Recap: maggio 2022

Il mese di maggio 2022 è stato uno dei più impegnativi degli ultimi anni per A-Rock: numerosi album molto attesi da critica e pubblico sono stati pubblicati, spesso nello stesso weekend! Abbiamo infatti i ritorni degli Arcade Fire, di Sharon Van Etten e di Harry Styles… ma non per questo tralasceremo Florence + The Machine, Wilco e The Black Keys. Inoltre, recensiremo il primo album del nuovo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood, The Smile, e il terzo CD dei Rolling Blackouts Coastal Fever. Infine, spazio ai ritorni di Liam Gallagher, Everything Everything e Porridge Radio. Buona lettura!

The Smile, “A Light For Attracting Attention”

a light for attracting attention

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti migliori.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

Voto finale: 8,5.

Everything Everything, “Raw Data Feel”

Raw Data Feel

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

Voto finale: 8.

Arcade Fire, “WE”

we

Registrato durante la pandemia ed erede del più controverso CD della loro produzione, gli Arcade Fire con “WE” hanno voluto riprendersi l’appellativo di “band migliore del mondo”, che fino al 2017 era spesso associato al loro nome. Ci sono riusciti? Senza dubbio il lavoro è decisamente migliore di “Everything Now” (2017), ma non raggiunge la perfezione di “Funeral” (2004), il fulminante esordio del complesso canadese.

Il CD è diviso in due parti: la prima, “I”, è focalizzata sull’isolamento a cui il Covid ci ha costretto nel corso degli ultimi due anni; la seconda, “WE”, che dà il titolo al lavoro, ci riporta invece a sensazioni migliori, di comunità, che purtroppo sono state spesso perdute negli ultimi tempi. Gli Arcade Fire hanno sempre mirato a sentimenti universali, che si trattasse del dramma di perdere i propri cari (“Funeral”) oppure di ripercorrere la propria infanzia di ragazzi di periferia (“The Suburbs” del 2010): anche questa volta, come vediamo, mirano molto in alto.

Bersaglio centrato? Solo in parte. Musicalmente, i canadesi provano a tornare all’indie rock pieno di pathos dei loro esordi, abbandonando i ritmi caraibici e disco visti in “Reflektor” (2013) e il pop da classifica di “Everything Now”. Effetto nostalgia assicurato, ma quando si hanno canzoni belle come Age Of Anxiety I e The Lightning II tutto funziona. Ottima pure la più raccolta Unconditional Love I (Lookout Kid). Delude invece End Of The Empire IV (Sagittarius A*). In generale, la divisione del disco in suite formate da due o più componenti aiuta la coesione complessiva: a parte l’inutile Prelude e la conclusiva title track, infatti, abbiamo Age Of Anxiety, End Of The Empire, The Lightning e Unconditional Love.

Ospitando Peter Gabriel in Unconditional II (Race And Religion) e aiutati dal produttore Nigel Godrich (storico collaboratore dei Radiohead), Win Butler e Régine Chassagne hanno pubblicato un LP gradevole, che nei suoi momenti migliori è inattaccabile. Considerando la recente dipartita dalla band del fratello di Win Butler, Will, e le alte aspettative poste in “WE” dopo il flop di “Everything Now”, probabilmente siamo di fronte al miglior risultato possibile. Sicuramente, negli Arcade Fire è rimasta ancora la voglia di creare quel forte sentimento di comunità col loro pubblico che ne contraddistingue da sempre la carriera; in tempi così grami, non è una brutta cosa.

Voto finale: 8.

Florence + The Machine, “Dance Fever”

dance fever

Il quinto lavoro del progetto Florence + The Machine, “Dance Fever”, è un album pandemico sui generis: non riguarda infatti le conseguenze che il lockdown ha avuto sulla psiche di Florence Welch, o almeno non solo, quanto piuttosto quel senso di liberazione che pervade l’essere umano alla fine di grandi piaghe e tragedie del passato.

Il titolo prende direttamente spunto dal tarantismo (anche noto come “ballo di San Vito”), un morbo medievale che spingeva le persone a danzare sfrenatamente fino allo sfinimento o, nei casi più estremi, alla morte. Florence dedica quindi questo CD ad una malattia, che però sa quasi di libertà dalle restrizioni imposte dal Covid. Non sempre però le parti migliori del lavoro sono quelle più danzerecce.

“Dance Fever” era stato anticipato da alcuni singoli di grandissima qualità: King, Free e My Love sono tra le migliori canzoni recenti del gruppo inglese, trascinanti al punto giusto e curate nei minimi particolari, anche grazie alla produzione di Jack Antonoff. Solo Heaven Is Here deludeva le attese e rimane anche col CD completo uno dei momenti più deboli del lotto. Buona invece Choreomania, invece evitabile Daffodil.

Anche dal punto di vista testuale Florence e co. si dimostrano pieni di sorprese: abbiamo infatti l’inno femminista King, con il potente verso “I am no mother, I am no bride… I am king”. Altrove invece emergono pensieri più drammatici: “Every song I wrote became an escape rope tied around my neck to pull me up to heaven” (Heaven Is Here). Abbiamo infine il tema dell’amore che fa capolino in Girls Against God: “What a thing to admit, but when someone looks at me with real love, I don’t like it very much”.

In generale, comunque, “Dance Fever” sa di ripartenza per Welch: tanto più che è preceduto da un LP non all’altezza dei precedenti a firma Florence + The Machine come “High As Hope” (2018) e da incertezze su come proseguire il proprio percorso artistico. Potremmo anzi spingerci a dire che sia uno dei migliori dischi pubblicati da Florence Welch, ai livelli dell’ottimo esordio “Lungs” (2009). Peccato solo per alcuni episodi a centro disco che lasciano a desiderare, come Back In Town e la troppo breve Prayer Factory, abbassando la media complessiva, ma i risultati sono comunque più che buoni.

In conclusione, “Dance Fever” è uno dei migliori CD pop rock dell’anno: Florence + The Machine si conferma nome irrinunciabile della scena europea. Parlare così bene di una band con ormai quasi quindici anni di carriera alle spalle vuol dire una cosa sola: il talento è notevole e la voglia di mettersi in gioco, anche liricamente, sempre presente.

Voto finale: 8.

Sharon Van Etten, “We’ve Been Going About This All Wrong”

we've been going about this all wrong

Il nuovo album della cantautrice statunitense continua una carriera che sta riscuotendo un successo crescente: se “Remind Me Tomorrow” (2019) aveva presentato una nuova Sharon Van Etten, più pop e con sintetizzatori al massimo volume, “We’ve Been Going About This All Wrong” prosegue su questo percorso, aumentando allo stesso tempo la teatralità delle composizioni.

Il lavoro è stato composto in piena pandemia e, pertanto, risente molto dell’atmosfera generale di quel periodo, che tutti purtroppo ricordiamo. Inoltre, la casa dove Sharon vive assieme al compagno e al figlio è situata molto vicina ai luoghi degli incendi che hanno sconvolto gli Stati Uniti la scorsa estate, tanto da mettere a repentaglio anche lei stessa e la sua famiglia. Testualmente, quindi, siamo di fronte ad un lavoro molto personale, ma non per questo eccessivamente egocentrico.

Musicalmente, dicevamo, il CD in parte prosegue il percorso intrapreso con “Remind Me Tomorrow”, ma allo stesso tempo amplia l’aspetto barocco e teatrale di alcune composizioni. Prova ne sia la parte centrale del lavoro: sia Born che Headspace starebbero benissimo in “All Mirrors” di Angel Olsen. Invece la scarna Darkish rievoca le atmosfere dei primi lavori di Van Etten. Il pezzo più bello del lotto è senza dubbio Mistakes, vera perla pop. Buone anche Darkness Fades e Far Away, mentre sotto la media risulta solamente Home To Me.

In conclusione, i 39 minuti di “We’ve Been Going About This All Wrong” non risultano mai pesanti: la bella voce di Sharon Van Etten rende memorabili anche le melodie più prevedibili. Non tutto gira a meraviglia, ma questo lavoro è una buona aggiunta ad una discografia che, guardando il panorama del moderno indie rock, ha influenzato davvero molti artisti. Alcuni nomi? Phoebe Bridgers, Julien Baker, Snail Mail… In poche parole: Sharon Van Etten ormai è una certezza.

