Recap: febbraio 2022

Febbraio è stato un mese densissimo di pubblicazioni importanti per la musica pop-rock. Abbiamo recensito le nuove uscite di artisti del calibro di Beach House, Mitski e Animal Collective. In più, abbiamo il magnifico secondo CD dei Black Country, New Road e il ritorno di Saba, dei Big Thief e di Cate Le Bon. Come tralasciare poi il nuovo CD dei veterani Spoon e il quarto LP degli Alt-J? Buona lettura!

Black Country, New Road, “Ants From Up There”

ants from up there

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Voto finale: 9.

Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

Dragon New Warm Mountain I Believe In You

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici anche dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

Voto finale: 9.

Beach House, “Once Twice Melody”

once twice melody

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande disco in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

Voto finale: 8.

Mitski, “Laurel Hell”

laurel hell

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour che la vedrà supportare la superstar Harry Styles, quindi il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

Voto finale: 8.

Animal Collective, “Time Skiffs”

time skiffs

Il dodicesimo disco di inediti degli Animal Collective segue il debole “Tangerine Reef” (2018) e l’EP “Bridge To Quiet” del 2020 ed è il primo dai tempi di “Merriweather Post Pavilion” (2009) che è stato composto dal quartetto originale, vale a dire Noah Lennox (Panda Bear), David Portner (Avey Tare), Brian Weitz (Geologist) e Josh Dibb (Deakin). I risultati si vedono: il gruppo pare rigenerato rispetto alle ultime prove, le melodie sono strane ma dolci e tendenti più al pop che allo sperimentalismo, per un risultato finale davvero soddisfacente.

Siamo non lontani dai territori calcati nel periodo più florido degli Animal Collective, quello a cavallo degli anni ’00, contraddistinti da CD immortali come “Feels” (2005), “Strawberry Jam” (2007) e il già citato “Merriweather Post Pavilion”: pop psichedelico, testi impressionisti piuttosto che calati nella realtà, lunghe suite strumentali che esplodono in ritornelli accattivanti… non sarà un ritorno all’imprevedibilità dei loro tempi migliori, ma gli Animal Collective sembrano tornati davvero a buoni livelli.

Il CD si articola in nove canzoni, per una durata complessiva di 47 minuti, alternati tra canzoni più compatte (Dragon Slayer) ed altre che sembrano delle lunghe jam session in studio (Cherokee), con risultati in generale apprezzabili. I migliori pezzi sono Prester John e Strung With Everything, mentre sotto la media Passer-by.

In generale, come già accennato, “Time Skiffs” è il più convincente album degli Animal Collective da tredici anni a questa parte. Che questo lavoro segni un nuovo inizio per la band non è scontato; allo stesso tempo, però, godiamoci questo LP, in tutta la sua (apparente) semplicità.

Voto finale: 7,5.

Spoon, “Lucifer On The Sofa”

lucifer on the sofa

Ne sono successe di cose dall’ultimo album di studio degli Spoon, “Hot Thoughts” del 2017: il gruppo texano ha pubblicato un greatest hits, “Everything Hits At Once: The Best Of Spoon”, nel 2019; il bassista Rob Pope ha lasciato la band ed è stato rimpiazzato da Ben Trokan; ultimo ma non per importanza, una pandemia ha colpito il mondo ed ha anche influenzato il modo di registrare questo “Lucifer On The Sofa”.

Insomma, il CD si presentava come un tagliando sull’efficacia della formula che ha fatto degli Spoon uno dei complessi indie rock più affidabili su piazza: canzoni minimaliste, ritornelli pop ma non troppo, testi tendenti al claustrofobico, durata ragionevole dei lavori. Se “Hot Thoughts” aveva flirtato con elettronica e funk, questo LP invece torna alla radici rock del gruppo, ad esempio a “Transference” (2010).

Aiutati da produttori rinomati come Dave Fridmann (già con loro nei precedenti due CD), Mark Rankin (Adele, Iggy Pop), Justin Raisen (Kim Gordon, Yves Tumor) e addirittura Jack Antonoff (collaboratore delle popstar Lorde e Lana Del Rey tra le altre), gli Spoon hanno prodotto un decimo disco di qualità: compatto, veloce, con highlights notevoli come Wild e The Devil & Mister Jones. Inferiore alla media solamente Feels Alright.

Liricamente, il diavolo evocato nel titolo appare in varie canzoni, come la title track e The Devil & Mister Jones; altrove abbiamo riferimenti all’amore (Satellite) e a Dio (Astral Jacket), ma il tono generale del lavoro, come già accennato, è malinconico e minaccioso, anche se in modo sottile.

In generale, “Lucifer On The Sofa” non raggiunge la creatività mostrata in dischi del passato come “Ga Ga Ga Ga Ga” (2007) e “They Want My Soul” (2014), ma resta un altro capitolo degno di nota in una discografia immacolata.

Voto finale: 7,5.

Cate Le Bon, “Pompeii”

pompeii

Il sesto album della cantautrice gallese raffina il sound già introdotto in “Reward” del 2019, l’album che la fece scoprire a molti. Il mix insolito di pop, psichedelia e soft rock conferma la versatilità di Cate e migliora ad ogni ascolto, pur non brillando per ritmi trascinanti o canzoni da Top 40 di Billboard.

Stabilitasi da qualche anno nel deserto del Mojave, in California, Le Bon ha scritto durante il periodo più duro della pandemia canzoni simili a quelle del suo recente passato, ma “Pompeii” pare un album molto più coeso rispetto a “Reward”: nota di merito alla presenza della Nostra, che àncora tutte le canzoni ed evita derive psichedeliche o troppo barocche. Menzione poi per la copertina, che la ritrae vestita da suora: il ritratto è stato prodotto dall’amico Tim Presley (White Fence), suo compagno nella band DRINKS.

Le canzoni di “Pompeii” procedono lente, meditative: nessuna è trascinante come ci aspetteremmo da un brano pop, tuttavia i nove pezzi che compongono il CD scorrono via serenamente. Vi sono quelli più psichedelici come Running Away e French Boys, così come quelli più accessibili come l’ottima Moderation e Harbour; ma nessuno suona fuori posto. Solo Cry Me Old Trouble e French Boys sono inferiori alla media.

Testualmente, restano impressi alcuni versi declamati da Cate Le Bon nel corso dei 43 minuti di durata del disco: ad esempio, nella title track Pompeii abbiamo “Every fear that I have, I send it to Pompeii”, che suona come un mandare a quel paese le paure che la trattengono. In Harbour, abbiamo una frase tanto potente quanto misteriosa: “What you said was nice… When you said my heart broke a century”. In Moderation, invece, compare la sua indole ribelle: “Moderation: I can’t stand it”.

“Pompeii” è in conclusione un buon LP, che svela dettagli interessanti ad ogni ascolto. Cate Le Bon si conferma cantautrice di qualità nel reame art pop, sulla scorta del successo riscosso l’anno scorso da artisti come The Weather Station e Cassandra Jenkins. La aspettiamo alla prova del prossimo CD, fiduciosi che la qualità sarà ancora una volta apprezzabile.

Voto finale: 7,5.

Saba, “Few Good Things”

Few Good Things

“Jesus got killed for our sins, Walter got killed for a coat” cantava Saba in “CARE FOR ME” del 2018, il bellissimo album che precede “Few Good Things” nella discografia del Nostro. Se il tono del precedente lavoro era malinconico, a tratti disperato a causa della tragica sorte del cugino Walter, in “Few Good Things” Saba passa ad un’estetica più accessibile, che a volte tocca la trap (Survivor’s Guilt) e spesso il neo-soul. I risultati sono meno strabilianti, ma il CD non rappresenta una battuta d’arresto: semplicemente, pare un disco di transizione.

“Few Good Things” rispetto a “CARE FOR ME” accoglie un maggior numero di ospiti: tra i più rappresentativi abbiamo G Herbo (in Survivor’s Guilt) e Smino (Still). I brani scorrono bene, non vi sono cambi di ritmo radicali, circostanza che aiuta la coesione complessiva del lavoro. Allo stesso tempo, mancano i versi travolgenti e la potenza di alcune melodie che trovavamo in “CARE FOR ME”. Ad esempio, Stop That è debole. Al contrario, 2012 e la title track, che chiudono brillantemente il CD, sono davvero riuscite.

I migliori versi riguardano la sensazione che Saba prova nel vedersi ricco e nel riflettere sulle sue umili origini, spesso avvertendo un contrasto insanabile e una sorta di senso di colpa. Abbiamo ad esempio: “I still get nostalgic driving past houses my family lost” (Free Samples) e “Need a million after taxes, I might spend the shit on fashion… Sit all day and I play Madden” (One Way Or Every N***a With A Budget). Altrove invece emergono i suoi problemi personali: “I’m dying from asphyxiation from the weight of the world while in the waiting room I’m waiting for the birth of my girl” (Soldier).

In generale, “Few Good Things”, come da titolo, contiene alcune cose davvero buone; tuttavia, la qualità complessiva è inferiore rispetto a “CARE FOR ME”. Troviamo che Saba renda meglio quando può rappare su basi più raccolte rispetto a quelle trap, ma allo stesso tempo la versatilità è una qualità da coltivare. Lo aspettiamo al prossimo CD, probabilmente la prova della verità per il rapper originario di Chicago.

Voto finale: 7.

Alt-J, “The Dream”

the dream

Pubblicato ben cinque anni dopo “Relaxer” (2017), il quarto album dei britannici Alt-J scrive una pagina interlocutoria in una carriera che sta prendendo una china pericolosa. Salutati, ai tempi del magnifico esordio “An Awesome Wave” (2012), come i salvatori del rock inglese, gli Alt-J non sono mai riusciti a replicare quei risultati; “The Dream” è il loro album più lento e meditativo, con solo alcuni momenti davvero buoni.

In realtà le prime due canzoni del lotto sono tra le migliori della produzione recente degli Alt-J: Bane è una tipica “slow burner”, mentre il singolo U&ME è più accattivante e quasi rievoca Breezeblocks. Il resto del CD vaga tra pezzi lenti, a volte troppo (Get Better), e altri invece più vivi ma non sempre centrati (Hard Drive Gold). Alla fine, restano solo un pugno di brani davvero riusciti: oltre a Bane e U&ME, abbiamo anche The Actor. Non male anche le due canzoni col titolo “americano”, Chicago e Philadelphia.

Liricamente, va detto, il lavoro ha spesso il merito di trattare temi delicati in modo molto aperto ed evocativo: “I still pretend you’re only out of sight in another room, smiling at your phone” canta sconsolato Joe Newman in Get Better parlando di una persona cara da poco scomparsa. Altrove il tono è più scherzoso: Bane è un’ode alla Coca Cola, mentre Hard Drive Gold tratta il tema delle criptovalute e i relativi rischi.

In generale, tuttavia, “The Dream” non suona propriamente come il sogno evocato dal titolo: piuttosto, come una lunga playlist di pezzi propedeutici al sonno. Di per sé, non è necessariamente un problema, però la qualità di alcune melodie è discutibile e abbassa la media. Peccato, perché da tre ragazzi che all’esordio hanno vinto il Mercury Prize ci aspettiamo sempre grandi cose. Sarà per la prossima, speriamo.

Voto finale: 6,5.

Gli album più attesi del 2022

Ad A-Rock abbiamo pubblicato da pochi giorni le due puntate della lista dei 50 migliori album del 2021, ma non è tempo di relax. Il 2022 è infatti vicinissimo e si prospetta un anno davvero denso di uscite attese da anni da pubblico e critica. Andiamo ad analizzarle.

