Recap: luglio 2020

Anche luglio è concluso. Un mese interessante musicalmente parlando, che ha visto le nuove uscite di Skee Mask, Fontaines D.C. e Protomartyr. Inoltre, abbiamo il secondo CD dell’anno a nome Nicolas Jaar, il terzo album della cantautrice Lianne La Havas, il ritorno del gruppo country The Chicks e il nuovo album, pubblicato a sorpresa, di Taylor Swift.

Protomartyr, “Ultimate Success Today”

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Il quinto CD della band punk originaria di Detroit arriva tre anni dopo “Relatives In Descent” e a due dall’intrigante EP “Consolation”. La crescita del gruppo guidato da Joe Casey è impressionante: laddove i lavori precedenti erano notevoli soprattutto dal punto di vista lirico, con Casey capace di descrivere i mali peggiori del capitalismo in maniera cruda ma mai disperata, con “Ultimate Success Today” siamo di fronte al miglior lavoro della loro discografia musicalmente.

Mentre i CD del gruppo erano spesso fin troppo elaborati e alla lunga perdevano mordente, infatti, il nuovo LP è un concentrato del miglior post-punk: ritmi aggressivi, testi arrabbiati e una sezione di fiati che arricchisce ulteriormente l’esperienza. I risultati finali ricordano i Joy Division, a tratti i The Fall: insomma il meglio del movimento nato nei tardi anni ’70.

Fin dai primi due brani, i bellissimi Day Without End e Processed By The Boys, abbiamo ben chiari i tratti dominanti del lavoro; ma il resto delle dieci tracce che compongono “Ultimate Success Today” non sono da meno. Spiccano soprattutto June 21 e Worm In Heaven, mentre è un po’ sotto la media Bridge & Crown.

Liricamente inoltre, come già accennato, il disco è molto profondo: Joe Casey si chiede in Processed By The Boys se l’Apocalisse sarà “a foreign disease washed upon the beach” oppure verrà da rivolte per strada. Nel pezzo conclusivo, la devastante Worm In Heaven, Casey rimpiange il suo passato: “Remember me, how I lived. I was frightened, always frightened” per poi proclamare “I wish you well, I do. May you find peace in this world; and when it’s over dissolve without pain”.

I Protomartyr hanno ormai una fanbase leale e in crescita, ma pochi avrebbero previsto questa evoluzione per una band sì impegnata, ma anche spesso imperfetta musicalmente. “Ultimate Success Today” è uno dei migliori album punk dell’anno finora e entrerà sicuramente nella top 50 di fine anno di A-Rock; vedremo in quale posizione.

Voto finale: 8,5.

Fontaines D.C., “A Hero’s Death”

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Il secondo CD, attesissimo, della band post-punk irlandese è un pugno allo stomaco. Se l’esordio “Dogrel” aveva colpito nel segno pressoché con tutti, tanto che noi di A-Rock lo avevamo recensito nella nostra rubrica Rising e posizionato nella top 10 della lista dei migliori album del 2019, “A Hero’s Death” è un seguito ancora più cupo e disperato.

“Dogrel” mescolava infatti testi pessimisti sul futuro di Dublino (la città natale del gruppo) con canzoni quasi romantiche; “A Hero’s Death” pare il terzo CD dei Joy Division tanto la sensazione di spaesamento e tragicità viene trasmesso in ogni canzone. I Fontaines D.C., tuttavia, riescono a intessere un LP coeso e con melodie quasi accessibili, candidandosi a simbolo della scena punk d’Oltremanica (con una concorrenza comunque nutrita, in cui menzioniamo IDLES e Shame fra gli altri).

Va detto, però, che il gruppo irlandese, capitanato dall’indomito Grian Chatten, non si limita a ispirarsi alle glorie del passato: accanto infatti ai Joy Division troviamo sì riferimenti a Radiohead e The Fall, ma con liriche calate sull’oggi, critiche del capitalismo e della società moderna, fatta di sopraffazione e incapacità di pensare al futuro e concentrata su un eterno presente. Ne sono simbolo i durissimi testi di Televised Mind e Living In America, ma anche le ripetizioni ossessive di “I don’t belong to anyone” (I Don’t Belong) o “Life ain’t always empty” (la title track).

Le canzoni che colpiscono di più, dopo l’inizio davvero disperato di I Don’t Belong, sono la delicata Oh Such A Spring e Televised Mind; da non sottovalutare anche You Said. Ma nessuna canzone è fuori posto (solo Sunny leggermente inferiore alla media), tanto da fare di “A Hero’s Death” un disco coeso ma non ripetitivo, malinconico ma non completamente disperato.