Voto finale: 7,5.

Rolling Blackouts Coastal Fever, “Endless Rooms”

endless rooms

Il terzo album del gruppo australiano li trova ancora a loro agio nel sound che li ha resi popolari: un indie rock sbarazzino, che si rifà agli Smiths così come al jangle pop degli anni ’90, sponda R.E.M.; allo stesso tempo, alcuni brani della tracklist fanno intravedere piccole novità, che sono benvenute dopo due EP e tre LP (pubblicati peraltro in soli sei anni) di buona qualità, ma alla lunga ripetitivi.

“Endless Rooms” inizia con una breve intro strumentale, Pearl Like You, che imposta il mood del disco: estate, serenità, suoni dolci. I successivi due brani, Tidal River e The Way It Shatters, sono tra i migliori della produzione recente della band e, soprattutto il primo, sembra cercare di innovare, almeno parzialmente, l’estetica dei Rolling Blackout Coastal Fever. Anche nella seconda parte dei 45 minuti che compongono “Endless Rooms” abbiamo altri esperimenti: la title track è un brano quasi notturno, molto raccolto. Buone soprattutto Dive Deep e Vanishing Dots; invece, i pezzi più prevedibili, come Open Up Your Window e, sono anche i più deboli del lotto.

La cosa che forse colpirà maggiormente gli ascoltatori è che, malgrado stiamo parlando di un lavoro musicalmente scanzonato, il gruppo australiano non è indifferente a quanto accade intorno a loro, soprattutto sul fronte della protezione dell’ambiente. Ad esempio, in Tidal Wave sentiamo: “Ceiling’s on fire, the train’s leaving the station”, un avvertimento che il cambiamento climatico è tra noi e dobbiamo muoverci per fermarlo. Altrove troviamo riferimenti ai migranti che cercano fortuna via mare: “If you were on the boat, would you turn the other way?” (The Way It Shatters).

In conclusione, “Endless Rooms” non verrà ricordato probabilmente come il miglior CD rock del 2022, tuttavia è un disco benvenuto, soprattutto considerando l’arrivo della bella stagione e il desiderio di relax che porta con sé.

Voto finale: 7,5.

Porridge Radio, “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky”

waterslide diving board ladder to the sky

Il terzo album dei Porridge Radio vede la band inglese capitanata da Dana Margolin cercare di innovare in parte il proprio sound, attraverso l’introduzione di tastiere (esemplare The Rip) affiancate all’estetica indie rock e post-punk che aveva caratterizzato “Every Bad” (2020), il lavoro che li aveva fatti conoscere al grande pubblico.

I Porridge Radio erano anche stati oggetto di un profilo Rising di A-Rock e “Every Bad” era risultato undicesimo tra i 50 migliori dischi del 2020: insomma, l’attesa per “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” era alta. Contando poi che uno dei singoli di lancio del CD era Back To The Radio, un ottimo pezzo indie rock, speravamo che questo lavoro potesse migliorare ulteriormente i risultati già ottimi di “Every Bad”.

Purtroppo, ci eravamo sbagliati: pur essendo infatti un buon lavoro, complessivamente “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” non raggiunge le vette del predecessore. Certo, brani come la già citata Back To The Radio e Birthday Party faranno la fortuna anche live del gruppo, ma altri episodi, decisamente più deboli, come Trying e la ripetitiva U Can Be Happy If You Want To abbassano il voto complessivo del CD.

Continua invece la grande abilità di Margolin e co. di evocare sentimenti di malessere attraverso dei semplici mantra, come già accadeva in Born Confused. In Birthday Party, infatti, Dana Margolin ripete “I don’t wanna be loved” per tutto il ritornello, appena dopo aver proclamato “I want one feeling all the time… I don’t want to feel a thing”. Versi davvero desolanti, che si legano facilmente ad altri che emergono nel corso dell’album: “We sit here together, the same as we’ve always been, laughing and talking but I want to cry to you” (Back To The Radio); “Jealousy, it makes me bad, but nothing makes me quite as sad as you” (Jealousy); “Don’t want my body to be touched… Don’t want to mean anything to you” (Splintered).

In conclusione, non ci troviamo di fronte ad un CD di facile lettura: il rock dei Porridge Radio è tanto trascinante quanto i loro testi sono deprimenti. “Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky” è un buon erede di “Every Bad”, ma da un gruppo con questo talento ci aspettiamo qualcosa di più. Speriamo che la prossima volta vada meglio.

Voto finale: 7,5.

Harry Styles, “Harry’s House”

harry's house

Il terzo album solista dell’ex One Direction è una parziale svolta nel suo sound: pur prendendo sempre spunto dal passato, questa volta la decade di riferimento non sono gli anni ’70, bensì il decennio successivo. Il gusto retrò del lavoro non deve far pensare però ad un LP derivativo: la sensibilità moderna traspare più o meno in ogni traccia di “Harry’s House” e Harry Styles si conferma popstar di talento, anche se ancora il suo meglio probabilmente non lo abbiamo visto.

I 41 minuti del CD trascorrono sereni: che si stia lavorando su altro oppure approfondendo il disco, non si può negare lo stile e la precisione di Styles e del suo gruppo di lavoro. Pezzi come il singolo As It Was e Matilda sono francamente irresistibili, immersi in un mondo pop zuccheroso ma mai banale, con aperture indie interessanti. Altrove invece abbiamo brani più prevedibili (Keep Driving, Boyfriends), che intaccano inevitabilmente il risultato complessivo, senza però scadere nel monotono. Infine, in Cinema abbiamo quasi una copia di “Random Access Memories” (2013) dei Daft Punk e dei migliori Chic.

Liricamente, “Harry’s House” si presenta come un lavoro più riflessivo del passato: Styles pare introdurci in casa sua, ovvero la sua mente, in maniera più aperta che in passato. Abbiamo riferimenti alla sua relazione con l’attrice Olivia Wilde in Cinema, così come ai problemi di uscire con dei ragazzi in Boyfriends (i più gossippari si chiederanno: esperienza personale oppure empatia verso l’altro sesso? Nessuna risposta disponibile al momento). In altre canzoni abbiamo immancabili riferimenti al cibo, un must per Harry (Music For A Sushi Restaurant, Grapejuice), così come versi sdolcinati (“If I was a bluebird, I would fly to you” canta in Daylight) e velati riferimenti agli atteggiamenti sbagliati di alcuni giovani verso le ragazze: “They think you’re so easy… They take you for granted” proclama in Boyfriends.

In conclusione, “Harry’s House” non raggiunge “Fine Line” (2019) come qualità generale del lavoro, ma fa intravedere un futuro luminoso per Harry Styles: le aperture all’indie pop e alle sonorità degli anni ’80 sono senza dubbio un progresso per un ragazzo partito con una forte tendenza a imitare David Bowie (si ascolti Sign Of The Times a riguardo). Vedremo il futuro cosa porterà in dote a Styles, di certo la stoffa pare esserci.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher, “C’MON YOU KNOW”

c'mon you know

Il terzo lavoro solista del più giovane dei fratelli Gallagher è al tempo stesso il più classico e il più variegato della sua produzione. Aiutato da numerosi produttori e co-autori, Liam con C’MON YOU KNOW” ha prodotto un CD che aiuterà a tenerlo sulla cresta dell’onda ancora per qualche tempo.

Prendiamo per esempio More Power, che apre il disco: pare proprio di essere tornati ai Rolling Stones di You Can’t Always Get What You Want, con quei coretti a fare da sottofondo. Nulla di nuovo, verrebbe da dire; in realtà, mai Liam era suonato così accondiscendente verso Mick Jagger & co., quindi a suo modo siamo di fronte ad una novità sul fronte delle ispirazioni per R Kid. Abbiamo poi il supporto di Ezra Koenig dei Vampire Weekend, che rende Moscow Rules il brano più barocco finora mai scritto a nome Liam Gallagher. Come tralasciare poi Everything’s Electric, che vanta la collaborazione di Dave Grohl! Insomma, un fritto misto che, al suo meglio, raggiunge ottimi risultati.

