro, Introvert e Woman. Altri pezzi imperdibili sono I Love You, I Hate You e la funkeggiante Protect My Energy.

In conclusione, “Sometimes I Might Be An Introvert” è il primo album rap davvero imperdibile del decennio 2020-2029. Chissà se qualcuno riuscirà in futuro a scrivere pagine altrettanto importanti in questo genere; per il momento godiamoci questo lavoro, il compimento di otto anni di carriera da parte di Little Simz, nuovo volto simbolo della scena hip hop britannica.

Il podio è quindi formato da due ragazze e un giovane gruppo britannico, che rappresentano tre dei generi più importanti al momento: rock, pop e rap. In quanto a diversità e varietà di generi, mai A-Rock aveva avuto un terzetto di così ampie vedute: un altro segno che la buona musica, quando colpisce l’ascoltatore, non conosce confini o pregiudizi di sorta.

Che ve ne pare di questa lista? Vi convince o avreste preferito vedere altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: gennaio 2021

Anche gennaio è terminato. Un mese interlocutorio per la musica, in cui cogliamo l’occasione di recensire anche il lavoro dei The Avalanches, il breve EP di Nilüfer Yanya e il ritorno di Paul McCartney, usciti in realtà a dicembre dello scorso anno ma meritevoli di attenzione. Inoltre abbiamo analizzato il secondo album degli shame e il ritorno della cantante R&B Jazmine Sullivan. Buona lettura!

shame, “Drunk Tank Pink”

shame

Il secondo disco degli shame, talentuosa band punk inglese, evita con abilità la “trappola del secondo album” che spesso colpisce gruppi che hanno scritto esordi fantastici quali “Songs Of Praise” (2018), che fra le altre cose era stato oggetto di una rubrica Rising di A-Rock ed era entrato sia nella lista dei migliori CD dell’anno che in quella dei migliori della decade 2010-2019.

Insomma, A-Rock attendeva con trepidazione “Drunk Tank Pink” e gli shame non hanno tradito. Il disco suona più feroce rispetto all’esordio, che flirtava con l’indie rock in larghi tratti. “Drunk Tank Pink” invece è un puro album punk: arrabbiato, feroce, oltre che influenzato dalla pandemia che ormai da un anno sta devastando le nostre vite. Questo sebbene il CD sia pronto da tempo: basti dire che già a febbraio 2020 il lavoro doveva essere pubblicato, ma il Covid-19 ne ha ritardato l’uscita.

E allora come mai il sentimento di isolamento traspare così chiaramente dalle liriche di “Drunk Tank Pink”? Il frontman Charlie Steen, dopo un tour estenuante seguito al successo di “Songs Of Praise”, si è auto-isolato in un ambiente a chiare tinte rosa (da qui il titolo) cercando di recuperare le forze fisiche e mentali. Lo stesso hanno fatto i suoi compagni di band, con effetti sorprendenti sul loro sound: come già accennato, il disco suona davvero feroce in alcuni tratti, si sentano per esempio 6/1 e la cacofonica Station Wagon che chiude il disco. Merito anche dello sperimentalismo alla chitarra di Sean Coyle-Smith e della produzione di James Ford, già all’opera con Arctic Monkeys e Foals.

Non per questo gli shame rinunciano totalmente all’essere amichevoli con l’ascoltatore: l’iniziale Alphabet è un ottimo singolo di lancio, così come la funky Nigel Hitter. Tuttavia, le migliori canzoni sono quelle propriamente punk, su tutte Water In The Well. Invece sotto la media proprio Nigel Hitter.

Le liriche, come dicevamo, trasudano angoscia e malinconia malgrado siano state scritte pre-Covid: in March Day Steen urla “In my room, in my womb, is the only place I find peace”. Invece in Water In The Well emerge il lato più canzonatorio degli shame: “Which way is heaven, sir? We all got lost somehow” è un verso davvero ironico. Infine Station Wagon conclude epicamente “Drunk Tank Pink” con le seguenti, ambiziose parole: “Nobody said this was going to be easy and with you as my witness I’m going to try and achieve the unachievable”.

In generale, dunque, “Drunk Tank Pink” non è affatto una replica del fortunato “Songs Of Praise”, quanto piuttosto una prova ulteriore del talento degli shame. Il mondo punk inglese ha ufficialmente trovato un altro gruppo imprescindibile: ispirandosi un po’ ai Parquet Courts, un po’ ai Talking Heads (con spruzzate del jazz caro ai black midi), gli shame hanno scritto il primo LP davvero importante del 2021.

Voto finale: 8.

Paul McCartney, “McCartney III”

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Sir Paul McCartney non ha bisogno di introduzione: la sua è ormai una carriera leggendaria che, giunta al ventunesimo (!!) album di inediti, non vuole proprio fermarsi. “McCartney III” è la chiusura ideale della trilogia iniziata con l’esordio solista del 1970, “McCartney”, e proseguita poi con “McCartney II” (1980). La caratteristica di tutti questi CD è di essere suonati interamente da Paul in persona, che li ha spesso utilizzati per i suoi esperimenti più arditi (ad esempio Temporary Secretary), con atmosfere decisamente meno pop di un tipico disco dei Beatles, ma sempre appetibili da una larga fetta di pubblico.

“McCartney III” non è da meno: le 11 canzoni vanno dall’esperimento folk-blues di Long Tailed Winter Bird al pop-rock della squisita Find My Way al pop beatlesiano di Pretty Boys, per poi sfociare nella stramba Deep Deep Feeling, ben otto minuti di rock à la David Bowie su morbide tastiere. Insomma, un pot-pourri mai scontato, decisamente non coeso ma intrigante nel complesso. I risultati migliori Paul li raggiunge in Find My Way e Pretty Boys, mentre delude un po’ Women And Wives.

Liricamente, McCartney cerca di calarsi nella drammatica temperie storica del 2020: il CD, uscito a dicembre dello scorso anno, rievoca la triste condizione di isolamento totale in cui è stato arrangiato, specialmente in Find My Way (“You never used to be afraid in days like these, but now you’re overwhelmed by your anxieties” è un verso potente) e Seize The Day, che nella semplicità della lirica “It’s still alright to be nice” ci ricorda che la gentilezza è una qualità sottovalutata, specialmente in tempi di pandemia.

Un cantante della caratura di Paul McCartney, che era stato in grado di restare sulla cresta dell’onda anche negli anni ’10 del XXI secolo grazie alle collaborazioni di successo con Mark Ronson (Alligator e New) e Kanye West in collaborazione con Rihanna (FourFiveSeconds), aveva prodotto con “Egypt Station” (2018) un album lungo e caotico, che faceva presagire un’ispirazione ormai esaurita per il cantautore inglese. Ritrovarlo in così buona forma solo due anni dopo, capace di stupirci come ai bei tempi, è un’ulteriore dimostrazione che, nella musica, l’età non conta.

Voto finale: 8.

The Avalanches, “We Will Always Love You”

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Il nuovo disco degli australiani The Avalanches, uno dei nomi più importanti della plunderphonics (ovvero quella corrente della musica elettronica che ricava suoni e impulsi da migliaia, letteralmente migliaia, di frammenti tratti da musiche del passato), si è fatto attendere relativamente poco. Basti pensare che fra l’esordio fulminante “Since I Left You” (2000) e il pregevole “Wildflower” (2016) sono passati sedici anni! “We Will Always Love You” invece arriva “solo” quattro anni dopo.

Il messaggio del disco pare scritto già nel titolo: il gruppo avrà preparato la solita ricetta fatta di canzoni zuccherose, elettronica soft alternata a toni più dance, con testi gioiosi o melensi, nel peggiore dei casi. Beh, le prime impressioni sono solo parzialmente corrette: i The Avalanches infatti dedicano la gran parte delle canzoni allo spazio, con chiari riferimenti sparsi fra le ben 25 canzoni che compongono l’ambizioso CD. Altra presenza ricorrente è la scomparsa attrice Barbara Payton, a cui è dedicata la seconda canzone del lavoro e la cui figura tragica, con la morte a 39 anni per droga come conclusione, ispira i momenti più introspettivi.

Ancora una volta, come già in “Wildflower”, gli ospiti sono la parte maggiore dell’interesse per un LP dei The Avalanches: affiancare nella stessa canzone MGMT e Johnny Marr può essere pretenzioso, ma The Divine Chord è davvero carina. Inoltre abbiamo fra gli altri Kurt Vile, Denzel Curry, Jamie xx, Blood Orange e Tricky, senza dimenticarci Mick Jones (ex The Clash) e Rivers Cuomo dei The Weezer. Insomma, un CD davvero variegato tanto quanto imprevedibile!

Forse troppo, a dirla tutta, tanto che anche dopo ripetuti ascolti digerire i tanti contenuti presenti non è per nulla facile. Si passa infatti dagli iniziali brevi brani Ghost Story e Song For Barbara Payton, quasi completamente recitati, alla psichedelia di The Divine Chord, al soul con spruzzate di elettronica di Reflecting Light, al trip hop di Until Daylight Comes. I brani migliori sono Wherever You Go e Take Care In Your Dreaming, mentre deludono Until Daylight Comes e Born To Lose.

Anche testualmente “We Will Always Love You” trasmette il concetto espresso nel titolo nei modi più svariati possibili: Solitary Ceremonies descrive una ragazza in contatto col celebre compositore Franz Liszt, che la ispira anche dall’aldilà guidando le sue mani sul pianoforte. Wherever You Go si apre con una trasmissione registrata dalla NASA e spedita nei Voyager 1 e 2 nelle rispettive missioni spaziali. I riferimenti allo spazio, come già accennato, sono numerosi: anche il rapper Pink Siifu in Running Red Lights immagina di volare in cielo e ascoltare la musica delle stelle.

In generale, dunque, la specialità dei The Avalanches è sempre stata quella di evocare paesaggi e tempi del passato senza per questo suonare nostalgici o attaccati ad un mondo che non tornerà più. “We Will Always Love You” è un disco non perfetto, ma che attraverso brani leggeri e atmosfere rilassate riuscirà sicuramente a rendere più sereno l’ascoltatore per i 71 minuti della sua durata.

Voto finale: 8.

Nilüfer Yanya, “Feeling Lucky?”

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Il nuovo EP della talentuosa cantautrice Nilüfer Yanya rappresenta un’interessante evoluzione della sua estetica: se nell’esordio “Miss Universe” (2019) avevamo imparato a conoscerla come una popstar in divenire, con un’insolita vena jazz, “Feeling Lucky?” è uno sguardo all’indie rock che promette cambiamenti nel prossimo CD vero e proprio a suo nome.

Crash è un esperimento che mescola domande esistenziali e un po’ inquietanti (“If you ask me one more question, I’m about to crash”) con chitarre distorte e la voce di Nilüfer sepolta sotto, a volte inintelligibile. Invece la seguente Same Damn Luck richiama le atmosfere ovattate dell’indie rock di Soccer Mommy, risultando nel brano più solido del lotto. A chiudere “Feeling Lucky?” abbiamo Day 7.5093, altro brano scanzonato e ottimamente confezionato.

Il lavoro si conclude forse troppo presto, con i tre brani che sono così invitanti e ben fatti. A suo modo, però, l’EP è un’ottima anticipazione del prossimo album a firma Nilüfer Yanya, un nome da tenere d’occhio nel panorama pop-rock internazionale.

Voto finale: 7,5.

Jazmine Sullivan, “Heaux Tales”

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Sei anni sono passati dal precedente lavoro di Jazmine Sullivan: “Reality Show”, terzo LP della sua carriera, risale infatti al 2015 e la cantautrice statunitense pareva lanciata verso la fama. Poi è arrivata una pausa piuttosto lunga, da cui esce questo intrigante lavoro, molto frammentato (32 minuti formati da ben 14 canzoni) ma coeso e ben fatto.

Le otto canzoni vere e proprie del disco sono infatti intervallate da brevi intermezzi, titolati “tales”, in cui dei personaggi femminili prendono alternativamente la parola sul tema portante del lavoro: il sesso e la concezione che la società ha di esso. Jazmine non si vergogna infatti a mettere in evidenza il suo punto di vista sulla questione, spesso con versi “diretti” e senza peli sulla lingua. Questa, a seconda dell’ascoltatore, può essere una qualità oppure una questione che a lungo andare diventa noiosa e monotona.

A prescindere dalle liriche, il CD in realtà è davvero curato: la bella voce della Sullivan è un valore aggiunto nel corso dei 32 minuti di “Heaux Tales”, passando dal rap (Put It Down) all’R&B più sensuale (On It). Gli intermezzi sono a tratti interessanti punti di vista (Antoinette’s Tale), ma alla lunga possono risultare evitabili. I pezzi migliori sono Pick Up Your Feelings e The Other Side, mentre delude un po’ Lost One.

In conclusione, “Heaux Tales” è uno dei primi CD di black music degni di essere ascoltati nel 2021: Jazmine Sullivan non sembra tornare da un’assenza di sei anni dalla scena, tanta è la sua confidenza e sicurezza nei propri mezzi. Non parliamo di un capolavoro, ma la mezz’ora di durata del disco passa bene.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2021

Archiviato il 2020, A-Rock è già all’opera per il nuovo anno: quali sono gli album più attesi del 2021?

Se l’anno passato avevamo indicato come CD più intriganti quelli di Tame Impala e The 1975 (e a ragione, visto che entrambi sono entrati nella top 10 dei 50 album migliori del 2020), nel 2021 i lavori a cui guardiamo con maggiore interesse sono rispettivamente quelli di Kendrick Lamar e Lana Del Rey. K-Dot è ormai entrato nella storia dell’hip hop con album come “good kid, m.A.A.d city” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), senza scordarsi di “DAMN.” (2017); il suo quinto album vero e proprio di inediti segnerà un altro passaggio cruciale nell’affermazione del rap come genere imperante nelle classifiche e nella società? Un discorso simile vale per Lana: il precedente “Norman Fucking Rockwell!” è stato l’album del 2019 per A-Rock e molte altre pubblicazioni, oltre che un grande successo commerciale; riuscirà il suo erede, dal titolo “Chemtrails Over The Country Club”, a mantenere tutte le attese riposte in lei da parte di pubblico e critica?