Se qualcuno temeva la “sindrome da secondo album” per i Fontaines D.C., beh i timori sono stati spazzati via da “A Hero’s Death”: un lavoro che traccia un solco chiaro nel mondo punk e influenzerà probabilmente anche nei prossimi anni le giovani band desiderose di esprimere il loro dissenso per il mondo così come lo conosciamo usando batteria, basso e chitarra, urlando al mondo la propria contrarietà.

Voto finale: 8,5.

Taylor Swift, “folklore”

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Il nuovo CD della popstar statunitense è una svolta radicale in una carriera sempre più interessante. Taylor Swift, la fidanzatina d’America, partita dal country e arrivata al pop da stadio, svolta verso il folk à la Bon Iver, con tocchi di Lana Del Rey e Phoebe Bridgers che non pensavamo potessero adattarsi all’estetica tutta lustrini messa in evidenza in “reputation” (2017) e “Lover” (2019).

“folklore” arriva solo un anno dopo “Lover” e senza alcuna campagna di marketing da parte di Taylor: decisamente insolito per una delle stelle più brillanti della scena pop. Altra mossa sorprendente è la collaborazione con alcuni capisaldi dell’indie, autori del calibro di Bon Iver e Aaron Dessner (The National). I risultati non piaceranno ai fans più pop di Taylor, ma ampliano notevolmente la palette sonora della cantautrice e le faranno guadagnare il rispetto anche del pubblico più “esigente”.

Non tutto è perfetto in “folklore”, va detto: le 16 canzoni alla lunga diventano ripetitive e alcune (come seven) sono puro riempitivo. Ecco, se avessimo di fronte un lavoro da 12 pezzi e 50 minuti saremmo senza dubbio di fronte al CD perfetto di Taylor Swift. Così invece il verdetto è sospeso: ci sarà chi preferirà il country-pop di “Red” (2012), chi la definitiva svolta mainstream di “1989” (2014), ma senza dubbio parleremo di “folklore” ancora per anni a venire.

Liricamente, in passato il centro di più o meno tutte le canzoni di Taylor era stato… sé stessa. Adesso invece la sua fantasia ha piena libertà: in the last great american dinasty si cita Rebekah Harkness e la dinastia dei Rockefeller, monopolisti del settore petrolifero nei primi anni del XX secolo. betty invece narra, dalla parte del maschio, la storia d’amore fra James e Betty, con il primo che ha tradito la seconda ma è sicuro di poterla riconquistare. Va notato che Betty era presente anche in cardigan, fra le migliori canzoni del CD.

Altri highlights sono la delicata mirrorball e august, mentre verso il finale, come già accennato, le melodie cominciano ad essere ripetitive. Ne sono esempi illicit affairs e invisible string.

In generale, però, il lavoro brilla grazie all’abbraccio totale che Swift fa dell’estetica indie di Bon Iver e Dessner; il famoso produttore Jack Antonoff, contrariamente al passato, ha infatti spazio solo marginalmente. “folklore” quindi ci fa riflettere su un mondo alternativo, in cui Taylor avrebbe continuato nel percorso country-folk solo occasionalmente pop e sarebbe diventata la stella crossover perfetta. La carriera della Nostra è stata invece contraddistinta da un clamoroso successo, tutto sommato meritato; e se però “folklore” fosse il suo CD più riuscito? Il dibattito è aperto.

Voto finale: 8.

Nicolas Jaar, “Telas”

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Il quarto (!) progetto discografico di Nicolas Jaar del 2020, sommando anche l’EP e il CD usciti sotto il nickname A.A.L. (Against All Logic), ritorna all’ambient che l’aveva fatta da padrone in “Cenizas”. Il percorso intrapreso da Jaar nei dischi a suo nome potrà non piacere ai fans delle canzoni più movimentate del Nostro, ma dimostra un’abilità sorprendente da parte del musicista cileno di cambiare tono: techno, ambient, house… nulla nel reame della musica elettronica è alieno a Nicolas Jaar. Per quanti possiamo dire lo stesso?

“Telas” si compone di quattro lunghe tracce, molto complesse e articolate: il CD infatti arriva quasi a 60 minuti di durata! Sommati ai 53 minuti di “Cenizas”, abbiamo un trattato di due ore di elettronica contemporanea, musica da camera che però sa comunicare sensazioni forti, purtroppo intonata al clima da lockdown che ancora pervade molta parte del mondo. Telahora comincia quasi come una canzone di Tom Waits, con ottoni in primo piano e toni dissonanti, per poi evolvere in eterea musica d’ambiente intervallata da momenti più percussivi. Telencima invece ricorda da vicino le atmosfere dell’ambient di Brian Eno, con sonorità più dolci rispetto a Telahora. Telahumo, invece, è una sorta di combinazione fra le due precedenti: serena ma allo stesso tempo imprevedibile. Infine Telallás, la canzone più “breve” del lotto (“soli” 13 minuti), è una conclusione tanto misteriosa quanto giusta per “Telas”, un lavoro che rivela dettagli preziosi ad ogni ascolto.