Sono infatti proprio i brani più in linea con i precedenti lavori di Gallagher, “As You Were” (2017) e “Why Me? Why Not.” (2019), a segnare il passo. Sia Don’t Go Halfway che I’m Free sono prevedibili e sono semplicemente intervalli scritti per i fan più tradizionali. Invece buona la title track, che ricorda gli ultimi Oasis, così come le già citate Everything’s Electric e Moscow Rules.

In generale, malgrado “C’MON YOU KNOW” arrivi dopo la devastante pandemia da Covid-19, nel corso del CD e delle interviste promozionali rilasciate recentemente abbiamo notato un Liam diverso, più introverso e meno spaccone: ne sono esempi anche alcuni testi del lavoro. In More Power lo sentiamo cantare: “The cut, it never really heals, just enough to stop the bleed… Mother, I’ll admit that I was angry for too long”. In I’m Free se la prende con le fake news: “How long you gonna sell illusion? How long you gonna sell confusion?”. Infine, una precisazione: il titolo Moscow Rules non ha nulla a che vedere con la situazione in Ucraina.

“C’MON YOU KNOW” non è al dunque un CD destinato a cambiare la carriera di una delle ultime grandi rockstar britanniche: chi già ama Liam continuerà a farlo, così come chi lo detesta. Certo, resta come sempre il rimpianto di dove sarebbero arrivati gli Oasis senza gli attriti col fratello Noel… ma non si piange sul latte versato, no? Godiamoci del buon rock and roll, non chiediamo di più a R Kid.

Voto finale: 7.

Wilco, “Cruel Country”

cruel country

Il quindicesimo album di inediti dei Wilco, istituzione del rock americano, è il loro CD più country e uno dei più lunghi della loro produzione. A 77 minuti e 21 canzoni, il doppio LP è sempre una sfida, anche per artisti leggendari come Prince e i The Clash. “Cruel Country” non è il miglior disco a firma Wilco, ma arricchisce il canzoniere della band con altre canzoni che faranno la fortuna dei live futuri di Jeff Tweedy e compagni.

Il titolo può in realtà essere inteso in due differenti modi: “country” in inglese può riferirsi sia a “nazione” che all’omonimo genere musicale. In effetti, in alcuni brani troviamo rimandi all’attualità, pur non essendo questo un CD “pandemico” (quello era infatti “Love Is The King”, a firma Jeff Tweedy, del 2020). Allo stesso tempo, sia i ritmi spesso rilassati che la volontà di suonare insieme dal vivo, dichiarata apertamente dalla band in sede di promozione del lavoro, piuttosto che scrivere canzoni politiche fanno pensare a un gruppo di amici vogliosi di divertirsi.

Può risultare strano che i Wilco, capaci in passato di spaziare in ogni ambito del rock, dall’indie all’alternativo al folk, siano tornati alle origini: il country era infatti l’architrave degli Uncle Tupelo, la prima band di Tweedy, così come dell’esordio del gruppo, “A.M.” del 1995. Tuttavia, a pensarci bene un ritorno alle basi può essere anche visto come un trampolino di lancio verso future sterzate: staremo a vedere.

I brani migliori sono Tired Of Taking It Out On You e Bird Without A Tail / Base Of My Skull, mentre deludono All Across The World e A Lifetime To Find. Carina infine Tonight’s The Day. In generale, come già anticipato, i 77 minuti risultano un po’ superflui, soprattutto verso la fine (ad esempio, Please Be Wrong e The Plains non sono brutte melodie, però sanno di già sentito), ma in un 2022 in cui molti artisti rilevanti hanno scelto questo formato (basti pensare a Beach House, Big Thief e Kendrick Lamar), il fatto che anche i Wilco ci abbiano omaggiato con un doppio CD ci fa solo piacere.

Voto finale: 7.

The Black Keys, “Dropout Boogie”

dropout boogie

Il terzo album in tre anni del duo originario di Akron, Ohio, calca terreni molto familiari: un blues rock caldo, sporco al punto giusto ma mai troppo tirato via. Dan Auerbach e Patrick Carney, dall’alto dei loro vent’anni di carriera (l’esordio “The Big Come Up” usciva infatti nel lontano 2002), sanno benissimo cosa i loro fan vogliono da un LP dei The Black Keys: ma siamo davvero sicuri che alla lunga questo atteggiamento conservativo paghi?

I The Black Keys sono diventati garanzia di CD mai troppo impegnativi, capaci di riportare a galla le radici blues del rock: LP come “Brothers” (2010) ed “El Camino” (2011) sono tuttora molto amati e non per caso. Brani del livello di Tighten Up, Lonely Boy e Gold On The Ceiling farebbero la fortuna di qualunque artista; che siano stati composti tutti nel giro di soli due anni è sintomo di grande talento. Il duo ha successivamente esplorato nuovi territori, soprattutto nel campo della psichedelia, nel successivo “Turn Blue” (2014), per poi darsi ad una lunga pausa fatta di progetti solisti e collaborazioni varie.

Il 2019 ha dato alla luce “Let’s Rock”, un ritorno al sound che ha fatto la fortuna dei The Black Keys; invece, nel 2021 i due americani hanno omaggiato le figure di riferimento del loro passato con la raccolta di cover “Delta Kream”. Dove si colloca “Dropout Boogie” in tutto ciò?

Partiamo dalle cose positive: la durata (34 minuti) e il numero di canzoni in tracklist (10) evitano il fastidioso filler che spesso percepiamo nei CD più lunghi e complessi. Inoltre, It Ain’t Over è un ottimo pezzo e farà la fortuna di Auerbach e Carney dal vivo. Stesso dicasi per Wild Child. Abbiamo poi una ballata abbastanza inusuale, How Long, a dire il vero non indimenticabile. D’altro lato, l’estetica generale del gruppo non si è spostata di una virgola negli ultimi anni, anzi ha denotato un ritorno sempre più marcato alle origini. Si ascolti a tal proposito Burn The Damn Thing Down, oppure Your Team Is Looking Good.

In poche parole, “Dropout Boogie” non è assolutamente un cattivo lavoro; al contrario, alcune canzoni sono riuscite e il disco è coeso e breve al punto giusto. Allo stesso tempo, non possiamo non dichiarare serenamente che i tempi migliori dei The Black Keys sono ormai alle loro spalle: vedremo per quanto ancora il duo riuscirà a divagare sullo stesso spartito senza suonare noioso. Di questo passo, non per molto tempo.

Voto finale: 6,5.

I 20 migliori album del 2011

Ad A-Rock ci teniamo a garantire una copertura quanto più ampia possibile della musica recente così come di quella che comincia ad avere qualche anno. Perché non sfruttare il decennio passato dall’ormai lontano 2011 per fare una valutazione della musica prodotta in quell’anno davvero interessante per la musica?

Il 2011, ad esempio, è stato l’anno in cui artisti del calibro di Bon Iver, Drake, gli M83 e James Blake hanno pubblicato album di rilievo, addirittura i migliori della carriera in certi casi. Recensire i 20 migliori CD pubblicati quell’anno, a dieci anni di distanza, è pertanto una sorta di atto dovuto. Chi avrà vinto il titolo di miglior disco del 2011? Buona lettura!

20) Andy Stott, “Passed Me By” / “We Stay Together” (ELETTRONICA)

19) The Roots, “Undun” (HIP HOP)

18) Death Grips, “Exmilitary” (HIP HOP – SPERIMENTALE)

17) The Black Keys, “El Camino” (ROCK)

16) The Antlers, “Burst Apart” (ROCK)

15) The Weeknd, “Trilogy” (R&B – ELETTRONICA)

14) The War On Drugs, “Slave Ambient” (ROCK)

13) Wilco, “The Whole Love” (ROCK)

12) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (ROCK – FOLK)

11) The Horrors, “Skying” (ROCK)

10) James Blake, “James Blake” (ELETTRONICA)

9) St. Vincent, “Strange Mercy” (ROCK)

8) Nicolas Jaar, “Space Is Only Noise” (ELETTRONICA)

7) The Field, “Looping State Of Mind” (ELETTRONICA)

6) Atlas Sound, “Parallax” (ROCK)

5) M83 “Hurry Up, We’re Dreaming” (ELETTRONICA – ROCK – POP)

4) Real Estate, “Days” (ROCK)

3) Girls, “Father, Son, Holy Ghost” (ROCK)

2) Destroyer, “Kaputt” (ROCK)

1) Bon Iver, “Bon Iver, Bon Iver” (FOLK – ELETTRONICA)

Siete d’accordo con questa lista? Non esitate a farci sapere il vostro punto di vista!

