I 50 migliori album del 2021 (25-1)

Il momento è giunto: siamo arrivati all’appuntamento più atteso per i fan di A-Rock, la seconda e più pregevole parte della classifica dei 50 migliori dischi dell’anno, quella che contiene le posizioni dalla 25 alla 1!

Nella prima metà abbiamo trovato artisti importanti, come Lorde, Lana Del Rey e The Killers. Chi si sarà aggiudicato il titolo di miglior CD del 2021? Buona lettura!

25) Paul McCartney, “McCartney III”

(POP – ROCK)

È vero, parliamo di un album di fine 2020, ma non potevamo lasciare l’ultimo lavoro di Sir Paul fuori dalla nostra classifica. Sir Paul McCartney non ha bisogno di introduzione: la sua è ormai una carriera leggendaria che, giunta al ventunesimo (!!) album di inediti, non vuole proprio fermarsi. “McCartney III” è la chiusura ideale della trilogia iniziata con l’esordio solista del 1970, “McCartney”, e proseguita poi con “McCartney II” (1980). La caratteristica di tutti questi CD è di essere suonati interamente da Paul in persona, che li ha spesso utilizzati per i suoi esperimenti più arditi (ad esempio Temporary Secretary), con atmosfere decisamente meno pop di un tipico disco dei Beatles, ma sempre appetibili da una larga fetta di pubblico.

“McCartney III” non è da meno: le 11 canzoni vanno dall’esperimento folk-blues di Long Tailed Winter Bird al pop-rock della squisita Find My Way al pop beatlesiano di Pretty Boys, per poi sfociare nella stramba Deep Deep Feeling, ben otto minuti di rock à la David Bowie su morbide tastiere. Insomma, un pot-pourri mai scontato, decisamente non coeso ma intrigante nel complesso. I risultati migliori Paul li raggiunge in Find My Way e Pretty Boys, mentre delude un po’ Women And Wives.

Liricamente, McCartney cerca di calarsi nella drammatica temperie storica del 2020: il CD, uscito a dicembre dello scorso anno, rievoca la triste condizione di isolamento totale in cui è stato arrangiato, specialmente in Find My Way (“You never used to be afraid in days like these, but now you’re overwhelmed by your anxieties” è un verso potente) e Seize The Day, che nella semplicità della lirica “It’s still alright to be nice” ci ricorda che la gentilezza è una qualità sottovalutata, specialmente in tempi di pandemia.

Un cantante della caratura di Paul McCartney, che era stato in grado di restare sulla cresta dell’onda anche negli anni ’10 del XXI secolo grazie alle collaborazioni di successo con Mark Ronson (Alligator e New) e Kanye West con Rihanna (FourFiveSeconds), aveva prodotto con “Egypt Station” (2018) un album lungo e caotico, che faceva presagire un’ispirazione ormai esaurita per il cantautore inglese. Ritrovarlo in così buona forma solo due anni dopo, capace di stupirci come ai bei tempi, è un’ulteriore dimostrazione che, nella musica, l’età non conta.

24) Indigo De Souza, “Any Shape You Take”

(ROCK)

Il secondo disco della cantante è una boccata di aria fresca in una scena indie rock un po’ ferma nel 2021. “Any Shape You Take” migliora ogni aspetto dell’esordio “I Love My Mom” (2018), passato un po’ in sordina: sia a livello compositivo che lirico Indigo si conferma matura e pronta a scrivere pagine importanti del genere nei prossimi anni.

I riferimenti della Nostra sono chiari: PJ Harvey, Fiona Apple e Alanis Morissette sono le prime icone femminili del pop-rock che vengono in mente ascoltandola. Tuttavia, De Souza non si limita a prendere spunto da queste grandi autrici: innestando su questa ricetta elementi grunge e quasi sperimentali (si senta Real Pain a tal proposito), “Any Shape You Take” è un CD figlio dei nostri tempi: in bilico fra speranza e disperazione, la giovane Indigo De Souza dimostra in realtà una maturità sorprendente.

Testualmente, infatti, la cantautrice è capace di trasmettere le sensazioni provate a causa di una relazione tossica del passato attraverso le urla disperate di Real Pain così come di farti sentire protetto in Hold U, quando canta “I will hold you” e “You are a good thing, I’ve noticed” convintamente. In Way Out appare il suo lato più sognatore quando sentiamo dirle “I wanna be a light”, mentre in Kill Me si riappropria di un tema a lei caro fin dal precedente album: “Call your mother, tell her you love her… Call my mother and tell her the same”.

In alcune canzoni, come la già citata Real Pain e Bad Dream, prevale un pessimismo molto forte; in altre, come 17, i toni sono più distesi. I pezzi migliori sono Hold U e Kill Me, mentre un po’ sotto la media Way Out. In generale, va detto, l’indie rock robusto, sperimentale a tratti di “Any Shape You Take” si fa quasi sempre apprezzare e i 38 minuti di durata del disco spingono il replay value (a differenza degli ultimi prolissi lavori di Drake e Kanye West, tanto per capirsi).

In conclusione, Indigo De Souza si conferma ragazza con del potenziale e “Any Shape You Take” è un CD molto interessante. Vedremo se in futuro saprà fare meglio, per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori dell’anno nel genere indie rock.

23) Lucy Dacus, “Home Video”

(ROCK)

Il terzo album a firma Lucy Dacus è un altro passo avanti in una discografia sempre più ricca. Dopo l’esordio raccolto di “No Burden” (2016) e il magnifico “Historian” (2018), questo lavoro è una svolta in direzione quasi pop. I pezzi sono più brevi e con ritornelli più accattivanti; non per questo, tuttavia, bisogna concludere che Lucy si sia “venduta”, contando anche i temi affrontati nel corso di “Home Video”.