Passando al rock, abbiamo anche in questo caso artisti attesi al varco: gli Arcade Fire, ad esempio, vengono dal loro lavoro più debole, “Everything Now” (2017), un riscatto è necessario per una delle migliori band del XXI secolo. Invece i The War On Drugs devono proseguire sul percorso di crescita intrapreso con “Lost In The Dream” (2014) e “A Deeper Understanding” (2017); un discorso simile vale per Iceage e Parquet Courts, che hanno pubblicato con i loro ultimi LP “Beyondless” e “Wide Awake!” (entrambi del 2018) due lavori variegati e che aprivano strade interessanti al loro punk-rock. Due giovani voci che A-Rock ha già analizzato in passato e inserito nelle liste di fine anno sono Julien Baker e shame: se la prima è attesa al varco dopo “Turn Out The Lights” (2017), il gruppo punk inglese dopo il fulminante esordio “Songs Of Praise” (2018) dovrà confermarsi. Un doveroso rimando poi va ai nuovi (o meglio dire “vecchi”) Red Hot Chili Peppers, che hanno riaccolto John Frusciante: vedremo se l’ispirazione è tornata quella dei tempi migliori. Infine menzioniamo Queens Of The Stone Age e Phoenix, che forse hanno dato il meglio, ma sono comunque nomi importanti nello scenario rock.

Il mondo del pop, dal canto suo, pare che vivrà un 2021 tumultuoso: se già abbiamo citato il nuovo disco di Lana Del Rey, come dimenticarsi che sia Lorde che Adele che Billie Eilish, forse anche Rihanna, potrebbero pubblicare i seguiti a CD che spesso avevano segnato la loro definitiva affermazione anche fra i critici di professione (soprattutto Lorde e RiRi)? Billie, dal canto suo, deve dare un seguito al clamoroso “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” (2019); che aveva travolto il mondo della musica due anni fa. Invece il nuovo LP di Adele segue di ormai sei anni “25” (2015): un erede è davvero necessario. Discorso diverso per St. Vincent: Annie Clark è una delle figure più interessanti a cavallo fra pop e rock, specialmente dopo “MASSEDUCTION” (2017), vedremo l’ispirazione dove la porterà.

Il lato hip hop della musica vivrà un 2021 davvero pieno di uscite importanti. Se abbiamo già anticipato che Kendrick Lamar è il più atteso assieme a Lana Del Rey da A-Rock, non dimentichiamoci che il 2021 è l’anno in cui verrà pubblicato, come già anticipato da Drake stesso, “Certified Lover Boy”, il seguito del controverso “Scorpion” (2018): dopo un 2020 che lo ha visto dare alla luce il mixtape “Dark Lane Demo Tapes”, discreto ma nulla più, il canadese deve dimostrare che il successo commerciale può essere accompagnato dal rispetto della critica. Discorso diverso per Danny Brown, che via social ha dichiarato che quest’anno arriverà “XXXX”, seguito del CD che lo ha fatto conoscere al mondo, “XXX” del 2011. Il suo stile, pazzoide ma creativo, sarà un toccasana per la scena hip hop. Il giovane rapper inglese slowthai invece seguirà il grande esordio “Nothing Great About Britain” (2019) con “TYRON”: manterrà le aspettative? Come non menzionare Travis Scott poi, uno dei nomi più trendy degli ultimi anni, atteso con “Utopia”? Chiudiamo la rassegna con il caldissimo Denzel Curry, che nel 2020 ha pubblicato due brevi ma piacevoli lavori e pare pronto a dare alla luce “Melt My Eyez, See Your Future”, e Vince Staples, reduce da un 2020 piuttosto opaco e caratterizzato da singoli molto deboli: speriamo possa recuperare la forma migliore nell’anno nuovo.

Per finire, abbiamo degli album ormai mitici, almeno nell’immaginario collettivo, probabilmente destinati a vedere la luce prima o poi… ma chissà quando! Per esempio, “Masochism” di Sky Ferreira è dibattuto ormai da anni, con la stessa Sky che pareva pronta nel 2019 a pubblicarlo ma poi era stata fermata dalla pandemia e dalla decisione di non farlo fino alla cacciata di Donald Trump dalla Casa Bianca. Chissà quindi che il 2021 non sia l’anno buono. Stendiamo un velo pietoso poi su “Dear Tommy”, il fantomatico seguito di “Kill For Love” dei Chromatics (che nel frattempo hanno pubblicato altri CD peraltro).

Se quindi il 2020 è stato un anno interessante, almeno per il mondo della musica, chissà il 2021 cosa ci riserverà! A-Rock proverà come sempre, al meglio delle sue possibilità, a darvi una copertura ampia e variegata!

I migliori album del decennio 2010-2019 (100-51)

Nel secondo capitolo della nostra lista dei migliori 200 CD della decade 2010-2019 attraversiamo le posizioni che vanno dalla 100 alla 51. Abbiamo già incontrato artisti rilevanti nella puntata precedente, ma le sorprese non sono finite. Buona lettura!

100) Shame, “Songs Of Praise” (2018)

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. L’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Iceage e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

99) Joanna Newsom, “Have One On Me” (2010)

(FOLK)

Il terzo album della cantautrice americana Joanna Newsom è una goduria per gli amanti della musica folk più pura. Grazie a melodie sempre cangianti, canzoni complesse mai però fini a sé stesse e l’abilità con l’arpa della Nostra, anche un triplo album (!) come “Have One On Me” è perfettamente digeribile.

Questa è infatti la prima caratteristica che colpisce del lavoro: la sua gigantesca ambizione. Pubblicare un album triplo della durata superiore ai 120 minuti, quando invece si sarebbero potuti produrre tre album distinti di ottima qualità nello spazio di 5-10 anni, è una mossa rischiosa ma dal rendimento alto, nel caso di Joanna. Se si aggiunge che lei stessa si rifiuta tutt’oggi di mettere a disposizione la sua discografia sui servizi streaming, capiamo che non è neppure dovuta alla massimizzazione dei ricavi, quanto piuttosto al solo e semplice amore per la musica e i suoi fans.

Chiaramente, in un CD tanto complesso, non tutto può essere perfetto, ma gli alti sono davvero strabilianti: la lunghissima title track, Good Intentions Paving Company e Baby Birch sono highlights assoluti. “Have One On Me” non è mai pesante, tanto da apparire anzi come il lavoro più essenziale a firma Joanna Newsom, addirittura migliore di “Ys” (2006).

98) Queens Of The Stone Age, “…Like Clockwork” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei veterani dell’hard rock li trovava a un bivio fondamentale: a ben sei anni da “Era Vulgaris” (2007), l’album forse più discusso tra fans e critici nella produzione della band, i Queens Of The Stone Age avrebbero ritrovato lo smalto perduto?

La risposta è sicuramente affermativa. “…Like Clockwork” infatti rispecchia fedelmente il titolo, girando per la maggior parte del tempo come un orologio svizzero, grazie a pezzi duri come My God Is The Sun e a brani più melodici come I Appear Missing. Questo è anche il CD più ricco di ospiti del gruppo: Dave Grohl, Elton John, Alex Turner e Mark Lanegan sono fra i più illustri, ma notiamo anche il recupero del precedente bassista Nick Oliveri, che era stato cacciato nell’ormai lontano 2004.

In poche parole, con “…Like Clockwork” i Queens Of The Stone Age ritrovarono un motivo per la propria esistenza, considerando inoltre un panorama musicale che tende a mettere da parte il rock per fare spazio a hip hop e trap. Josh Homme e compagni avrebbero poi proseguito il percorso di questo LP con il successivo “Villains” (2017), meno riuscito di “…Like Clockwork” ma con altrettanto successo di pubblico.

97) Chance The Rapper, “Coloring Book” (2016)

(HIP HOP – GOSPEL)

Il terzo mixtape del talentuoso Chance The Rapper è probabilmente il suo miglior lavoro fino ad ora. Dopo il bel lavoro “Acid Rap” del 2013, Chance era atteso al varco, ma “Coloring Book” non delude le attese di critica e pubblico.

Il forte afflato religioso che pervade tutto l’album, infatti, aggiunge al consueto hip hop dell’artista un tocco gospel che affascina ancora di più l’ascoltatore. I pezzi davvero da ricordare sono No Problem, Summer Friends e Same Drugs (una piccola Pyramids). Nessuno dei 14 brani del resto è davvero fuori posto: i più deboli sono la collaborazione con Future (Smoke Break) e Mixtape, ma per il resto la qualità è davvero altissima.

Possiamo senza dubbio premiare “Coloring Book” col titolo di miglior CD di musica hip hop-gospel del 2016. Forse della decade, considerato la scarsa fortuna incontrata da questo strano ibrido fra generi apparentemente agli antipodi negli anni seguenti.

96) Kanye West, “The Life Of Pablo” (2016)

(HIP HOP)

Si può criticare Kanye West per mille motivi: eccessivo egocentrismo, megalomania, arroganza… Insomma, la più grande superstar dell’hip hop non ha un carattere facile.

Musicalmente, però, niente da dire: senza di lui mancherebbe gran parte della musica rap moderna. “The Life Of Pablo” conferma la classe di Kanye: brani potenti e bellissimi come Famous, Real Friends, la perla gospel Ultralight Beam e Waves sono tra i migliori dell’anno. Da sottolineare poi il parco ospiti sterminato: Chance The Rapper, Frank Ocean, Kendrick Lamar, The Weeknd…

Insomma, un ensemble da sogno. Top 100 pienamente meritata. Soprassediamo sulle ultime vicende che hanno colpito Yeezy: i gossip passano, la musica resta. “The Life Of Pablo” è anche l’ultimo LP davvero all’altezza della fama e del talento di Kanye, che negli anni successivi si è perso fra polemiche politiche quantomeno controverse e scelte artistiche discutibili (si veda la conversione improvvisa e il rintanarsi nella musica gospel).

95) Hot Chip, “One Life Stand” (2010)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il quarto album dei britannici Hot Chip li trova pronti a spiccare il volo. Grazie a singoli di successo come Ready For The Floor e Boy From School, gli Hot Chip si erano ritagliati la reputazione di band di punta della scena electropop d’Oltremanica.

“One Life Stand” è il compimento di anni di studio e riflessione, grazie ai quali il gruppo raggiunge il picco delle proprie capacità. Brani lunghi ma accessibili come Thieves In The Night e la title track ancora oggi, dieci anni dopo la pubblicazione, sono i pezzi pregiati del disco; da non sottovalutare la più raccolta Brothers. Il tutto viene aiutato dalla chimica fra i due cantanti, Alexis Taylor e Joe Goddard. È probabile che atti come i Tame Impala e gli Arcade Fire, alla lontana, siano stati influenzati recentemente dalla band britannica.

In conclusione, gli Hot Chip in “One Life Stand” hanno prodotto il loro LP più compiuto e coeso, segno di una carriera in costante crescita, curata nei minimi dettagli e capace di dare un degno seguito a questo pregevole lavoro con il successivo “In Our Heads” (2012).

94) Sufjan Stevens, “The Age Of Adz” (2010)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il sesto album vero e proprio di Sufjan Stevens trova il grande cantautore americano a un bivio: meglio continuare nella consolidata formula che ne ha decretato la fortuna (ballate folk delicate e creative, con la sua voce angelica a fare da collante) oppure tentare qualcosa di nuovo e rinfrescante?

Non sapendo né leggere né scrivere Sufjan ha optato per una via di mezzo tanto intrigante quanto potenzialmente rischiosa: mescolare bellissimi pezzi folk come Futile Devices a derive elettroniche come la title track e Too Much. I risultati, pur non perfetti come nel successivo “Carrie & Lowell” (2015), hanno consentito a Stevens di ampliare notevolmente la propria palette sonora, aprendo la strada alla successiva sperimentazione di “Aporia” (2020).

Non sarebbe un CD a firma Sufjan Stevens senza qualche stranezza: innanzitutto la durata, che raggiunge i 75 minuti distribuiti su 14 pezzi, di cui uno (la conclusiva Impossible Soul) raggiunge i 25 minuti ed è divisa in cinque suite, mescolando insieme folk, elettronica e musica puramente sperimentale. Tanta creatività insieme spesso non è raggiunta da un artista nel corso di un’intera carriera… ma dato che stiamo parlando di Sufjan Stevens lo stupore è relativo.

“The Age Of Adz” è dunque un LP non facile, ma che premia gli ascoltatori pazienti con brani potenti e mai scontati. Il fatto che sia solo il terzo/quarto CD come qualità complessiva a firma Sufjan Stevens fa capire la grandezza del personaggio.

93) The National, “I Am Easy To Find” (2019)

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

92) Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” (2015)

(ROCK)

Il titolo sembra anticipare un album prolisso e pretenzioso; beh, nessuna impressione può essere più sbagliata. Courtney Barnett è una delle esordienti indie rock più interessanti del decennio: la giovane cantante australiana ritorna a inizio XXI secolo, età dell’oro dell’indie, quando nacquero band come Strokes e Franz Ferdinand.

Le prime due canzoni Elevator Operator e Pedestrian At Best sono manifesti delle intenzioni della Barnett; Small Poppies addirittura ricorda i Led Zeppelin. Il suo suono riesce però a contaminarsi anche con White Stripes e il pop à la Robbie Williams, ottenendo risultati spesso straordinari: la conclusiva Boxing Day Blues ne è un valido esempio.

L’immediatezza di “Sometimes I Sit And Think…” è paragonabile a “Vampire Weekend” e “Teen Dream” (tanto per citare due band come Vampire Weekend e Beach House che di immediatezza se ne intendono). Chiaramente il CD di per sé non sarà un capolavoro di sperimentalismo o arditezza stilistica, ma la musica deve anche essere svago, giusto? Quindi: grazie Courtney per aver riaperto (anche se per poco più di 35 minuti) l’armadio dei nostri ricordi, quando sembrava che l’indie dovesse soppiantare il mainstream.

91) My Bloody Valentine, “m b v” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 aspettarsi un nuovo album a firma My Bloody Valentine pareva un sogno destinato a non essere mai realizzato. “Loveless” (1991) era stato il picco dello shoegaze e Kevin Shields e compagni non erano stati in grado di dargli un seguito in 22 anni, fra falsi annunci e tentativi abortiti in studio.

Il fatto che, non solo il CD sia finalmente arrivato ma sia anche bello, anzi bellissimo, è quasi un miracolo. I My Bloody Valentine non si limitano a ricalcare il successo del secolo scorso riprendendo a menadito tutti i particolari che li hanno resi unici: voci androgine e mixate in scarsa evidenza, chitarre piene di riverbero, bassi e batteria inesistenti… No, nel terzo finale del lavoro arrivano anche a cercare nuove soluzioni, vicine alla musica sperimentale (si senta ad esempio Wonder 2).

È vero tuttavia che i pezzi migliori sono comunque più vicini allo shoegaze: da Only Tomorrow a Who Sees You, passando per She Found Now, la band irlandese si conferma maestra del genere. Kevin Shields ha ancora una volta dimostrato tutta la sua abilità, creando un lavoro nostalgico ma mai scontato. Forse non raggiungerà le vette di “Loveless”, ma questo “m b v” è un degno erede. Speriamo solamente che per il quarto LP del gruppo non si debbano attendere altri 22 anni.