Le quattro composizioni possono apparire disgiunte e poco coerenti l’una con l’altra, in realtà raccontano di un musicista in continua evoluzione, un maestro dell’elettronica capace di passare da un sottogenere all’altro nell’arco di pochi mesi e produrre sempre LP accattivanti. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, l’ascolto di “Telas” conferma che Nicolas Jaar è il migliore della sua generazione per quanto riguarda la musica elettronica.

Voto finale: 8.

Lianne La Havas, “Lianne La Havas”

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Il terzo album della fascinosa cantante inglese è il suo lavoro più sicuro e convincente. Fin dal titolo il taglio è decisamente personale: “Lianne La Havas” è infatti un CD che tratta temi molto intimi per la Nostra, soprattutto la separazione dal suo partner di Los Angeles (esemplare Please Don’t Make Me Cry). Tuttavia, le melodie non disegnano paesaggi desolati: Lianne infatti mantiene un delicato equilibrio fra soul, R&B e folk che rende il disco imperdibile per gli amanti della musica più rasserenante ma non per questo “leggerina”.

Il lavoro arriva ben cinque anni dopo il precedente “Blood”, un periodo di tempo in cui molti pubblicano due/tre CD di inediti: Lianne ha deciso di riflettere attentamente sulla mossa successiva al CD che l’aveva definitivamente consacrata, tanto da metterla nell’orbita di un certo Prince, che era rimasto affascinato dalla sua bravura alla chitarra e dalla bella voce di Lianne. “Lianne La Havas” prosegue il percorso intrapreso, ma lo aggiorna con melodie più raccolte (trova spazio anche un’efficace cover di Weird Fishes dei Radiohead).

Nessun brano è davvero inefficace, solo il breve Out Of Your Mind (Interlude) è superfluo e rovina parzialmente il ritmo e la coesione del disco. Spiccano invece Paper Thin e la complessa Sour Flower, che riportano alla mente i migliori momenti di “A Seat At The Table” (2016) di Solange Knowles, la sorellina di Beyoncé, solo con minore attenzione alla politica e maggiore introspezione.

Lianne La Havas era un nome chiacchierato nella scena pop inglese; accanto alla bella voce e al fascino personale, infatti, la cantautrice sa sfoderare canzoni subito accattivanti e che migliorano ad ogni ascolto. “Lianne La Havas” è il compimento di un percorso di crescita personale sempre più intrigante, che ci fa sperare di aver trovato una grande interprete nel mondo soul/R&B.

Voto finale: 8.

The Chicks, “Gaslighter”

the chicks

Il lavoro del terzetto country tutto femminile un tempo conosciuto un tempo come Dixie Chicks e ora The Chicks è un gradevole ritorno alle sonorità che le avevano rese un caposaldo del genere nei primi anni del nuovo secolo: canzoni accessibili e non troppo rintanate nei rigidi dettami del genere, armonie vocali notevoli e testi mai scontati.

Il cambio di brand è dovuto alla rinnovata attenzione data in America a tutto quello che può provocare discussioni: Dixie è infatti un nome che fa riferimento agli stati confederati della Guerra Civile e, pur essendo stato adottato a suo tempo ironicamente dalle tre, si è deciso per un nome più neutro. “Gaslighter”, ricordiamolo, arriva ben 14 anni dopo “Taking The Long Way”, il CD nel 2006 aveva segnato l’abbandono delle Dixie Chicks, che tuttavia avevano suonato live e collaborato con altri artisti (su tutti Beyoncé) nel corso degli anni successivi.

La collaborazione con Jack Antonoff (produttore osannato nel mondo pop) faceva presagire un suono più mainstream del passato, vicino a quello di Kacey Musgraves in “Golden Hour” (2018). Impressione confermata dal primo singolo: la title track Gaslighter è un concentrato del miglior country-pop, con ritornello trascinante e le voci di Martie Maguire, Emily Strayer e Natalie Maines al top della forma. È un peccato che poi spesso nel resto del CD la creatività non sia allo stesso eccellente livello: For Her e March March ad esempio sono una sequenza di tracce non proprio imperdibili e rompono l’armonia del lavoro. Buona invece la raccolta My Best Friend’s Weddings.