Fin da subito, sulla stampa e tra i fan si sono scatenati i parallelismi con “Punisher”, il CD uscito l’anno passato e che ha fatto dell’amica Phoebe Bridgers un nuovo pilastro del mondo indie, con tanto di candidatura ai Grammy. In effetti, le somiglianze fra i due album sono numerose: il sound è indie rock con occasionali episodi folk, i temi trattati sono intimi e personali… Allo stesso modo, alcuni esperimenti della Dacus fanno di “Home Video” un LP autonomo e non indebitato con alcuna delle giovani donne che stanno rivoluzionando l’indie rock (basti citare, oltre a Phoebe Bridgers, anche Julien Baker e Courtney Barnett).

Dicevamo che Lucy affronta il proprio passato nel corso del CD: la sua gioventù non è stata semplice, essendo stata cresciuta a Richmond, in Virginia, da una famiglia conservatrice e molto religiosa, lei che da bisessuale è sempre stata nel mirino dei più intransigenti. L’iniziale, bellissima Hot & Heavy contiene il seguente verso: “You used to be so sweet, now you’re a firecracker on a crowded street”; invece VBS contiene una profezia fatta da un sacerdote, “A preacher in a t-shirt told me I could be a leader”. Tuttavia, nella stessa canzone la sua figura è ambivalente: “All it did, in the end, was make the dark feel darker than before”.

Il lavoro, nella sua onestà, a volte è davvero toccante, così come le melodie: oltre la già citata Hot & Heavy, ottime anche First Time e Thumbs. Invece inferiori alla media Partner In Crime, in cui Lucy sperimenta addirittura l’uso dell’autotune, con risultati controversi, e Christine.

In conclusione, “Home Video” è un CD molto nostalgico, in cui i ricordi dell’infanzia e della gioventù sono presentati in tutta la loro crudezza da una Lucy Dacus mai così aperta. Speriamo che il disco abbia, come “Punisher”, i riconoscimenti che merita. La cantautrice americana, infatti, si conferma tra le migliori nel suo genere e rafforza il suo status di ragazza prodigio.

22) SPIRIT OF THE BEEHIVE, “ENTERTAINMENT, DEATH”

(ROCK)

Il trio originario di Philadelphia ha dato origine, con “ENTERTAINMENT, DEATH”, a uno degli album più imprevedibili degli ultimi anni. Indie rock, psichedelia, noise, pop: tutto si mescola nel corso del CD. Canzoni brevi, sui tre minuti, ma anche una suite di quasi sette minuti: di tutto e di più anche in termini di durata delle melodie. Zack Schwartz, Rivka Ravede e Corey Wichlin, al loro quarto lavoro, confermano il bene che si diceva di loro anche riguardo i precedenti lavori.

Se c’è una differenza, è nella produzione: il lavoro è più curato rispetto al passato, sintomo di una maggiore autorevolezza anche in sede di etichetta discografica. I risultati, malgrado a volte siano fin troppo confusionari, sono a tratti irresistibili: la struttura tipica delle canzoni popolari è stravolta, spesso all’interno della stessa melodia (si senta a riguardo THERE’S NOTHING YOU CAN’T DO). ENTERTAINMENT inizia come un pastiche noise sperimentale, poi sboccia in un pezzo che richiama gli anni ’60. GIVE UP YOUR LIFE sembra quasi un brano del Ty Segall più psichedelico, DEATH invece rievoca i primi Pink Floyd. C’è un brano che si intitola I SUCK THE DEVIL’S COCK… Nessun commento aggiuntivo sul significato.

In generale, possiamo dire che l’umorismo non fa difetto alla band americana. Anche molte liriche testimoniano questo atteggiamento, a metà fra lo scanzonato e il nichilista: “Dust picks up and swallows us whole” canta convintamente Schwartz in ENTERTAINMENT. Invece in I SUCK THE DEVIL’S COCK lo sentiamo proclamare: “Another middle-class dumb American, falling asleep. He don’t appreciate constructive criticism”, compreso l’errore grammaticale. Infine, in RAPID & COMPLETE RECOVERY, abbiamo il verso più sognante ed evocativo del lotto: “Spanning lifetimes compressed in a vacuum, no limitations, you know what comes after”.

In concreto, però, malgrado questi momenti leggeri, il CD suona claustrofobico e ansiogeno; sentimenti che purtroppo tutti abbiamo provato nel corso dell’ultimo anno, colpiti come siamo dalla pandemia e dalle sue conseguenze. Non per questo però dobbiamo ignorare gli SPIRIT OF THE BEEHIVE; anzi, la band di Philadelphia, con “ENTERTAINMENT, DEATH” potrebbe avere scritto uno dei più originali album pandemici. Non un traguardo da poco, in un panorama musicale sempre più omologato.

21) For Those I Love, “For Those I Love”

(ELETTRONICA)

Il progetto For Those I Love incarna in realtà l’estetica di una sola persona, l’irlandese David Balfe: la genesi dell’album di esordio di questo nuovo protagonista della scena elettronica è davvero tragica.

Nel 2018 Paul Curran, grande amico e partner musicale di Balfe, si è tolto la vita; da quel momento David ha cercato di onorare nel modo giusto la memoria di Curran e di riportare alla memoria i bei momenti vissuti insieme. “For Those I Love”, come il titolo indica, è dedicato anche ai cari ancora in questo mondo: spesso nel modo di cantare di Balfe, quasi “spoken word” data la scarsa espressività della voce, si menzionano i familiari del Nostro e il fondamentale ruolo che hanno avuto e hanno tuttora nella vita del cantautore irlandese.

Ma in cosa consiste musicalmente il lavoro? “For Those I Love” è un ottimo CD di musica elettronica: le basi vanno dalla house alla trance, passando per momenti più psichedelici. I momenti migliori sono le iniziali I Have A Love e You Stayed / To Live, ma anche la più tranquilla The Shape Of You risalta. Invece è inferiore alla media Top Scheme. In generale, si possono rintracciare influenze di Burial, Chemical Brothers e The Avalanches, con tocchi dei Primal Scream più rave, ma For Those I Love riesce a suonare originale, anche per il modo di affrontare un lutto altrimenti insopportabile.