Partiamo dai due CD più attesi da A-Rock: sia Kendrick Lamar, cinque anni dopo “DAMN.” (2017) che gli Arctic Monkeys, a quattro anni “Tranquillity Base Hotel & Casino” (2018), sembrano pronti a pubblicare i loro nuovi lavori. Inutile dire che abbiamo grandi aspettative su entrambi gli artisti, tra i più rilevanti negli ultimi anni per quanto riguarda hip hop e rock.

Se ci spostiamo sul versante propriamente rock, notiamo che abbiamo sia veterani (Arcade Fire, Phoenix, Spoon) che emergenti (Fontaines D.C., Black Country, New Road e black midi) pronti a lanciare i loro nuovi CD. I Big Thief, dal canto loro, pubblicheranno un doppio LP a febbraio 2022. Non ci scordiamo poi di Jack White, addirittura pronto a pubblicare due dischi nel 2022, e di alcuni nomi che parevano ormai archiviati nella storia della musica e invece, contro ogni previsione, hanno pianificato di pubblicare nuovi lavori: Tears For Fears e The Cure, nomi fondamentali del rock anni ’80, faranno del 2022 un anno di revival?

Discorso a parte poi per alcuni artisti a cavallo tra pop e rock, come The 1975 e Mitski: artisti giovani, ambiziosi, eclettici e vogliosi di far vedere che il rock, se mescolato con le ultime tendenze in campo pop e, a volte, elettronico, può ancora regnare nelle classifiche. In questa categoria rientrerebbe anche Sky Ferreira, ma l’erede di “Night Time, My Time” (2013) è ormai una chimera.

Entrando poi nel pop, il nome principale è The Weeknd: dopo il convincente singolo Take My Breath, la sua trasformazione nel Michael Jackson del XXI secolo pare ormai pronta a manifestarsi. Abbiamo poi Beyoncé e Rihanna, due che si contendono legittimamente la corona di regina del pop e sembrano finalmente pronte a tornare sui palcoscenici dopo lunghe assenze. Nel mondo del pop più sofisticato o comunque meno commerciale, molto attesi sono i nuovi CD dei Beach House, di FKA twigs e di Charli XCX: realtà ormai consolidate, con alcune hit all’attivo, ma ancora non nel pieno mainstream. Vedremo se il 2022 porterà buone nuove per questi tre artisti.

Abbiamo poi il mondo hip hop: oltre al già menzionato Kendrick Lamar, abbiamo Danny Brown, uno dei rapper più imprevedibili del momento, pronto a regalarci ancora canzoni costruite su beat strampalati e fatti pubblici e privati narrati dalla sua voce fortemente nasale e altrettanto inconfondibile. Menzione poi per Earl Sweatshirt, che pubblicherà “Sick!” il 14 gennaio, e per i veterani Pusha-T e Freddie Gibbs. Non tralasciamo poi le giovani leve, rappresentate da Saba e Noname, che dovranno mantenere le aspettative alte imposte dai rispettivi esordi; e sappiamo quanto la “sindrome da secondo album” spesso azzoppi carriere promettenti.

Nell’elettronica si prospetta un 2022 interessante: artisti del calibro di M83 e Animal Collective, riferimenti del settore nel corso soprattutto degli anni ’00 e ’10 del XXI secolo, sembrano scaldare i motori per pubblicare i loro nuovi lavori nell’anno che verrà. Abbiamo poi Jenny Hval e MGMT, 100 gecs e Let’s Eat Grandma… insomma, nomi apprezzati sia nel versante pop che sperimentale dell’elettronica, un magma sempre più vivo e imperscrutabile.

In conclusione, il 2022 sarà probabilmente un anno da vivere intensamente. Sperando che la pandemia lasci più tranquilli e sia possibile tornare a vedere concerti in tranquillità, scaldiamoci ascoltando tanti CD da parte di artisti amati da pubblico e critica! State collegati, perché A-Rock vi offrirà al meglio delle proprie possibilità una copertura ampia e variegata.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

Gli album più attesi del 2020

L’anno, anzi la decade, sta per finire. Tuttavia, ad A-Rock guardiamo sempre al futuro e siamo pronti per un 2020 stellare. Andiamo a vedere insieme i CD più attesi da critica e pubblico: il nuovo anno si preannuncia ricco di ritorni attesissimi.

Peraltro, la tendenza a vedere nei primi anni della decade uno spartiacque viene suffragata da tre dati: “Nevermind” dei Nirvana, “Kid A” dei Radiohead e “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West sono stati incisi rispettivamente nel 1991, 2000 e 2010. Nessuno può negare l’influenza che questi classici hanno avuto sugli anni successivi, pertanto prepariamoci ai fuochi d’artificio.

Se nel gennaio 2019 avevamo eletto come artista più atteso i Vampire Weekend, ben ripagati dal pregevole “Father Of The Bride”, nel 2020 abbiamo due gruppi pronti a dare una svolta alla loro già prospera carriera: The 1975 e Tame Impala. In realtà entrambi avevano promesso di far uscire gli eredi di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Currents” (2015) nell’anno che sta per finire, ma entrambi vedranno la luce solamente nel 2020. Se da un lato, con i The 1975, abbiamo probabilmente la band rock di maggior successo fra i giovani, i Tame Impala hanno rivoluzionato il concetto stesso di psichedelia. Inutile dire che da “Notes On A Conditional Form” (dei britannici The 1975) e “The Slow Rush” (degli australiani Tame Impala) ci aspettiamo molto.

Se concentriamo la nostra attenzione sul mondo rock, notiamo che oltre The 1975 e Tame Impala, abbiamo altri beneamati artisti pronti a pubblicare nuovi dischi. Ad esempio, Dan Bejar aka Destroyer ha già annunciato che il nuovo lavoro del progetto, “Have We Met”, vedrà la luce il 31 gennaio. Anche gli IDLES, gruppo punk inglese osannato Oltremanica, pubblicherà il seguito di “Joy As An Act Of Resistance” (2017), intitolato provvisoriamente “Toneland”, l’anno prossimo. Vi sono poi tre gruppi ormai veterani dell’indie rock, ovvero Phoenix, Spoon e Real Estate, che dovranno confermare i precedenti lodevoli CD per restare sulla cresta dell’onda. Il mondo pop-punk (con venature emo) è poi giustamente in fermento per i ritorno di due fra le band più amate del movimento: i Green Day e i My Chemical Romance. Specialmente per i secondi, riunitisi dopo 7 anni, l’attesa è fortissima. Chiudiamo poi con due nomi conosciutissimi: The Killers e Red Hot Chili Peppers. Di loro non si hanno notizie certe, nondimeno gustare il seguito di “Wonderful Wonderful” e il nuovo LP dei RHCP con John Frusciante di nuovo nel gruppo varrebbe davvero tantissimo.

È tuttavia il mondo del pop a destare maggior curiosità: attesi al varco abbiamo pezzi da 90 del calibro di Frank Ocean, The Weeknd e Rihanna. Stiamo parlando di tre fra i più celebri artisti dei nostri anni, che vengono dai migliori lavori della carriera (RiRi e Frank) oppure da anni bui creativamente parlando (il canadese Abel Tesfaye). Ma non finisce qui: pare che anche Lady Gaga sia pronta a pubblicare il seguito di “Joanne” (2016), annunciato già nel 2019 ma poi posticipato per gli impegni cinematografici della Nostra.

Passando all’hip hop, ormai il genere dominante nelle classifiche di mezzo mondo, i nomi da tenere d’occhio sono due: Drake e Kendrick Lamar. Parliamo di due veri pesi massimi del panorama musicale contemporaneo: se il primo ha saziato i fans nel 2019 con la raccolta “Care Package”, è lecito aspettarsi il seguito del deludente “Scorpion” nel 2020? Pare di sì. Il contrario vale per K-Dot: dopo tre album clamorosi e il premio Pulitzer (!), saprà tenere testa a critica e pubblico con un altro lavoro altrettanto riuscito? Da non sottovalutare poi Travis Scott: il giovane rapper, reduce dallo strepitoso successo di “ASTROWORLD”, saprà creare un altro blockbuster di quel livello? Menzione infine per i Run The Jewels: il quarto capitolo della loro discografia, annunciato per il 2019, non ha ancora visto la luce. Ok, seguire “RTJ3” (2016) non è semplice, però anche illudere così i propri fans non è comportamento trasparente!

L’elettronica ha vissuto nel 2019 un anno interlocutorio: il 2020 però pare destinato a vedere il ritorno di artisti del calibro di The Avalanches, Caribou e Grimes. Soprattutto quest’ultima è davvero attesa al varco: dopo il buon successo di “Art Angels” (2015) e la sfilza di singoli pubblicati nel corso del 2019, cosa dobbiamo aspettarsi da “Miss Anthropocene”? Nome poi da tenere sott’occhio è Neon Indian: il progetto di Alan Palomo sembra finalmente pronto a pubblicare il follow-up di “VEGA INTL. Night School” (2015). Come sempre avvolto nel mistero il destino di “Dear Tommy” dei Chromatics: il 2020 sarà l’anno in cui l’ormai mitico album vedrà la luce?

Chiudiamo con una lista di artisti che hanno seminato indizi, ma su cui non abbiamo certezze: Fleet Foxes, Parquet Courts e Iceage fanno sicuramente parte di quei gruppi che hanno dato tanto alla musica degli anni ’10 e che siamo impazienti di sentire con pezzi inediti. Stesso dicasi per Strokes, St. Vincent e Car Seat Headrest. I primi vengono da tre anni d’inattività e Julian Casablancas pare concentrato sul progetto parallelo dei Voidz, ma mai dire mai giusto? Annie Clark invece ha remixato acusticamente il pregevole “MASSEDUCTION” (2017) l’anno seguente, ma pare pronta a riprendere l’attività là dove si era interrotta: brani indie pop, con improvvisi squarci di chitarra elettrica e testi corrosivi. Infine Will Toledo e compagni: loro vengono dal meraviglioso “Twin Fantasy” (2018) e, sebbene non vi siano certezze al riguardo, un suo erede pare probabile.

Insomma, il 2020 si annuncia un anno esplosivo, con molte promesse pronte a sbocciare e veterani che vogliono mantenere il comando delle operazioni. State sintonizzati: A-Rock proverà, al meglio delle sue possibilità, a guidarvi nel mare magno che è diventato il panorama musicale contemporaneo!

I 50 migliori album del 2017 (50-26)

Anche il 2017 è ormai agli sgoccioli. Un anno ricco di ritorni, musicalmente parlando: alcuni annunciati (Fleet Foxes, Gorillaz), altri inattesi (Liam Gallagher, Fever Ray). In generale, il livello è stato soddisfacente, ma non eccezionale: lontani sono il 2010, il 2011 e il 2015, anni che davvero hanno rivoluzionato il panorama musicale contemporaneo. Tuttavia, molti cantanti e gruppi hanno dimostrato che la musica può ancora comunicare qualcosa, sia al pubblico che alla sfera privata di ognuno di noi.

Iniziamo la nostra analisi dei 50 migliori album dell’anno con le posizioni dalla 50 alla 26. Ricordiamo qua alcuni artisti che, pur meritevoli, non sono entrati nella lista: Jay-Z, Charlotte Gainsbourg, Protomartyr, SZA, Gorillaz e Alt-J purtroppo non sono riusciti a produrre dischi sufficientemente buoni per entrare nella lista di A-Rock. Altri artisti molto attesi, come Arcade Fire e Weezer, hanno semplicemente pubblicato brutti LP, come già scritto nell’articolo pubblicato pochi giorni fa relativo ai 5 album più deludenti del 2017.