90) Disclosure, “Settle” (2013)

(ELETTRONICA)

All’esordio, i fratelli Guy e Howard Lawrence fanno già il pieno, sia di critiche positive che di vendite. “Settle” è infatti uno dei migliori album di musica dance del 2013, abilissimo nel mescolare la house anni ’80 con i ritmi più moderni.

Notevoli anche le collaborazioni: abbiamo infatti tra gli altri Sam Smith, Mary J. Blige, AlunaGeorge… Insomma, pezzi da 90 della musica contemporanea. Tra i migliori brani abbiamo la celeberrima Latch, la trascinante When A Fire Starts To Burn, Voices e la più intima Help Me Lose My Mind.

In poche parole, un ottimo inizio per Guy e Howard Lawrence, solo parzialmente confermato dai seguenti “Caracal” (2015) e il breve EP del 2016 “Moog For Love”.

89) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (2011)

(ROCK – FOLK)

“Smoke Ring For My Halo” è il CD che ha fatto conoscere ad un pubblico più ampio Kurt Vile, ex War On The Drugs ed eroe degli slacker mondiali, ovvero uno di quei personaggi spesso al bordo della strada che paiono osservare disinteressati l’ambiente circostante ma poi, quasi pigramente, fanno osservazioni assolutamente fuori dal comune.

Il CD è una brillante collezione di canzoni folk-rock, nel solco tracciato da Bob Dylan, Neil Young e Tom Petty, tuttavia aggiornato abbastanza da essere attuale ancora oggi. È forse il disco più coeso e meno prolisso di Kurt, anche se non ha la smisurata ambizione del successore “Wakin On A Pretty Daze” (2013).

Tuttavia, canzoni riuscite come Puppet To The Man e Ghost Town, senza scordarci la delicata Baby’s Arms e Jesus Fever, rendono davvero speciale questo disco, uno dei migliori lavori del decennio 2010-2019 proprio per questa sua incredibile qualità: suonare antico e contemporaneo allo stesso tempo.

88) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017” (2018)

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

87) Foals, “Holy Fire” (2013)

(ROCK)

Tutti attendevano al varco i Foals: la tensione rischiava di divorarli. Invece, i cinque ragazzi se ne uscirono nel 2013 con un album ancora più bello di “Total Life Forever” (2010), svoltando verso un rock più carico, quasi hard rock in certi tratti.

Ne sono simboli due delle canzoni migliori del CD: Prelude e Inhaler (quest’ultima trascinante nel ritornello) sono come gemelli siamesi, una senza l’altra non esisterebbe, ma proprio per questo acquistano fascino. Non male il funk à la Hot Chip di My Number, così come il quasi shoegaze della conclusiva Moon.

Insomma, un lavoro vario e ben riuscito, che conferma il talento dei Foals e il loro appeal sul pubblico, fatto ulteriormente validato dal successivo “What Went Down” (2015). Uno dei migliori album rock dell’anno e della decade.

86) Run The Jewels, “Run The Jewels 3” (2017)

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora.

Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima.

Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

85) Waxahatchee, “Out In The Storm” (2017)

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsene una prima idea.

L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile. Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo. Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

84) Wilco, “The Whole Love” (2011)

(ROCK)

I Wilco sono fin dalla nascita uno dei gruppi rock più avvincenti della nostra epoca. Flirtando spesso con country e folk, il complesso americano ci ha regalato nel corso della loro carriera capolavori maestosi come “Summerteeth” (1999) e “Yankee Hotel Foxtrot” (2001).

“The Whole Love” potrebbe parere a primo acchito un tipico album di mezz’età di una band ormai soddisfatta della propria posizione nello scacchiere musicale e non più interessata a prendere rischi. Beh, se pensate questo non conoscete bene i Wilco: la loro qualità migliore è sempre stata infatti quella di brillare nei momenti apparentemente di maggiore sicurezza, che per altre band avrebbero segnato l’inizio della fine.

Jeff Tweedy e compagni con “The Whole Love” hanno infatti probabilmente creato il terzo miglior album di una carriera sempre più stellata. Pezzi ambiziosi come Art Of Almost e la conclusiva One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend) sono clamorosi nella loro difficoltà ma perfettamente compiuti. Lo stesso vale per la più semplice ma deliziosa I Might.

In conclusione, i Wilco hanno confermato ancora una volta di possedere un talento sconfinato, fonte primaria di una carriera ormai trentennale e con successi pienamente meritati.

83) Death Grips, “The Money Store” (2012)

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il primo album del duo hip hop noto come Death Grips fa seguito al mixtape “Exmilitary” del 2011 e ne è una logica continuazione. Partiamo da una premessa: come possono però convivere efficacemente rap, punk e noise in un album di 13 brani per 41 minuti? Questo è il mistero più affascinante di “The Money Store”.

MC Ride e Zach Hill, rispettivamente cantante e polistrumentista del gruppo, non hanno mai più raggiunto questo miracoloso equilibrio, ma “The Money Store” resta un reperto unico. Il CD è infatti altamente repellente, pieno di rabbia, rime insensate e suoni che all’orecchio suonano come un martello pneumatico… ma forse proprio oggi, per tutti questi motivi, suona più vitale che mai?

Non è ben chiaro verso chi sia diretta la rabbia dei Death Grips, probabilmente è più un volgersi verso la pura anarchia (il duo intitolerà non a caso un lavoro nel 2015 “The Powers That B”). L’altra cosa davvero incredibile di “The Money Store” è il successo di pubblico che ha riscosso: malgrado la già accennata totale assenza di brani commerciali, pezzi come I’ve Seen Footage e Get Got hanno ottimi numeri nei servizi di streaming. Con merito, viene da dire: entrambi hanno un implicito fascino, fatto di suoni discordanti ma equilibrati, così come The Fever (Aye Aye).

“The Money Store” è uno dei dischi più influenti e allo stesso tempo più irripetibile della moderna storia del rap. Mescolando industrial, rap e musica puramente sperimentale i Death Grips hanno prodotto a loro modo un capolavoro, destinato a far parlare di sé ancora per molti anni.

82) Solange, “A Seat At The Table” (2016)

(R&B – SOUL)

Il 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. Si pensi, oltre a questo “A Seat At The Table”, a “Formation” di Beyoncé e a “Freetwon Sound” di Blood Orange.

La sorella minore di Bey, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul e rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael Jackson e Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait.

La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Queen Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat.

In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

81) Godspeed You! Black Emeperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (2012)

(ROCK – SPERIMENTALE)

I Godspeed You! Black Emperor sono da sempre riconosciuti come gli artisti pionieri del post-rock, quel genere che mescola rock e musica sperimentale, con punte di metal, per creare spesso brani monumentali che, per l’appunto, hanno perso qualsiasi cosa le rendesse rock per diventare qualcosa di diverso, più epico e decisamente meno commerciale.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” segna il ritorno della band ben dieci anni dopo l’ultimo disco, “Yanqui U.X.O.” (2002). Il lavoro è composto da quattro canzoni, con una struttura a specchio. Prima uno decisamente articolato (con durata superiore ai 20 minuti!), poi uno più semplice, che funge da ristoro dopo due corse sfrenate. Se la prima metà è decisamente cupa, nella seconda i Godspeed You! Black Emperor cercano ritmi meno devastanti, prova ne siano i 20 minuti di We Drift Like Worried Fire, opposti alla durezza e drammaticità di Mladic. I due intermezzi Their Helicopters Sing e Strung Like Lights At Thee Printemps Erable accompagnano poi l’ascoltatore in territori più elettronici, quasi sperimentali.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” si caratterizza così per essere il disco più intenso del collettivo canadese, già noto ai fans per CD mai facili al primo ascolto. La carriera della band prosegue tutt’ora, con l’ultimo lavoro Luciferian Towers che risale al 2017, a testimonianza di un complesso più vivo che mai.

80) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs” (2018)

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è da sempre la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare. Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Nel 2018 sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione.

79) LCD Soundsystem, “American Dream” (2017)

(ELETTRONICA – ROCK)

Gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, l’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

“American Dream” è un trionfo. L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco. Il tono del brano è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a David Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

78) Tame Impala, “Innespeaker” (2010)

(ROCK)

L’esordio dei Tame Impala segna quello che sarà il loro percorso successivo: un sound che richiama molto i grandi artisti psichedelici di fine anni ’60-primi anni ’70, oltre a Flaming Lips e Beatles.

Parker condisce il tutto con la sua bella voce, molto simile a John Lennon. Gli highlights sono numerosi: ricordiamo in particolare It Is Not Meant To Be, Solitude Is Bliss (il tema della solitudine ritorna molto spesso nei testi dei Tame Impala) e Alter Ego. Bella anche la strumentale Jeremy’s Storm.

Insomma, un grande album d’esordio per la band australiana; ma ancora il meglio doveva venire, basti pensare a “Lonerism” (2012) o al rivoluzionario “Currents” (2015).

77) Bon Iver, “i,i” (2019)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa. La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

76) Mac DeMarco, “Salad Days” (2014)

(ROCK)

Il secondo album vero e proprio del cantautore canadese Mac DeMarco è la definitiva affermazione dopo il già interessante “2” del 2012. “Salad Days” mantiene la stessa stranezza di fondo, creata da atmosfere sempre ovattate, titoli e testi spesso nonsense (basti pensare a “Salad Days”) e canzoni tanto semplici quanto irresistibili, su tutte le riuscitissime Blue Boy e Brother.

Tuttavia, non bisogna prendere Mac per un sempliciotto: in sole 11 canzoni e 34 minuti è infatti riuscito a creare il suo miglior CD, pieno anche di riferimenti testuali attuali (si veda Treat Her Better, contro la violenza sulle donne). Si hanno poi anche aperture alla psichedelia, in Chamber Of Reflection specialmente.

Insomma, una miniera d’oro per gli amanti dell’indie rock più scanzonato ma allo stesso tempo attento al mondo che ci circonda. Mac non sarà il miglior cantautore della sua generazione, ma a volte anche del semplice buonumore è il benvenuto, no?

75) Nick Cave & The Bad Seeds, “Push The Sky Away” (2013)

(ROCK)

Il quindicesimo album di Nick Cave, come spesso affiancato dai fidati Bad Seeds, è stato il primo seguito all’avventura dei Grinderman, che l’aveva visto mettere da parte il progetto primario per alcuni anni a inizio decade.

“Push The Sky Away” prosegue idealmente la traiettoria intrapresa nei bellissimi lavori “The Boatman’s Call” (1997) e “No More Shall We part” (2001), vale a dire un Nick Cave decisamente più tranquillo rispetto allo scatenato frontman degli anni ’80. Abbiamo quindi atmosfere decisamente rilassate, quasi ambient, solo a tratti reminiscenti dei Bad Seeds di qualche anno prima (Jubilee Street ad esempio è magnifica in questo senso). Anche liricamente, mentre prima Nick parlava spesso di episodi biblici o assassini spietati (si ricordi la celebre Red Right Hand), adesso fanno capolino argomenti più mondani, dal bosone di Higgs (Higgs Boson Blues) a Hannah Montana (!!), in Mermaids, a Wikipedia.

Nick Cave inaugurò con “Push The Sky Away” la trilogia di CD sperimentali continuata poi con il devastante “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), questi ultimi influenzati anche dalla morte del figlio del Nostro. Insomma, certamente non album leggeri, ma capaci di connettersi come mai prima ai fans del gruppo e giustamente osannati dalla critica di settore.

74) Beyoncé, “Lemonade” (2016)

(POP – R&B)

Il CD della vendetta per la più splendente star femminile della musica nera contemporanea. Grazie anche ad ospiti di assoluto livello (James Blake, Jack White, Kendrick Lamar tra gli altri), Bey convoglia tutta la rabbia contro il marito Jay-Z in “Lemonade”, con brani riusciti come Hold Up, Don’t Hurt Yourself e 6 Inch (con The Weeknd) come highlights.

Beyoncé ha così composto il migliore album di una carriera già brillante: “Lemonade” è un esempio di come la musica possa diventare un’arma potentissima contro la discriminazione femminile e a favore della parità tra i sessi. Menzione particolare poi per lo spettacolare “visual album” che accompagna “Lemonade”: una collezione che raccoglie i video di ogni canzone contenuta nel CD.

In poche parole: una delle opere più ambiziose degli ultimi anni, che senza dubbio risuonerà anche in futuro come un capolavoro pop di altissimo livello, sia musicale che artistico (nel senso più ampio del termine).

73) Mitski, “Be The Cowboy” (2018)

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album.

72) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (2012)

(PUNK – ROCK)

Il secondo album degli statunitensi Cloud Nothings, capitanati dall’indomito Dylan Baldi, è arrivato come un fulmine a ciel sereno nella scena indie d’Oltremanica. Prodotto dal leggendario Steve Albini (storico collaboratore dei Nirvana), “Attack On Memory” suona in effetti come un disco grunge: duro, con voce di Baldi in primo piano, liriche disperanti e batteria rutilante.

L’inizio è scioccante: No Future/No Past è tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, con quella cavalcata finale che evoca il titolo dell’album. Ancora più spiazzante Wasted Days: oltre 8 minuti, con ampia sezione strumentale nella parte centrale e il testo forse più drammatico ma in cui è più facile riconoscersi: “I thought! I would! Be more! Than this!”, ripetuto come un mantra dalla voce straziata di Baldi. Il CD prosegue poi con pezzi più vicini al rock, come Stay Useless, che allentano la pressione nella seconda parte del lavoro.

“Attack On Memory” è l’inizio di una bella storia nel mondo punk-rock, proseguita poi con l’altrettanto potente “Here And Nowhere Else” (2014). I Cloud Nothings, però, non sono mai suonati così spontanei nella loro ancora giovane carriera. Ecco perché “Attack On Memory” mantiene un posto di prestigio fra i migliori album punk del decennio.

71) Real Estate, “Atlas” (2014)

(ROCK)

I Real Estate, giunti al terzo lavoro, raggiungono probabilmente il miglior risultato possibile per il loro dream pop, molto simile in “Atlas” agli Arctic Monkeys di “Suck It And See”, ma con quel tocco di Phoenix (sia nella voce di Martin Courtney che nelle melodie) che arricchisce ulteriormente il range di ritmi dell’album.

“Atlas” si contraddistingue per canzoni graziose e ben fatte (su tutte Had To Hear e Talking Backwards, senza dimenticare la strumentale April’s Song), ma nessuna delle tracce di “Atlas” è fuori fuoco. Un LP praticamente impeccabile, “Atlas” resterà sicuramente un caposaldo dell’indie negli anni a venire.

È un peccato che i Real Estate siano poi stati travolti dallo scandalo legato al loro chitarrista principale Matthew Mondanile (accusato di comportamenti inappropriati da varie donne e costretto a lasciare la band), tanto da non riuscire a replicare fino ad ora i brillanti risultati di “Days” (2011) e “Atlas”. Nulla però ci toglierà mai la possibilità di ascoltare un’altra volta un capolavoro come “Atlas”, tanto semplice quanto riuscito.