I versi che restano impressi sono numerosi: “I felt like I had it all. I have a love, and it will never fade and neither will you, Paul. I love you bro” in I Have A Love è il più toccante di tutti. In Top Scheme viene alla luce il lato più politico e nichilista di Balfe: “It seems sometimes the love in these songs isn’t enough – because the world is fucked”. Infine, in Birthday / The Pain, abbiamo un momento filosofico, con più di un fondo di verità: “So we’ll spend the rest of our lives being brave, and hope that things will change, and age will still mark the time in the same way”.

“For Those I Love” non è un LP perfetto, come invece sostengono molte pubblicazioni inglesi (fra cui NME), ma certamente l’Irlanda si conferma terra ricca di spunti. Se prima la elogiavamo soprattutto per la scena punk e rock (U2, My Bloody Valentine e Fontaines D.C. ne sono luminosi esempi), anche nell’elettronica abbiamo trovato un nuovo esponente che pare destinato a scrivere pagine importanti in futuro.

20) Parannoul, “To See The Next Part Of The Dream”

(ROCK)

L’opera prima del misterioso progetto coreano Parannoul è un disco shoegaze in bassa fedeltà. Pochissimi sanno chi ci sia dietro al nome d’arte Parannoul: di certo sappiamo solo che è uno studente di Seul, che si descrive “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”. Inoltre, descrive le sue doti canore come “pessime”. Insomma, tutto congiura contro Parannoul: ma allora come è possibile che “To See The Next Part Of The Dream” sia un buon disco shoegaze?

Partiamo dal fatto che, per i cultori della perfezione musicale, magari amanti dei My Bloody Valentine, questo CD non rientra nei canoni dello shoegaze. I suoni sono sporchi, la fedeltà molto bassa, la voce pressoché inintelligibile… allo stesso tempo, però, le progressioni chitarristiche della lunghissima White Ceiling (dieci minuti precisi!) e dell’iniziale Beautiful World catturano l’ascoltatore meno pignolo. I riferimenti sono chiari: Ride, Slowdive, i primi M83… ma il dream pop di Extra Story e la quasi post-hardcore Youth Rebellion sono outliers davvero interessanti, che aprono nuove strade a Parannoul.

Anche le liriche, seppur cantate in coreano, se tradotte sono molto profonde, spesso disperate: “I wish no one had seen my miserable self, I wish no one had seen my numerous failures, I wish my young and stupid days to disappear forever” ne è solo l’esempio più calzante (Beautiful World). Il malessere giovanile è subito percepibile, così come la cultura emo che permea molta parte del CD.

In conclusione, “To See The Next Part Of The Dream” è un buon LP, di quelli che fanno capire quanto Internet possa essere benefico. Chi avrebbe mai sentito parlare di Parannoul e di questo album senza Bandcamp, Spotify e co.?

19) Wolf Alice, “Blue Weekend”

(ROCK)

Reduci dal grande successo di “Visions Of A Life” (2017), che li ha portati a vincere il primo Mercury Prize della loro giovane carriera, i Wolf Alice hanno cercato di cambiare leggermente una formula davvero efficace.

In passato li abbiamo sentiti sia nella loro versione più grunge, soprattutto nell’esordio “My Love Is Cool” (2015), che flirtare con lo shoegaze (nel già citato “Visions Of A Life”). L’ingrediente principale era però sempre stato un indie rock sbarazzino, con chiari riferimenti agli anni ’90, con la bella voce della frontwoman Ellie Rowsell a fare da collante.

“Blue Weekend” è un CD molto personale, anche e soprattutto nelle liriche, che spesso evocano rapporti amorosi del passato o l’importanza di esprimersi liberamente. Esemplare il seguente verso, in The Last Man On Earth: “Every book you take that you dust off from the shelf has lines between lines between lines that you read about yourself”, oppure questa frase, da No Hard Feelings: “It’s not hard to remember when it was tough to hear your name, crying in the bathtub to ‘Love Is A Losing Game’”. Ciò non va a discapito della spontaneità delle canzoni: Smile e The Beach II sono ottimi pezzi, con ritornelli che entrano nella testa dell’ascoltatore e non la lasciano più.

Sono altre però le sorprese: The Last Man On Earth è un grandioso pezzo pop, che evoca addirittura David Bowie e, fra le artiste emerse più recentemente, Weyes Blood. Abbiamo poi il folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love), in cui il batterista Joel Amey affianca la Rowsell nel canto. Invece, in Play The Greatest Hits, il bassista Theo Ellis è assoluto protagonista con una linea di basso davvero irresistibile. Tuttavia, è sempre Ellie Rowsell la protagonista: la sua voce assume diverse connotazioni, che si tratti di momenti più intimi (dolce in The Last Man On Earth) o più trascinanti (tiratissima in Play The Greatest Hits).

In conclusione, “Blue Weekend” non scrive la storia della musica: i rimandi al rock alternativo degli anni’90, dalla prima Alanis Morissette a Liz Phair, sono chiari. Tuttavia, è un piacere seguire l’evoluzione dei Wolf Alice e cercare di capire dove andranno a cadere nel loro prossimo lavoro. Il successo che li ha baciati in passato e, siamo sicuri, tornerà a far riempire loro i palazzetti di tutta Europa, è meritato.

18) Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, “A Beginner’s Mind”

(FOLK)

Sufjan Stevens è tornato a comporre musica folk: finalmente, verrebbe da dire! Affiancato dal giovane cantautore Angelo De Augustine, genera con “A Beginner’s Mind” un eccellente album folk, che lo fa tornare ai fasti di “Carrie & Lowell” (2015), anche se senza la portata di drammaticità di quel lavoro.