Parlando dei generi più in vista nel 2017, senza dubbio pop e hip hop hanno continuato a mietere successi e a riempire le classifiche dei brani più ascoltati. In particolare, nel pop abbiamo avuto prove eccellenti (St. Vincent, Lorde) che contribuiranno anche nei prossimi anni a rivitalizzare il genere; d’altro canto, l’hip hop ha visto consolidarsi due giovani stelle del firmamento rap contemporaneo (Vince Staples e Kendrick Lamar). Invece, per l’elettronica non è stato un anno facile: pochi gli LP davvero riusciti, malgrado ritorni imprevedibili (Fever Ray). Da sottolineare poi il balzo in avanti del folk, che con i CD di Fleet Foxes e Mount Eerie ha creato due capolavori destinati ad influenzare il genere per anni. Per quanto riguarda il rock, il 2017 è stato un anno di transizione: accanto a graditi ritorni (Queens Of The Stone Age, Grizzly Bear, LCD Soundsystem), abbiamo avuto delusioni cocenti (Arcade Fire, Weezer, U2). Aspettiamo con ansia il 2018 per il comeback di gruppi amati come Vampire Weekend ed Arctic Monkeys. Infine, nota di merito per il ritorno di due grandi band shoegaze, Ride e Slowdive, entrambe presenti nella nostra lista. Ma andiamo con ordine.

50) Liam Gallagher, “As You Were”

(ROCK)

Lo avevamo inserito al primo posto nella lista dei CD più attesi del 2017: il primo sforzo solista del più giovane e scapestrato dei fratelli Gallagher. Dopo la non felicissima esperienza con i Beady Eye, aveva giurato che non avrebbe mai fatto un album solista, considerata roba da checche (parole sue, non mie). Invece, ha infranto il suo voto e ha realizzato questo “As You Were”: accantonati gli insulti al fratello e ad altri artisti (fra cui A$AP Rocky, U2 e Coldplay), Liam sembra una persona più matura; e questo non farà altro che bene alla sua vita e, probabilmente, alla sua carriera.

I singoli scelti per promuovere il CD erano sembrati molto interessanti: Wall Of Glass è un ottimo brano britpop, che ricorda molto gli Oasis dei primi tre LP; Chinatown e For What It’s Worth sono più intime ma non meno efficaci. Tutto stava a valutare le altre nove canzoni in scaletta. Beh, il nostro non ha deluso le attese: non parliamo di un disco capace di rinverdire i fasti di “Definitely Maybe” (1994) o “(What’s The Story) Morning Glory?” (1995), però Liam dimostra a tutti che il talento negli Oasis non era solo appannaggio di Noel e fa meglio dei due album prodotti con i Beady Eye, “Different Gear, Steel Speeding” (2011) e “BE” (2013). Peccato che “As You Were” perda efficacia nella sua parte centrale e finale, altrimenti il risultato finale sarebbe anche potuto essere migliore. La chiusura con la potente I’ve All I Need riscatta tutto.

Tra i pezzi migliori, abbiamo la già citata Wall Of Glass; belle anche Bold e Greedy Soul. Convincono meno le ballate, fin troppo dolci e smielate: tranne la riuscita Universal Gleam, per esempio, Paper Crown e When I’m In Need sono i punti deboli del CD. In generale, fa piacere tornare agli anni ’90, con la energia e irriverenza che ci aspetteremmo da un Gallagher ma contemporaneamente una maturità prima lontana da Liam. Fanno riflettere i testi di For What It’s Worth, dove si scusa con tutti coloro che ha offeso; e di Chinatown, dedicata alle vittime dell’attentato terroristico di Londra.

In conclusione, questo album stupirà molti: chi pensava che sarebbe venuto fuori un fiasco assoluto e chi pensava il talento fosse solo nelle mani di Noel capirà che, senza la voce e il carisma di Liam, la favola degli Oasis non sarebbe mai stata possibile.

49) Priests, “Nothing Feels Natural”

(PUNK)

La band punk statunitense dei Priests, un quartetto per metà maschile e per metà femminile, regala un disco di rara intensità, di protesta politica e insieme molto ambizioso. I Priests, infatti, non si limitano a urlare i loro pensieri senza un costrutto; recuperando molta della scena post punk anni ’80, infatti, Katie Alice Greer e compagnia comunicano tutta la frustrazione provata per l’attuale situazione del mondo.

I pilastri su cui si fonda questo veloce CD, “Nothing Feels Natural” (già il titolo dice tutto), sono chiari: gli U2 delle origini, i Joy Division e gli Interpol sono chiari riferimenti. Non manca un veloce passaggio à la Deerhunter, nell’ammaliante (sì, è il titolo del brano). Le canzoni più belle dell’album sono l’iniziale Appropriate, concentrato di tutto il punk più recente nello spazio di appena 5 minuti, pezzo davvero clamoroso; la ossessiva No Big Bang; e la conclusiva Suck, che ricorda molto i Rapture di “Echoes”. Da non ignorare anche la potente title track.

Insomma, niente di innovativo o indimenticabile, ma dischi come questo “Nothing Feels Natural” ricordano che il punk ha ancora un’utilità, soprattutto in tempi grami come quelli attuali. La Greer si candida, infine, a diventare una voce punk femminile molto significativa, al pari delle Savages e delle Sleater-Kinney.

48) Vagabon, “Infinite Worlds”

(ROCK)

Vagabon è il nome d’arte della newyorkese di origine camerunense Lætitia Tamko. Il suo esordio, “Infinite Worlds”, può a pieno diritto essere annoverato fra i migliori album rock dell’anno. La Tamko riesce infatti a fondere perfettamente un indie rock di chiara ascendenza strokesiana con un dream pop molto ammaliante, di cui è simbolo la strumentale Mal A’ L’Aise. Le sole 8 tracce del disco impediscono un giudizio completo, poiché sarebbe piaciuto vedere pienamente in gioco il potenziale della giovane artista. Tuttavia, per quello che abbiamo sentito, possiamo dire che Vagabon ha talento da vendere. Riuscire a creare un disco coerente mescolando Strokes, Cocteau Twins e Bloc Party non era facile.

Tra le tracce migliori di questo “Infinite Worlds” abbiamo le iniziali The Embers e Fear & Force; la già ricordata Mal A’ L’Aise e Cold Apartment, tuttavia, non sono da meno. Insomma, un esordio coi fiocchi da parte di un’artista davvero promettente.

Jay Som e Vagabon, dunque, hanno rivitalizzato generi come indie rock e dream pop che sembravano su un binario morto. Assieme ai Car Seat Headrest, il cui secondo CD “Teens Of Denial” del 2016 ha fatto gridare al miracolo, sono fra le migliori speranze del rock contemporaneo.

47) Jay Som, “Everybody Works”

(ROCK)

A proposito di Jay Som, questo “Everybody Works” è già il secondo album della giovane artista Melina Duterte. Il primo, “Turn Into” (2016), era passato nel sostanziale anonimato malgrado le qualità che lasciava intuire. Era già formata infatti l’estetica della Duterte: un indie rock scanzonato e influenzato dal dream pop à la Arctic Monkeys di “Suck It And See”.

“Everybody Works” consolida questo sound, migliorando la produzione e la cura dei dettagli, facendo del CD un lavoro imperdibile per gli amanti dell’indie anni ’00. Già da qui capiamo che la giovane compositrice non propone nulla di clamorosamente innovativo, ma la raffinatezza con cui si ispira ad artisti molto più celebri (Arctic Monkeys, Beach House) senza cadere nel plagio è ammirevole.

Degne di nota sono The Bus Song, Baybee e 1 Billion Dogs, dove addirittura si flirta con lo shoegaze; ma nessuna delle 10 tracce del disco è fuori posto. Insomma, un LP di ottima fattura e di grande fascino: quando il talento di Melina Duterte sboccerà definitivamente, ne sentiremo delle belle.

46) Mac DeMarco, “This Old Dog”

(POP – ROCK)

Il terzo album del talentuoso musicista canadese Mac DeMarco, “This Old Dog”, prosegue la lenta evoluzione che ha contraddistinto la sua breve ma prolifica carriera. Qui Mac suona tutti gli strumenti e canta in tutte le canzoni, curando anche la produzione: insomma, un egocentrismo notevole. Non è un caso, probabilmente, che anche i testi riflettano questo atteggiamento: nella ipnotica My Old Man troviamo riferimenti al tormentato rapporto con suo padre, Sister è dedicata alla sorella minore.

Non bisogna però pensare che nella vita di tutti i giorni DeMarco sia un maniaco à la Kanye West, un altro che di egocentrismo se ne intende. Anzi, vale il contrario: lui si dà sempre l’apparenza del ragazzo appena alzato dal letto, con l’aria trasandata e mezza addormentata. Contemporaneamente, però, egli è anche una persona fragile e insicura: lo dimostrano i testi presenti soprattutto nei precedenti lavori, come “2” (2012) e il bel “Salad Days” (2014).

A colpire è l’evoluzione stilistica del giovane Mac: se nei precedenti CD era maggiormente in evidenza l’aspetto indie rock (spaziando da Two Door Cinema Club a Ariel Pink e Real Estate, tanto per capirsi), in “This Old Dog” il pop è preponderante. Sia chiaro: non parliamo di cambiamenti radicali, come del resto era difficile aspettarsi da una persona “calma” e assorta come Mac. Tuttavia, questo è il primo LP a firma Mac DeMarco dove la produzione è brillante e la cura dei dettagli massima: ai fan della prima ora potrà non piacere troppo la perdita dell’ingenuità e (finta) noncuranza dei primi lavori, ma le persone cambiano con il passare del tempo e Mac sembra aver trovato la definitiva maturità, personale ed artistica.

Musicalmente parlando, “This Old Dog” presenta un Mac DeMarco molto simile ai lavori solisti di John Lennon e ad Harry Nilsson: insomma, due padri della musica moderna. Proprio per questo il CD non brilla per innovazione, ma ciò non va a discapito della qualità complessiva: prova ne sono la bella title track, My Old Man, Baby You’re Out e A Wolf Who Wears Sheeps’ Clothes. Strana ma riuscita anche On The Level, che flirta con l’elettronica soft. In generale, le canzoni sono brevi, addirittura Sister dura poco più di un minuto. Tuttavia, la particolarità di DeMarco è di saper sempre cambiare le carte in tavola: la lunghissima Moonlight On The River (più di 7 minuti) è l’ideale chiusura del lavoro.

In conclusione, “This Old Dog” è un interessante passo in avanti nella discografia di Mac DeMarco, un artista di cui non sappiamo mai cosa pensare: ci fa o ci è? Avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure no? Il giudizio è sospeso: “This Old Dog” rappresenta certamente il lavoro maggiormente personale e intimista del cantante canadese. Non vediamo l’ora di riascoltarlo in nuove tracce per dare un giudizio definitivo.

45) Elbow, “Little Fictions”

(ROCK)

Giunti al settimo lavoro di inediti, gli Elbow continuano il loro pregevole percorso artistico. Al ventesimo anno di attività (!), sono poche le band che possono vantare la loro longevità e, contemporaneamente, la medesima volontà di non adagiarsi mai su un rock prevedibile. “Little Fictions” rimanda al più bel CD del gruppo, quel “The Seldom Seen Kid” (2008) vincitore del Mercury Music Prize; tuttavia, Garvey e co. non cadono mai nell’ovvietà. Pur somigliando a tratti a pezzi da novanta del rock contemporaneo come Arcade Fire e Interpol (soprattutto in All Disco e Trust The Sun), la band mantiene una sua identità, fatta di ritmo pulsante, testi di solito riferiti all’amore e canzoni dense, ma molto riuscite, musicalmente e vocalmente. Ne sono esempio Magnificent (She Says) e la conclusiva Kindling; più prevedibile K2, ma è un peccato veniale in un album altrimenti eccellente.