“Gaslighter” (letteralmente “colui che fa ammattire”) è un titolo azzeccato per un anno davvero folle, tuttavia le The Chicks non sono ancora tornate a quella formula vincente che le aveva rese controverse (celebri le tirate contro la guerra in Iraq nel 2003) ma imprescindibili per gli amanti del country. Vedremo se in futuro la ritrovata sintonia produrrà risultati migliori; “Gaslighter” non è un cattivo LP, semplicemente non è all’altezza delle alte aspettative che la carriera delle The Chicks e il singolo Gaslighter avevano creato.

Voto finale: 7.

Skee Mask, “ISS005” / “ISS006”

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Il produttore tedesco prosegue la serie di brevi lavori iniziata l’anno scorso con altri due EP infarciti dell’elettronica che lo ha reso uno dei nomi più interessanti sulla scena mondiale: techno nervosa, ritmi sempre tesi (“ISS005”) ma anche attenzione al mondo ambient, specialmente in “ISS006”. Bryan Müller (questo il vero nome di Skee Mask) mantiene così la sua nicchia nell’affollato mondo della musica elettronica, facendoci sperare di avere presto un erede al suo secondo album “Compro” (2018).

“ISS005” è rappresentante del lato più techno di Bryan Müller; fin dall’iniziale IT Danza c’è un recupero della scena garage di inizio millennio, su tutti Burial e il primo Four Tet. Notevole soprattutto Meal, mentre delude Type Beat 3, un po’ troppo frenetica. I risultati complessivi restano comunque buoni e ne fanno un EP gradevole soprattutto per gli amanti dell’IDM più spinta.

“ISS006”, dal canto suo, è un lavoro più articolato e devoto all’ambient: i fans dell’Aphex Twin più soft e di GAS sono caldamente consigliati di ascoltare questo CD. Skee Mask è, proprio per questa sua abilità di mescolare melodie più techno e quelle più raccolte della musica d’ambiente, un prodigio della scena elettronica europea: prova ne sia la bella Dolby.

Se mettessimo insieme i due EP otterremmo un disco da 11 canzoni per 56 minuti di durata: dunque un LP “canonico” per complessità, magari caratterizzato da una tracklist che alterna pezzi più mossi ad altri più tranquilli. Come già accennato, la serie di EP cominciata l’anno passato con “808BB” e “ISS004” e proseguita con “ISS005” e “ISS006” ha contribuito a tenere alta l’attenzione su Skee Mask, vedremo se il suo prossimo CD vero e proprio manterrà le aspettative.

Voto finale: 7.

Recap: novembre 2019

Il mese di novembre, come consuetudine, rappresenta l’ultimo valido per quanto riguarda la composizione della lista dei 50 migliori album dell’anno di A-Rock. Abbiamo recensito i nuovi lavori degli Elbow, di Skee Mask e di FKA twigs. In più abbiamo i ritorni di Mikal Cronin, Andy Stott, Michael Kiwanuka ed Earl Sweatshirt, oltre alla collaborazione Mount Eerie/Julie Doiron e al clamoroso ritorno dei TNGHT. Tuttavia, per gli amanti del rock due sono stati gli eventi imperdibili: il ritorno dei Coldplay e il CD postumo di Leonard Cohen.

FKA twigs, “MAGDALENE”

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La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Il CD, molto atteso da critica e pubblico, era stato anticipato da singoli molto diversi fra loro: la meravigliosa cellophane è il più bel brano mai creato da FKA twigs, una delicata ballata solo voce e piano, con synth solo accennati. Invece holy terrain, con Future, era quasi trap; infine sad day e home with you si rifacevano, nello stile e nel ritmo, all’esordio di Tahliah, “LP1” (2014).

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD sono fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come la già citata cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

Menzioniamo infine l’aspetto testuale: in “MAGDALENE” l’artista inglese evoca, già nel titolo, la figura di Maria Maddalena, una delle più dibattute nei Vangeli. In alcuni brani emerge il ricordo della storia appena finita con Pattinson: in thousand eyes si sente “if I walk out the door it starts our last goodbye”, mentre sad day evoca il giorno in cui Tahliah ha capito che era finita. Altrove invece appare lo smarrimento che ha colpito la talentuosa performer nei momenti peggiori della sua vita: “I’m searching for a light to take me home and guide me out”, un verso desolante di fallen alien, ne è un esempio chiaro.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale. Il CD entrerà facilmente nella top 10 di A-Rock, resta solo da stabilire in quale posizione.

Voto finale: 8,5.

Coldplay, “Everyday Life”

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L’ottavo disco dei Coldplay, la celeberrima band inglese capitanata da Chris Martin, è un deciso ritorno alle sonorità del decennio ’00 del XXI secolo, come da molti anticipato? Sì, senza dubbio. Certo, il sound più pop e caleidoscopico degli anni recenti non viene abbandonato, ma per esempio gli eccessi di “A Head Full Of Dreams” (2015) sono accantonati per fare spazio a ritmi più rock e atmosfere più calde, a volte addirittura orchestrali (si senta Sunrise).