I due hanno infatti preso ispirazione da film del passato prossimo e remoto, da Il Silenzio Degli Innocenti a La Notte Dei Morti Viventi, creando una colonna sonora fittizia per questi film. Alle volte i riferimenti sono chiari (Back To Oz, Lady Macbeth In Chains), altre più velati (ad esempio You Give Death A Bad Name mescola zombie e Bon Jovi).

Musicalmente, siamo di fronte al ritorno al folk da parte di uno dei migliori cantautori della sua generazione, dopo gli esperimenti elettronici di “The Ascension” e “Aporia” dell’anno passato. Alcuni brani catturano subito l’ascoltatore, Back To Oz e Reach Out sono tra questi; in altri invece prevale forse la prudenza e Sufjan e Angelo non sperimentano, si senta It’s Your Own Body And Mind. In generale, tuttavia, nessuno dei 13 brani del CD suona fuori posto.

Testualmente, parlando di supposte colonne sonore per film del passato, i riferimenti ai capolavori citati sono numerosi, ma una frase spicca, contenuta in (This Is) The Thing, dedicata a La Cosa di John Carpenter: “This is the thing about people, you never really know what’s inside… Somewhere in the soul there’s a secret”.

In conclusione, il maestro Sufjan Stevens e il suo protegé Angelo De Augustine hanno prodotto, con “A Beginner’s Mind”, il miglior album folk dell’anno. Se serviva una conferma ulteriore del talento sconfinato di Stevens, ecco qua la prova.

17) Tyler, The Creator, “CALL ME IF YOU GET LOST”

(HIP HOP)

Tyler Gregory Okonma (questo il vero nome del Nostro) ha riesumato, con questo suo nuovo CD, alcuni tratti della sua prima parte di carriera. Se sia “Flower Boy” (2017) che “IGOR” (2019) avevano flirtato con il neo-soul, questo “CALL ME IF YOU GET LOST” è decisamente più hip hop. Anche i testi fanno i conti con il giovane Tyler, The Creator: in MASSA esclama “Yeah, when I turned 23 that’s when puberty finally hit me, my facial hair started growing, my clothing ain’t really fit me… See, I was shifting, that’s really why Cherry Bomb sounded so shifty”.

In effetti, “Cherry Bomb” (2015) è visto da molti come il peggior disco della sua produzione, confuso e prolisso; ma forse è stato proprio quello che gli ha fatto capire che anche il talento, se non addomesticato, non serve a nulla. Tyler, da quel momento, si è dedicato a rifarsi un’immagine pubblica più pulita e a puntare tutto sulla musica e non sulle provocazioni.

Il rapper omofobo e volgare delle origini lasciò il posto, in “Flower Boy”, a un ragazzo fragile, capace di confessare di avere avuto esperienze omosessuali in passato. Un cambiamento radicale, che fece bene anche alla sua musica, definitivamente sbocciata con “IGOR”, con tanto di Grammy vinto. “CALL ME IF YOU GET LOST” rappresenta un altro buon lavoro in una discografia sempre più interessante.

Per il nuovo lavoro, Tyler si serve anche di collaboratori di spessore: DJ Drama compare in molte canzoni, mentre Pharrell Williams e Lil Uzi Vert sono ospiti della potente JUGGERNAUT. Abbiamo poi Lil Wayne, uno dei riferimenti del giovane Tyler Okonma, in HOT WIND BLOWS e Domo Genesis, ex collega della Odd Future, in MANIFESTO. Tuttavia, questi ospiti non offuscano mai la figura principale, che nel corso del CD assume l’identità di Sir Baudelaire, come dichiara nell’omonima traccia iniziale, in omaggio al poeta dei “Fiori Del Male”.

Liricamente, come già accennato, Tyler continua a mostrare lati del suo carattere che, fino a “Wolf” (2013), ci erano del tutto sconosciuti. Ad esempio, in MANIFESTO analizza l’impatto delle sue azioni in chiave antirazzista sopra una base che pare presa in prestito da Kendrick Lamar: “Hit some protest up, retweeted positive messages, donated some funds… Am I doing enough or not doing enough?”. In MASSA confessa che sua madre, nel 2011, viveva in un rifugio. Invece, in WILSHIRE, emerge una storia d’amore con una ragazza fidanzata con un suo amico: i tormenti di Tyler sono evidenti, a un tratto pare pronto a sacrificare l’amicizia, subito dopo si pente e rinuncia all’amore… Insomma, confessioni a cuore aperto da parte sua (e inevitabili pettegolezzi sul fatto se la storia sia vera o meno).

Dicevamo che il rap la fa da padrone in “CALL ME IF YOU GET LOST”: i singoli di lancio, da LUMBERJACK a WUSYANAME, vanno fortemente in questa direzione. Tuttavia, allo stesso tempo, il Tyler più pop di “IGOR” non viene totalmente sacrificato: i due brani più ambiziosi, SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE e WILSHIRE, sono R&B di qualità. Questa varietà alle volte è confusionaria, ma i risultati generali sono ottimi.

La struttura del lavoro è davvero particolare: abbiamo una canzone che supera gli otto minuti, un’altra che quasi arriva a dieci! Ma poi allo stesso tempo contiamo numerosi intermezzi e brani che sembrano solo abbozzati… Insomma, una creatività incontenibile, non sempre efficace ma mai fine a sé stessa. Dei pochi brani che superano i tre minuti di durata, i migliori sono MASSA e SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE; buona anche LEMONHEAD. Invece sotto le attese RISE!.

In conclusione, il CD è un altro passo avanti per un artista imprescindibile se si vuole comprendere lo scenario hip hop contemporaneo. Tyler, The Creator si conferma cantautore maturo e baciato dal talento: il successo di pubblico e critica che ultimamente sta avendo è meritato.