44) Spoon, “Hot Thoughts”

(ROCK)

Il nono album dei veterani dell’indie rock statunitense mantiene alto il livello dei precedenti lavori di Britt Daniel & co., cercando contemporaneamente di instillare nuove sonorità nel tipico genere della band. Infatti, accanto al tradizionale indie rock, che ha fatto le fortune del gruppo anche grazie a stupendi lavori come “Kill The Moonlight” (2002), abbiamo dei passaggi di funk ed elettronica che rendono questo “Hot Thoughts” molto intrigante.

Non sono molte le band che riescono ad operare significativi cambiamenti nel loro sound 24 anni dopo la loro fondazione (gli Spoon sono infatti nati nel 1993) e dopo otto album di successo: la caratteristica peculiare della band texana è che hanno sempre sperimentato nuovi colori e ritmi nel loro sound, basandosi però su una stretta aderenza al mondo del rock. In generale, dunque, non c’è che da essere soddisfatti per un LP così variegato e riuscito: ecco, diciamo che se gli Strokes tornassero ai livelli dei loro primi lavori cercando di mantenere il percorso più sperimentale intrapreso dopo “Angles”, il loro CD suonerebbe così.

Tra i brani degni di nota abbiamo la title track, WhisperI’lllistentohearit e la super funk First Caress. Molto strana la quasi solo strumentale Pink Up, molto lunga ed elettronica, decisamente un pezzo poco spooniano; più tradizionale invece Can I Sit Next To You. La seconda parte perde leggermente vigore, ma i risultati sono comunque buoni.

In conclusione, “Hot Thoughts” si aggiunge meritatamente ad una discografia già eccellente: gli Spoon restano ancora un gruppo fondamentale per gli amanti dell’indie.

43) Paramore, “After Laughter”

(POP – ROCK)

Il quarto album dei Paramore è una rinfrescata necessaria al loro sound. La band capitanata da Hayley Williams, infatti, non si limita a percorrere i sentieri pop-rock delle origini, ma cerca di rifarsi al pop anni ’80 tipico di Police e Talking Heads.

“After Laughter” è il quinto album a firma Paramore, il primo dopo l’eponimo “Paramore” del 2013: se precedentemente il gruppo era famoso come alfiere della musica emo, i membri hanno sempre cercato di innovare, aprendo al funk e al pop-rock, sempre però nei sentieri ben precisi della musica emo. Tuttavia, rispetto ai contemporanei (per esempio, Tokyo Hotel e Brand New), i Paramore hanno mantenuto un livello di scrittura e profondità testuale ben maggiore: non solo ansie giovanili, ma anche temi delicati come il suicidio e la solitudine.

“After Laughter” era quindi atteso con trepidazione: Williams & co. avrebbero mantenuto il buon livello dei precedenti lavori? La risposta è un sì convinto: malgrado i numerosi avvicendamenti nella formazione, tra cui l’abbandono del bassista Jeremy Davis e il ritorno del primo batterista Zac Farro, dopo sei anni di pausa dalla band, la formula dei Paramore si è arricchita, come già ricordato, di chiari riferimenti al pop anni ’80 e ai complessi simbolo di quel periodo.

Un’operazione molto simile era stata effettuata dai The 1975 l’anno scorso, con ambizione e rischio ancora più grandi; i Paramore riescono a non cadere nel tranello della troppa voglia di fare e creano un prodotto compatto e godibile, una conferma del loro talento e versatilità.

Tra i brani migliori abbiamo Rose-Colored Boy e Told You So, che rendono la parte iniziale del CD davvero interessante; da ricordare anche Fake Happy, Pool e Grudges, che rievocano da vicino i Police e i Talking Heads al loro apice. Meno riuscite invece le ballate, come Forgiveness e la conclusiva Tell Me How.

In generale, va apprezzata la voglia di sperimentare nuove sonorità di un gruppo che avrebbe potuto tranquillamente continuare a far piangere adolescenti fragili suonando stanche e monotone canzoni emo, ma che invece non perde la voglia di sorprendere il proprio pubblico.

42) Big Thief, “Capacity”

(ROCK)

I Big Thief sono un complesso americano che suona un indie rock intimista come poche volte si è sentito, sia musicalmente che come tematiche affrontate. Il loro primo album, “Masterpiece” del 2016 (viva la modestia), era un buon connubio di pop e rock; in “Capacity” notiamo un affinamento della formula che li ha fatti conoscere.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio la bellissima voce di Adrianne Lenker, evocativa e fragile come solo le migliori voci femminili sanno essere: in Watering ne abbiamo un chiaro esempio. Le strumentazioni non sono né innovative né radicalmente differenti da “Masterpiece”, tuttavia il risultato complessivo è più convincente. Abbiamo infatti ottimi brani come l’intimista Pretty Things, Shark Smile (che parte quasi punk) e il nucleo del CD, la bellissima Mythological Beauty. Da non trascurare anche la parte finale del disco, con Haley e Mary come highlights.

In conclusione, “Capacity” sicuramente amplierà la platea di fans dei Big Thief, un premio meritato per un gruppo certo non rivoluzionario, ma che sa usare gli ingredienti dell’indie rock più classico per creare brani mai banali.

41) Ride, “Weather Diaries”

(ROCK)

Il 2017 ha segnato il ritorno dello shoegaze sulla scena rock. Infatti, sia Slowdive che Ride sono tornati in attività, producendo nuovi CD sulla falsa riga di quelli che, a cavallo fra anni ’80 e ’90, avevano fatto pensare che una nuova stagione fosse possibile per il rock alternativo. In effetti, grunge e shoegaze sono state le ultime due grandi correnti di cambiamento nel rock.

“Weather Diaries” rappresenta perciò un gradito ritorno, che non intacca l’eredità della band britannica, in particolare quella dei due primi lavori, i bellissimi “Nowhere” (1990) e “Going Blank Again” (1992). Molto aveva fatto discutere la svolta verso sonorità meno difficili dello shoegaze nei due successivi lavori dei Ride, i poco riusciti “Carnival Of Light” (1994) e “Tarantula” (1996). Non è un caso che, dopo “Tarantula”, la band si sia sciolta. “Weather Diaries” cerca di recuperare le antiche sonorità, senza dimenticare però le parti migliori dei due tanto discussi ultimi CD a firma Ride. E i risultati sono davvero interessanti.

Sia chiaro: non parliamo di un LP innovativo o di un radicale cambiamento nel sound dei Ride, tuttavia è sempre piacevole ascoltare una band che sembrava appartenere al firmamento del rock tornare sui suoi passi senza aver perso lo smalto dei tempi migliori. Infatti, tranne un paio di leggeri passi falsi, “Weather Diaries” entra senza demeriti nell’eredità che i Ride lasceranno alla musica.

I brani migliori sono soprattutto nella parte iniziale: molto bello il duo rappresentato da Lannoy Point e Charm Assault. All I Want sarebbe buona, ma l’elettronica presente nel pezzo lo rovina parzialmente. Altre belle canzoni sono l’eterea Home Is A Feeling, la potente Cali e Impermanence. Tra i passi falsi abbiamo la title track, fin troppo monotona, e la strumentale Lateral Alice.

A questo punto possiamo dirlo: tutte le band più rappresentative dello shoegaze sono tornate a produrre musica nel nuovo millennio. Infatti, accanto a Slowdive e Ride, non scordiamoci che i My Bloody Valentine sono tornati con “m b v” nel 2013 e i Lush con l’EP “Blind Spot” nel 2016. Insomma, un trionfo per gli amanti del rock alternativo e, in generale, per chi apprezza la buona musica.

40) (Sandy) Alex G, “Rocket”

(ROCK)

Classe 1993, già 8 album alle spalle: se non parliamo di un prodigio, poco ci manca. Alexander Giannascoli, cantante di chiara origine italiana e con nome d’arte Alex G, da poco cambiato in (Sandy) Alex G, ricorda a tutti che la prolificità non è sempre sinonimo di lavori abborracciati: ne sia esempio anche l’instancabile Ty Segall. “Rocket”, tuttavia, è il primo album di Alex con l’etichetta Domino, fra le più importanti in ambito indie rock; e infatti il CD ha avuto maggior risonanza dei precedenti suoi LP.

“Rocket” colpisce soprattutto per la capacità di evocare tempi lontani senza sembrare un plagio di autori più quotati: prendendo spunto da autori come il compianto Elliott Smith e Wilco, con una spruzzata di Pavement, Alex G propone una summa dell’indie anni ’90-’00, colpendo per varietà stilistica e apparente semplicità di scrittura. Niente di clamorosamente innovativo, dunque, ma certo un lavoro molto interessante, da ascoltare per tutti gli amanti di quegli anni a cavallo di due secoli.

Parlando strettamente di musica, abbiamo ottime canzoni, soprattutto nella prima parte: il poker iniziale di canzoni, formato da Poison Root, Proud, County e Bobby, è per esempio molto riuscito, un po’ lo-fi, un po’ country e il restante terzo indie; colpisce poi la violenza quasi hard rock di Brick, mentre la strumentale Horse delude leggermente.

Nella seconda parte abbiamo invece come highlight la dolce Alina, ma anche Powerful Man non è trascurabile. In generale, a parte qualche passo falso, “Rocket” si mantiene su alti livelli, facendo sperare che il mondo dell’indie rock abbia trovato un nuovo, grande interprete in Alexander Giannascoli. L’età e il talento sono dalla sua parte: lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.

39) Mount Kimbie, “Love What Survives”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il duo formato da Dominic Maker e Kai Campos arriva ad un punto di svolta in una carriera già interessante: per la prima volta i Mount Kimbie inseriscono il rock nelle loro creazioni, creando un mix fra elettronica, funk e rock molto affascinante e, in gran parte, riuscito.

L’apertura è già radicalmente nuova per coloro che erano abituati ai Mount Kimbie come ad un duo dubstep: questo terzo album della loro produzione inizia infatti con Four Years And One Day e Blue Train Lines (che conta la collaborazione di King Krule), due brani fortemente influenzati dal rock, entrambi riusciti. I vecchi Mount Kimbie tornano in pezzi come You Look Certain (I’m Not Sure), altro highlight del CD, e la bella Delta, con base ritmica molto marcata e sintetizzatori ipnotici. Tra gli ospiti abbiamo, oltre a King Krule, anche altri artisti celebri: James Blake compare addirittura in due canzoni, We Go Home Together e How We Got By; ma contiamo anche Micachu (in Marylin) e Andrea Balency, vocalist dei Mount Kimbie in tour, che canta nella già citata You Look Certain (I’m Not Sure). Se We Go Home Together convince meno, la seconda collaborazione con James Blake, la conclusiva How We Got By, è più riuscita: il piano di James è come sempre sontuoso e si sposa benissimo con il mood del brano.

In generale, possiamo dire che i Mount Kimbie hanno operato un cambio molto importante nel loro tipico sound in “Love What Survives”, che sembra promettere molto bene per il futuro artistico del duo: è come sentire Depeche Mode e LCD Soundsystem fusi assieme, non una cosa banale quindi. Speriamo che i risultati possano ancora migliorare; ad ogni modo, questo LP merita pienamente di entrare nella lista dei 50 migliori dischi del 2017.