Il doppio album si apre con la metà dedicata all’alba, intitolata appunto “Sunrise”. Che “Everyday Life” sia un ritorno ai tempi creativamente gloriosi di “A Rush Of Blood To The Head” (2002), con un po’ di “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), è chiarissimo da Church e Trouble In Town: due brani eleganti, semplici ma che crescono ascolto dopo ascolto.

I singoli parevano aver fatto intravedere addirittura il lato sperimentale dei Coldplay: Arabesque ad esempio contiene una parte di sassofono decisamente rilevante, fatto insolito per Martin e soci. Invece Orphans, uno degli highlights immediati del CD, è un pezzo gioioso, che riporta alla memoria Viva La Vida. Il lato più ambizioso del complesso si vede anche in BrokEn, che pare un pezzo di Chance The Rapper col suo incedere gospel e i temi sacri affrontati.

La seconda metà, “Sunset”, potrebbe parere più raccolta come sonorità, data la presenza di pezzi come Cry Cry Cry e Old Friends, ma è anche vero che contiene la hit Orphans e la quasi country Guns, che sembra di ispirazione Johnny Cash e di resa Rolling Stones. Molto interessante poi Champion Of The World, che pare presa da “X & Y” (2005).

Affrontiamo infine l’aspetto lirico: il CD è rilevante anche perché i Coldplay, seppure sempre in maniera discreta, affrontano temi molto importanti, dal controllo delle armi (Guns) ai problemi legati alla brutalità della polizia e al razzismo (Trouble In Town). Insomma, Chris Martin e soci sono ormai persone mature, capaci di affrontare temi non solo legati all’amore, come molte volte sono stati accusati di fare in passato.

In generale, “Everyday Life” è un LP davvero riuscito, con alcuni dei pezzi migliori mai scritti dai Coldplay (ad esempio Orphans) e una voglia di sperimentare, ma con raziocinio, che pareva persa da parte del gruppo britannico, tra sbornie dance (Something Just Like This) e intrallazzi con le stelle dell’R&B (Hymn For The Weekend). È senza dubbio il miglior disco dei Coldplay dal 2008 a questa parte, non una cosa da poco per quattro ragazzi che suonano insieme da 23 anni (!).

Voto finale: 8.

Michael Kiwanuka, “Kiwanuka”

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Il terzo album del cantante soul britannico Michael Kiwanuka è un altro tassello prezioso di una carriera in continua ascesa. Già premiato da critica e pubblico col precedente “Love & Hate” (2016), nominato anche per il Mercury Prize, Kiwanuka mantiene lo stile soul ma anche psichedelico che ne aveva decretato il successo, aggiungendo una produzione raffinata grazie a Inflo e Danger Mouse.

I 14 brani di “Kiwanuka”, come già il titolo preannuncia, sono più personali del passato, tuttavia Michael non si espone fino in fondo: a volte sentiamo frasi come “All I want is to talk to you”, in Piano Joint (This Kind Of Love), oppure “The young and dumb will always need one of their own to lead”, in Light. Mai, però, il talentuoso cantautore va più in là: un modo per mantenersi ermetico o il timore dei giudizi del pubblico?

Conta relativamente, data la bellezza del disco: la delicatezza di Piano Joint (This Kind Of Love) è incredibile, così come la carica di Hero. I 52 minuti del CD scorrono benissimo e ripetuti ascolti svelano sempre nuovi dettagli del lavoro, facendo peraltro assumere alla voce di Kiwanuka un’importanza sempre maggiore. Molto interessante poi la struttura dell’album: gli intermezzi sono numerosi, ma in alcuni casi perfettamente funzionali (ad esempio Hero – Intro introduce perfettamente Hero) e soprattutto nessuno è messo solo per motivi di streaming, cosa purtroppo comune nel mondo hip hop.

In conclusione, il soul ha trovato un nuovo volto: se “Love & Hate” poteva essere un fuoco di paglia, tutti i dubbi sono stati cancellati da “Kiwanuka”, che affianca il cantautore inglese a figure come Temptations e D’Angelo, senza la carica sexy del secondo e la creatività dei primi, ma con una capacità di lavorare sui dettagli almeno simile.

Voto finale: 8.

Earl Sweatshirt, “FEET OF CLAY”

feet of clay

Il nuovo, bravissimo EP a firma Earl Sweatshirt arriva poco meno di un anno dopo “Some Rap Songs”, il CD fino ad ora più riuscito della sua produzione, che ha raggiunto nuovi livelli di creatività e arditezza nell’ambito del rap sperimentale, mischiandolo abilmente con il jazz d’avanguardia. “FEET OF CLAY” pare un estratto di quell’incredibile lavoro: l’EP continua la striscia di pubblicazioni sempre più fuori di testa di Earl, basti sentirsi la base sghemba di EAST.