70) FKA twigs, “MAGDALENE” (2019)

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD è fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, supporto nella produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

69) James Blake, “James Blake” (2011)

(ELETTRONICA)

Dopo una serie di EP cominciata nel 2009 con “Air & Lack Thereof” e proseguita con “The Bells Sketch EP”, “CMYK EP” e “Klavierwerke EP” (tutti del 2010), la pubblicazione dell’album d’esordio del cantautore inglese James Blake era attesissima.

Attesa ben ripagata dall’eponimo “James Blake”, uno degli album di musica elettronica (ma anche pop e R&B) più influenti della scorsa decade. Potremmo anzi dire che, assieme alla “Trilogy” di The Weeknd, questo disco abbia riscritto le regole dell’R&B alternativo e dell’elettronica più raffinata.

Basi derivanti dal garage di Burial sono infatti mescolate al pianoforte e ad una sensibilità pop che, nei suoi momenti migliori, rende le canzoni di “James Blake” sublimi. Basti sentire per la prima volta The Wilhelm Scream o le due Lindisfarne. Non tutto è perfetto, altrimenti il CD sarebbe facilmente entrato nella top 10 della decade, ma i risultati complessivi sono stupefacenti.

68) Aphex Twin, “Syro” (2014)

(ELETTRONICA)

Lo avevamo dato per spacciato: Aphex Twin sembrava oramai pronto per i libri di storia della musica, descritto come una delle voci più importanti del panorama della musica elettronica, fino però ai primi anni 2000. Invece, uno dei ritorni più graditi del 2014 è senza dubbio quello di Richard D. James, aka Aphex Twin, 13 anni dopo l’ultimo lavoro di studio “Drukqs”.

La qualità della produzione di Aphex è come sempre notevole: un’elettronica raffinata, a volte orecchiabile (come nella introduttiva minipops 67 [120.2]), altre volte più aggressiva (come nella lunga suite XMAS_EVET10 [120] o nella più breve 180 db_[130]). Il colpo da maestro arriva però con la conclusiva aisatsana [102], delicatissima e commovente: solo piano di James e uccellini di sottofondo, che creano un’atmosfera davvero affascinante. Una sensibilità così spiccata in RDJ ci era ignota: chapeau.

67) Sleater-Kinney, “No Cities To Love” (2015)

(PUNK – ROCK)

Le Sleater-Kinney sono state negli anni ’90 una delle band simbolo del movimento punk femminile americano (non a caso chiamato “riot grrl”), assieme alle Hole di Courtney Love. Dopo aver sfornato sei ottimi CD, nel 2006 si erano sciolte, dedicandosi a progetti solisti. Nove anni dopo, l’evento: la reunion. E i risultati sono ancora una volta ottimi.

Le tre ex ragazze rivoltose si scoprono più mature, ma i cavalli di battaglia sono sempre i soliti, dalla critica al capitalismo sfrenato, alla discriminazione verso il sesso femminile, alla lotta alla povertà. Il punk delle origini non si è diluito, anzi: in poco più di 30 minuti le Sleater-Kinney sfornano dieci potenziali hit punk-rock, nessuna delle quali sfigura. Spiccano Price Tag, la title-track e A New Wave, una delle tracce dell’anno.

Insomma, un trionfo: come testimoniano Blur e Sleater-Kinney (ma anche i My Bloody Valentine nel 2013), le reunion a volte riescono ad aggiungere capitoli interessanti a carriere già leggendarie.

66) Vampire Weekend, “Contra” (2010)

(ROCK – POP)

Il rischio dei secondi album di band talentuose ma fondamentalmente “conservatrici” è quello di tentare di ripetere il primo, riuscendoci solo a tratti. Questo è il caso di Strokes, Interpol, Bloc Party e Franz Ferdinand, per citarne alcuni celebri. Ma “Contra”, secondo CD dei Vampire Weekend, non compie questo errore: la band riesce ad ampliare notevolmente il proprio range sonoro, aprendo ad atmosfere alla Paul Simon.

Se infatti l’inizio ricalca l’indie scanzonato di “Vampire Weekend”, il bell’esordio del 2008, con brani veloci e ben fatti come Horchata, White Sky e Holiday, la parte centrale (per esempio con Run o Taxi Cub) ma soprattutto l’ultimo tratto dell’album aprono a sonorità nuove e potenzialmente di radicale cambiamento: basti ascoltare Giving Up The Gun o Diplomat’s Son, lunga addirittura 6 minuti.

In conclusione, i Vampire Weekend, anche se non sempre centrano il bersaglio, restavano ancora una band su cui puntare: possiamo dire una start up, ancora in divenire, ma con una prospettiva a 5 stelle, fatto confermato dal magnifico “Modern Vampires Of The City” (2013).

65) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” (2018)

(ELETTRONICA)

Il titolo dell’album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco. La musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE.

64) Janelle Monáe, “The Electric Lady” (2013)

(R&B – POP)

Il secondo album della talentuosa Janelle Monáe è un altro trionfo. Dopo la sorpresa di “The ArchAndroid” (2010), Janelle non ha per nulla perso lo smalto in questo “The Electric Lady”, in cui torna la figura di Cindy Mayweather e si compongono la quarta e quinta suite dell’ambiziosa opera su questa androide umanizzata.

I temi portanti sono peraltro i medesimi del precedente lavoro: l’amore libero, la voglia di rimuovere quel malessere interno che tutti prima o poi abbiamo… Anche il concept è lo stesso, come già ricordato, supportato da ospiti magnifici come Prince, Miguel, Solange Knowles ed Erykah Badu.

La novità risiede nel semplice fatto di replicare i risultati strabilianti di “The ArchAndroid”, che per molti sarebbe stato un ostacolo troppo grande e una pressione intollerabile. Del resto, però, talenti cristallini e poliedrici come l’artista americana sono rarissimi, così come brani clamorosi come Q.U.E.E.N. ed Electric Lady.

63) Sky Ferreira, “Night Time, My Time” (2013)

(POP – ROCK)

L’esordio (di cui ancora non abbiamo un seguito) di Sky Ferreira è semplicemente un buon album? Sì e no. Senza dubbio le belle canzoni abbondano, da Boys a Nobody Asked Me (If I Was Okay), passando per Heavy Metal Heart e la conclusiva title track; tuttavia, l’impatto che ancora oggi lei e questo LP hanno sul mondo musicale sono immensi.

Sky era infatti apparentemente destinata a diventare una popstar: con all’attivo il brillante singolo Everything Is Embarrassing e l’EP “Ghost” (2012) che vantava la collaborazione di Cass McCombs e Dev Hynes (Blood Orange), tutto pareva apparecchiato per il grande botto. Invece Sky ha abbandonato la via facile, decidendo di rifugiarsi in un CD che affronta temi come l’odio per sé stessi e i problemi d’amore in maniera inusuale, con uno sguardo femminista che ancora oggi ha peso su figure come Charli XCX e le sorelle Haim, approcciando generi disparati come il synthpop, il grunge e il rock alternativo.

“Night Time, My Time” non ha un erede probabilmente anche per questo motivo: replicare un piccolo gioiello come questo lavoro e rischiare di rovinare un’eredità così pesante ha reso la Nostra più insicura e, dato il suo maniacale perfezionismo, “Masochism” non ha ancora visto la luce, diventando una sorta di Sacro Graal: da tutti ricercato ma da nessuno trovato.

62) The War On Drugs, “A Deeper Understanding” (2017)

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala. Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del decennio, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

61) Grimes, “Art Angels” (2015)

(POP – ELETTRONICA)

Claire Boucher, la cantante canadese meglio conosciuta come Grimes, nel 2012 aveva stupito tutti con “Visions”, suo terzo lavoro di studio ma primo ad avere un certo successo, superbo CD che mescolava elettronica e pop in maniera davvero unica. In “Art Angels” Grimes torna alla stessa formula già sperimentata in “Visions”, con minore inventiva ma superiore confidenza nei propri mezzi.

I risultati sono ancora una volta ottimi: brani come la potente SCREAM, la title track e la ottima Venus Fly (a cui ha collaborato Janelle Monáe) sono concepibili solo da un genio della musica moderna come Grimes, molto maturata anche vocalmente. La perla del CD è però World Princess Part II, uno dei migliori pezzi pop dell’anno.

Album per certi versi folle, “Art Angels”, ma nondimeno accattivante e ben fatto: i pochi passi falsi (come California) sembrano confermare che la perfezione non è di questo mondo. Top 100 pienamente meritata per “Art Angels” e per Claire Boucher, una delle poche artiste per cui si possa dire: nessuno suona come lei.

60) Deerhunter, “Fading Frontier” (2015)

(ROCK)

I Deerhunter non sono mai stati apprezzati per le canzoni allegre o il clima gioioso dei loro album. Anzi, molto spesso valeva il contrario: a partire dal secondo lavoro di studio “Cryptograms”(2007) fino a “Monomania” (2013), la loro cifra stilistica era sempre stato un indie rock venato di ambient music e pop, aggressivo e con testi riguardanti temi scottanti come morte, sessualità, guerra…

“Fading Frontier” è perciò una gradita scoperta: un album che cresce ad ogni ascolto, accessibile e decisamente più commerciale rispetto ai citati lavori precedenti. Si ritorna dunque alle melodie dream pop di “Halcyon Digest” (2010), capolavoro del gruppo. Bradford Cox e Lockett Pundt, frontman e chitarrista dei Deerhunter, oltre che menti creative della band, danno sfogo alla loro vena più intimista e serena.

I testi d’altra parte non sono banali nemmeno in “Fading Frontier”: in Take Care “copiano” un titolo ai Beach House e a Drake, ma trattano di storie d’amore finite male; in All The Same narrano le disavventure di un uomo che perde moglie e figli, ma trasforma le proprie debolezze in forza per riemergere. Il brano migliore è però Breaker, primo pezzo con parte canora condivisa fra Cox e Pundt nella produzione dei Deerhunter, che riecheggia Beach House e Real Estate. Bella anche Living My Life, che sembra quasi ispirarsi a Bon Iver. Nessuno dei 9 piccoli gioielli che compongono questo LP può dirsi fuori posto: un altro tassello alla già ottima carriera dei Deerhunter è stato aggiunto.

59) Alt-J, “An Awesome Wave” (2012)

(ROCK)

Una band che agli esordi vince il Mercury Prize non è frequente, ma gli Alt-J di “An Awesome Wave” lo meritano: era da tempo che non si sentiva un disco così innovativo.

Gli Alt- J creano infatti una miscellanea sonora affascinante ed efficace: esclusi infatti la Intro iniziale e i due Interlude, il CD cattura l’attenzione dello spettatore creando un genere fatto di indie pop, rock leggero e una spruzzata di elettronica tremendamente bello nei suoi picchi creativi (Fitzpleasure, Breezeblocks e Something Good sono davvero magnifiche).

Anche nei momenti più intimisti “An Awesome Wave” non delude: sia Taro che Dissolve Me non sfigurano. In poche parole: uno dei migliori CD del 2012 e del decennio.

58) Wolf Alice, “My Love Is Cool” (2015)

(ROCK)

Al primo album di studio, gli inglesi Wolf Alice tirano fuori un album semplicemente splendido, che riesce a mescolare con grande abilità generi fra loro diversi (grunge, alternative rock e pop), grazie anche alle meravigliose voci di Ellie Rowsell e Joff Oddie, che un po’ giocano a fare gli xx e un po’ i My Bloody Valentine.

Non vi sono brani sbagliati o fuori posto: anzi, il terzetto iniziale (Turn To Dust, Bros e Your Loves Whore) è probabilmente il migliore del 2015. Altri pezzi non trascurabili sono Lisbon e la conclusiva The Wonderwhy, che ricordano gli Interpol di “Turn On The Bright Lights”; invece Giant Peach gioca a fare gli Strokes.

Non sarà il nuovo “Loveless” o “Kid A”, ma certamente “My Love Is Cool” resterà anche in futuro come uno dei migliori esordi degli anni ’10 del XXI secolo. Complimenti ai Wolf Alice.

57) Iceage, “You’re Nothing” (2013)

(PUNK)

Il secondo CD dei danesi Iceage è facilmente uno dei più begli album punk del decennio 2010-2019 e, allo stesso tempo, uno dei più feroci. Prendendo spunto dalle scene hardcore e punk del passato, gli Iceage (guidati dal bravo frontman Elias Bender Rønnenfelt) creano un grido punk lungo 28 minuti, una durata relativamente breve per un disco nella nostra epoca, ma lungo abbastanza da comunicare tutto il disagio giovanile presente nel gruppo.

In realtà già l’esordio “New Brigade” (2011) aveva lasciato intravedere la natura selvaggia degli Iceage, tanto che addirittura il loro “padrino” Iggy Pop aveva detto di esserne spaventato. La paura è in effetti quella che emana da “You’re Nothing”: già dal titolo i temi dominanti sono intuibili.

Attraverso canzoni devastanti come Ecstasy e Burning Hand Rønnenfelt e compagni creano un senso di claustrofobia che non se ne va se non alla fine del CD. “You’re Nothing” è forse troppo duro per molti, ma resta (e resterà probabilmente anche in futuro) uno dei migliori dischi punk della decade appena finita.

56) Angel Olsen, “My Woman” (2016)

(ROCK)

Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop-rock contemporaneo.

Se inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock, con “My Woman” il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Allo stesso tempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire.

Il 2016 è stato l’anno in cui, con lei e Courtney Barnett, il rock femminile ha trovato due grandi interpreti. Fatto confermato, per quanto riguarda Olsen, dallo splendido “All Mirrors” del 2019, che ce ne ha fatto scoprire il lato più art pop.

55) Kurt Vile, “Wakin On A Pretty Daze” (2013)

(ROCK)

Il quinto album solista di Kurt Vile trova il Nostro al picco delle proprie capacità. “Wakin On A Pretty Daze” è il CD più accessibile della sua discografia, pieno di momenti davvero paradisiaci per gli amanti del rock vecchio stampo: i 9 minuti di Wakin On A Pretty Day sono clamorosi, così come l’epica chiusura di Goldtone. Nel mezzo abbiamo altre perle, da KV Crimes a Too Hard, che rendono il lavoro davvero imperdibile.

I semi di questo squisito LP erano già stati pianati nel precedente “Smoke Ring For My Halo” (2011), dove Kurt aveva abbandonato il lo-fi dei primi dischi da frontman dopo l’apprendistato nei The War On Drugs per far spazio a un rock infarcito di folk e psichedelia. È però in “Wakin On A Pretty Daze” che il suo stile rilassato ma mai prevedibile sboccia completamente.