Recap: maggio 2021

Maggio è stato un mese decisamente affollato di uscite importanti. Ad A-Rock abbiamo avuto il nostro bel da fare: abbiamo recensito i nuovi, attesi lavori degli Iceage e dei black midi. In più, interessanti le novità discografiche a firma The Black Keys e St. Vincent, oltre agli EP di Jorja Smith e dei Mannequin Pussy. Buona lettura!

black midi, “Cavalcade”

cavalcade

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori logica ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021 finora, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

Voto finale: 8,5.

Iceage, “Seek Shelter”

seek shelter

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

Voto finale: 8.

St. Vincent, “Daddy’s Home”

daddy's home

Giunta ormai al settimo album di inediti (contando anche quello del 2012 con David Byrne), Annie Clark reinventa nuovamente la sua estetica e la sua persona, tornando alla New York degli anni ’70, sporca e cattiva, seducente e malinconica. Siamo nei territori di Lou Reed, del primo Prince, di Sly & The Family Stone: funk, soul e rock si mescolano in “Daddy’s Home” a tematiche strettamente personali, che lo rendono il CD più personale e sperimentale di St. Vincent, ma non il suo miglior lavoro.

Già la campagna promozionale e il titolo fanno intravedere l’argomento portante del lavoro: dopo aver scontato oltre dieci anni di carcere per abusi di mercato in ambito finanziario, il padre di Annie è tornato a casa. Lei aveva già affrontato, anche se lateralmente, la tematica, ad esempio in “Strange Mercy” (2011), ma mai con questa schiettezza. La sua assenza ha pesato molto per St. Vincent e la controversa figura del padre assume qui il ruolo di musa dell’artista.

Musicalmente, come dicevamo, la ricerca di St. Vincent è una delle più fertili e innovative del rock moderno: partita come membro del coro di supporto a Sufjan Stevens, nel 2007 Annie decideva di passare solista e pubblicava il delizioso “Marry Me”, art pop ben fatto ma mai scontato, con grande lavoro alla chitarra. Questa sarà la caratteristica fondamentale di tutte le mutazioni del progetto St. Vincent: che si parli di indie rock futuristico (“St. Vincent” del 2014) o di pop sexy e avvolgente (“MASSEDUCTION” del 2017), la chitarrista St. Vincent era sempre preminente.

Invece, in “Daddy’s Home”, la chitarra ha un ruolo importante, certo, ma le potenti schitarrate del passato sono abbandonate per un suono più morbido: la svolta potrà piacere o meno, ma denota un’esplorazione che prescinde anche dai punti fissi del passato. Tuttavia, non tutto fila liscio.

Come dicevamo, accanto a brani gloriosi come Live In The Dream (fra i migliori di Annie Clark) e The Laughing Man, abbiamo dei singoli davvero bizzarri: sia Pay Your Way In Pain che Melting Of The Sun sono pezzi troppo complessi, curati e con produzione perfetta da parte di Jack Antonoff (già produttore di Lana Del Rey e Taylor Swift), ma alla lunga monotoni. Invece condivisibile la presenza dei tre brevi intermezzi Humming, che collegano fra loro le diverse parti del CD.

Testualmente, come dicevamo, questo è il disco più intimo di sempre a firma St. Vincent: My Baby Wants A Baby parla della sua sensazione ambivalente verso la maternità, Annie esclama infatti “No one will scream that song I made, won’t throw no roses on my grave… They’ll just look at me and say: Where’s your baby?”. Nella title track, invece, Annie cita le figure femminili che le hanno fatto da riferimento durante la crescita (da Nina Simone a Tori Amos, passando per Joni Mitchell e Marylin Monroe) e durante i periodi più difficili della sua vita.

In conclusione, “Daddy’s Home” è un CD senza dubbio interessante e che merita più di un ascolto per sfoderare tutte le sue delizie. Tuttavia, per chi è più fan della St. Vincent più rock, il CD sarà un passo indietro in termini di qualità. La figura di Annie Clark resta comunque imprescindibile e rappresenta ad oggi la più credibile erede del Duca Bianco, David Bowie, in termini di trasformismo e livello generale della discografia.

Voto finale: 7,5.

Mannequin Pussy, “Perfect”

perfect

Il bravissimo EP dei Mannequin Pussy è il loro primo lavoro senza il membro fondatore Thanasi Paul e il primo dopo l’ottimo terzo CD della loro produzione, quel “Patience” (2019) che li aveva fatti scoprire a molti. Il sound del gruppo si mantiene fedele al punk-rock del passato, ma in Darling troviamo la prima, grande svolta della loro carriera: pare quasi di sentire una b-side dei Beach House!

Quest’ultimo antefatto può mettere di malumore quelli che si aspettano un lavoro sanguigno, come le migliori parti di “Patience” farebbero pensare. Va detto che già nel precedente disco vi erano parti più melodiche, che lasciavano intravedere il lato più commerciale di Missy Dabice & co., tuttavia mai i Mannequin Pussy si erano spinti così avanti come in Darling, “pecora nera” dell’EP ma non per questo fuori luogo.

Il resto del lavoro è invece più nelle corde del gruppo: abbiamo dapprima l’indie rock accattivante di Control, poi la potente title track e la melodiosa To Lose You. L’episodio più duro è Pigs To Pigs, cantato dal bassista Colins Reginsford, per la prima volta frontman del gruppo. La Dabice, dal canto suo, si conferma carismatica e abile a intonare sia pezzi più facili che brani più potenti.

In conclusione, “Perfect” non sarà “perfetto” come il titolo può ironicamente far pensare; tuttavia, l’EP è una ventata di aria fresca nell’estetica dei Mannequin Pussy e ci rende davvero curiosi per le loro prossime mosse.

Voto finale: 7,5.

Jorja Smith, “Be Right Back”

be right back

Il nuovo lavoro della talentuosa cantautrice inglese è un EP di buona fattura. Rispetto all’esordio “Lost & Found” del 2018 Jorja segue la stessa ricetta, fatta di R&B sensuale e neo-soul raffinato, con focus sulla sua splendida voce, ma con alcune piccole aggiunte. Il lavoro non è rivoluzionario, ma ci fa davvero ben sperare per il futuro della Nostra nel mondo della musica.

Se “Lost & Found” aveva un difetto, era di suonare un po’ uguale nella seconda parte del lavoro, malgrado la presenza di perle come la title track e Where Did I Go?. “Be Right Back” sperimenta di più, con spazio al rap in Bussdown (dove è ospite il rapper londinese Shaybo). I risultati non sono sempre convincenti, il prossimo CD sarà una tappa cruciale per Jorja in questo senso.

Chiudiamo con un’analisi sui testi, molto diretti, dell’EP: in Addicted, fra i migliori pezzi dell’album, Smith si lamenta che “The hardest thing, you are not addicted to me”. Una dichiarazione d’intenti molto chiara. Invece in Burn troviamo la seguente accusa: “You burn like you never burn out, try so hard you can still fall down… You keep it all in but you don’t let it out”. Infine in Bussdown abbiamo un’ammissione di fragilità, ma anche di forza d’animo: “They call me Miss Naive, I’m still naïve, I put trust in all the ones that got me… They never really had me”.

In conclusione, “Be Right Back” è un buon EP da parte di un’artista da cui ci aspettiamo molto negli anni a venire. Jorja Smith, infatti, assieme a Lianne La Havas e Jessie Ware, è alfiere di una nuova schiera di cantanti britanniche di qualità, che mescolano al pop generi come R&B, soul e disco, pronte ad affiancare Adele nella conquista dei palcoscenici più importanti. Speriamo per lei che la nostra previsione non venga contraddetta.

Voto finale: 7.

The Black Keys, “Delta Kream”

delta kream

I The Black Keys sono giunti ormai nella loro terza decade di esistenza e al decimo album, tra inediti e cover: due traguardi davvero ragguardevoli per due ragazzi che erano partiti da Detroit senza troppe pretese e invece, grazie a singoli di successo come Lonely Boy e Tighten Up, hanno raggiunto lo status di rockstar.