38) Grizzly Bear, “Painted Ruins”

(ROCK)

I Grizzly Bear venivano da due album di grande successo, sia con la critica che con il pubblico: “Veckatimest” (2009) e “Shields” (2012) avevano delineato un genere a metà fra rock e folk, con accenni di sperimentalismo e, contemporaneamente, di pop (ricordate Two Weeks?). Insomma, le aspettative per “Painted Ruins” erano molto elevate: ripetendosi avrebbero rischiato di non replicare la cristallina bellezza dei due lavori che hanno dato loro il successo, ma anche cambiare avrebbe comportato rischi notevoli.

I Grizzly Bear hanno optato per una soluzione di compromesso: nella lunga assenza dalle scene (ben cinque anni), hanno affinato il loro caratteristico genere e, allo stesso tempo, inserito delle interessanti sonorità elettroniche, che rendono il nuovo LP molto intrigante. Possiamo anzi dire che “Painted Ruins” è il CD più elettronico a firma Grizzly Bear; prova ne siano i due singoli Mourning Sound e Three Rings, tra i migliori brani del disco.

Tuttavia, la seconda parte del lavoro riporta alla mente i passati sforzi creativi del gruppo: per esempio, il rock di Cut-Out ricorda soprattutto “Veckatimest” e “Yellow House”, mentre l’intricata Glass Hillside (non bellissima) è più assimilabile alle atmosfere di “Shields”. Menzione finale per l’ottima chiusura del CD: come sempre, i Grizzly Bear mantengono il meglio alla fine. Sky Took Hold, in effetti, è a pieno diritto tra i migliori pezzi di “Painted Ruins”: una canzone epica al punto giusto, gran finale di un LP gradevole anche se non perfetto.

Purtroppo, infatti, Ed Droste e Daniel Rossen (menti e voci della band), forse anche a causa dello scarso dialogo intercorso nelle sessions di registrazione di “Painted Ruins”, dove si inviavano le loro bozze tramite mail, non raggiungono i miracolosi risultati di “Shields”: a parte la già menzionata Glass Hillside, non convince pienamente neppure Systole, ma sono peccati veniali.

Non bisogna credere, infatti, che il CD sia un fiasco; anzi, “Painted Ruins” entra di diritto fra i migliori CD dell’anno, magari non nei primi 10, ma certamente nei primi 50. Non siamo ai livelli di “Shields”, vero capolavoro del gruppo, ma certamente “Yellow House” è alla portata di “Painted Ruins”. Tutto dipende da cosa ci aspettavamo dai Grizzly Bear: non sono mai stati fermi nelle loro posizioni, quindi aspettarsi una copia dei passati dischi sarebbe stato un’illusione. Un po’ di elettronica non ha fatto altro che bene alla band: vedremo dove li porterà questo nuovo percorso, ma abbiamo piena fiducia nelle capacità dei Grizzly Bear di reinventarsi costantemente senza perdere lo smalto e il gusto per la sperimentazione che li hanno sempre contraddistinti.

37) Queens Of The Stone Age, “Villains”

(ROCK)

Il settimo album della gloriosa band simbolo dell’hard rock anni ’00 era atteso con trepidazione da fans e critica: Josh Homme e compagni avrebbero cambiato ancora una volta la loro ricetta sonora, dopo la rivoluzione pop di “…Like Clockwork” (2013)? I QOTSA sono stati, ancora una volta, molto furbi ed abili: non hanno stravolto la base ritmica trovata quattro anni fa; tuttavia, con poche ma azzeccate innovazioni hanno mantenuto fresco il loro sound, del resto sempre al passo con i tempi.

Partiamo, quindi: “Villains” arriva quattro anni dopo “…Like Clockwork”, album fondamentale nella discografia dei Queens Of The Stone Age; non il loro migliore (inarrivabili in tal senso “Rated R” e “Songs For The Deaf”), tuttavia aveva lasciato intravedere il lato più melodico della band, con canzoni quasi pop come la title track e Kalopsia. La presenza di ospiti di spessore, da Alex Turner a Mark Lanegan, aveva poi arricchito la formula vincente del disco. Pertanto, il metal delle origini è ormai abbandonato: come sarebbe suonato il settimo album di un gruppo così rinnovato musicalmente?

In “Villains” possiamo parlare di funk-rock: le prime due, bellissime tracce del CD, Feet Don’t Fail Me e il singolo The Way We Used To Do, sono la grande intro al disco. Le sole 9 canzoni farebbero pensare ad un lavoro pigro del gruppo; in realtà, molte superano i 5 minuti di durata e le strutture delle melodie sono spesso complesse e intricate. La durata complessiva, non a caso, raggiunge i 48 minuti.

Gli highlights sono almeno quattro: oltre alle già citate Feet Don’t Fail Me e The Way We Used To Do, abbiamo il secondo singolo The Evil Has Landed e la più melodica Fortress. Meno bella la frenetica Head Like A Haunted House, che è anche la più breve traccia del CD. Non trascurabile, infine, la conclusiva Villains Of Circumstance. I testi fanno spesso riferimento al diavolo e alla sua presenza nel mondo: Homme e co. si rendono conto che viviamo in tempi difficili e, sebbene non stiamo parlando di Bob Dylan o Leonard Cohen, i testi riflettono ciò con ironia e arguzia.

In conclusione, i QOTSA si confermano band fondamentale dello scenario rock mondiale: nonostante la mancanza di collaborazioni eccellenti che avevano contraddistinto i precedenti LP del complesso statunitense, i risultati sono comunque molto buoni. Lavorare con Iggy Pop ha ampliato ancora di più gli orizzonti musicali di Josh Homme, che si conferma grande artista rock. Le “regine dell’età della pietra” sono entrate definitivamente nell’età moderna, con un hard rock funkeggiante e molto ballabile.

36) Ty Segall, “Ty Segall”

(ROCK)

Registrato con Steve Albini, uno dei migliori produttori su piazza, questo “Ty Segall”, nono album dell’omonimo multistrumentista americano, è un altro tassello prezioso in una sempre più sorprendente carriera. Ty ha sempre perseguito un genere a metà fra il rock anni ’70, vicino soprattutto a Rolling Stones e Velvet Underground, e la scena indie anni ’90-‘2000, su tutti Strokes e Pavement. Il CD è un’ulteriore affermazione di questa estetica: le prime due canzoni, Break A Guitar e Warm Hands (Freedom Returned), sono davvero riuscite. In particolare Warm Hands (Freedom Returned) è un fantastico mix di hard rock, garage rock e punk. Una sorta di suite rock, tremendamente ambiziosa ma davvero bellissima. Il resto dell’album scivola via gradevolmente, ma non raggiunge i picchi di Warm Hands: Ty ha infatti posto nella seconda parte del suo nuovo LP alcune delle canzoni pop da lui scritte più intimiste di sempre, ad esempio Talkin’ e Orange Color Queen.

In generale, dunque, niente di clamorosamente rivoluzionario o innovativo per il rock, ma Ty Segall si conferma ancora una volta come una delle voci più autorevoli del settore. Ah, dimenticavo: ha appena 30 anni… Che il meglio debba ancora arrivare?

35) Wolf Alice, “Visions Of A Life”

(ROCK)

Il secondo album del giovane gruppo inglese dimostra ancora una volta il loro immenso talento. “Visions Of A Life” cerca di innestare qualche novità nel sound della band: se l’esordio “My Love Is Cool” (2015) entrò nella top 5 dei più bei album del 2015 di A-Rock era perché sapeva fondere benissimo il rock anni ’90 di Nirvana e Verve con i più contemporanei Arctic Monkeys e Libertines. Nel nuovo LP, Ellie Rowsell e compagni introducono anche tratti shoegaze nel loro sound, ma ricordano in certi punti anche il pop degli M83.

L’inizio del CD è ottimo: Heavenward è un ottimo brano shoegaze, che sembra composto da My Bloody Valentine o Slowdive; Beautifully Unconventional è intrigante come i migliori momenti di “My Love Is Cool”. Avrete notato quanti riferimenti a band del passato ci sono in “Visions Of A Life”: il tratto che sembrava più caratteristico dei Wolf Alice, un folk-rock lento o duro a seconda delle circostanze, è un po’ in secondo piano in questo secondo album. Solo nel finale, con Sadboy e St. Purple & Green, si torna alle sognanti atmosfere di “My Love Is Cool”. Tuttavia, i risultati restano comunque gradevoli: le già ricordate Heavenward e Beautifully Unconventional sono belle, così come Sky Musings, forse il vero highlight, con la voce della Rowsell al top. Non trascurabile anche la conclusiva title track, un’epica suite da oltre 7 minuti.

In conclusione, non stiamo parlando del disco che riscrive la storia del rock inglese, come alcune pubblicazioni d’Oltremanica sembrano pensare (vero, NME?). Nondimeno, una band del talento e dell’eclettismo dei Wolf Alice non è rinvenibile in America o, comunque, nel resto del continente europeo. Attendiamo con ansia la terza prova del complesso britannico, per dare una valutazione definitiva dei Wolf Alice.

34) Sampha, “Process”

(R&B – POP – SOUL)

Il 29enne Sampha Sisay, conosciuto con il nome d’arte Sampha, ha già alle spalle due EP e numerose collaborazioni con importanti artisti della scena black internazionale: Drake, Solange Knowles e Kanye West tra gli altri. Il suo primo LP, “Process”, tratta il soul in maniera molto contemporanea: vale a dire infarcendolo di elettronica e un pizzico di R&B. I risultati sono magnifici nei suoi tratti migliori: il duo rappresentato da Plastic 100°C e Blood On Me è davvero riuscito, così come la conclusiva What Shouldn’t I Be?. La canzone più introspettiva è  (No One Knows Me) Like The Piano, in cui ricorda l’infanzia e il ruolo che il pianoforte ha avuto nella sua formazione.

I riferimenti musicali sono molto alti: James Blake su tutti, ma anche tracce di The Weeknd e Maxwell compaiono qua e là. Soprattutto Under ricorda il modo di cantare del migliore The Weeknd. In conclusione, dunque, Sampha non inventa nulla, ma tratta il meglio dei grandi maestri citati ottenendo un risultato molto buono, 40 minuti passati ascoltando 10 canzoni mai banali o prevedibili. Insieme a FKA Twigs, il giovane Sampha si candida ad essere un importante esponente della scena black britannica, ma non solo.

33) Lana Del Rey, “Lust For Life”

(POP)

Il quinto album della popstar Lana Del Rey, “Lust For Life”, si apre subito con una novità: nella cover Lana sorride, lei che fino a qualche tempo fa era presa in giro per i suoi testi tragici e la tristezza che le sue canzoni emanavano. Tuttavia, non si pensi che “Lust For Life” sia un CD allegro: cadremmo in un errore madornale. Lana mantiene il caratteristico spleen, cercando però di ampliare la propria palette sonora e ingaggiando ospiti di tutto rispetto.

Tra i singoli utilizzati per promuovere il disco, infatti, troviamo delle collaborazioni con The Weeknd (la bella title track) e con A$AP Rocky (le meno riuscite Summer Bummer e Groupie Love). Oltre a questi due artisti abbiamo dei featuring anche con il figlio di John Lennon, Sean, Playboi Carti e Stevie Nicks. È da sottolineare come, a parte la title track, queste tracce siano tra le più deboli dell’album: sia le due con A$AP Rocky che Tomorrow Never Came con Sean Lennon Ono (chiaro riferimento alla celeberrima Tomorrow Never Knows dei Beatles) che Beautiful People Beautiful Problems con Stevie Nicks non convincono proprio. Meglio la Lana solista, quindi.