Il CD è davvero un piacere, intaccato solamente dall’eccessiva lunghezza (oltre 69 minuti) che però non danneggia i momenti davvero memorabili di un lavoro caposaldo del rock classico ma anche psichedelico del decennio.

54) St. Vincent, “Strange Mercy” (2011)

(ROCK)

Annie Clark, in arte St. Vincent, è una delle artiste davvero fondamentali nel panorama pop-rock degli anni ’10. Il suo stile a metà fra ricercato e scanzonato, con un’estetica a tratti à la David Bowie, la rendono un personaggio che non passa mai inosservato; a ciò aggiungiamo canzoni spesso riuscite e il cocktail diventa esplosivo.

“Strange Mercy”, il terzo album a firma St. Vincent, è il lavoro per molti definitivo della cantante statunitense. Mescolando abilmente la sua voce ammaliante a schitarrate a tratti selvagge e testi mai scontati, la Clark condensa in poco più di 40 minuti molta della storia dell’indie rock.

Da Chloe In The Afternoon a Cruel, passando per Champagne Year e Surgeon, il CD è un trionfo, che denota finalmente tutto il talento del progetto St. Vincent, ulteriormente rifinito nel 2014 nell’eponimo “St. Vincent”.

53) Little Simz, “GREY Area” (2019)

(HIP HOP)

Se spesso i passati lavori di Little Simz erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), in “GREY Area” l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque ed evita di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap della decade.

52) Run The Jewels, “Run The Jewels 2” (2014)

(HIP HOP)

La seconda collaborazione fra i due rapper americani Killer Mike ed El-P è un trionfo per gli amanti del rap più duro. In un compatto formato da 11 brani e 39 minuti, i Run The Jewels confermano un’intesa incredibile e un’abilità vocale e di produttori notevoli, che rendono “Run The Jewels 2” il miglior CD ad oggi del duo.

Il lavoro è quasi nostalgico in certi tratti: la collaborazione con Zach De La Rocha (Rage Against The Machine) e i rimandi a Public Enemy e N.W.A. sono chiari e allo stesso tempo graditi, nondimeno i Run The Jewels non sono semplicemente dei tradizionalisti. Anzi, nel 2014 questo disco era davvero all’avanguardia: le sue denunce della violenza a sfondo razziale della polizia americana e la sfida lanciata agli haters sono temi tuttora attuali.

Soprattutto, a risaltare ancora oggi sono le canzoni: fin dall’apertura feroce di Jeopardy, passando per la durissima Close Your Eyes (And Count To Fuck) e Crown, “Run The Jewels 2” è un LP che non lascia spazio al filler e, a tratti, è quasi troppo da prendere tutto in una volta. Ciò non toglie valore ad un lavoro tanto duro quanto sincero: valori non scontati nel panorama musicale moderno, per certi versi troppo “smielato” specie nel mondo pop.

51) Darkside, “Psychic” (2013)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il progetto Darkside, ossia il nickname della collaborazione fra Nicolas Jaar e il chitarrista/bassista Dave Harrington, ha scritto pagine molto importanti della musica degli anni ’10. Nel breve spazio di tre anni infatti il duo ha pubblicato l’EP di esordio “Darkside” (2010), remixato “Random Access Memories” dei Daft Punk (2013) e dato alla luce il loro per ora unico CD vero e proprio, il brillante “Psychic”.

Jaar è molto conosciuto e stimato per essere uno dei più innovativi artisti di musica elettronica, capace di spiccare sia come produttore, sia come compositore, che si parli di musica ambient, dance oppure sperimentale. Darkside è il lato più rock di Nicolas: i riferimenti a prog rock, funk e space rock (quindi agli anni ’70 e ’80 del XX secolo) sono numerosi, basti sentirsi l’epica Golden Arrow e The Only Shrine I’ve Seen. I pezzi riusciti però non terminano qui: le 8 perle di “Psychic” creano infatti un insieme coeso ma mai ripetitivo, anzi a volte quasi elitario nei riferimenti e nella complessità delle canzoni.

Melodie come la già citata Golden Arrow e Paper Trails rientrano di diritto fra le canzoni più belle della decade e rendono questo “Psychic” imprescindibile per gli amanti della musica ai confini fra rock ed elettronica. Dal canto suo Nicolas Jaar si conferma artista versatile e ormai pronto a spiccare il volo fra i maestri dell’elettronica.

Manca poco ormai per sapere chi è il CD più bello della decade 2010-2019 secondo A-Rock! State sintonizzati, domani il verdetto sarà espresso!

I 50 migliori album del 2018 (25-1)

Nella prima parte della lista dei 50 migliori CD del 2018 avevamo incontrato artisti importanti come Pusha-T, Robyn e Travis Scott. Chi sarà stato così bravo da entrare nei migliori 25? Buona lettura!

25) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino”

(ROCK – POP)

Abbiamo aspettato cinque anni (al 2013 risale infatti “AM”). Ancora una volta, Alex Turner e soci hanno radicalmente cambiato pelle, approcciando un pop-rock con inserti blues e jazz che mai ci saremmo aspettati da loro, specialmente dopo un disco a tratti hard rock come “AM” e le esperienze di Turner e del batterista Matt Helders con due mostri sacri del rock pesante come Josh Homme e Iggy Pop.

“Tranquility Base Hotel & Casino” è infarcito di riferimenti culturali; a dirla tutta, è un vero e proprio concept album, composto praticamente in solitudine da Turner nella sua casa di Los Angeles. Egli si immagina che gli umani abbiano ormai colonizzato la Luna e che vi siano stati aperti locali, tra cui appunto il Tranquility Base (sia hotel che casinò) e la sua band suoni proprio in questo locale. Il nome non è casuale: il Tranquility Base era il sito lunare dove l’astronave americana Apollo 11 atterrò nel 1969. I riferimenti a romanzi e film di fantascienza sono poi sparsi lungo le 11 canzoni dell’album: vi è una canzone dedicata al tema (Science Fiction), una che evoca addirittura Batman (la suadente Batphone)… Nell’epica Four Out Of Five, si fa riferimento ad un libro del 1985, “Amusing Ourselves To Death”, in cui pionieristicamente si anticipavano i rischi che l’eccessivo flusso di informazioni, spesso false, può avere sugli uomini.

In effetti, questo è anche il disco più politico degli AM: oltre al riferimento alle fake news, Turner parla del presidente americano Donald Trump definendolo “un wrestler che veste pantaloncini dorati” (Golden Trunks) e degli effetti deleteri che una vita vissuta sui social media ha sulle persone più vulnerabili (She Looks Like Fun). Accanto a tutto questo, arriva anche una stoccata ai critici di professione (forse anche quelli musicali?), in Four Out Of Five.

Insomma, carne al fuoco ne abbiamo davvero moltissima. Ma musicalmente, il CD è riuscito o no? Ad un primo ascolto, le scimmie artiche sembrano aver perso tutto quello che le rendeva speciali: assoli praticamente assenti, la batteria di Helders a malapena percettibile, basso mai in evidenza. Tuttavia, iniziando ad apprezzare anche il contesto in cui Turner ha posto il disco, si inizia a comprendere pienamente i pezzi. Evidenti sono le influenze di “Pet Sounds” dei Beach Boys, ma anche di Leonard Cohen e Serge Gainsbourg, non casualmente alcuni degli artisti più apprezzati da Alex Turner.

I pezzi migliori sono l’iniziale Star Treatment, la spettacolare ballata The Ultracheese e Batphone; meno riuscite Golden Trunks (Helders completamente assente) e la confusa She Looks Like Fun, che evoca Jack White ma non pare completamente a fuoco.

In conclusione, Turner & co. hanno ancora una volta sorpreso i loro fan: chi si aspettava un nuovo “AM” rimarrà completamente deluso, nondimeno va elogiata la capacità degli Arctic Monkeys di riuscire ad ogni LP a cambiare pelle: passando dall’indie allo stoner rock, dal brit pop all’hard rock e ora al lounge pop, hanno mantenuto un livello compositivo altissimo. Averne di gruppi così coraggiosi e talentuosi; potrebbero davvero essere i Blur o, chissà, i Radiohead degli anni a venire.

“I just wanted to be one of the Strokes, now look at the mess you made me make”. Tutto il disco può essere sintetizzato in questo verso, rintracciabile in Star Treatment (titolo evocativo del trattamento riservato allo star system, peraltro). Probabilmente, però, l’allievo (Alex) ha superato il maestro (Julian).

24) Noname, “Room 25”

(HIP HOP – SOUL)

Il primo album vero e proprio di Fatimah Nyeema Warner, in arte Noname, segue il fortunato mixtape “Telefone” del 2016. Già nel precedente lavoro la ventisettenne aveva mostrato qualità non banali, soprattutto per l’innata abilità di fondere fra loro generi come rap, funk e soul. In “Room 25” Noname amplia la propria tavolozza, inglobando elementi di neo-soul degni del miglior D’Angelo e affrontando temi delicati come la scoperta della propria sessualità in maniera sincera, a volte addirittura sfacciata.

“Room 25” si apre con Self, che contiene uno dei versi più riusciti dell’anno: “My pussy teachin’ ninth-grade English. My pussy wrote a thesis on colonialism”. Beh, una dichiarazione d’intenti niente male, condita da un’ironia non comune. I riferimenti alla propria sessualità sono poi sparsi qua e là nel corso del breve ma efficace album, ad esempio in Window Noname canta “I know you never loved me but I fucked you anyway. I guess a bitch likes to gamble”. Tuttavia, le liriche così esplicite (che riportano alla mente “CTRL” di SZA del 2017) non sono la parte migliore dell’album. Infatti la Warner, in soli 35 minuti, condensa circa vent’anni di musica nera: trovando un precario punto d’incontro fra jazz, hip hop e soul, “Room 25” diventa un LP irrinunciabile per gli amanti della black music. Noname è consapevole dei giganti che sta citando, non a caso in Don’t Forget About Me dice “Somebody hit D’Angelo, I think I need him for this one”, nondimeno non si lascia intimorire e forgia un lavoro pregevole nelle sue parti migliori.

Infatti, non è facile a resistere a belle canzoni come Ace (che vanta la collaborazione di Saba, altro rapper emergente) e la dolce Prayer Song. Se vogliamo trovare un difetto al disco è l’eccessiva frammentarietà: la brevità è un pregio, ma molti pezzi non arrivano nemmeno ai canonici tre minuti, fatto che alla lunga può stufare. In generale, però, ripetuti ascolti attenuano questa caratteristica ed anzi esaltano la grande varietà di ritmi e generi affrontati dall’artista.

In conclusione, “Room 25” è un ottimo disco d’esordio per la giovane Noname, che promette di occupare un posto importante nel panorama hip hop degli anni a venire. Il fatto poi che rinunci addirittura a possedere un nome d’arte e non abbia (ancora) alcuna rivalità con le superstar femminili del rap contemporaneo la rendono umile e pronta a sbocciare definitivamente.

23) Father John Misty, “God’s Favourite Customer”

(ROCK)

Joshua Tillman è giunto al quarto CD sotto il nome di Father John Misty, quello che lo ha portato alla celebrità e contemporaneamente a diventare uno dei cantautori indie più discussi anche online, a causa delle sue prese di posizione sempre controverse, ma mai banali. “God’s Favourite Customer” arriva pochi mesi dopo il monumentale “Pure Comedy”, senza dubbio il lavoro più ambizioso di Tillman: il CD era infatti un’analisi di tutti i mali della società contemporanea, fatta su canzoni molto barocche, per una durata complessiva di 74 minuti. Insomma, un lavoro potenzialmente molto divisivo, che tuttavia aveva fatto breccia anche nel pubblico meno ricercato ed era entrato in molte liste dei migliori album del 2017 (compresa la nostra) con pieno merito.

“God’s Favourite Customer” probabilmente avrà la stessa fortuna, ma per motivi opposti: il disco è considerevolmente più breve di “Pure Comedy” e caratterizzato da canzoni meno complesse. Anche liricamente l’album è radicalmente diverso: adesso Tillman affronta i propri demoni personali, lasciando da parte le riflessioni sul mondo esterno. I risultati, come sempre con lui, sono ottimi.

Già le prime due tracce, Hangout At The Gallows e Mr. Tillman, rappresentano appieno questa svolta: ritorno alle ritmiche e sonorità di “Fear Fun”, durata ragionevole e immediato appeal. Il CD proseguirà poi su questa strada, affiancando canzoni più rock (la bella Disappointing Diamonds Are The Rarest Of Them All e We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That)) ad altre più melodiche (Just Dumb Enough To Try e The Songwriter). A coronamento di tutto sta la bella voce di Father John Misty, più calda ed evocativa che mai: basti sentire The Palace, solo voce e piano.

Liricamente, dicevamo, Tillman affronta gli angoli più oscuri della sua psiche, in particolare la paura di perdere l’amata moglie e le pene d’amore che questo provocherebbe. Un’apertura considerevole e sincera, soprattutto considerato che parliamo di un artista noto per il suo ego infinito e la sua sagace ironia piuttosto che per la sua fragilità.

In conclusione, in soli 38 minuti e dieci canzoni, Father John Misty conferma ancora una volta il suo immenso talento: mescolando influenze disparate (da Neil Young a Bob Dylan ai Fleet Foxes, il suo ex gruppo), Joshua Tillman ha prodotto un LP tanto semplice quanto gradevole. Chissà che il picco delle sue capacità non debba ancora essere raggiunto…

22) Jon Hopkins, “Singularity”

(ELETTRONICA)

Il nuovo lavoro del compositore inglese Jon Hopkins, uno dei più stimati nel panorama della musica elettronica, conferma tutte le sue qualità. Mescolando abilmente techno e ambient, “Singularity” è uno dei CD di elettronica più intriganti del 2018, che in generale si è rivelato eccellente per questo tipo di musica,

La partenza è ottima: Singularity è potente e suadente allo stesso tempo, ricordando Aphex Twin nei suoi momenti migliori. Il titolo evoca la vita e, contemporaneamente, la singolarità: ossia quel momento in cui la capacità intellettiva delle macchine supererà la mente umana. Insomma, il disco sembra quasi assumere l’aspetto di un concept album. Fatto ulteriormente confermato dalle altre tracce presenti, dai titoli altamente evocativi, come C O S M, Everything Connected e Feel First Life.

Tecnicamente, come sempre, Jon Hopkins si dimostra un maestro: la produzione e il mixaggio sono magnifici, l’ospitata di Clark in Emerald Rush aggiunge ulteriore profondità alla canzone… Insomma, da questo punto di vista nulla da eccepire. Possono risultare invece troppi e molto densi i 62 minuti dell’album, che infatti per essere pienamente apprezzato richiede almeno 3-4 ascolti. Nondimeno, il premio per questa pazienza è uno degli LP di musica elettronica migliori del decennio.