Per festeggiare, Patrick Carney e Dan Auerbach hanno deciso di rendere omaggio ai loro maestri: il CD è infatti una raccolta di undici cover blues tratte dai più noti artisti del delta del Mississippi (da qui il titolo del lavoro). Svettano in particolare quelle dedicate a Junior Kimbrough, già omaggiato in passato nel gustoso EP “Chulahoma” (2006). Nulla di clamoroso, come ormai da tradizione del duo, ma le canzoni fluiscono bene una dopo l’altra e il disco è un toccasana per gli amanti del blues.

Tra le migliori cover abbiamo Crawling Kingsnake, ottima cover di un classico di John Lee Hooker; buona anche Stay All Night. Invece sotto la media Louise, monotona, oltre a Going Down South, con un falsetto di Auerbach non molto convincente. Menzioniamo infine Do The Romp, già presente col titolo Do The Rump e in una versione molto più acerba nell’esordio del gruppo, “The Big Come Up” (2002).

In generale, l’ascoltatore non deve aspettarsi molto: si tratta semplicemente di due amici che, in due pomeriggi, si sono messi a omaggiare i loro mentori attraverso quello che sanno fare meglio, suonare. La passione e la cura con cui i The Black Keys hanno composto “Delta Kream” sono però di per sé segno di un LP da ascoltare almeno una volta.

Voto finale: 7.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: la decade è ormai conclusa da alcuni mesi ed è giunta l’ora, per A-Rock, di stilare la classifica dei CD più belli e più influenti pubblicati fra 2010 e 2019. Un’impresa difficile, considerata la mole di dischi pubblicati ogni anno. Rock, hip hop, elettronica, pop… ogni genere ha avuto i suoi momenti di massimo splendore.

Partiamo con alcune regole: nessun artista è rappresentato da più di tre LP nella classifica. Nemmeno i più rappresentativi, da Kanye West a Kendrick Lamar agli Arctic Monkeys (tutti con tre CD all’attivo nella hit list). Questo per favorire varietà e rappresentatività: abbiamo quindi dato spazio anche a gruppi e artisti meno conosciuti come Mikal Cronin e Julia Holter, autori di lavori prestigiosi e meritevoli di un posto al sole. Non per questo abbiamo trascurato i giganti della decade: oltre ai tre citati prima, anche Drake e i Vampire Weekend hanno un buon numero di loro pubblicazioni in lista per esempio, senza trascurare i Deerhunter e Vince Staples.

Questo è stato senza ombra di dubbio il decennio della definitiva consacrazione dell’hip hop: ormai radio e servizi di streaming sono sempre più “ostaggio” del rap, più melodico (Drake) o più vicino alla trap (Migos, Travis Scott), per finire con il filone più sperimentale (Earl Sweatshirt). L’elettronica invece pareva destinata a conquistare tutti nei primi anni della decade, tuttavia poi l’EDM è passata di moda lasciando spazio all’hip hop. E il rock? Da genere dominante ora arranca nelle classifiche e nelle vendite, pare quasi destinato a persone mature… anche se poi ci sono gruppi come Arctic Monkeys e The 1975 che ancora esordiscono in alto nelle classifiche quando pubblicano un nuovo lavoro. A dimostrazione che chi merita davvero riesce a piacere a molti anche in tempi non propizi per il rock in generale. Folk e musica d’avanguardia continuano a non essere propriamente mainstream, ma hanno regalato pezzi unici di bella musica (dai Fleet Foxes all’ultimo Nick Cave, passando per King Krule) che hanno fatto spesso gridare al miracolo. Dal canto suo, invece, il pop ha continuato un’evoluzione lodevole verso tematiche non facili come la diversità, l’empowerment delle donne e l’accettarsi come si è, aiutato da artisti del calibro di Frank Ocean e Beyoncé. Chissà che poi il “future pop” di artisti come Charli XCX possa davvero essere la musica popolare del futuro! Vicino al pop è poi l’R&B, che ha vissuto momenti davvero eccitanti durante la decade 2010-2019 (basti pensare all’esordio fulminante di The Weeknd o alla delicatezza di Blood Orange) i quali ci fanno capire che i nuovi D’Angelo sono pronti a prendersi il palcoscenico (anche se poi il vero D’Angelo ha sbaragliato quasi tutti nel 2014 con “Black Messiah”).

Ma andiamo con ordine: i primi 100 nomi (ma 104 dischi, considerando il doppio album del 2019 dei Big Thief, la doppia release a nome Ty Segall del 2012 e la fondamentale trilogia di mixtape con cui The Weeknd si è fatto conoscere al mondo nel 2011) saranno solamente un elenco, senza descrizione se non l’anno di pubblicazione e il genere a cui sono riconducibili. Invece, per la successiva pubblicazione avremo descrizioni più o meno dettagliate delle scelte effettuate. Buona lettura!

200) Earl Sweatshirt, “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside” (2015) (HIP HOP)

199) Floating Points, “Crush” (2019) (ELETTRONICA)

198) Drake, “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015) (HIP HOP)

197) Spoon, “Hot Thoughts” (2017) (ROCK)

196) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands” (2019) (ROCK – FOLK)

195) Father John Misty, “I Love You, Honeybear” (2015) (ROCK)

194) Mikal Cronin, “MCII” (2013) (ROCK)

193) Arctic Monkeys, “Suck It And See” (2011) (ROCK)

192) MGMT, “Congratulations” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

191) Jai Paul, “Jai Paul” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

190) FKA Twigs, “LP 1” (2014) (R&B – ELETTRONICA)

189) Four Tet, “There Is Love In You” (2010) (ELETTRONICA)

188) Slowdive, “Slowdive” (2017) (ROCK)

187) Fever Ray, “Plunge” (2017) (ELETTRONICA)

186) The xx, “I See You” (2017) (ELETTRONICA – POP)

185) Perfume Genius, “No Shape” (2017) (POP – ELETTRONICA)

184) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?” (2017) (ROCK)

183) Julia Holter, “Have You In My Wilderness” (2015) (POP)

182) Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears” (2018) (POP – ELETTRONICA)

181) Coldplay, “Everyday Life” (2019) (POP – ROCK)

180) The Black Keys, “El Camino” (2011) (ROCK)

179) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar” (2019) (ROCK)

178) Vampire Weekend, “Father Of The Bride” (2019) (ROCK – POP)

177) The 1975, “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016) (ROCK – POP – ELETTRONICA)

176) The xx, “Coexist” (2012) (POP – ELETTRONICA)

175) Muse, “The 2nd Law” (2012) (ROCK)

174) Aldous Harding, “Designer” (2019) (FOLK)

173) The Antlers, “Burst Apart” (2011) (ROCK)

172) Arca, “Arca” (2017) (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

171) Hot Chip, “In Our Heads” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

170) Anderson .Paak, “Malibu” (2016) (HIP HOP – R&B)

169) Fiona Apple, “The Idler Wheel” (2012) (POP)

168) Mount Eerie, “Now Only” (2018) (FOLK – ROCK)

167) Justin Timberlake, “The 20/20 Experience” (2013) (R&B – ELETTRONICA)

166) St. Vincent, “MASSEDUCTION” (2017) (POP)

165) Troye Sivan, “Bloom” (2018) (POP)

164) Algiers, “The Underside Of Power” (2017) (PUNK)

163) These New Puritans, “Hidden” (2010) (ROCK – PUNK – ELETTRONICA)

162) Suede, “Bloodsports” (2013) (ROCK)

161) Arctic Monkeys, “Tranquility Base Hotel & Casino” (2018) (ROCK – POP)

160) Björk, “Vulnicura” (2015) (POP – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

159) Jack White, “Blunderbuss” (2012) (ROCK)

158) The Walkmen, “Lisbon” (2010) (ROCK)

157) PJ Harvey, “Let England Shake” (2011) (ROCK)

156) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, “Before Today” (2010) (ROCK – SPERIMENTALE)

155) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen” (2019) (SPERIMENTALE – ROCK)

154) The Voidz, “Virtue” (2018) (ROCK)