Ne abbiamo la dimostrazione nelle belle Love, Cherry e Get Free, che chiude il disco quasi con accenni di dream pop. Una caratteristica di “Lust For Life”, infatti, è che Lana amplia notevolmente il numero di generi affrontati: dal pop dolente all’R&B, fino al country e appunto al dream pop. Tutto questo fa molto ben sperare per il futuro della carriera della signorina Elizabeth Woolridge Grant, vero nome di Lana: se saprà fondere adeguatamente tutti questi ingredienti, il prossimo lavoro potrebbe davvero ridefinire la musica pop, un po’ quello che Lorde ha fatto quest’anno con l’eccellente “Melodrama”.

Menzione finale per la bella voce di Lana, asset fondamentale della popstar, sfruttata a dovere lungo tutto il CD e specialmente in Heroin e God Bless America – And All The Beautiful Women In It, non a caso fra le migliori canzoni di “Lust For Life”. È una voce che sa trasmettere sofferenza e sogno, che si sposa benissimo con il pop raffinato e melanconico di Lana. La collaborazione con Abel Tesfaye aka The Weeknd è un’altra prova di tutto ciò.

In conclusione, “Lust For Life” è il più bel CD nella carriera di Lana Del Rey: un’artista costantemente cresciuta, sia artisticamente che come seguito popolare. Peccato che “Lust For Life” sia composto da 16 canzoni per 72 minuti di durata: con due-tre canzoni e dieci minuti di riempitivo in meno avremmo avuto un mezzo capolavoro. Così il disco è “solamente” buono, ma il talento di Lana ci fa ben sperare per il prossimo futuro.

32) Courtney Barnett & Kurt Vile, “Lotta Sea Lice”

(ROCK)

L’album collaborativo tra due degli artisti indie rock più amati degli ultimi anni non poteva che essere un successo. Courtney Barnett e Kurt Vile, del resto, sono anche due spiriti apparentemente affini: spesso associati al mondo degli “slacker”, cioè di quelle persone scansafatiche che non lavorano ma si dilettano ad analizzare la realtà con occhio disincantato e ironico, hanno entrambi caratteri riservati e attenti al mondo che li circonda. “Lotta Sea Lice” trova le sue radici, come del resto era prevedibile, negli stili musicali dei due: il rock-country di Kurt e l’indie più sanguigno di Courtney si fondono spesso perfettamente, con risultati complessivi buonissimi.

L’inizio dell’album è incantevole: la lunga Over Everything è un trionfo, fra i migliori pezzi del 2017 e a pieno diritto fra gli highlights delle produzioni di entrambi gli artisti. Le 9 canzoni fanno pensare ad un album pigro, in realtà ogni pezzo è perfettamente incastrato nel quadro generale e, pur non replicando la bellezza di Over Everything, non guasta il CD nel complesso. Abbiamo infatti la più tranquilla Let It Go e la “barnettiana” Fear Is Like A Forest; poi viene Outta The Woodwork, che potrebbe stare benissimo in un disco di Kurt Vile. Molto carina anche Continental Breakfast.

In generale, colpisce l’intesa fra i due: le voci si sovrappongono continuamente, creando una sinergia notevole fra i due cantanti e la melodia sottostante. Le uniche parziali delusioni vengono da Outta The Woodwork, troppo lenta, e On Script, ma non pregiudicano un voto più che positivo al disco.

In conclusione, questo “Lotta Sea Lice” si inserisce perfettamente nelle discografie di Kurt Vile e Courtney Barnett: chissà che non possa essere replicato in futuro. Le basi di partenza per un altro ottimo LP ci sono tutte.

31) Vince Staples, “Big Fish Theory”

(HIP HOP)

Il secondo, attesissimo album del rapper Vince Staples lo trova ad un bivio fondamentale nella sua fino ad ora fulminante carriera: mentre nel precedente CD, l’acclamato “Summertime ‘06” (2015), Vince presentava un rap meditativo e più calmo di molti suoi colleghi, già nell’EP dello scorso anno, “Prima Donna”, avevamo intravisto un cambiamento in atto: ritmi più cupi, temi trattati molto difficili (su tutti il suicidio, basta sentirsi la title track).

“Big Fish Theory” fonde fra loro elettronica e hip hop in un modo davvero unico: Staples, infatti, cerca di adattare i beat spesso ossessivi della dance al suo flow, come sempre fluviale e mai banale. I risultati non sono perfetti, ma senza dubbio buoni: spiccano in particolare le grandi collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Kendrick Lamar, e i numerosi produttori di grido coinvolti, come Flume e Justin Vernon.

I temi trattati sono, ancora una volta, ancorati alla morte e al suicidio: in più interviste Vince Staples ha confermato di essere stato sconvolto dalla morte di Amy Winehouse e dal trattamento da lei ricevuto dai media mentre era ancora in vita. Non è un caso che il rapper, nella vita quotidiana, mantenga un profilo molto basso, lontano dai paparazzi e dagli eccessi: anni luce lontano da Kanye West, insomma. L’omaggio ad Amy arriva in Alyssa Interlude, dove viene proposta un’intervista da lei rilasciata nel 2006, perfettamente funzionale al brano e all’intero disco.

Tra le canzoni migliori abbiamo Big Fish, 745 e Yeah Right, la collaborazione con Kendrick: possiamo dire che sono a confronto i due migliori rapper della loro generazione. Tra i difetti del disco abbiamo l’eccessiva brevità (dura appena 36 minuti) e la frammentazione, che non ne rende facile l’ascolto. Tuttavia, i meriti del CD sono molti: in un tweet poi cancellato, Staples aveva proclamato spavaldo che “Big Fish Theory” sarebbe stato un disco futuristico. Beh, non sarà un LP superbo, ma certamente rappresenta un passo da gigante nella discografia di Vince Staples e un’interessante fusione fra elettronica ed hip hop.

30) The xx, “I See You”

(ELETTRONICA – POP)

Il terzo lavoro del trio inglese si è fatto attendere per ben cinque anni: risale infatti al 2012 “Coexist”. Tutti iniziarono ad apprezzare gli xx fin dall’esordio, l’eponimo CD del 2009 che conteneva le hit Intro, Basic Space e Crystalised. Questo “I See You” arriva a due anni dal primo LP solista di Jamie xx, il magnifico “In Colour”, un concentrato della miglior musica elettronica passata e presente. Le influenze club sono evidente in “I See You”, ma gli xx riescono contemporaneamente a mantenere le proprie radici di band indie pop, con strumentazione minimale e le voci di Oliver Sim e Romy Madley-Croft più mature e affascinanti come sempre nei loro scambi. Alcune canzoni stonano con il passato della band (A Violent Noise e Dangerous), ma non dobbiamo pensare che l’intero lavoro sia puramente elettronico. Abbiamo infatti anche Say Something Loving e la conclusiva Test Me, che mantengono intatto il nucleo del suono xx, seppur con più ritmo e movimento. Le voci eteree presenti in Lips sembrano prese da un film di Sorrentino; On Hold invece è il singolo più commerciale, ma non per questo inferiore. Menzione finale per Brave For You, composta da Romy per la madre morente: un pezzo toccante e molto espressivo. Insomma, non un lavoro perfetto e coeso stilisticamente, ma senza dubbio un importante passo in avanti nella discografia degli xx, finalmente usciti dal loro guscio e pronti a spiccare il volo verso lidi sonori fino a poco tempo fa inesplorati. Sì, ci erano proprio mancati.

29) Laura Marling, “Semper Femina”

(FOLK)

La cantautrice inglese Laura Marling è ormai giunta al sesto lavoro di inediti: un traguardo rimarchevole, soprattutto se consideriamo il fatto che ha appena 27 anni. Questo “Semper Femina”, riecheggiando nel titolo il motto dei marines americani “semper fidelis”, denota il tema portante dell’album: essere donna oggi. I risultati sono davvero ottimi, con punte di delicatezza e raffinatezza stilistica notevoli.

Il mood generale del CD è malinconico: il genere folk con venature pop e soft rock, tipico anche di artisti come Sufjan Stevens e Joanna Newsom, aiuta molto a trasmettere questo sentimento. Le melodie sono in generale semplici, quasi spoglie, spesso ridotte alla voce della Marling, la chitarra e un sottofondo morbido di tastiere. Non sarà una grande novità nel mondo della musica, ma chi lo è di questi tempi?

Restano impresse soprattutto canzoni come Soothing e Nothing, Not Nearly, con quest’ultima che ricorda molto la Angel Olsen di “My Woman” (2016). Del resto, nessuna delle 9 tracce dell’LP è fuori posto: colpisce positivamente, infatti, la coesione del CD. “Semper Femina”, in conclusione, si staglia come uno dei migliori lavori folk dell’anno. Laura Marling, se sboccerà completamente, potrà diventare la Joni Mitchell del XXI secolo.

28) Stormzy, “Gang Signs & Prayer”

(HIP HOP – SOUL)

L’esordio tanto atteso del giovane artista inglese Stormzy è uno dei migliori CD dell’anno di musica grime. Cosa si intende con questo termine? Il solco seguito è senza dubbio quello dell’hip hop, ma il grime è ancora più duro e i temi trattati riguardano di solito la vita nei sobborghi delle grandi città britanniche. Insomma, un qualcosa di molto simile al gangsta rap degli anni ’90 del secolo scorso, solo ambientato in UK. Skepta (artista che ha anche collaborato all’ultimo CD di Drake) ne è il massimo esponente, ma Stormzy è il giovane rampante che cerca di far conoscere il grime anche al di fuori della ristretta cerchia dei fans “ortodossi”.

Stormzy tenta di raggiungere questo scopo mescolando al grime anche sonorità più morbide, fino ad avvicinarsi al gospel e al soul. Esperimento ambizioso e, per la verità, in gran parte riuscito. Infatti, dopo la partenza sparata con First Things First e Cold, abbiamo anche brani più intimisti come Blinded By Your Grace, Pt.1 e Velvet/Jenny Francis (Interlude).

I temi trattati sono in gran parte sintetizzabili nel titolo dell’album: “Gang Signs & Prayer” infatti parla prevalentemente dei temi tipici del grime, con le basi oscure e ossessive che caratterizzano il genere. Potrà non piacere, ma all’interno dell’hip hop è senza dubbio un’innovazione che sta rivitalizzando il mondo della musica black.

Con 16 canzoni e una durata vicina ai 60 minuti, non tutto può essere perfetto; tuttavia, aspettiamo con impazienza una nuova prova da parte del giovane Stormzy, per capire meglio se in lui prevarrà la parte rap o quella più melodica del gospel/soul. Per ora, questo “Gang Signs & Prayer” è un ottimo esordio per uno dei maggiori talenti nati nella musica nera degli ultimi anni.

27) Drake, “More Life”

(HIP HOP)

Il nuovo LP della superstar canadese del rap Drake era attesissimo, sia dal pubblico che dalla critica. Il precedente CD, “Views” del 2016, aveva il record di essere il primo album a totalizzare un miliardo di streaming su Apple Music e aveva passato ben 13 settimane in testa alla Billboard 200. Insomma, un successo clamoroso, sottolineato dai famosissimi singoli One Dance e Hotline Bling. Tuttavia, i critici (noi di A-Rock compresi) erano stati molto scettici nell’accoglienza di “Views”, troppo lungo e sovraccarico di influenze per piacere.