Il lavoro è composto da 7 brani per 15 minuti di lunghezza: va però sottolineato che solo in un paio di occasioni le canzoni superano i 2 minuti di lunghezza, vale a dire in EL TORO COMBO MEAL e 4N. Il resto dei brani sono quasi degli schizzi in attesa di essere completati, in questo ricordando il Kanye West di “JESUS IS KING”.

Anche tematicamente il disco è un’ideale continuazione di “Some Rap Songs”: in TISK TISK / COOKIES Earl mormora: “The moments that’s tender and soft, I’m in ’em, the memories got strong. But some of them lost”, mentre in EAST fa riferimento ai suoi problem di alcolismo, “My canteen was full of the poison I need”.

In conclusione, “FEET OF CLAY” è un altro rilevante lavoro di Earl Sweatshirt, che si conferma voce veramente unica nel panorama rap contemporaneo. Le sue basi sempre eccentriche, con chiari elementi jazz quando non elettronici, hanno influenzato molti artisti, dagli Injury Reserve a MIKE. Tuttavia, nessuno ha l’onestà intellettuale e la capacità di creare lavori coesi come lui: “FEET OF CLAY” suona contemporaneamente come chiusura di un ciclo e apertura di nuovi orizzonti. Inutile dire che ad A-Rock siamo eccitatissimi.

Voto finale: 8.

Andy Stott, “It Should Be Us”

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Il nuovo album dell’enigmatico DJ Andy Stott segue di tre anni “Too Many Voices”, un lavoro da molti considerato il più debole della sua produzione, a metà fra techno oscura e passaggi più ariosi. Stott in effetti è sempre stato maestro delle atmosfere dark, interprete di un’elettronica lenta e sincopata, non ballabile ma capace di momenti di vera bellezza.

Molto efficace anche in formato EP (basta sentirsi i due lavori del 2011 “Passed Me By” e “We Stay Together”), il produttore inglese ha definitivamente deciso da che parte stare: le 9 canzoni di “It Should Be Us” sono la perfetta colonna sonora dell’Apocalisse. Le atmosfere sono lugubri come mai nella discografia di Stott, i ritmi sono caratterizzati da bassi opprimenti e batteria quasi post-punk. Le poche voci udibili ricordano il Burial di “Untrue” (2007), esprimendo sensazioni più che parole vere e proprie.

Molto efficaci in questo senso Dismantle e Collapse, mentre è inferiore alla media Promises. In generale il CD è coeso ed è un buon compromesso fra EP e LP in termini di canzoni e durata: 9 pezzi per 46 minuti, pur in un genere così pessimista, non sono difficili da assimilare, fatto che dà ancora più fascino al lavoro.

Andy Stott ha ormai creato uno stile tutto suo, che certo lo tiene lontano dal mainstream ma ne assicura un’immediata riconoscibilità. “It Should Be Us” è un’altra interessante aggiunta ad una discografia che va ormai elogiata come una delle più efficaci nella scena elettronica mondiale.

Voto finale: 8.

Elbow, “Giants Of All Sizes”

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L’ottavo album degli Elbow riprende esattamente dove il precedente “Little Fictions” (2017) aveva lasciato: ritmi decisamente più lenti e contemplativi rispetto agli esordi, testi impegnati ma anche eminentemente personali.

“Giants Of All Sizes” è stato decisamente tormentato durante la sua gestazione: oltre alle ben note vicende britanniche degli ultimi anni (Brexit, incendio della Greenfell Tower, più in generale malessere e rancore) si sono sommate tre morti di persone molto vicine alla band, ossia il padre del frontman Guy Garvey e due collaboratori, Scott Alexander e Jan Oldenburg. Il CD è quindi nei testi a volte molto pessimista e malinconico, ma non per questo nichilista o eccessivamente depressivo.

Già l’apertura del lavoro è decisamente particolare: Dexter & Sinister è una canzone lunga (quasi 7 minuti) e decisamente complessa, anche liricamente, con i riferimenti alle divisioni fortissime della società inglese. Non che il prosieguo del CD sia molto più brillante: solo con Empires i ritmi diventano più sostenuti. Invece i contenuti testuali sono più variegati, come già accennato: in My Trouble compare un elogio tenerissimo della moglie di Garvey, mentre On Deronda Road narra un viaggio che il cantante degli Elbow fece qualche anno fa col figlio. La nota veramente ottimista arriva in chiusura di Weightless, dove Garvey racconta di come il figlio appena nato lo abbia aiutato moltissimo in occasione della morte del padre, facendogli capire l’importanza della vita.