153) Broken Social Scene, “Forgiveness Rock Record” (2010) (ROCK)

152) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!” (2019) (R&B – SOUL)

151) Foals, “Total Life Forever” (2010) (ROCK)

150) Neon Indian, “VEGA INTL. Night School” (2015) (ELETTRONICA)

149) King Gizzard & The Lizard Wizard, “Polygondwanaland” (2017) (ROCK)

148) Moses Sumney, “Aromanticism” (2017) (R&B – SOUL)

147) James Blake, “Overgrown” (2013) (ELETTRONICA – POP)

146) Preoccupations, “Viet Cong” (2015) (PUNK)

145) D’Angelo, “Black Messiah” (2014) (SOUL – R&B)

144) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (2012) (ROCK)

143) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana” (2019) (HIP HOP)

142) Tyler, The Creator, “IGOR” (2019) (HIP HOP)

141) Vince Staples, “Big Fish Theory” (2015) (HIP HOP)

140) Young Fathers, “Cocoa Sugar” (2018) (HIP HOP)

139) Parquet Courts, “Sunbathing Animal” (2014) (ROCK)

138) Jon Hopkins, “Singularity” (2018) (ELETTRONICA)

137) Fleet Foxes, “Helplessness Blues” (2011) (FOLK)

136) Ty Segall, “Slaughterhouse” / “Hair” (2012) (ROCK)

135) Titus Andronicus, “The Monitor” (2010) (ROCK)

134) Blur, “The Magic Whip” (2015) (ROCK)

133) Kanye West, “Yeezus” (2013) (HIP HOP)

132) Drake, “Take Care” (2011) (HIP HOP)

131) Thundercat, “Drunk” (2017) (ROCK – JAZZ – SOUL)

130) Caribou, “Swim” (2010) (ELETTRONICA)

129) Parquet Courts, “Wide Awake!” (2018) (ROCK)

128) LCD Soundsystem, “This Is Happening” (2010) (ELETTRONICA – ROCK)

127) Mac DeMarco, “2” (2012) (ROCK)

126) Ty Segall, “Manipulator” (2014) (ROCK)

125) Chromatics, “Kill For Love” (2012) (ELETTRONICA – ROCK)

124) Jon Hopkins, “Immunity” (2013) (ELETTRONICA)

123) Spoon, “They Want My Soul” (2014) (ROCK)

122) Damon Albarn, “Everyday Robots” (2014) (POP)

121) Panda Bear, “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015) (ELETTRONICA)

120) Leonard Cohen, “You Want It Darker” (2016) (SOUL – FOLK)

119) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (2012) (ELETTRONICA)

118) Shabazz Palaces, “Black Up” (2011) (HIP HOP)

117) Fontaines D.C., “Dogrel” (2019) (PUNK – ROCK)

116) Arcade Fire, “Reflektor” (2013) (ROCK – ELETTRONICA)

115) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (2012) (ROCK)

114) Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine” (2016) (POP)

113) Blood Orange, “Freetown Sound” (2016) (R&B – SOUL)

112) Denzel Curry, “TA13OO” (2018) (HIP HOP)

111) Dave, “Psychodrama” (2019) (HIP HOP)

110) Flying Lotus, “You’re Dead!” (2014) (ELETTRONICA)

109) Gorillaz, “Plastic Beach” (2010) (ELETTRONICA – HIP HOP)

108) Leonard Cohen, “Popular Problems” (2014) (FOLK)

107) Danny Brown, “Old” (2013) (HIP HOP)

106) Cloud Nothings, “Here And Nowhere Else” (2014) (PUNK – ROCK)

105) Chance The Rapper, “Acid Rap” (2013) (HIP HOP)

104) Father John Misty, “Pure Comedy” (2017) (ROCK)

103) Nicolas Jaar, “Sirens” (2016) (ELETTRONICA)

102) Grimes, “Visions” (2012) (POP – ELETTRONICA)

101) The Weeknd, “House Of Balloons” / “Thursday” / “Echoes Of Silence” (2011) (R&B – ELETTRONICA)

Recap: giugno 2019

Anche giugno è terminato. Un mese piuttosto interessante, in cui abbiamo recensito le nuove pubblicazioni di Denzel Curry, Bill Callahan, Bruce Springsteen e il breve EP a firma Noel Gallagher’s High Flying Birds. Abbiamo inoltre le nuove uscite degli Hot Chip, dei Black Keys e dei Raconteurs. Non ci scordiamo poi l’album pubblicato un po’ a sorpresa da Thom Yorke e la nuova collaborazione Madlib-Freddie Gibbs!

Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana”

bandana

Una delle collaborazioni più anticipate nel mondo rap, “Bandana” trova sia il rapper Freddie Gibbs che il produttore Madlib al meglio. Il CD è un’ottima fusione di hip hop, jazz e inserti di funk, che lo rendono imprescindibile per gli amanti della black music.

“Piñata” (2014), la precedente creazione del duo, era stata una rivelazione: i beat sempre nostalgici e sbilenchi di Madlib si sarebbero adattati al gangsta rap di Gibbs? Beh, la risposta era stata un fortissimo sì. “Bandana” da questo punto di vista non innova particolarmente lo stile dei due, pare piuttosto un miglioramento incrementale della chimica fra i due e nelle scelte di produzione.

Mentre infatti spesso Madlib in passato aveva privilegiato una produzione scarna, a volte addirittura lo-fi, in “Bandana” ogni canzone è immacolata e fluisce spesso nella successiva senza soluzione di continuità. Dal canto suo, Freddie Gibbs si conferma a ottimi livelli, capace di parlare di Allen Iverson, grande cestista del passato (Practice) così come della tratta degli schiavi (Flat Tummy Tea), passando per la morte di Tupac (Massage Seats). Insomma, di tutto un po’.

Il disco può infine contare su alcune collaborazioni di spessore: Pusha-T, Anderson .Paak e Killer Mike (metà dei Run The Jewels) arricchiscono ulteriormente la formula di “Bandana” in Palmolive e Giannis. Insomma, il CD è davvero riuscito sotto tutti i punti di vista. I pezzi migliori sono la scatenata Half Manne Half Cocaine e Crime Pays, mentre leggermente sotto la media sono l’intro iniziale Obrigado e Fake Names.

In conclusione, Freddie Gibbs e Madlib si confermano una volta di più essere fatti l’uno per l’altro, musicalmente parlando; “Bandana” rispetta pienamente l’hype che percorreva Internet ed è uno dei migliori album hip hop dell’anno.

Voto finale: 8,5.

Bill Callahan, “Shepherd In A Sheepskin Vest”

bill callahan

Il nuovo CD a firma Bill Callahan, il quinto di una carriera di tutto rispetto (senza contare quelli a firma Smog), è il suo lavoro più aperto come sonorità e quello che, a livello testuale, contiene riferimenti alla vita privata di Bill che erano assenti in passato.

“Shepherd In A Sheepskin Vest” arriva dopo ben sei anni da “Dream River”: un’assenza davvero di lungo termine, dovuta in gran parte ai radicali cambiamenti avvenuti nella vita personale del cantautore americano. Nel 2014 si è sposato con Hanly Banks, mentre nel 2015 ha avuto un bambino da quest’ultima: insomma, un cambio di prospettiva estremo per un uomo abituato a scrutare con acutezza e profondità i tanti perché della vita, facendo la figura dell’eterno insoddisfatto.

Non è un caso che il disco appena pubblicato sia il più luminoso della sua ormai trentennale carriera: Bob Dylan si mescola a Leonard Cohen, potremmo dire, rendendo “Shepherd In A Sheepskin Vest” un CD lungo (20 brani per 63 minuti) ma facilmente digeribile e mai monotono. Ne sono esempi pezzi squisiti come 747 o Black Dog On The Beach. Tuttavia, anche la parte finale del CD, quella più oscura come liriche, contiene canzoni brillanti rispetto al “solito” Bill Callahan, ne sia esempio Call Me Anything.