16) shame, “Drunk Tank Pink”

(PUNK)

Il secondo disco degli shame, talentuosa band punk inglese, evita con abilità la “trappola del secondo album” che spesso colpisce gruppi che hanno scritto esordi fantastici quali “Songs Of Praise” (2018), che fra le altre cose era stato oggetto di una rubrica Rising di A-Rock ed era entrato sia nella lista dei migliori CD dell’anno che in quella dei migliori della decade 2010-2019.

Insomma, A-Rock attendeva con trepidazione “Drunk Tank Pink” e gli shame non hanno tradito. Il disco suona più feroce rispetto all’esordio, che flirtava con l’indie rock in larghi tratti. “Drunk Tank Pink” invece è un puro album punk: arrabbiato, feroce, oltre che influenzato dalla pandemia che ormai da un anno sta devastando le nostre vite. Questo sebbene il CD sia pronto da tempo: basti dire che già a febbraio 2020 il lavoro doveva essere pubblicato, ma il Covid-19 ne ha ritardato l’uscita.

E allora come mai il sentimento di isolamento traspare così chiaramente dalle liriche di “Drunk Tank Pink”? Il frontman Charlie Steen, dopo un tour estenuante seguito al successo di “Songs Of Praise”, si è auto-isolato in un ambiente a chiare tinte rosa (da qui il titolo) cercando di recuperare le forze fisiche e mentali. Lo stesso hanno fatto i suoi compagni di band, con effetti sorprendenti sul loro sound: come già accennato, il disco suona davvero feroce in alcuni tratti, si sentano per esempio 6/1 e la cacofonica Station Wagon che chiude il disco. Merito anche dello sperimentalismo alla chitarra di Sean Coyle-Smith e della produzione di James Ford, già all’opera con Arctic Monkeys e Foals.

Non per questo gli shame rinunciano totalmente all’essere amichevoli con l’ascoltatore: l’iniziale Alphabet è un ottimo singolo di lancio, così come Nigel Hitter. Tuttavia, le migliori canzoni sono quelle propriamente punk, su tutte Water In The Well. Invece sotto la media proprio Nigel Hitter.

Le liriche, come dicevamo, trasudano angoscia e malinconia malgrado siano state scritte pre-Covid: in March Day Steen urla “In my room, in my womb, is the only place I find peace”. Invece in Water In The Well emerge il lato più canzonatorio degli shame: “Which way is heaven, sir? We all got lost somehow” è un verso davvero ironico. Infine Station Wagon conclude epicamente “Drunk Tank Pink” con le seguenti, ambiziose parole: “Nobody said this was going to be easy and with you as my witness I’m going to try and achieve the unachievable”.

In generale, dunque, “Drunk Tank Pink” non è affatto una replica del fortunato “Songs Of Praise”, quanto piuttosto una prova ulteriore del talento degli shame. Il mondo punk inglese ha ufficialmente trovato un altro gruppo imprescindibile: ispirandosi un po’ ai Parquet Courts, un po’ ai Talking Heads (con spruzzate del jazz caro ai black midi), gli shame hanno scritto una pagina davvero importante del 2021.

15) SAULT, “Nine”

(SOUL – R&B)

Il quinto album in meno di tre anni del misterioso gruppo inglese SAULT è uno dei migliori CD di musica black del 2021. Uscito il 25 giugno e disponibile, sia in streaming che come download dal sito ufficiale del gruppo, per soli 99 giorni, “Nine” rende i SAULT un nome imprescindibile per gli amanti di soul, funk ed R&B.

Se l’anno scorso i britannici avevano pubblicato una densa coppia di album, intitolati “UNTITLED (Black Is) e “UNTITLED (Rise)”, con profondi significati politici, il 2021 li vede concentrati su affreschi di vita quotidiana nelle periferie di Londra. Il CD scorre bene, con durata (34 minuti) e numero di canzoni (dieci, con due intermezzi) accessibili a tutti. Fondendo abilmente il meglio della tradizione nera, con richiami a Marvin Gaye, Stevie Wonder e Kendrick Lamar, “Nine” è davvero un bel disco.

Anche liricamente i SAULT si confermano versatili e potenti: se nel brevissimo Mike’s Story l’ospite Micheal Ofo narra drammatici episodi della sua vita quotidiana da bambino, in Alcohol invece si parla degli effetti della dipendenza (“Oh alcohol, look what I’ve done… Oh alcohol, it was only supposed to be one”) e You From London ospita una Little Simz in gran forma, che spara versi come “I know killers in the streets, but I ain’t really involved. We don’t wanna cause any grief, but we get triggered when hearin’ the sound of police”.

Insomma, i SAULT restano tanto misteriosi quanto talentuosi. “Nine” rappresenta ad oggi il loro LP più compiuto, con tante tracce che restano impresse nella memoria dell’ascoltatore (soprattutto London Gangs e Bitter Streets) e nessun episodio davvero debole. In poche parole: stiamo parlando di uno dei migliori dischi dell’anno.

14) Magdalena Bay, “Mercurial World”

(POP)

Il primo disco dei Magdalena Bay, la band formata da Mica Tenenbaum e Matthew Lewin, è una ventata di aria fresca nella scena pop. Mescolando influenze variegate, da Grimes a Charli XCX passando per Carly Rae Jepsen, il duo riesce infatti a creare un CD davvero trascinante, ben sequenziato e ricco di ottimi pezzi synth pop.

Passando sopra la scelta di iniziare “Mercurial World” con The End e terminarlo con The Beginning, un po’ troppo fintamente anticonformista, i Magdalena Bay confermano il bene che si diceva di loro negli ambienti specialistici. Dalla title track a Chaeri, da You Lose! a Secrets (Your Fire), il CD è un trionfo per gli amanti tanto di Britney Spears quanto di Madonna, tanto per citare due veterane della scena. Insomma, abbiamo trovato un ottimo disco pop.