I pezzi migliori sono la title track, Emerald Rush, Luminous Beings e Recovery, che riporta alla mente le sonorità ambient di Brian Eno. Ma nessuna traccia è veramente deludente, sintomo di un album difficile (alcune canzoni superano i 10 minuti) ma coeso. Giunto al quinto CD di inediti, Hopkins sembra aver trovato la definitiva maturità. Chi pensava che “Immunity” (2013) fosse solo un episodio fortunato dovrà ricredersi.

21) Vince Staples, “FM!”

(HIP HOP)

Il terzo album del talentuoso rapper americano è stato un fulmine a ciel sereno: annunciato il giorno prima della pubblicazione, avvenuta il 2 novembre, solo 22 minuti di durata e un’intensità non scontata per uno che ha dimostrato di trovarsi bene anche con sonorità meno ossessive (soprattutto nel suo capolavoro “Summertime ‘06” del 2015).

Ad aggiungere pepe all’intero progetto è il fatto che Vince rappa solo in otto delle undici tracce che compongono “FM!” (chiaro riferimento alle onde radio, come vedremo in seguito). Tre sono infatti brevi intermezzi dove, prendendosi gioco dell’ascoltatore, Staples annuncia un nuovo CD degli amici Earl Sweatshirt e Tyga. È chiaro l’intento del rapper, che dedica sostanzialmente un intero LP (anche se breve) alla radio e all’importanza che essa ha avuto nella sua infanzia.

Tuttavia, il fine puramente satirico dell’album non deve nascondere il talento immenso messo in mostra nuovamente da Staples, sempre più una voce fondamentale dell’hip hop contemporaneo. Le iniziali Feels Like Summer e Outside! sono infuocate e richiamano le sonorità degli esordi di Vince, infarcendole però anche con l’elettronica che permeava “Big Fish Theory” (2017) e l’EP “Prima Donna” (2016). Nessuna canzone fatta e finita è fuori posto, tanto che gli highlights più arditi (da Outside! a Run The Bands) non sono poi tanto migliori dei brani meno sperimentali, ma non per questo scontati: tutto è congeniale infatti a creare un disco tanto caotico quanto intrigante e mai scontato.

Dal punto di vista testuale, il rapper californiano è da sempre famoso per l’abilità nel descrivere la tragica condizione dei sobborghi (Ramona Park di Long Beach il suo bersaglio preferito). In “FM!” il mirino non è puntato unicamente su sé stesso, malgrado Vince abbia scritto su Intagram che avrebbe dedicato il lavoro al suo primo, vero fan: sé stesso. Vince sputa sentenze tanto dure quanto condivisibili o almeno corroborate dai numerosi episodi di razzismo accaduti recentemente in America. In Feels Like Summer abbiamo il seguente, durissimo verso: “We gonna party ’til the sun or the guns come out”. Altro esempio della sua visione disincantata della vita, già venuta alla luce nelle frasi di “Prima Donna” in cui enunciava le proprie tendenze suicide, è presente in FUN!: “My black is beautiful, but I’ll still shoot at you”.

Insomma, questo album breve/EP che dir si voglia è un’altra aggiunta preziosa ad una discografia sempre più ingombrante. I beat scorrono fluidamente, la produzione è ottima e Vince dimostra una voglia di sperimentare assolutamente rara nel mondo hip hop moderno. Dopo essere partito da sonorità tipiche del rap West Coast (ritmi lenti, basi cupe e liriche drammaticamente realistiche), Staples ha sperimentato con ritmi elettronici e decisamente più tesi nelle prove più recenti. “FM!” riassume tutto in 22 minuti: una missione quasi impossibile, ma riuscita quasi su tutta la linea.

Se questo è il picco delle sue abilità, ben venga; ma sembra proprio che Vince Staples abbia ancora molto da dare alla musica moderna. Che il suo manifesto definitivo debba ancora arrivare?

20) The Voidz, “Virtue”

(ROCK)

Julian Casablancas è tornato con gli ormai fidati Voidz con un CD molto diverso dal precedente sforzo del gruppo, quel “Tyranny” (2014) che mescolava ferocia e sperimentalismo, riff taglienti e canzoni semplicemente folli. Insomma, tutto meno che accessibile. Ebbene, “Virtue” riporta con la mente alle atmosfere del disco solista di Julian del 2008, “Phrazes For The Young”, che mescolava psichedelia e pop.

In particolare, sorprende la capacità del frontman degli Strokes di fondere fra loro tutte le influenze sperimentate negli ultimi 15 anni: dal rock di “A First Of Impression Of Earth” al suo album solista, ma anche il gusto anni ’80 di “Angles” e “Comedown Machine”. Il risultato potrà risultare straniante, a volte incoerente, ma mai prevedibile e sempre molto intrigante.

La prima canzone del CD, Leave It In My Dreams, è fra le migliori mai scritte da Casablancas dopo “Room On Fire”: synths raffinati, prova vocale ottima, base ritmica azzeccata. Idem per QYURRYUS, fra i singoli estratti, non per caso: i rimandi anni ’80 sono evidenti, per esempio ai Talking Heads, ma non invadenti. La prima parte di “Virtue” è quindi davvero convincente, contando su altri buoni pezzi come Permanent High School e ALieNNatioN. Non che la seconda sia da meno, tuttavia lo sperimentalismo a volte può risultare fine a sé stesso (per esempio in Think Before You Drink e Wink). I rimandi al precedente album dei Voidz sono pochi, ma non inutili: la chitarra potente di Pyramid Of Bones e One Of The Ones rende questi pezzi davvero coinvolgenti.

Il bilancio di questa cavalcata attraverso generi tanto diversi è eccellente: pur con alcuni questioni irrisolte (la lunghezza del lavoro soprattutto), i Voidz si confermano una voce davvero unica nel panorama rock contemporaneo. E poi, Julian non sembrava così libero e divertito dal comporre musica da “Room On Fire”; e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

19) Ty Segall, “Freedom’s Goblin”

(ROCK)

L’iperattivo Ty Segall, ragazzo prodigio del rock statunitense, è al decimo album di inediti a suo nome: un traguardo incredibile, considerato che Ty ha soli 31 anni e ha realizzato anche numerosi album collaborativi, greatest hits e CD live. Insomma, un artista davvero instancabile! Ciò, tuttavia, non ha influenzato la qualità dei suoi lavori: LP come “Slaughterhouse” (2012) o l’omonimo “Ty Segall” (2017) sono davvero notevoli.

Questo “Freedom’s Goblin”, il più lungo disco a firma Ty Segall in termini di canzoni e durata (19 pezzi per 72 minuti), è forse anche il suo lavoro più ambizioso; possiamo anzi dire che rappresenta un riassunto di tutto quello che musicalmente Ty ha passato negli ultimi dieci anni. Abbiamo pezzi hard rock (la bellissima Ever1’s A Winner e When Mommy Kills You), altri melodici (Rain e You Say All The Nice Things), alcuni quasi sperimentali (ad esempio Despoiler Of Cadaver, quasi elettronica, e Alta, aperta dal suono di un organo, strumento inusuale per l’artista californiano). Da sottolineare le lunghe She e And, Goodnight, due suite rock che mettono in mostra il talento di Ty, soprattutto come chitarrista. Ty potrebbe davvero essere il Jack White degli anni ’10. In generale, l’eccessivo numero di canzoni può rendere frammentario il disco, specialmente nella parte finale, ma i risultati sono generalmente ottimi.

Ty Segall sembra dunque aver trovato la definitiva maturità, a cavallo fra White Stripes e Led Zeppelin, con inserti melodici che quasi ricordano i Beatles (sentirsi My Lady’s On Fire e Cry Cry Cry per conferma). Il capolavoro definitivo sembra dietro l’angolo: forse una minore iperattività gli consentirebbe di focalizzarsi totalmente su un progetto e tirarne fuori il meglio. Detto questo, averne di artisti capaci di sfornare ogni anno un LP di livello così alto.

18) Jeff Rosenstock, “POST-”

(PUNK – ROCK)

L’artista punk Jeff Rosenstock è al terzo album solista, dopo una carriera molto lunga in alcune band underground statunitensi. I suoi primi due CD, “We Cool?” (2015) e “WORRY.” (2016) erano indizi di quello che sarebbe stato “POST-”, tuttavia non erano riusciti come quest’ultimo lavoro.

Il disco mescola infatti molto abilmente punk, power pop e dream pop (!), creando una miscela esplosiva di Cloud Nothings e Beach House, cosa che può apparire strana, ma in realtà rende il CD davvero imperdibile.

L’inizio è fulminante. USA è un pezzo punk di notevole caratura, lungo e complesso (supera i 7 minuti), ma mai prevedibile o noioso: partenza punk, parte centrale pop e finale trascinante. Va detto che Rosenstock è molto astuto: concentra i brani migliori all’inizio e alla fine del disco. Non per caso, infatti, la conclusiva Let Them Win è bellissima: 11 minuti di invettive contro Trump e i suoi seguaci, a testimoniare l’importanza anche politica dell’album, sopra una base ritmica davvero potente. Il finale con tastiere sognanti è, infine, una degna conclusione per questo fantastico LP.

Molti titoli e testi richiamano l’attualità politica americana: abbiamo per esempio Powerlessness, Beating My Head Against A Wall e TV Stars. Musicalmente, come già detto, il disco alterna brani punk (come la già citata Powerlessness e Yr Throat) ad altri più melodici (ad esempio TV Stars e 9/10), ma l’insieme è abbastanza coerente.

In conclusione, quel che è certo è che il punk ha ancora molto da dire, soprattutto in tempi incerti come questi: Jeff Rosenstock ce lo ha ricordato.

17) Troye Sivan, “Bloom”

(POP)

La nascente pop star australiana Troye Sivan ha pubblicato un lavoro davvero maturo per un ragazzo di appena 23 anni. “Bloom” è infatti un ottimo album pop, capace di suonare fresco malgrado si vedano chiaramente le influenze a cui Troye si ispira (George Michael, Lorde e The 1975 fra gli altri).

Quest’anno abbiamo avuto molti CD con chiari riferimenti alla sessualità dei protagonisti: in tempi di #MeToo e pieni diritti per le persone omosessuali, è perfettamente comprensibile che artisti dalle origini disparate abbiano descritto cosa significhi essere persone omosessuali. Troye Sivan non ha mai nascosto la sua attrazione per altri uomini, ma nel suo secondo album le liriche sono decisamente più mature e le sonorità più coerenti ed efficaci, rendendo “Bloom” un ascolto imprescindibile per gli amanti del pop.

L’inizio è travolgente: sia Seventeen che il singolo My My My! sono ottimi pezzi pop, degni di autori più quotati del giovane Troye. Anche i testi colpiscono: in Seventeen Sivan narra le sue avventure erotiche su Grindr (il Tinder per omosessuali) con uomini più maturi e gli abusi da loro perpetrati. Altrove le liriche sono più delicate: “Got something here to lose that I think you wanna take from me” in Seventeen e “I need you to tell me right before it goes down. Promise me you’ll hold my hand if I get scared now” in Bloom ne sono esempi.

Musicalmente, dicevamo, il CD è un ottimo concentrato del pop del XXI secolo, con inserti di autori del passato come George Michael. La voce di Sivan ricorda molto quella di Matt Healy dei The 1975, mentre la forte presenza del pianoforte in molte melodie (si veda Postcard) fa tornare alla mente il Perfume Genius delle origini. Da sottolineare infine le collaborazioni presenti in “Bloom”: Ariana Grande fa una comparsata in Dance To This, mentre il celebre produttore Ariel Rechtshaid collabora in The Good Side. Un po’ ovvie sono canzoni come Plum e Dance To This, ma sono peccati veniali in un lavoro altrimenti molto efficace.

Insomma, il futuro pare roseo per la giovane star australiana: giusto così, dato il talento dimostrato e la voglia di sperimentare non solo la carriera musicale. Ricordiamo infatti che Sivan è diventato noto come youtuber, per poi passare alla carriera di attore e poi di cantante. Insomma, un personaggio poliedrico e pronto al grande salto nel mondo delle star a tutto tondo. “Bloom” è un ottimo biglietto da visita ed è senza dubbio uno dei migliori album pop dell’anno.

16) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears”

(POP – ELETTRONICA)

Il secondo, attesissimo CD delle giovani inglesi Rosa Walton e Jenny Hollingworth, in arte Let’s Eat Grandma, ha pienamente mantenuto le promesse: aiutate da produttori rinomati come Sophie Xeon e Faris Badwan, le due teenager (!) pubblicano un disco in molti tratti rivoluzionario, che fonde generi disparati come pop, psichedelia ed elettronica in un connubio spesso eccellente.

L’apertura già instrada magistralmente il lavoro: sia Whitewater che Hot Pink (quest’ultima vanta la produzione di Badwan e Xeon) sono stranianti, in particolare la seconda alterna ritmi pop e improvvise aperture industrial, che non per caso ricordano gli ultimi lavori di SOPHIE e Horrors. I brani riusciti non finiscono qui: Falling Into Me è un gioiello pop, che ricorda la miglior Lorde; le lunghissime Donnie Darko e Cool & Collected suggellano il CD. Le uniche pecche sono i due inutili intermezzi Missed Call (1) e The Cat’s Pijamas, ma non intaccano troppo la struttura del lavoro.

I testi affrontano con sagacia la condizione di molti teenager negli anni dei primi amori e della scoperta della propria sessualità: le due giovani artiste in Hot Pink cantano infatti “I’m just an object of disdain to you… I’m only 17, I don’t know what you mean”, il ritornello contiene un riferimento non solo velatamente sessuale: “Hot Pink! Is it mine, is it?”. Sono poi presenti riferimenti macabri, non inattesi da un gruppo che incita a mangiare un parente, in Falling Into Me: “I paved the backstreets with the mist of my brain. I crossed the gap between the platform and train”.

In conclusione, se il debutto “I, Gemini” del 2016 suonava inevitabilmente ingenuo in certi tratti e le voci della Walton e della Hollingworth ancora acerbe, “I’m All Ears” segna il primo vero LP degno di nota a firma Let’s Eat Grandma. Speriamo che sia solo l’inizio di una carriera di successo: le premesse sembrano esserci tutte.

15) Saba, “CARE FOR ME”

(HIP HOP)

Il rapper di Chicago, giunto alla sua quinta esperienza in studio e al secondo album vero e proprio, ha finalmente trovato la consacrazione. Saba, nato Tahj Malik Chandler, era conosciuto, fino a pochi anni fa, più come collaboratore di Chance The Rapper che come solista, tuttavia negli ultimi due anni ha trovato una propria dimensione, che potrebbe notevolmente ampliarsi dopo la pubblicazione di un CD bello come “CARE FOR ME”.