“Giants Of All Sizes” mostra una band ormai matura, contenta della propria posizione all’interno dello scacchiere musicale e ancora capace di produrre canzoni molto interessanti (si ascoltino White Noise White Heat e My Trouble). Il CD non è un capolavoro, ma fa capire una volta di più che gli Elbow hanno ancora qualcosa da dare alla musica.

Voto finale: 7,5.

Mount Eerie feat. Julie Doiron, “Lost Wisdom Pt. 2”

mount eerie

Il nuovo album del cantautore Phil Elverum, meglio conosciuto come Mount Eerie (oltre che ex leader dei Microphones), continua sulla strada tracciata dai due lavori che precedono questo CD, i tragici “A Crow Looked At Me” (2017) e “Now Only” (2018). Ancora è forte il ricordo della moglie Geneviève Castrée, deceduta per un cancro due anni fa, ma anche il breve matrimonio con l’attrice Michelle Williams ha un importante ruolo.

In effetti “Lost Wisdom Pt. 2” è un breakup album: molto spesso nel corso delle 8 canzoni che compongono il CD appaiono immagini legate alla Williams, ad esempio quando in una libreria Elverum si rende conto di quanto la ama, oppure viceversa quando i due capiscono di non poter vivere assieme, lei abituata ai paparazzi e lui invece allergico al pubblico troppo largo.

Da non sottovalutare sono infine due aspetti del disco: la collaborazione con la cantautrice Julie Doiron avviene perfettamente alla pari, come del resto avveniva nel precedente lavoro della serie, “Lost Wisdom” (2008). È un piacere sentire la voce dolce di Mount Eerie mescolarsi con quella altrettanto angelica di Julie, per creare armonie gradevoli anche se non rivoluzionarie. Altro aspetto interessante è la struttura del CD. Il primo brano si intitola Belief, l’ultimo Belief Pt. 2 e riprende esattamente dove il primo aveva lasciato. I pezzi migliori sono proprio la lunga Belief e Love Without Possession, mentre è inferiore alla media la troppo breve Pink Light.

I frequenti cambi di ritmo e il ruolo finalmente tornato importante della chitarra elettrica fanno sì che “Lost Wisdom Pt. 2” non sia mai prevedibile e che i 31 minuti di durata siano ben investiti anche dopo ripetuti ascolti. Certo, il lavoro non raggiunge le vette di sensibilità e magnificenza di “A Crow Looked At Me”, ma è un’altra buona aggiunta ad una discografia ormai imponente.

Voto finale: 7,5.

Leonard Cohen, “Thanks For The Dance”

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Il quindicesimo album a firma Leonard Cohen arriva tre anni dopo la sua morte: un album postumo corre sempre il rischio di suonare falso o, peggio, messo insieme per sfruttare fino alla fine (e anche oltre) la fama del defunto, si vedano le pubblicazioni a firma XXX Tentacion.

“Thanks For The Dance” è in realtà un album onesto da questo punto di vista: curato dal figli Adam assieme a giganti del rock recente come Feist (Broken Social Scene), Bryce Dessner (The National) e Beck, il CD è un modo per dire definitivamente addio ad uno dei più grandi artisti degli ultimi 50 anni e capire ancora una volta come anche i suoi scarti possono creare prodotti interessanti.

Come può apparire scontato, le 9 melodie dell’album, composte nelle stesse session di “You Want It Darker”, hanno sonorità malinconiche e testi carichi di tragici significati, con riferimenti all’Olocausto (Puppets) e alla morte purtroppo imminente (The Hills). Il modo però in cui Cohen consegna questo testamento artistico, pieno di grazia e classe, ce lo fa apprezzare per un’ultima volta.

“You Want It Darker” (2016), composto mentre Leonard lottava contro il cancro, pareva già un ottimo modo di chiudere il cerchio, soprattutto grazie ai poetici quanto tragici versi contenuti in pezzi come la title track e Leaving The Table. Tuttavia, canzoni come Happens To The Heart e The Night Of Santiago rendono “Thanks For The Dance” una buona aggiunta ad una discografia davvero imponente. Certo, la grazia di LP come “Songs Of Leonard Cohen” (1967) oppure “I’m The Man” (1988) era impossibile da replicare, ma il CD è accettabile e, escludendo colpi di coda da parte di eredi spietati o case discografiche senza vergogna, chiude degnamente la carriera di un vero gigante della musica contemporanea.

Voto finale: 7.