Come sempre, tuttavia, a risaltare è specialmente la sua voce: un vero e proprio altro strumento, con un tono baritonale à la Leonard Cohen o Johnny Cash che la rende perfetta per questo tipo di narrazioni. Le storie di Callahan erano sempre state pervase, come già accennato, da domande esistenziali sul senso della vita; ora invece, malgrado restino presenti analisi di questo tipo (cosa scontata in un LP così articolato), i testi sono decisamente più leggeri. Ad esempio, in What Comes After Certainty parla dell’amore vero e assoluto verso la moglie, tanto che si chiede: “True love is not magic, it is certainty… And what comes after certainty?” Più avanti i testi sono ancora più esplicitamente sereni: “I never thought I’d make it this far: little old house, recent-model car… And I’ve got the woman of my dreams”. In Young Icarus ritornano le elucubrazioni tipiche di Callahan: “Well, the past has always lied to me, the past has never given me anything but the blues”. C’è anche tempo per un riferimento al sesso durante il “periodo” delle donne, nell’ironica Confederate Jasmine.

In conclusione, “Shepherd In A Sheepskin Vest” è un punto altissimo nella discografia di Bill Callahan: il cantautore americano pare aver trovato la serenità da lui tanto agognata in passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il disco scorre benissimo e nulla è superfluo. Complimenti, Bill, e buona vita.

Voto finale: 8.

Thom Yorke, “ANIMA”

anima

Il terzo album vero e proprio di Thom Yorke, frontman dei Radiohead, segue la colonna sonora di Suspiria dello scorso anno. Yorke in “ANIMA” continua il percorso elettronico intrapreso in “The Eraser” (2006) e lo conduce verso lidi più teneri del solito, evocando le atmosfere dei lavori più intimi dei Radiohead, un po’ ambient un po’ glitch.

Del resto, è inevitabile fare comparazioni con la sua band, vero culto per moltissimi fans e non senza ragioni: autori di classici come “OK Computer” e “Kid A”, i Radiohead sono da molti considerati fra le più importanti band nella storia della musica. Yorke, gli va dato atto, non ha mai cercato di scimmiottare i lavori del complesso britannico da solista; un merito, ma anche forse un motivo del perché nessuno ha mai avuto veramente successo. “ANIMA” invece collega benissimo i Radiohead di “Kid A” e “Amnesiac” con il Thom solista, creando un lavoro coeso e avvincente.

La partenza è interlocutoria: sia Traffic che Last I Heard (… He Was Circling The Drain) rievocano le tenebrose atmosfere di “Tomorrow’s Modern Boxes” (2014). Tuttavia, la magia è solo rinviata: sia Twist che Dawn Chorus sono fra le migliori composizioni del Thom Yorke solista, entrambe melodie tenere con la voce di Yorke al suo meglio. Si ritorna in questo modo al CD forse più incompreso del catalogo dei Radiohead, “King Of Limbs” (2011). Insomma, Thom (aiutato come sempre dal fido produttore Nigel Godrich) ha ancora diversi assi nella manica.

A tutto questo va aggiunto che Paul Thomas Anderson, il celebre regista hollywoodiano e collaboratore dei Radiohead, ha girato un breve film sulle note di alcune delle canzoni contenute in “ANIMA”, un progetto simile a quello dei The National di qualche mese fa. Insomma, possiamo dire che Thom Yorke in questo caso ha decisamente alzato il livello, sia di ambizione che di arrangiamenti; e i risultati sono notevoli.

Liricamente, come spesso nella carriera, il frontman dei Radiohead non risparmia invettive contro la presenza sempre più invasiva della tecnologia: in The Axe (già il titolo, L’Ascia, dice tutto) lo sentiamo inveire “Goddamned machinery, why don’t you speak to me? One day I am gonna take an axe to you”. Altrove l’immaginario è più astratto: Twist termina quasi come un film horror, con Yorke che mormora “A boy on a bike who is running away, an empty car in the woods, the motor left running”. Dawn Chorus è invece dedicata alla sua compagna, Dajana Roncione: viene descritto ad un certo punto un vortice di frammenti di cenere che sembrano ballare, come due amanti, insomma una scena davvero romantica.

Yorke dunque, recuperando le influenze più eccentriche già viste nei Radiohead e adattandole ad atmosfere maggiormente accessibili, ha creato il suo LP più bello. Niente male, considerato che il Nostro canta da più di 20 anni; ma Thom non pare avere intenzione di smettere. E noi non possiamo che essergliene grati.

Voto finale: 8.

Bruce Springsteen, “Western Stars”

bruce

La leggenda del rock è tornata: “Western Stars” marca il ritorno di Bruce Springsteen 5 anni dopo “High Hopes”. Il 19° (diciannovesimo!) album di inediti del Boss è una ventata di freschezza in una discografia che inevitabilmente iniziava a diventare prevedibile, guidata ultimamente più spesso da motivazioni politiche e sociali che dall’ispirazione vera e propria.

“Western Stars” è un disco molto springsteeniano, pieno di rimandi al rock anni ’70 ma anche al folk e all’Americana, quel sottogenere a metà fra country e rock che tanto fa proseliti negli States. Non per questo però il CD è ripetitivo o fuori fuoco; anzi, gli episodi prevedibili sono davvero rari e fanno di “Western Stars” uno dei punti più alti della discografia recente del Boss. L’inizio, ad esempio, è ottimo: Hitch Hikin’ è uno slow-burner, ma conquista ascolto dopo ascolto. Ottima anche la successiva The Wayfarer, uno degli highlights immediati del lavoro.

La parte centrale dell’album presenta alcune melodie inferiori alla media (alta, va detto) del resto del disco: la title track e Sleepy Joe’s Cafe sono pezzi quasi beatlesiani, ma non ispiratissimi. Molto meglio la solarità di Hello Sunshine, non a caso scelto come singolo di lancio da Springsteen. In generale, “Western Stars” mantiene un mood gioioso e raffinato durante tutto il suo corso, ben coordinato con le storie sempre affascinanti narrate dall’artista.

Liricamente, come accennavamo, il Boss si conferma maestro: in “Western Stars” troviamo riferimenti ad un attore collega di John Wayne e ora costretto a lavorare per gli spot in tv (la title track); altrove (forse un riferimento autobiografico?) un cantante country si chiede se i sacrifici fatti durante la vita siano valsi a qualcosa (Somewhere North Of Nashville). Ricordiamo che Bruce compirà 70 anni quest’inverno, quindi ormai è probabile che abbia fatto dei bilanci sulla sua vita e i suoi alti e bassi. Una delle frasi più potenti è contenuta in Moonlight Motel: “It’s better to have loved”.

In generale, Bruce Springsteen non ha bisogno di presentazioni: un autore capace di scrivere capolavori nella sua gioventù (“Born To Run” e “Darkness On The Edge Of Town”) e nella sua età di mezzo (“Born In The U.S.A.” e “Tunnel Of Love”) può solamente essere elogiato. Il fatto che sappia rinnovarsi alla soglia dei 70 anni dimostra una volta di più che di Boss ce n’è, e probabilmente ce ne sarà, uno solo.

Voto finale: 8.

The Black Keys, “Let’s Rock”

black keys

In un giugno che sarà ricordato per molto tempo dagli amanti del rock, il ritorno dei Black Keys, a cinque anni da “Turn Blue”, è la classica ciliegina sulla torta. Mai c’era stata assenza così lunga nel corso della longeva carriera del duo originario di Akron; segno che qualcosa forse si era rotto, ma pare ritornato a posto nel brillante “Let’s Rock”.

La partenza del CD è formidabile: Shine A Little Light è un fiume infinito di schitarrate, ben sostenuto dalla batteria di Patrick Carney. La voce di Dan Auerbach pare più matura rispetto al passato, segno che il tempo passa per tutti. Invece, il sound dei Black Keys non è molto cambiato se comparato alla discografia recente della band americana: abbiamo il solito mix di blues e rock, questa volta privo delle influenze di Danger Mouse, che non produce l’album. Dunque, un suono ancora più essenziale: non per forza una cattiva notizia.

Oltre all’iniziale Shine A Little Light, altre buone canzoni sono Eagle Birds e la lenta Walk Across The Water. Delude invece la prevedibile Lo/Hi, scelta inspiegabilmente come singolo di lancio. Fuori fuoco anche Tell Me Lies. In generale, mancano le hit di un tempo, da Tighten Up a Lonely Boy, ma “Let’s Rock” resta un CD compatto e organico, qualità mai disprezzabili. Le influenze poi sono quelle di sempre: dai T. Rex ai Beatles (Sit Around And Miss You), passando per White Stripes e Rolling Stones (Go)… Ma insomma, è per questo che i fan del rock vecchia maniera amano i Black Keys, no?