Non fosse per testi spesso deboli e una seconda metà leggermente sottotono (che contiene ad esempio la prevedibile Prophecy) rispetto alla squisita parte iniziale, staremmo parlando di un capolavoro. Tuttavia, contando che stiamo parlando di un esordio sulla lunga durata (a nome Magdalena Bay compaiono infatti anche un EP e due brevi mixtape), “Mercurial World” è davvero un successo e farà certamente comparire il nome dei Magdalena Bay in varie liste dei migliori album del 2021.

13) Turnstile, “GLOW ON”

(PUNK)

Giunti al terzo album di punk tanto duro quanto sperimentale, gli americani Turnstile hanno prodotto il migliore CD della loro carriera. Mescolando hardcore, rock alternativo, R&B (!) e dream pop (!!), la band con “GLOW ON” ha creato un’esperienza sonora davvero unica.

Sia chiaro, la sperimentazione è benvenuta, ma “GLOW ON” è un album di hardcore punk fatto e finito: pezzi come DON’T PLAY e HOLIDAY sono durissimi, tanto per capirsi. Invece abbiamo ad esempio UNDERWATER BOI e ALIEN LOVE CALL, che suonano quasi rilassanti. A chiudere il cerchio, il grande artista R&B Blood Orange (nome d’arte di Dev Hynes) collabora proprio in ALIEN LOVE CALL e LONELY DEZIRES, confondendo ancora di più le acque. Insomma, un cocktail sonoro incredibile e sorprendente, che ammalia sia i fan duri e puri sia, potenzialmente, il pubblico più mainstream.

Liricamente, il lavoro passa da liriche più riflessive (“Too bright to live! Too bright to die!” in HOLIDAY e “Still can’t fill the hole you left behind!” in FLY AGAIN) ad altri più trascinanti e pronti per i live incendiari della band, come “You really gotta see it live to get it” (NO SURPRISE) e “If it makes you feel alive! Well, then I’m happy to provide!” (BLACKOUT). La frase più rappresentativa dell’estetica dei Turnstile è però contenuta in HOLIDAY: “I can sail with no direction”.

I migliori brani sono BLACKOUT e MYSTERY, mentre un po’ sotto la media i brevi intermezzi HUMANOID / SHAKE IT UP e NO SURPRISE. In generale, tuttavia, siamo di fronte a un CD davvero innovativo per il genere hardcore e che potrebbe aprire la strada a molti gruppi nei prossimi anni, vogliosi di rischiare lo “sbarco” nel mondo più commerciale senza però tradire il genere.

12) Iceage, “Seek Shelter”

(ROCK – PUNK)

Il quinto album della band danese è un ottimo esempio di transizione da band punk verso sonorità più ricercate e romantiche. Non un completo cambio di pelle, dato che la ferocia dei primi Iceage è ancora presente in alcuni pezzi di “Seek Shelter”, ma immaginarsi che il gruppo autore del durissimo “You’re Nothing” (2013) avrebbe scritto il pezzo anni ’60 Drink Rain sarebbe stato impensabile solo cinque anni fa.

Merito dunque degli Iceage essere stati in grado di mutare così radicalmente nel giro di poco tempo, una parabola molto simile a quella di Nick Cave negli anni ’90 o degli Horrors più recentemente. Non sempre queste svolte riescono pienamente, ma quando il talento c’è in grandi quantità come nei casi citati il pubblico e la critica non possono non elogiare l’ambizione e la voglia di sperimentare di artisti davvero unici nel loro genere. Gli Iceage, dopo aver scritto pagine molto importanti del punk nella decade passata, si candidano fortemente ad essere una band simbolo del rock alternativo anni ’20.

I singoli che avevano anticipato l’uscita di “Seek Shelter” erano stati accolti con lodi ma anche qualche giudizio critico sul nuovo sound del gruppo, più docile rispetto al passato; anche se già “Beyondless” (2018) aveva lasciato intravedere una svolta, “Seek Shelter” contiene brani quasi britpop (Shelter Song), pop (la già citata Drink Rain) e à la Rolling Stones (High & Hurt). Tuttavia, la ricetta sonora del CD ha successo: gli Iceage sembrano quasi rievocare il rock alternativo degli anni ’90 senza però scopiazzarlo e mantenendo quel livello di “sporcizia” e durezza che rendono tali i Nostri (la conclusiva The Holding Hand ne è una prova).

Anche liricamente notiamo un deciso cambiamento: mentre in passato il nichilismo la faceva da padrone, con il frontman Elias Bender Rønnenfelt scatenato sul palco quanto disperato nel cantare, adesso fanno capolino temi amorosi (“I drink rain to get closer to you!” canta Elias in Drink Rain) e la vita della mafia (Vendetta). Altrove invece troviamo riferimenti al pessimismo cosmico che pervadeva i primi LP del gruppo: “And we row, on we go, through these murky water bodies” in The Holding Hand e “Come lay here right beside me. They kick you when you’re up, they knock you when you’re down” in Shelter Song ne sono chiari esempi.

In conclusione, “Seek Shelter” potrebbe essere il CD che fa conoscere gli Iceage ad un pubblico più ampio e li rende davvero simboli di un rock rinnovato nelle sue fondamenta, abile a mescolare cori gospel con ritmiche punk, testi simbolici e drammatici con canzoni potenti. Siamo davanti ad uno dei migliori LP rock dell’anno: complimenti, Iceage.

11) Floating Points, Pharoah Sanders & London Symphony Orchestra, “Promises”

(ELETTRONICA – JAZZ)

La collaborazione fra un grande veterano del jazz, un talentuoso compositore di musica elettronica e una tra le orchestre più stimate a livello mondiale non poteva che dare risultati interessanti. “Promises” è un lavoro molto ambizioso, che riesce nel complesso a mescolare abilmente i tre mondi messi a confronto e lascia brillare tutti e tre gli interpreti in eguale maniera.

Il CD si compone di nove movimenti composti da Sam Shepherd, in arte Floating Points, poi arrangiati assieme a Pharoah Sanders, leggenda vivente del jazz, e alla London Symphony Orchestra. Se all’inizio è difficile riuscire a capire cosa aspettarsi, col tempo e attraverso ripetuti ascolti “Promises” si rivela un LP molto ricco, ma non sovraccarico, in cui gli attori sono tutti protagonisti allo stesso livello.