Skee Mask, “ISS004”

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La nuova pubblicazione del talento tedesco Bryan Müller, in arte Skee Mask, esplora una parte della sua estetica che fino ad ora era rimasta un po’ nascosta: l’amore per la scena rave e il mondo dei club. Fin dalla prima traccia infatti “ISS004” pare più l’opera di un autore come Autechre piuttosto che di un talento della scena techno/ambient come lui.

Juug è infatti un perfetto esempio di musica ideale per un club di medie dimensioni a notte inoltrata: batteria pulsante, bassi potenti e un ritmo avvolgente che termina quasi come un lento. La seguente Slow Music ha un titolo ingannevole: di tutto stiamo parlando meno che di musica lenta infatti, con i ritmi breakbeat prediletti da Müller in piena forma. Lo stesso dicasi per RZZ, caratterizzata da una base più inquietante ma dagli stessi ritmi ossessivi. La meno convincente del lotto è Play Ha, che pare un calco dei due brani precedenti. Chiude la tracklist Sphere In Total, che riprende la corrente più ambient e contemplativa di Skee Mask.

Il CD è in realtà anche vedibile come un EP lungo: i 5 pezzi fanno pensare al secondo, ma in realtà la durata vicina ai 30 minuti lo rende un album complesso e non assimilabile al primo ascolto. In generale, però, il Nostro si dimostra una volta di più un vero talento della scena elettronica mondiale, capace di spaziare tra ambient, rave e brani più eclettici in maniera scaltra e sempre con risultati interessanti.

Voto finale: 7.

TNGHT, “II”

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Il secondo EP a firma TNGHT arriva ben sette anni dopo l’eponimo esordio. In questo periodo sia Lunice che Hudson Mohawke, i due componenti dei TNGHT, sono in realtà stati molto impegnati. I riflettori si sono giustamente puntati maggiormente sul secondo: le sue frequenti collaborazioni con Kanye West lo hanno reso un produttore molto richiesto nel mondo hip hop.

Nessuno avrebbe bisogno di un nuovo CD del duo, non fosse per un motivo: la scena trap, che i TNGHT hanno aiutato a definire con “TNGHT” (2012), è ormai diventata ubiqua, tanto da soppiantare elettronica e rock fra i più giovani. Quale modo migliore di “festeggiare” questo trend che creare un prodotto che si distanzia molto dal precedente? Nulla da sorprendersi del resto, conoscendo Lunice e Mohawke.

L’unica traccia che ricorda le atmosfere trap di “TNGHT” è Dollaz, davvero folle ma riuscita. Altrove invece abbondano esperimenti elettronici di varia natura, sulla scia dell’ultimo Flume (First Body) e di SOPHIE (Gimme Summn). Se a tutto ciò aggiungiamo la presenza di uno Skit di ben 5 secondi di durata (!!), l’EP diventa una vera follia, ma davvero gradevole.

I TNGHT paiono davvero divertiti da “II”: due famosi produttori che si danno alla pazza gioia in studio possono portare risultati tremendi oppure assurdamente buffi. Questo lavoro rientra nella seconda categoria: non parliamo certo di capolavoro, ma passare 22 minuti in compagnia di Hudson Mohawke e Lunice non è mai una perdita di tempo.

Voto finale: 7.

Mikal Cronin, “Seeker”

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Il quarto disco solista di Mikal Cronin, fidato collaboratore di Ty Segall, ricalca le orme del precedente “MCIII” (2015): strumentazione più barocca del solito passato garage rock, ritmi più lenti e canzoni più mature. I risultati non sono sempre perfetti, mostrando una evoluzione nell’estetica di Mikal che non ci fa ben sperare per il suo futuro.

Laddove “MCII” (2013) aveva messo in mostra l’innata abilità di Cronin di comporre canzoni a metà fra power pop e indie rock, con la vetta forse irraggiungibile di Weight, già in “MCIII” si erano intravisti limiti nella sua estetica: le canzoni troppo barocche decisamente non si adattano bene a lui. Si sperava che in “Seeker” si trovasse un equilibrio fra le due componenti, questo tuttavia accade solo in parte: il problema risiede principalmente negli arrangiamenti a volte troppo prevedibili (Show Me), altre fin troppo arzigogolati (Shelter). I brani che davvero stupiscono favorevolmente sono Fire e la breve Caravan, ma non portano il CD ad essere pienamente apprezzabile.

È un peccato, infatti Mikal Cronin continua ad essere un talentuoso musicista, che non per caso collabora con il vero dio del garage rock, Ty Segall, contrastandone probabilmente le tendenze più metallare per creare quei gioielli per cui Ty è molto stimato da pubblico e critica. Come autore però Cronin pare aver perso il filo, “Seeker” infatti raggiunge a malapena la sufficienza… Vedremo il futuro dove lo condurrà, certo un ritorno alle radici garage rock non sarebbe un peccato.

Voto finale: 6.