Le scritte tutte maiuscole farebbero pensare a “DAMN.” di Kendrick Lamar, tuttavia le influenze che sentiamo in questo disco sono più rivolte a “Summertime ‘06” di Vince Staples e all’amico Chance The Rapper: dunque, un rap infarcito di gospel, con basi calme, quasi contemplative. I risultati, come già accennato, sono ottimi: “CARE FOR ME” scorre benissimo, senza frizioni fra i brani, per una durata che in termini di canzoni (10) e minutaggio (42 minuti) è finalmente in linea con il recente passato, senza sovraccaricare il disco di troppe canzoni, come alcuni colleghi di Saba fanno (Drake, Migos ecc).

Come sempre in un album hip hop, i testi sono una parte cruciale nel valutare un LP: Saba descrive il processo di accettazione della morte prematura del cugino Walter, ucciso l’anno scorso dopo una colluttazione nella metropolitana da un ladro che voleva il suo cappotto. Una morte tragica, per cui Saba ha scritto testi strazianti. Per esempio, in BUSY/SIRENS canta “I’m so alone” e successivamente “Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat”. Il dramma è ancora ben presente, dunque. Colpisce la struttura del CD, che arriva in HEAVEN ALL AROUND ME ad una visione di Walter in Paradiso, che veglia su Saba e i suoi cari. Insomma, la fede ha decisamente aiutato il rapper ad accettare la morte del suo mentore, colui che per primo lo aveva introdotto alla musica.

Altre liriche toccanti sono “They want a barcode on my wrist to auction off the kids that don’t fit their description of a utopia” in LIFE e “We got in the car, but we didn’t know where to drive to. Fuck it, wherever you are my nigga, we’ll come and find you” in PROM/KING, penultimo brano della tracklist, dove notiamo un’accettazione definitiva della morte di Walter.

Musicalmente, i pezzi che più restano impressi sono BUSY/SIRENS, SMILE e la dura LIFE; notevole anche FIGHTER. Meno bella LOGOUT, ma i risultati restano sorprendenti. Saba, infatti, pur parlando di temi strettamente personali, riesce a trasmettere messaggi universali: il suo viaggio può infatti essere intrapreso da chiunque abbia perso una persona amata, un po’ quello che Mount Eerie ha fatto in “A Crow Looked At Me” e “Now Only”. Sono questi LP che rendono speciali anche le canzoni più semplici, no?

14) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017”

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

L’unico problema di “2012-2017” può risultare nell’eccessiva lunghezza: in effetti, 67 minuti di musica elettronica da club/discoteca e canzoni che superano facilmente i 5 minuti possono essere ostacoli non banali per gli ascoltatori casuali, ma non fatevi spaventare. A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

13) Young Fathers, “Cocoa Sugar”

(HIP HOP)

Il terzo album del trio scozzese è il compimento di un percorso che li ha visti costantemente migliorare, gli Young Fathers sono infatti a tutti gli effetti tra i maggiori innovatori nel mondo hip hop. Le loro basi mescolano sapientemente rock, pop, soul e ritmi africani, creando brani a volte caotici, ma nella maggior parte dei casi sorprendenti e mai banali. Ne sono esempio, nel nuovo CD “Cocoa Sugar”, In My View e See How.

Anche i testi degli Young Fathers non sono innocui: già il titolo del disco, “Cocoa Sugar”, anticipa un tema portante, la contrapposizione fra bianchi e neri purtroppo ancora centrale nella società. Tuttavia, non possiamo parlare di rap politico: gli Young Fathers spesso accennano solamente a tutto ciò, non volendo soverchiare l’ascoltatore con messaggi troppo forti. Molto diversi da un Kendrick Lamar, tanto per capirsi. Liriche potenti ne abbiamo comunque: da “don’t turn my brown eyes blue, I’m nothing like you” a “I’m not here to drown you, I’m only here to clean you”.

I risultati complessivi sono ottimi: “Cocoa Sugar” è uno dei migliori album rap non solo dell’anno, ma della decade. Accanto ai già citati See How e In My View, abbiamo altri pezzi molto efficaci: da Tremolo a Toy, passando per la base industrial di Turn (quasi à la Nine Inch Nails) e i paesaggi pastorali di Lord, che quasi ricorda i Walkmen più intimisti.

Insomma, come già accennato, gli Young Fathers hanno probabilmente raggiunto il picco creativo nel rap sperimentale che li contraddistingue: come andranno avanti da qui in avanti sarà interessante. Intanto godiamoci questo LP, ennesima conferma di come il rap ormai sia così mainstream da dover contaminarsi con altri generi per diventare sperimentale. Era già successo al rock molti anni fa, quando molti dovettero contaminarlo con elettronica e rap (!) per rinnovarlo. La ruota gira…

12) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs”

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è sempre stato la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy. Fatto in realtà condiviso da molti membri del collettivo, tranne il vulcanico Tyler the Creator. Questo probabilmente è anche dovuto alla sua giovane età: a soli 24 anni Earl ha infatti già alle spalle due dischi e un mixtape osannati da critica e pubblico, con una conseguente pressione per produrre sempre nuova musica di qualità che diventerebbe insostenibile per lui se l’esposizione aumentasse.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare.

Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Proprio quest’anno infatti sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

Shattered Dreams è un inizio strano, non troppo efficace preso singolarmente ma adatto ad introdurre il mood del disco; già in Red Water infatti la perfetta mescolanza fra hip hop e jazz è affascinante come poche volte abbiamo sentito ultimamente. Forse paragonabile in questo a “To Pimp A Butterfly”, il disco di Earl è però presente anche sul lato più sperimentale del rap, simile ai Death Grips ma meno hardcore. Ne sono esempi Cold Summers e Nowhere2go, la traccia più deprimente dell’album, in cui Earl afferma che “I think … I spent my whole life depressed, only thing on my mind was death. Didn’t know if my time was next”.

La seconda parte del disco, pur breve, contiene altrettanti contenuti interessanti: dalla commovente Azucar, in cui Sweatshirt canta “My momma used to say she sees my father in me. I said I was not offended”, alla conclusione raccolta ma carica di pathos di Riot!, “Some Rap Songs” si conferma un CD imperdibile per gli amanti del rap più visionario.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione. Considerato che lui ha iniziato a diventare famoso all’incredibile età di 16 anni (al 2010 risale infatti il suo primo mixtape “Earl”) e ha già alle spalle una corposa discografia, il futuro sembra essere dalla sua parte. Una volta che avrà imparato ad essere così intraprendente per dischi con durata maggiore, il capolavoro sarà fatto e finito.

11) Parquet Courts, “Wide Awake!”

(ROCK)

Giunti ormai al settimo album di studio, considerando anche quelli registrati come Parkay Quarts e quello collaborativo con il DJ italiano Daniele Luppi, i Parquet Courts non intendono interrompere la striscia vincente iniziata con “Light Up Gold” (2012), un mix di irriverenza, indie rock estremamente orecchiabile e testi spesso allegramente nonsense.

La copertina di “Wide Awake!” effettivamente sembra proseguire su questa traiettoria; anche un ascolto del disco conferma questa prima impressione. Il CD inizia subito a mille: Total Football e Violence ricordano le sonorità del precedente lavoro del gruppo, “Human Performance” (2016), mentre Before The Water Gets Too High è più sperimentale, sulla falsa riga di “Sunbathing Animal” (2014). Invece, Mardi Gras Beads è forse il pezzo più melodico mai scritto da Savage & co., ricordando gli Arctic Monkeys di Mardy Bum.

Anche la seconda parte del disco contiene canzoni molto interessanti, che ne fanno ad ora il disco più vario e completo della produzione dei Parquet Courts: Back To Earth è strana ma riuscita, Normalization breve ma coinvolgente. Tolti i due intermezzi NYC Observation e Extinction, insomma, il CD è davvero ottimo, il migliore di una band sempre al passo con la modernità e pronta a cambiare quel tanto da risultare fresca. “Wide Awake!” migliora ad ogni ascolto, rivelando sempre nuovi dettagli. Bravi, Parquet Courts.

10) Shame, “Songs Of Praise”

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. Donk, troppo breve, è il solo momento sotto la media, ma non rovina l’eccellente CD degli Shame. Anzi, l’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Anche “Songs Of Praise” affronta tematiche rilevanti, come la violenza sulle donne o il menefreghismo dell’Occidente per le sorti della parte più povera del pianeta, senza perdonare nulla, neanche a coloro che solo a parole supportano delle cause giuste: del resto, si chiedono Steen e compagni, se noi per primi non facciamo niente, come possiamo sperare che il mondo migliori?

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Savages e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

9) Mount Eerie, “Now Only”

(FOLK – ROCK)

La storia di Phil Elverum, frontman dei Microphones e successivamente solista col nome di Mount Eerie, è tristemente nota. Nel 2016 sua moglie Geneviève è morta di cancro, lasciando lui e la loro figlioletta a chiedersi il perché di tanta sofferenza a una così giovane età. Elverum ha deciso di affrontare questo tragico lutto facendo quello che sa fare meglio: scrivere canzoni. Mount Eerie non è mai suonato così scarno come negli ultimi due suoi CD, “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only”. È possibile infatti vedere questo disco come una continuazione del precedente, ma contemporaneamente “Now Only” contiene differenti sonorità in alcuni tratti, che lo rendono un capolavoro a sé stante.

La partenza è straziante: Tintin In Tibet narra alcuni frammenti del passato di Phil e Geneviève, per esempio il loro primo incontro, ma si apre e si chiude con le seguenti parole: “I sing to you”. È facile intuire chi sia quel “tu” a cui si rivolge Elverum, non a caso queste canzoni sembrano più un’autoconfessione che un lavoro per piacere al pubblico. Il loro fascino, tuttavia, risiede proprio in questo: essere scritti con uno scopo personale, ma avere una risonanza universale.

Musicalmente parlando, come già accennato, “Now Only” riprende il folk scarno di “A Crow Looked At Me”, tuttavia in alcuni brani riecheggiano chitarre distorte e una lieve base di batteria, che rendono il CD più vicino ai primi lavori dei Microphones rispetto al suo predecessore. I brani migliori sono Tintin In Tibet, Earth (unica traccia con chitarre rock), la title track e Two Paintings By Nikolai Astrup. A colpire, però, sono soprattutto le liriche: nella lunghissima Distortion Elverum recita “the first dead body I ever saw in real life was my great-grandfather’s; the second dead body I ever saw was you, Geneviève, when I watched you turn from alive to dead right here in our house.” Uno dei versi più sinceri e tragici mai cantati. C’è spazio per un’accettazione della morte dell’amata moglie, quasi con sollievo, quando Phil dice “you’re sleeping out in the yard now”.

I fan di Mount Eerie ricorderanno sicuramente l’immagine del corvo presente in “A Crow Looked At Me”, che prendeva le sembianze della moglie agli occhi di Elverum, ancora incapace di accettare la sua perdita; vi è un richiamo in “Now Only”, tanto che l’ultima canzone si intitola proprio Crow, Pt.2. Adesso, però, Elverum canta “I don’t see you anywhere”. Il cantante statunitense sembra finalmente aver capito che Geneviève non tornerà più indietro: meglio vivere la vita che resta e crescere la propria figlia, mantenendo le promesse fatte alla moglie morente. Non c’è messaggio migliore da prendere da questo LP.

8) Mitski, “Be The Cowboy”

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

Liricamente, Mitski sembra dedicare questo lavoro all’amore, presente in ogni sua forma: ad esempio, in Remember My Name canta “I gave too much of my heart tonight. Can you come to where I’m staying and make some extra love that I can save ’till to tomorrow’s show?”, oppure in Lonesome Love “Nobody butters me up like you, and nobody fucks me like me”. Testi espliciti e senza peli sulla lingua, insomma. Tuttavia, essi non risultano mai fuori luogo e anzi aumentano l’attenzione dell’ascoltatore anche per le canzoni più leggere.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album. Siamo in trepidante attesa di vedere se questo è il picco delle sue capacità oppure il meglio deve ancora venire.

7) Denzel Curry, “TA13OO”

(HIP HOP)

Il terzo disco del giovane rapper Denzel Curry può essere considerato il vero manifesto di quel genere che, un po’ spregiativamente, viene chiamato SoundCloud rap. Si tratta di un genere emerso sulla piattaforma SoundCloud e che vede fra i suoi principali esponenti JPEGMAFIA, lo stesso Curry e il defunto XXXTentacion: abbiamo una fusione fra il rap morbido di Drake e atmosfere più dark, quasi gotiche, tipiche dell’hip hop dei decenni passati.

Molto ambiziosamente, Denzel conia una sorta di nuovo linguaggio nel dare i titoli ai brani dell’album: la B diventa 13, le S sono Z ecc. Noi riportiamo i titoli “trascritti”, altrimenti la comprensione sarebbe a volte difficoltosa. Inoltre, “TA13OO” è diviso in tre parti, chiamate da Curry luce, area grigia e oscurità. L’intento è rappresentare i diversi aspetti del suo animo, sia mediante le basi dei pezzi che attraverso i testi.

L’inizio, non casualmente, è molto sereno e rilassato: sia TABOO che BLACK BALLOONS sono brani molto à la Drake, con aspetti di Travis Scott in evidenza. Andando avanti nel disco, emergono come già accennato precedentemente brani con atmosfere decisamente più opprimenti, che si rifanno al Kanye West di “Yeezus”: ad esempio, in SUMO e SUPER SAYAN SUPERMAN troviamo basi trap potenti ed efficacissime, che richiamano i migliori Migos. Il finale è, coerentemente, rappresentato da pezzi trap decisamente carichi: sia VENGEANCE che BLACK METAL TERRORIST sono infatti caratterizzati da basi ossessive e voci demoniache, che rendono le canzoni difficili ma tremendamente affascinanti.

Anche liricamente il CD non affronta tematiche semplici: l’apertura di TABOO è per certi versi scioccante, con Curry che dettaglia la sua relazione con una ragazza vittima di terribili abusi nella sua infanzia. In BLACK BALLOONS sono contenuti riferimenti espliciti alla morte e al suicidio come soluzione per risolvere i problemi che affliggono Denzel. Ritroviamo, oltre a basi anni ’90 in certi tratti del disco, anche temi afferenti a quel periodo: in SUMO il rapper afferma di avere “tasche piene di soldi e grosse come un lottatore di sumo”. Da sottolineare infine la capacità del giovane statunitense di passare da registri più melodici a versi letteralmente urlati, segno che anche vocalmente siamo di fronte a un talento notevole. Sentirsi SIRENS e VENGEANCE per un confronto.

In generale, dunque, Curry ha creato un mondo difficile da abbandonare, malgrado le atmosfere e i testi siano talvolta molto inospitali. Non è un merito da poco, in un anno che per il rap ha visto mietere nuovi successi ma una qualità media scadente.

6) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”

(ELETTRONICA)

Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegarci la mania recente degli artisti di chiamare i dischi (e a volte loro stessi) con lettere tutte maiuscole: da Kendrick Lamar a Pusha-T ai Carters (cioè Jay-Z e Beyoncé), passando ora per SOPHIE, questa moda sembra diffondersi sempre di più. Detto ciò, il titolo del nuovo album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita ora con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping. Non capita tutti i giorni di trovare un’artista così versatile: viene in mente Bjork e tutti sappiamo che è un paragone molto delicato, di Bjork ne nascono davvero poche.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco.

In conclusione, la musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE. Se il primo lavoro “PRODUCT” era decisamente perfettibile, questo LP resterà probabilmente anche negli anni a venire: mescolare così sapientemente musica sperimentale e accenni di pop da radio (evidenti in Immaterial) non è per nulla facile, farlo con questi eccellenti risultati ancora meno. Aspettiamo con trepidazione il suo prossimo disco, con la speranza che quanto di buono fatto in “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” non venga sprecato.

5) Blood Orange, “Negro Swan”

(R&B)

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero (anzi, negro) per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate, soprattutto negli Stati Uniti di Donald Trump. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family). Bello allo stesso tempo il fatto di affidarli alle testimonianze di persone vittime di discriminazioni, ad esempio l’attivista per i diritti LGBT Janet Mock. Infine, da sottolineare la lista di ospiti presenti in “Negro Swan”: abbiamo star come A$AP Rocky e Puff Daddy, ma anche figure meno note come il membro del collettivo The Internet Steve Lacy o il membro dei Chairlift Caroline Polachek. Insomma, una completa libertà artistica e una concezione della musica come comunità di imperfetti, al contrario di molte popstar del nostro tempo. Potrà piacere o meno, ma la visione artistica di Dev Hynes è chiara e coerente.

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano. Non sono molti i cantanti di questo livello: probabilmente Kendrick Lamar e Frank Ocean ne fanno parte, ma pochi altri sono accostabili a questi giganti contemporanei. Ebbene, Dev Hynes, per la prima volta, può a buon diritto essere ammesso in questo “club esclusivo”.

4) Beach House, “7”

(ROCK – POP)

I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare avanti, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Il numero 7 è molto presente nella simbologia dell’album: “7” è intanto il settimo CD del duo, il loro catalogo è composto da 77 pezzi, il primo singolo è stato pubblicato il 14/02 (1+4+2=7) e il terzo il 03/04… Insomma, tutto sembrava complottare in favore di questo titolo scarno. Tuttavia, come sempre, non si ascolta un CD dei Beach House per i messaggi insiti nelle liriche delle canzoni, quanto piuttosto per le atmosfere che i brani sanno evocare.

Ebbene, possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks e Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band.

Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

In conclusione, i Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: quando si ha talento, cambiare non deve spaventare, anzi può servire a scoprire delle abilità nascoste. Ad esempio, chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

3) Janelle Monáe, “Dirty Computer”

(POP – R&B)

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Se c’era un difetto in “The ArchAndroid” e “The Electric Lady”, era l’eccessivo numero di canzoni e, di rimando, il minutaggio: entrambi superavano l’ora, con 17-18 canzoni, divise in entrambi i casi in due suite. Janelle utilizzava uno pseudonimo, Cindi Mayweather, appunto un androide, attraverso cui narrava metaforicamente le difficoltà dei “diversi”, che si parlasse di razza, sessualità o religione. Insomma, progetti di sfrenata ambizione, riusciti ma non per tutti i palati. Con “Dirty Computer”, invece, l’artista statunitense ha puntato il dito sui propri tormenti interiori, risultando in un LP più semplice ma anche più coeso; in poche parole, un capolavoro.

L’inizio è ottimo: nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock.

Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

Liricamente, basti dire che Janelle ha eletto lo slogan “Let the rumours be true” a simbolo di “Dirty Computer”: diciamo che i gossip relativi alla sua sessualità vengono più volte confermati nel corso del disco. Il breve film tratto dal disco e i video dei singoli avevano già fatto intravedere il coming out: diamo atto che l’artista ha sempre avuto atteggiamenti ambigui, ma questa confessione dimostra coraggio. Insomma, “Dirty Computer” pare più avere lo scopo di esorcizzare i propri demoni che possedere messaggi universali, tuttavia i testi non risultano mai banali o troppo concentrati sull’ego di Janelle.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane, al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, come già detto, un capolavoro fatto e finito. Uno dei più bei CD non solo dell’anno, ma dell’intera decade.

2) Car Seat Headrest, “Twin Fantasy”

(ROCK)

Può un 25enne aver realizzato già 11 album di studio? Sì, se questo giovane risponde al nome di Will Toledo. Il geniale artista statunitense ha già oltrepassato la doppia cifra di CD, contando ovviamente anche i suoi lavori più precoci e acerbi. Tuttavia, “Twin Fantasy” occupa un posto speciale nel cuore di Toledo: questa è infatti la seconda versione dello stesso disco, la prima è stata pubblicata nel 2011 e aveva fatto conoscere a molti il talento di Toledo, allora ancora solista e impossibilitato ad avere una produzione curata a dovere. Ora che lo supporta una band al completo, un lavoro che sembrava solo un diario di un giovane omosessuale diventa uno dei migliori dischi indie rock del decennio.

Fondamentale è infatti il background di “Twin Fantasy”: Toledo narra nel CD le sue disavventure, specialmente alla luce dei turbamenti adolescenziali e della scoperta della propria omosessualità, tanto che molti testi delle 10 canzoni che compongono il disco contengono riferimenti ad amori, sia passati che vissuti al tempo della composizione. Ne sono esempio “most of the time that I use the word ‘you’, well you know that I’m mostly singing about you”; oppure “we were wrecks before we crashed into each other”. Tuttavia, Toledo ha già dimostrato di essere anche ironico nelle sue liriche: ad esempio, in Bodys canta “Is it the chorus yet? No. It’s just a building of the verse, so when the chorus does come it’ll be more rewarding”, circostanza che poi si rivelerà veritiera peraltro.

La bellezza del CD non risiede tuttavia solamente nel concept alla sua base e nei testi: come già accennato, “Twin Fantasy” è uno dei più riusciti LP della decade. Le canzoni grandiose sono numerose: le lunghissime Beach Life-In-Death e Family Prophets (Stars) sono le ancore del disco, i punti ineludibili per chi ama le composizioni rock più ambiziose. Nervous Young Inhumans ricorda i migliori Killers, Bodys ha una base ritmica pazzesca, così come Cute Thing. Risulta difficile trovare un pezzo meno efficace, tutti hanno la perfetta posizione nella tracklist e un significato ben preciso nella narrazione del disco. Magnifica, infine, la contrapposizione High To DeathSober To Death, altro passaggio cruciale per comprendere pienamente il CD e i temi da cui scaturisce. Il risultato è un LP stupefacente, con continui cambi di direzione, spesso all’interno della stessa canzone, imprevedibile ma non per questo frammentato o confusionario. Insomma, un capolavoro fatto e finito.

Possiamo dunque concludere che il talento di Will Toledo è definitivamente sbocciato con la riedizione di “Twin Fantasy”: il giovane cantante ci aveva già mostrato parte delle sue potenzialità in “Teens Of Style” (2015) e “Teens Of Denial” (2016); mai, tuttavia, aveva prodotto un CD così bello.

1) The 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationship”

(ROCK – POP)

Il giovane gruppo inglese aveva anticipato il suo terzo album di inediti con questa serie di singoli: 1) un pezzo indie rock con venature punk, molto affine a Sex, primo grande successo dei The 1975, ma con una chitarra ancora più tagliente (Give Yourself A Try); 2) una canzone che rimandava al rock anni ’80 dei Police e ai pezzi migliori del precedente CD del gruppo, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), chiamata Love It If We Made It; 3) una melodia sfacciatamente pop, degna di Rihanna e Drake (TOOTIMETOOTIMETOOTIME); 4) un simpatico pezzo a metà fra jazz e pop (Sincerity Is Scary); 5) un singolo degno degli Abba, It’s Not Living (If It’s Not With You).

Lasciando da parte i titoli inverosimilmente lunghi di album e singoli, come potevano canzoni così lontane come generi stare insieme in un unico CD? Beh, se a ciò aggiungiamo che i The 1975 nel corso del loro nuovo lavoro hanno anche toccato ambient, elettronica e Soundcloud rap (!!!), la cosa si fa realmente complessa. La cosa che più sorprende (e ammalia) del talentuoso complesso originario di Manchester è che i risultati di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” sono davvero paurosi. I dubbi sulla consistenza e coesione dell’album sono fugati fin dal primo ascolto: i The 1975 hanno generato un CD che resterà nella storia della decade come il disco più millennial mai prodotto. Frammentario ma in qualche modo coeso, vario ma mai fine a sé stesso, profondo e accessibile: “A Brief Inquiry Into Online Relationships” si staglia come un pilastro del rock degli anni ’10, probabilmente l’unico modo per vedere ancora questo genere primeggiare nelle chart.

Alcuni hanno azzardato paragoni con “OK Computer” dei Radiohead, uno dei lavori rock più importanti dell’intera storia della musica. Diciamo che Matt Healy e compagni in quanto ad ambizione non sono secondi a molti, ma i Radiohead sono probabilmente ancora molti gradini sopra i The 1975. Se una similitudine c’è, risiede nel fatto che entrambi i CD affrontano le devastanti conseguenze che Internet può avere sulla vita delle persone. Mentre Thom Yorke & co. ponevano l’attenzione sull’alienazione e sulla voglia di imitazione (esemplari Paranoid Android e Fitter Happier), i The 1975 si concentrano come naturale sui social network e sui problemi propri soprattutto dei più giovani: tossicodipendenza, paura della morte, news frenetiche che confondono più che informare…

Infatti, alla pura bellezza del disco va aggiunto che Matt Healy è diventato un compositore di primo calibro anche a livello testuale: in Give Yourself A Try si rivolge ad una giovane fan del gruppo che si è suicidata a soli 16 anni, chiamando i suoi coetanei a concedersi una chance nella vita (il significato del titolo è proprio questo). Love It If We Made It evidenzia l’assurdità di avere un presidente americano che si vanta di “averla posseduta come una puttana!” e un musicista di colore che lo difende e afferma che i neri hanno quasi voluto la schiavitù (Kanye West)… il tutto mentre le anime migliori se ne vanno per overdose (Lil Peep, amico di Healy e tossicodipendente come lui).

Il filo che però tiene unito il disco è l’uscita dalla dipendenza da eroina da parte di Healy, che in effetti nelle ultime uscite è apparso davvero rigenerato fisicamente. “A Brief Inquiry Into Online Relationships” può in effetti essere anche letto come un percorso di recupero, che termina con l’epica I Always Wanna Die (Sometimes), che ricalca le orme di Oasis e Coldplay per creare la canzone più vitale della discografia dei The 1975. Sebbene infatti il protagonista del brano pensi al suicidio, alla fine afferma “If you can’t survive, just try”.

In tutto questo, non abbiamo ancora parlato musicalmente del disco. “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un CD davvero variegato, come già spiegato in precedenza. L’introduzione The 1975 riflette i cambiamenti radicali avvenuti nel sound della band: ritmi jazzati, autotune che manipola fortemente la voce di Healy e struttura sfilacciata. L’unico pezzo che appare più debole è proprio il singolo TOOTIMETOOTIMETOOTIME, che è fin troppo da discoteca sebbene non del tutto sgradevole. Tuttavia, è un peccato veniale in un album davvero generoso di pezzi grandiosi: It’s Not Living (If It’s Not With You) è una delle canzoni migliori dell’anno, I Always Wanna Die (Sometimes) ricorda i Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”, How To Draw / Petrichor parte come Brian Eno e finisce come l’Aphex Twin più scatenato, con risultati clamorosi. Infine, I Couldn’t Be More In Love è pari alle melodie più dolci di George Michael.

Dicevamo poi che i The 1975 affrontavano il rap più melodico, chiamato Soundcloud rap, tipico di interpreti come Lil Peep e Denzel Curry: I Like America & America Likes Me non sarà il miglior brano del disco, ma ha una carica benvenuta in una seconda parte che conta pezzi acustici come Surrounded By Heads And Bodies e Mine, il secondo pezzo jazz dell’album. Non tralasciamo poi il pezzo più shoegaze, Inside Your Mind (Healy ha sempre detto di amare i My Bloody Valentine); e Be My Mistake, un’incantevole ballata che riporta alla memoria il miglior Nick Drake e Jeff Buckley.

In conclusione, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un LP di non facile lettura e in cui ci si può perdere data la grande quantità di generi affrontati e i testi mai banali. Tuttavia, gli amanti della musica non possono non ammirare il coraggio di Healy e compagni di voler riportare il rock (pur contaminato da mille influenze) in cima alle classifiche. Se questo sia l’unico modo per farlo è discutibile; “A Brief Inquiry Into Online Relationships” però è indubbiamente un miglioramento rispetto ai due precedenti lavori del gruppo, in termini di minutaggio (basti dire che “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” durava 74 minuti mentre questo album “soli” 58) e focus. Avevamo intuito che i The 1975 avessero talento e che “A Brief Inquiry Into Online Relationships” potesse essere importante per il loro futuro, ma pochi potevano prefigurare questi risultati grandiosi. Complimenti, Matty, e complimenti The 1975: il futuro è tutto per voi. Non premiare questo lavoro come il migliore del 2018 sarebbe stato un delitto.

Voi cosa ne pensate? Questa lista vi convince oppure pensate che ad A-Rock abbiamo tralasciato dei CD importanti? Non esitate a commentare!

Rising: Shame

Shame

Ritorna la rubrica di A-Rock che si occupa degli artisti emergenti della scena musicale: quest’oggi ci concentriamo sugli Shame, un giovane gruppo inglese che suona un punk aggressivo ed efficace come raramente si era sentito negli ultimi anni.

Shame, “Songs Of Praise”

songs of praise

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. Donk, troppo breve, è il solo momento sotto la media, ma non rovina l’eccellente CD degli Shame. Anzi, l’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Possiamo dire che il 2018 è partito splendidamente per il punk: sia gli Shame che Jeff Rosenstock, in questo meraviglioso mese di gennaio, hanno pubblicato dischi rilevanti, sia come canzoni che come testi. Non ci poteva essere inizio migliore per questo 2018. In effetti, anche “Songs Of Praise” affronta tematiche rilevanti, come la violenza sulle donne o il menefreghismo dell’Occidente per le sorti della parte più povera del pianeta, senza perdonare nulla, neanche a coloro che solo a parole supportano delle cause giuste: del resto, si chiedono Steen e compagni, se noi per primi non facciamo niente, come possiamo sperare che il mondo migliori?

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Savages e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Abbiamo già un candidato alla top 10 dei migliori album dell’anno, poco da fare. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

Voto finale: 8,5.