I Black Keys ci erano mancati: certo, sia Carney che Auerbach si erano tenuti impegnati nei passati cinque anni, ma insieme sono più che la somma delle parti: per citare i Radiohead, 2+2=5. “Let’s Rock” non si distanzia molto da quello che ci aspetteremmo dai Black Keys, nondimeno come già accennato ciò non è una debolezza. Certo, gli splendidi risultati di “Brothers” (2010) e “El Camino” (2011) sono lontani, ma il disco è comunque accettabile e rappresenta una buona ripartenza per il duo più famoso del blues-rock.

Voto finale: 7,5.

Hot Chip, “A Bath Full Of Ecstasy”

hot chip

Il settimo album degli inglesi arriva quattro anni dopo “Why Make Sense?”, un’attesa insolitamente lunga per loro. Gli Hot Chip hanno quindi ponderato attentamente la loro mossa, considerati i grandi movimenti che stanno influenzando l’elettronica moderna, il loro genere prediletto.

Le 9 canzoni che compongono “A Bath Full Of Ecstasy” sono le più orientate al pop e alla pura gioia di ballare della loro produzione: ognuna di esse è perfetta per qualsiasi performance dei DJ sparsi per le spiagge estive. Anche liricamente il CD non contiene liriche memorabili, anzi spesso sono incentrate sull’amore e la gioia di vivere; insomma, temi perfetti per l’estate.

Quest’attenzione alla ballabilità e alla melodia viene anche dall’aiuto dei produttori esterni che hanno supportato la band a creare “A Bath Full Of Ecstasy”: parliamo del compianto Philippe Zdar dei Cassius e  Rodaidh McDonald (The xx). Nei suoi momenti migliori, ad esempio l’apertura Melody Of Love e il singolo Hungry Child, gli Hot Chip sono davvero al top della forma, alla pari con “In Our Heads” (2010). I momenti più monotoni risiedono nella troppo lunga Spell e nella troppo mielosa title track, ma i risultati restano comunque accettabili.

In generale, pertanto, Alexis Taylor e compagni si confermano band affidabile, incapace di sbagliare totalmente un disco. Questa svolta verso il pop zuccheroso e l’elettronica soft potrà piacere o meno, ma non si può dire che sia fuori fuoco. Tralasciando la copertina (davvero brutta) e il riferimento (voluto o meno?) alla droga nel titolo, “A Bath Full Of Ecstasy” è un piccolo trionfo.

Voto finale: 7,5.

The Raconteurs, “Help Us Stranger”

raconteurs

11 anni. Tanto tempo è passato dall’ultimo CD dei Raconteurs, “Consolers Of The Lonely”. Il gruppo era poi stato abbandonato da Jack White, preso dai suoi mille progetti: dischi solisti, i Dead Weather, la creazione della Third Man Records… Insomma, un periodo decisamente fecondo per l’istrionico musicista americano.

“Help Us Stranger” è un ritorno alle sonorità che avevano fatto la fortuna del supergruppo originario di Detroit, con alcune novità che aggiungono pepe al progetto. Ad esempio, le sonorità hard rock di Don’t Bother Me o l’acustica di Only Child non si attagliano al suono prevalentemente garage rock degli album precedenti dei Raconteurs. Allo stesso tempo, le canzoni che piacciono fin da subito sono le più classiche Bored And Razed (che nel titolo e non solo echeggia la celeberrima Dazed And Confused dei Led Zeppelin) e Now That You’re Gone. Da elogiare come sempre la chitarra selvaggia di White e il prezioso contributo dell’altro leader della band, Brendan Benson, nella sezione ritmica.

Questo CD, ricordiamolo, arriva dopo il lavoro più ardito mai firmato da Jack White, quel “Boarding House Reach” (2018) che aveva sperimentato con rap e strutture delle canzoni eccentriche, facendo storcere il naso a molti fans dell’artista statunitense. Serve quindi anche come ritorno alla forma per White, pronto a cambiare ma senza mai scontentare il suo pubblico più tradizionalista. Atteggiamento condivisibile o meno, ma è innegabile che Jack paia trovarsi meglio in territori blues e rock che sperimentando con rap e funk, ad esempio.

In conclusione, “Help Us Stranger” non è certamente il lavoro più ispirato di Jack White e soci, che tuttavia mantengono un discreto livello durante le 12 canzoni che compongono il CD, ben sequenziato e curato. Non si tratterà di un capolavoro, ma le radio rock e il pubblico fedele al rock senza fronzoli hanno trovato pane per i loro denti.

Voto finale: 7.

Denzel Curry, “ZUU”

zuu

Il seguito di un mezzo capolavoro come “TA13OO” dello scorso anno, uno dei primi album di trap music che davvero hanno conquistato non solo il pubblico ma anche la critica, grazie anche a testi davvero introspettivi e profondi, mostra un Denzel Curry che ha cambiato radicalmente direzione.

Infatti, “ZUU” è decisamente più commerciale: 12 canzoni per 30 minuti complessivi, con una tracklist infarcita di pezzi adatti ai club pieni di gente tipici della bella stagione. Insomma, di Denzel stavolta vediamo il lato più aperto, non quello tormentato dei suoi precedenti lavori. Ne sono esempi AUTOMATIC, che sembra presa da “Astroworld” di Travis Scott, e BIRDZ, che vanta la collaborazione di Rick Ross. Solo in pochi brani ritroviamo le sonorità più raccolte del “vecchio” Denzel: ad esempio in SPEEDBOAT.

La svolta potrà non piacere, soprattutto ai fan più alternativi e appassionati dell’introspezione, ma è innegabile il divertimento che alcune di queste tracce portano con sé; notevole la doppietta iniziale formata da ZUU e RICKY. Certo, AUTOMATIC è un pezzo trap fin troppo scontato, gli intermezzi sono evitabili dopo numerosi ascolti, ma il quadro generale non è così fosco.

In conclusione, “ZUU” non è un capolavoro, ma avrà probabilmente un ruolo importante nell’ampliare il pubblico di Denzel Curry. Se il giovane rapper in futuro tornerà al miracoloso equilibrio di “TA13OO” ben venga, ma siamo certi che anche un bilanciamento tra la sua anima mainstream e quella intimista potrà fare bene al prosieguo della sua carriera.

Voto finale: 7.

Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Black Star Dancing”

noel

Il nuovo breve EP a firma Noel Gallagher arriva un anno e pochi mesi dopo il terzo CD post-Oasis, quel “Who Built The Moon?” (2017) che aveva per la prima volta introdotto elementi davvero nuovi nella sua palette sonora, riscontrando non a caso un ottimo riscontro di critica oltre che di pubblico.

“Black Star Dancing” prende il nome dall’omonima traccia contenuta nell’EP, formato da tre inediti e due remix di Black Star Dancing; è forse anche un rimando all’ultimo lavoro del Duca Bianco David Bowie? Potrebbe, data la grande ammirazione di Gallagher per lui.

La title track riporta alla mente il rock anni ’90 dei Primal Scream: quell’ibrido fra psichedelia, elettronica e dance che aveva fatto gridare al miracolo in capolavori come “Screamadelica” (1991). Sono tuttavia ritmi e suoni strani per un Gallagher; la canzone non è per niente male, va detto, aprendo nuovi orizzonti per Noel. Le successive invece ricalcano maggiormente terreni già conosciuti: Rattling Rose è puro britpop, mentre Sail On sembra ispirata a Ed Sheeran e The Lumineers nella sua ingenua melodia e sarebbe stata bene nell’omonimo esordio dei Noel Gallagher’s High Flying Birds.

In generale, il più anziano dei fratelli-coltelli più famosi della musica dimostra ancora una volta che l’ispirazione non è svanita. Aspettiamo con impazienza la nuova uscita di Liam, prevista nei prossimi mesi. “Black Star Dancing” pare un gustoso antipasto per il futuro CD, niente di clamoroso ma un EP con risultati apprezzabili.

Voto finale: 6,5.