Il primo movimento è decisamente rilassante, un pezzo ambient in cui il potente sax di Sanders si sente solo nella parte finale; invece poi nel successivo la situazione si ribalta e Shepherd lascia il palcoscenico all’orchestra e a Pharoah. Il lavoro è un continuo, sapiente alternarsi fra momenti più vivi (Movement 4) e altri più quieti (Movement 8), che creano un prodotto davvero imperdibile per gli amanti del jazz e della musica d’ambiente. I migliori momenti sono rintracciabili in Movement 1 e Movement 6, mentre è sotto la media Movement 9.

In conclusione, la collaborazione fra tre pesi massimi della scena musicale, rappresentanti di generi apparentemente distanti come musica classica, jazz ed elettronica, ha generato un lavoro davvero ben strutturato, i cui 46 minuti rappresentano un toccasana in tempi così difficili. Non per tutti, ma “Promises” almeno un ascolto lo merita.

10) Nick Cave & Warren Ellis, “CARNAGE”

(ROCK)

Il nuovo disco della leggenda australiana del rock alternativo e del fidato Bad Seed Warren Ellis è un’altra aggiunta di spessore ad una discografia davvero magnifica. Si tratta peraltro della prima collaborazione fra i due non devota alla creazione di una colonna sonora per un film. Riprendendo alcuni dei territori musicali esplorati nei lavori recenti con i Bad Seeds e tornando ad alcune sonorità più rock del passato, Nick Cave ha scritto un CD perfetto per la pandemia che stiamo vivendo: a tratti angosciante, ma con un messaggio di speranza che dà conforto.

“CARNAGE”, letteralmente “massacro”, è un titolo intimidatorio, soprattutto in pieno Covid-19: tuttavia, il tema del virus è solo marginale rispetto alle riflessioni proposte da Cave ed Ellis. Emergono soprattutto i temi della fede e dell’amore, da sempre al centro della poetica di Nick Cave; ma se fino a “Push The Sky Away” (2013) c’era sempre una visione quasi demoniaca, da artista maledetto, la morte tragica del figlio Arthur nel 2015 ha radicalmente cambiato le carte in tavola per Nick Cave & The Bad Seeds, che da quel momento hanno privilegiato ritmi più compassati e sonorità quasi ambient, basti risentirsi “Ghosteen” (2019).

Testualmente, dicevamo che il disco tratta temi svariati: il “kingdom in the sky” ritorna più volte nel corso dell’opera, dapprima nell’iniziale Hand Of God e poi in White Elephant e Lavender Fields. Il messaggio più bello che viene trasmesso dal Nostro, contenuto in quest’ultima composizione, è però dedicato ai nostri cari che ci hanno lasciato: “Where did they go? Where did they hide? We don’t ask who, we don’t ask why there is a kingdom in the sky”. Infine, Shattered Ground affronta il tema del rapport tormentato fra il narratore e la sua partner, con una frase che molti di noi avranno pensato almeno una volta nella vita: “Oh, baby, don’t leave me”, che assume un significato ancora più evocativo in questi tempi difficili.

Il CD è molto compatto: otto brani per 40 minuti. Il contenuto musicale è però davvero notevole: passando dall’art pop di Albuquerque alle sonorità più dure di White Elephant, con in mezzo l’ottima Old Time e una seconda parte più raccolta, “CARNAGE” è uno dei migliori dischi di inediti pubblicati nel 2021. Nick Cave ha confermato ancora una volta un talento più unico che raro e, aiutato dal fido Warren Ellis, ha pubblicato un lavoro imprescindibile per gli amanti del cantautore australiano.

9) Squid, “Bright Green Field”

(PUNK – ROCK – SPERIMENTALE)

Le prime parole cantate da Ollie Judge in G.S.K., primo vero brano del CD d’esordio dei britannici Squid (se sorvoliamo l’intro ambient di Resolution Square), sono: “As the sun sets, on the Glaxo Klein, well it’s the only way that I can tell the time”. Beh, la dichiarazione d’intenti è chiara: gli Squid sono decisamente anticapitalisti e non esitano a farlo sapere immaginando un’isola distopica, su cui il settore industriale dei Big Pharma governa indisturbato. Se a ciò aggiungiamo che il frontman è il batterista del gruppo (piuttosto insolito eh?) e che, oltre al classico trio chitarra-basso-batteria, negli Squid trovano spazio sax, violini, trombe e chi più ne ha più ne metta, capirete che siamo di fronte a un lavoro piuttosto variegato e sfidante.

Le 11 canzoni che formano “Bright Green Field” sono pervase da questo senso di inquietudine, accentuato dal modo di cantare di Judge: nevrotico, paranoide, molto simile al David Byrne dei primi Talking Heads. Il riferimento alla band statunitense non è casuale: nei brani migliori del lavoro, da Narrator a Paddling, i Talking Heads sono un chiaro riferimento per gli Squid. Non dobbiamo però pensare che i giovani britannici siano solamente un ennesimo succedaneo della scena new wave e post-punk degli anni ’80.

Infatti, accanto a David Byrne & co., troviamo il post-rock degli Slint (2010), il rock danzereccio dei Franz Ferdinand (Paddling) e una parentesi drone francamente non molto riuscita, ma comunque indice di una voglia di sperimentare sconfinata (Boy Racers). Accanto a questo interessante cocktail sonoro troviamo, come già accennato, liriche spesso davvero pessimiste (un esempio è “You’re always small and there are things that you’ll never know”, in Boy Racers), quando non vere e proprie urla selvagge (Narrator, merito dell’ospite Martha Skye Murphy).