La domanda che tutti si ponevano era: Drake tornerà alla bellezza di “Take Care” (2011) o dovremo sorbirci un altro mattone? Ebbene, malgrado l’eccessivo numero di brani (22!) e una lunghezza che supera gli 80 minuti (!), “More Life” è decisamente migliore del predecessore. Drake è riuscito a creare una sintesi efficace fra rap e pop, creando un prodotto magari sovraccarico, soprattutto verso la fine, ma molto affascinante e intrigante.

L’inizio, in particolare, è molto solido: molto riuscite Free Smoke e No Long Talk, pezzi rap quasi feroci per lo stile cui ci aveva abituato l’artista canadese. Invece Passionfruit è più gioiosa e pop, ma non per questo meno efficace. Altro brano “commerciale” è Madiba Riddim, che va a comporre una parentesi più leggera assieme a Get It Together. I veri capolavori, però, sono 4422 (con Sampha) e Gyalchester, pezzo trap molto tosto.

Anche la parte centrale di “More Life” contiene brani interessanti, a differenza di “Views”. Abbiamo infatti Can’t Have Everything e Glow, con quest’ultima che contiene un featuring con Kanye West.

Parlando di ospiti, la lista è davvero sterminata: oltre a Kanye e Sampha, abbiamo Young Thug, PartyNextDoor (presente nella non memorabile Since Way Back), 2 Chainz, Skepta e Travis Scott. Insomma, il gotha del mondo hip hop internazionale.

Unica pecca, dicevamo, è l’alto numero di canzoni: senza brani deboli come il già citato Since Way Back, Fake Love e Ice Melts parleremmo di un lavoro eccellente. Così, invece, è solo un buonissimo CD da parte di un rapper molto talentuoso, ma voglioso di strafare e collezionare record di streaming e incassi. Così facendo, purtroppo, la qualità complessiva ne risente; nondimeno, questo “More Life” è ai livelli di “Take Care”, cosa per niente scontata date le premesse.

Nel bene o nel male, parleremo di questo CD fino a fine anno: possiamo dire, però, che senza ombra di dubbio anche i critici saranno soddisfatti stavolta.

26) Gas, “Narkopop”

(ELETTRONICA)

Dopo ben 17 anni di assenza dalla scena musicale, il musicista tedesco Wolfgang Voigt è tornato a produrre musica con il nome d’arte Gas. La sua cifra stilistica è sempre stata una musica ambient molto evocativa e intensa, simile al miglior Brian Eno e ad Aphex Twin. Da lui hanno preso spunto vari altri artisti, tra cui il danese The Field.

Certo, molto è cambiato rispetto al 2000: ora la musica elettronica è diventata mainstream, soppiantando il rock e migrando verso lidi sempre più commerciali. Tuttavia, Gas mantiene intatte le sue caratteristiche peculiari: 10 canzoni senza titolo (o meglio, intitolate semplicemente Narkopop 1, Narkopop 2 e così via) per 78 minuti di durata. Un album dunque impegnativo, ma di ottima fattura e, per questo, godibile: i paesaggi evocati da Voigt sono come sempre onirici, tanto da ricordare le atmosfere di David Lynch e del compositore Angelo Badalamenti. Nessuna aggiunta al sound specifico di Gas, insomma, ma certamente “Narkopop” rappresenta un ottimo ritorno alla musica per Voigt, un po’ quello che “Syro” nel 2014 era stato per Aphex Twin.

Degne di nota sono in particolare la seconda suite, intitolata appunto Narkopop 2, da cui sembra iniziare realmente l’album, dopo una prima melodia un po’ fiacca; in Narkopop 4 Voigt evoca quasi una marcia militare; poi nelle successive Narkopop 5 e Narkopop 6 l’ambiente si fa più dolce, generando due melodie magnifiche. Invece, in Narkopop 8 l’atmosfera è più lugubre e ossessiva. Chiude il CD Narkopop 10, un’odissea di 17 minuti di non facile lettura, ma senza dubbio curata fin nei minimi dettagli.

In conclusione, Wolfgang Voigt dimostra ancora una volta tutto il suo talento: il quinto LP a firma Gas si aggiunge ad un catalogo già di eccellente qualità, fondamentale per tutti gli amanti della musica elettronica.

La prima parte dei 50 migliori album del 2017 di A-Rock contiene dunque alcuni pezzi grossi: chi avrà conquistato la palma di miglior CD dell’anno? Appuntamento fra pochi giorni con la seconda parte della lista. Stay tuned!

Cosa ci eravamo persi?

Anche quest’anno, come il 2016, si è rivelato ricco di importanti uscite: il ritorno dei Gorillaz e dei Fleet Foxes e i nuovi lavori di star come Lorde, Drake e Kendrick Lamar hanno preso molta attenzione nel pubblico e nei media. Noi di A-Rock abbiamo fatto il possibile, ma inevitabilmente qualche CD lo abbiamo lasciato per strada nelle nostre analisi. Ecco quindi un breve riassunto delle uscite più rilevanti degli ultimi mesi che sono comunque degne di un ascolto.

Thundercat, “Drunk”

thundercat

La parabola di Stephen Bruner (meglio conosciuto come Thundercat) è davvero curiosa. Venuto alla ribalta come bassista di grande talento, con collaborazioni del calibro di Kanye West e Flying Lotus, da qualche anno a questa parte ha iniziato a scrivere musica di persona, producendo CD molto interessanti, un mix di funk, jazz e rock. La sua vita ha subito una virata decisiva con la morte dell’amico e collaboratore Austin Peralta nel 2012: da quel momento, il tema della morte e una malinconia a volte opprimente permeano i suoi lavori.

Ne è emblema anche questo “Drunk”, quarto album a nome Thundercat di Bruner. La partenza è quasi serena: un insieme di pezzi velocissimi e nervosi, infusi di funk (Captain Stupido), jazz (Uh Uh) e momenti à la Prince, come in A Fan’s Mail (Tron Suite II). Il mood dell’album si fa però progressivamente più triste, fino a diventare disperato nella parte conclusiva (emblematica DUI).

Menzione finale per le collaborazioni: se Thundercat ha convinto artisti del calibro di Pharrell Williams, Kendrick Lamar e Wiz Khalifa a far parte di “Drunk” un motivo ci sarà. In particolare, la traccia con K-Dot, Walk On By, è molto riuscita; bella anche Show You The Way.

In conclusione, un LP con 23 canzoni, per una durata totale di oltre un’ora, non può essere perfetto; “Drunk”, però, in certi tratti ci va davvero vicino. Tra i migliori CD di musica nera degli ultimi anni.

Voto finale: 8,5.

Vince Staples, “Big Fish Theory”

big fish theory

Il secondo, attesissimo album del rapper Vince Staples lo trova ad un bivio fondamentale nella sua fino ad ora fulminante carriera: mentre nel precedente CD, l’acclamato “Summertime ‘06” (2015) Vince presentava un rap meditativo e più calmo di molti suoi colleghi, già nell’EP dello scorso anno, “Prima Donna”, avevamo intravisto un cambiamento in atto: ritmi più cupi, temi trattati molto difficili (su tutti il suicidio, basta sentirsi la title track).

“Big Fish Theory” fonde fra loro elettronica e hip hop in un modo davvero unico: Staples, infatti, cerca di adattare i beat spesso ossessivi della dance al suo flow, come sempre fluviale e mai banale. I risultati non sono perfetti, ma senza dubbio buoni: spiccano in particolare le grandi collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Kendrick Lamar, e i numerosi produttori di grido coinvolti, come Flume e Justin Vernon.

I temi trattati sono, ancora una volta, ancorati alla morte e al suicidio: in più interviste Vince Staples ha confermato di essere stato sconvolto dalla morte di Amy Winehouse e dal trattamento da lei ricevuto dai media mentre era ancora in vita. Non è un caso che il rapper, nella vita quotidiana, mantenga un profilo molto basso, lontano dai paparazzi e dagli eccessi: nessun Kanye West, insomma. L’omaggio ad Amy arriva in Alyssa Interlude, dove viene proposta un’intervista da lei rilasciata nel 2006, perfettamente funzionale al brano e all’intero disco.

Tra le canzoni migliori abbiamo Big Fish, 745 e Yeah Right, la collaborazione con Kendrick: possiamo dire che sono a confronto i due migliori rapper della loro generazione. Tra i difetti del disco abbiamo l’eccessiva brevità (dura appena 36 minuti) e l’eccessiva frammentazione, che non ne rende facile l’ascolto. Tuttavia, i meriti del CD sono molti: in un tweet poi cancellato, Staples aveva proclamato spavaldo che “Big Fish Theory” sarebbe stato un disco futuristico. Beh, non sarà un LP superbo, ma certamente rappresenta un passo da gigante nella discografia di Vince Staples e un’interessante fusione fra elettronica ed hip hop.

Voto finale: 8.

Paramore, “After Laughter”

paramore

Il quarto album dei Paramore è una rinfrescata necessaria al loro sound. La band capitanata da Hayley Williams, infatti, non si limita a percorrere i sentieri pop-rock delle origini, ma cerca di rifarsi al pop anni ’80 tipico di Police e Talking Heads.

“After Laughter” è il quinto album a firma Paramore, il primo dopo l’eponimo “Paramore” del 2013: se precedentemente il gruppo era famoso come alfiere della musica emo, i membri hanno sempre cercato di innovare, aprendo al funk e al pop-rock, sempre però nei sentieri ben precisi della musica emo. Tuttavia, rispetto ai contemporanei (per esempio, Tokyo Hotel e Brand New), i Paramore hanno mantenuto un livello di scrittura e profondità testuale ben maggiore: non solo ansie giovanili, ma anche temi delicati come il suicidio e la solitudine.

“After Laughter” era quindi atteso con trepidazione: Williams & co. avrebbero mantenuto il buon livello dei precedenti lavori? La risposta è un sì convinto: malgrado i numerosi avvicendamenti nella formazione, tra cui l’abbandono del bassista Jeremy Davis e il ritorno del primo batterista Zac Farro, dopo sei anni di pausa, la formula dei Paramore si è arricchita, come già ricordato, di chiari riferimenti al pop anni ’80 e alle band simbolo di quel periodo.

Un’operazione molto simile era stata effettuata dai The 1975 l’anno scorso, con ambizione e rischio ancora più grandi; i Paramore riescono a non cadere nel tranello della troppa voglia di fare e creano un prodotto compatto e godibile, una conferma del loro talento e versatilità.

Tra i brani migliori abbiamo Rose-Colored Boy e Told You So, che rendono la parte iniziale del CD davvero interessante; da ricordare anche Fake Happy, Pool e Grudges, che rievocano da vicino i Police e i Talking Heads al loro apice. Meno riuscite invece le ballate, come Forgiveness e la conclusiva Tell Me How.

In generale, va apprezzata la voglia di sperimentare nuove sonorità di un gruppo che avrebbe potuto tranquillamente continuare a far piangere adolescenti fragili suonando stanche e monotone canzoni emo, ma che invece non perde la voglia di sorprendere il proprio pubblico.

Voto finale: 8.

(Sandy) Alex G, “Rocket”

alex g

Classe 1993, già 8 album alle spalle: se non parliamo di un prodigio, poco ci manca. Alexander Giannascoli, cantante di chiara origine italiana e con nome d’arte Alex G, da poco cambiato in (Sandy) Alex G, ricorda a tutti che la prolificità non è sempre sinonimo di lavori abborracciati: ne sia esempio anche l’instancabile Ty Segall. “Rocket”, tuttavia, è il primo album di Alex con l’etichetta Domino, fra le più importanti in ambito indie rock; e infatti il CD ha avuto maggior risonanza dei precedenti suoi LP.

“Rocket” colpisce soprattutto per la capacità di evocare tempi lontani senza sembrare un plagio di autori più quotati: prendendo spunto da autori come il compianto Elliott Smith e Wilco, con una spruzzata di Pavement, Alex G propone una summa dell’indie anni ’90-’00, colpendo per varietà stilistica e apparente semplicità di scrittura. Niente di clamorosamente innovativo, dunque, ma certo un lavoro molto interessante, da ascoltare per tutti gli amanti di quegli anni a cavallo di due secoli.

Parlando strettamente di musica, abbiamo ottime canzoni, soprattutto nella prima parte: il poker iniziale di canzoni, formato da Poison Root, Proud, County e Bobby, è per esempio molto riuscito, un po’ lo-fi, un po’ country e il restante terzo indie; colpisce poi la violenza quasi hard rock di Brick, mentre la strumentale Horse delude leggermente.

Nella seconda parte abbiamo invece come highlight la dolce Alina, ma anche Powerful Man non è trascurabile. In generale, a parte qualche passo falso, “Rocket” si mantiene su alti livelli, facendo sperare che il mondo dell’indie rock abbia trovato un nuovo, grande interprete in Alexander Giannascoli. L’età e il talento sono dalla sua parte: lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.

Voto finale: 8.

Spoon, “Hot Thoughts”

spoon

Il nono album dei veterani dell’indie rock statunitense mantiene l’alto livello dei precedenti lavori di Britt Daniel & co., cercando contemporaneamente di instillare nuove sonorità nel tipico genere della band. Infatti, accanto al tradizionale indie rock, che ha fatto le fortune del gruppo anche grazie a stupendi lavori come “Kill The Moonlight” (2002), abbiamo dei passaggi di funk ed elettronica che rendono questo “Hot Thoughts” molto intrigante.

Non sono molte le band che riescono ad operare significativi cambiamenti nel loro sound 24 anni dopo la loro fondazione (gli Spoon sono infatti nati nel 1993) e dopo otto album di successo: la caratteristica peculiare della band texana è che hanno sempre sperimentato nuovi colori e ritmi nel loro sound, basandosi però su una stretta aderenza al mondo del rock. In generale, dunque, non c’è che da essere soddisfatti per un LP così variegato e riuscito: ecco, diciamo che se gli Strokes tornassero ai livelli dei loro primi lavori cercando di mantenere il percorso più sperimentale intrapreso dopo “Angles”, il loro CD suonerebbe così.

Tra i brani degni di nota abbiamo la title track, WhisperI’lllistentohearit e la super funk First Caress. Molto strana la quasi solo strumentale Pink Up, molto lunga ed elettronica, decisamente un pezzo poco spooniano; più tradizionale invece Can I Sit Next To You. La seconda parte perde leggermente vigore, ma i risultati sono comunque buoni.

In conclusione, “Hot Thoughts” si aggiunge meritatamente ad una discografia già eccellente: gli Spoon restano ancora un gruppo fondamentale per gli amanti dell’indie.

Voto finale: 8.

Stormzy, “Gang Signs & Prayer”

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L’esordio tanto atteso del giovane artista inglese Stormzy è uno dei migliori CD dell’anno di musica grime. Cosa si intende con questo termine? Il solco seguito è senza dubbio quello dell’hip hop, ma il grime è ancora più duro e i temi trattati riguardano di solito la vita nei sobborghi delle grandi città britanniche. Insomma, un qualcosa di molto simile al gangsta rap degli anni ’90 del secolo scorso, solo ambientato in UK. Skepta (artista che ha anche collaborato all’ultimo CD di Drake) ne è il massimo esponente, ma Stormzy è il giovane rampante che cerca di far conoscere il grime anche al di fuori della ristretta cerchia dei fans “ortodossi”.

Stormzy tenta di raggiungere questo scopo mescolando al grime anche sonorità più morbide, fino ad avvicinarsi al gospel e al soul. Esperimento ambizioso e, per la verità, in gran parte riuscito. Infatti, dopo la partenza sparata con First Things First e Cold, abbiamo anche brani più intimisti come Blinded By Your Grace, Pt.1 e Velvet/Jenny Francis (Interlude).

I temi trattati sono in gran parte sintetizzabili nel titolo dell’album: “Gang Signs & Prayer” infatti parla prevalentemente dei temi tipici del grime, con le basi oscure e ossessive che caratterizzano il genere. Potrà non piacere, ma all’interno dell’hip hop è senza dubbio un’innovazione che sta rivitalizzando il mondo della musica black.

Con 16 canzoni e una durata vicina ai 60 minuti, non tutto può essere perfetto; tuttavia, aspettiamo con impazienza una nuova prova da parte del giovane Stormzy, per capire meglio se in lui prevarrà la parte rap o quella più melodica del gospel/soul. Per ora, questo “Gang Signs & Prayer” è un ottimo esordio per uno dei maggiori talenti nati nella musica nera degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

SZA, “CTRL”

sza

L’esordio della giovane Solána Imani Rowe, in arte SZA, arriva dopo due brevi EP, “S” e “Z”. Ci saremmo aspettati una “A” per chiudere la trilogia, invece la cantante americana ha optato per “CTRL”. Il titolo, in effetti, è evocativo di un tema che pervade molti brani nel CD: il controllo della propria sessualità e della propria femminilità. “CTRL”, infatti, tratta in pressoché ogni pezzo la questione della libertà sessuale della giovane SZA, ma non solo: il messaggio può essere universalmente inteso ed è molto attuale. Basti pensare, ad esempio, al proliferare delle app per incontri e alla superficialità che i rapporti amorosi, soprattutto fra gli adolescenti, denotano da alcuni anni a questa parte.

Musicalmente parlando, l’album è un ottimo esempio di R&B moderno, con inserti di hip hop (basti guardare agli ospiti, da Kendrick Lamar a Travis Scott). SZA sfodera le canzoni migliori all’inizio e alla fine: molto bella la doppietta iniziale rappresentata da Supermodel e Love Galore, così come la conclusiva 20 Something. La caratteristica più apprezzabile è che il disco sembra avere un andamento circolare: come partiamo, vale a dire con un brano semplice e con strumentazione minimale, così arriviamo. Delude, purtroppo, la collaborazione con Kendrick, la scialba Doves In The Wind: il suo verso è fuori contesto, a dimostrazione che lui è “solamente” il miglior rapper in circolazione, l’R&B non fa per lui.

Altri brani riusciti, per contro, sono la vivace Prom e Pretty Little Birds; delude invece la parte centrale del disco, un po’ monotona. In generale, insomma, sono rintracciabili sia le influenze che i principali difetti del CD: se Solange, The Weeknd e Frank Ocean sono i riferimenti artistici di SZA, non tutti sono in grado di costruire capolavori come “Channel Orange” oppure “A Seat At The Table”. Aspettiamo SZA alla seconda prova: la stoffa sembra esserci.

Voto finale: 7,5.

Feist, “Pleasure”

feist pleasure

Il quinto album della canadese Leslie Feist, precedentemente nei Broken Social Scene, è un concentrato delle sue migliori qualità: coesione sonora, bel tono di voce e dettagli sempre sorprendenti ad impreziosire le canzoni (il breve intermezzo heavy metal alla fine di A Man Is Not His Song è davvero divertente).

In generale, l’indie rock di “Pleasure” è più pensoso del solito: se pensiamo ai principali interpreti del genere, ad esempio Strokes e Franz Ferdinand, si delinea un genere veloce e ballabile. In realtà, questo CD è molto più complesso e denso di quanto si possa pensare: le canzoni superano spesso i 5 minuti di durata e il rock si intreccia al chamber pop. Insomma, Feist risulta in “Pleasure” un mix fra PJ Harvey e Angel Olsen: due fra le massime interpreti femminili del rock contemporaneo.

Il CD si apre con la rockettara title track, fra i pezzi migliori del disco. Accanto ad essa tuttavia, come già accennato, troviamo pezzi molto più “tranquilli” come Lost Dreams e Young Up, altri due highlights. Non male anche Get Not High, Get Not Low e Any Party. Tra i punti deboli, contiamo la fin troppo lunga e monotona Baby Be Simple; la collaborazione con Jarvis Cocker, frontman dei Pulp, rende Century passabile, altrimenti non sarebbe nulla di speciale.

Il giudizio complessivo resta comunque positivo: non parliamo del lavoro della vita per Feist, ma certamente un altro solido lavoro che va ad aggiungersi ad un’ottima discografia. Nessuna replica del bellissimo “The Reminder” (2007), insomma, ma “Pleasure” non deluderà i fan dell’artista canadese.

Voto finale: 7,5.

Julie Byrne, “Not Even Happiness”

julie byrne

Il secondo CD della cantante folk statunitense Julie Byrne ha attirato l’attenzione della critica fin dall’uscita, il 27 gennaio 2017. Un insieme di 9 canzoni (meglio, 8 più un breve intermezzo strumentale) che colpiscono per la capacità delle melodie, spesso molto semplici peraltro, di evocare davvero un mondo di sentimenti.

In particolare, la giovane Byrne riesce, anche grazie alla sua voce profonda, a ricordare i grandi maestri del genere, su tutti Bob Dylan e Sufjan Stevens. Le canzoni di per sé non sono clamorosamente innovative o radicali, ma creano un CD coeso e malinconico sui sentimenti provati dalla cantautrice (il titolo “Not Even Happiness” dice tutto a riguardo).

Le canzoni migliori sono Sleepwalker e Natural Blue, ma anche Follow My Voice è molto affascinante. Il ridotto numero di canzoni impedisce di valutare appieno la bravura della Byrne, ma la stoffa sembra esserci. La attendiamo alla fatidica prova del terzo album.

Voto finale: 7,5.

Ryan Adams, “Prisoner”

prisoner

Il sedicesimo album solista di Ryan Adams (EP compresi), star americana del country e del rock, è anche il suo più personale. Infatti, il tema principale trattato nel CD è il dolore provato dopo il divorzio dalla cantante Mandy Moore. Un “breakup album”, dunque, che tuttavia non ricorda neanche lontanamente i Dirty Projectors dell’omonimo album “Dirty Projectors” uscito a marzo: Adams si mantiene nei consueti sentieri del rock/country, alternativo ma orecchiabile, genere che ne ha fatto la fortuna.

Non siamo sugli eccellenti livelli di “Heartbreaker” (2000), vero capolavoro di Adams, ma almeno al buonissimo “Gold” (2001) questo “Prisoner” ci si avvicina. Degne di nota sono Do You Still Love Me, che già nel titolo dice tutto; la calda Haunted House; e la riuscita Anything I Say To You Now. Ma il vero capolavoro è Shiver And Shake, che ci fa capire come Adams abbia ancora molto da dare alla musica. Per contro, Breakdown e Outbound Train sono puro filler; ma con Adams ormai sappiamo che è una tassa da pagare in ogni suo lavoro.

In conclusione, esprimiamo qua un pensiero che molti condivideranno: probabilmente, se fosse stato meno prolifico e maggiormente concentrato sulla qualità delle singole uscite (evitabile, ad esempio, il remix traccia per traccia di “1989” di Taylor Swift), la carriera di Ryan Adams sarebbe stata anche più brillante. Peccato, ma godiamoci perle come questo “Prisoner”: chissà quante ne avremo ancora da un artista al sedicesimo (!) LP/EP di inediti in 17 anni di carriera.

Voto finale: 7.