Il 2021 si è caratterizzato come l’anno in cui il rock è tornato sulle bocche di tutti, non tanto per le imprese dei vecchi leoni, ma piuttosto per l’emergere sulla scena underground, specialmente inglese, di band davvero intriganti, ambiziose e mai dome (citiamo, oltre agli Squid, i black midi e i Black Country, New Road). “Bright Green Field” non è un LP perfetto, ma sembra un ottimo antipasto di una carriera già ottimamente lanciata dall’EP del 2019 “Town Centre”. Gli Squid, dal canto loro, si candidano a grande rivelazione della scena punk-rock del 2021.

8) The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

(ROCK)

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

7) Godspeed You! Black Emperor, “G_d’s Pee AT STATE’S END!”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il nuovo CD del leggendario gruppo post-rock canadese è un highlight in una carriera già costellata di perle, sia molto in là nel tempo (“Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” del 2000) che più recenti (“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” del 2012). Il disco è infatti fra i più euforizzanti in un periodo di sospensione come quello che stiamo vivendo, in cui alla paura del virus si contrappone la speranza per le campagne vaccinali in corso. Che la luce sia finalmente in fondo al tunnel? I Godspeed You! Black Emperor, a tratti, ne paiono convinti.

In effetti, l’inizio del lavoro ci fa tornare alle lugubri atmosfere di “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”: A Military Alphabet, la prima delle quattro suite in cui è diviso “G_d’s Pee AT STATE’S END!”, è il pezzo più ossessivo e pessimista del lavoro. Al contrario, il tono della seguente Fire At Static Valley è più positivo e fa del post-rock quasi gradevole e accessibile, non una tipica caratteristica dei Godspeed You! Black Emperor.

Le due lunghe tracce che chiudono il lavoro, “GOVERNMENT CAME”OUR SIDE HAS TO WIN (for D.H.), mantengono questa dualità; tuttavia, a differenza dei lavori della prima fase della carriera del complesso di Montreal, il tono complessivo è di cauto ottimismo. È per questo che “G_d’s Pee AT STATE’S END!” è un ottimo LP per la vita durante la fase conclusiva (almeno speriamo) dell’emergenza Covid-19: se è vero che non siamo di fronte ad un disco puramente pop, d’altro canto la forza di queste quattro composizioni è innegabile e rende il 2021 davvero interessante per gli amanti del rock alternativo e sperimentale.

Un’ultima curiosità: il quattro pervade tutto il CD. Siamo infatti di fronte al quarto album della fase post reunion della band, le canzoni (pur elaborate) sono teoricamente quattro e probabilmente, come qualità, questo è il quarto più bel disco nell’intera produzione dei canadesi. Quest’ultimo dato è sufficiente per capire il talento di questi pilastri dello scenario rock.

6) Dave, “We’re All Alone In This Together”

(HIP HOP)

Avevamo lasciato Dave, il talentuoso rapper britannico di origine nigeriana, al successo dell’esordio “Psychodrama” (2019), che gli aveva fatto vincere il Mercury Prize e lo aveva reso una delle voci preminenti della nuova generazione inglese. Beh, tutta questa credibilità viene mantenuta, se non rinforzata, da “We’re All Alone In This Together”: un CD lungo, difficile, ma di infinita profondità e con testi sempre toccanti ed efficaci. Potremmo davvero essere di fronte al miglior rapper d’Oltremanica al momento, almeno parlando al maschile (si veda la posizione numero 1 della lista).

Le 12 canzoni di “We’re All Alone In This Together” sono variegate, possono contare su ospiti di spessore internazionale come James Blake e Stormzy… e allo stesso tempo creano un album di altissimo replay value. Passiamo dalla durezza di Verdansk ai ritmi quasi tropicali di System (con Wizkid) alla trap accennata di Clash (che vanta Stormzy), con le perle delle monumentali cavalcate Both Sides Of A Smile e Heart Attack, la prima di circa otto minuti e la seconda lunga quasi dieci!

Anticipavamo che il CD non è di immediata assimilazione, anche per i temi trattati da Dave: nei testi possiamo infatti ritrovare riferimenti alla vita degli immigrati di origine jugoslava costretti a emigrare nel Regno Unito durante la guerra degli anni ’90, così come la denuncia della maggiore ingiustizia mai patita da immigrati in terra inglese (rimpatriare nei Caraibi delle persone che avevano diritto di stare Oltremanica, privandoli dei loro averi e delle loro case). A chiudere il quadro, nell’introduttiva We’re All Alone il rapper parla di istinti suicidi sia per sé stesso che per il ragazzo con cui dialoga nel corso del brano, mentre nel pezzo finale Survivor’s Guilt si mette a piangere a causa di un attacco d’ansia… Del resto, da colui che aveva immaginato il suo esordio come la confessione di uno psicopatico non potevamo aspettarci di meno.

In conclusione, la ricchezza di significati e di sonorità fanno di “We’re All Alone In This Together” un album imprescindibile per gli amanti dell’hip hop. Dave si candida come re dello scenario rap britannico e, chissà, a sfondare anche in altre parti del mondo. La cosa più incredibile è che non si può essere sicuri che abbia raggiunto il picco delle proprie qualità: che si sia di fronte al nuovo Kendrick Lamar? La risposta al prossimo CD. Per ora godiamoci questo LP, uno dei migliori prodotti hip hop dell’anno.

5) Silk Sonic, “An Evening With Silk Sonic”

(R&B – SOUL)

Ci sono collaborazioni che sembrano fatte apposta per nascere e prosperare: il progetto Silk Sonic, formato da Bruno Mars e Anderson .Paak, ne è un caso emblematico. “An Evening With Silk Sonic” è una gemma, capace di evocare le atmosfere del soul anni ’70 di Marvin Gaye e Stevie Wonder con delicatezza ma senza suonare come un plagio, anzi con hit indelebili che ne fanno un CD imperdibile in questo strano 2021.

Non sempre le partnership fra pesi massimi escono come erano state pensate: se in certi casi era impossibile che fallissero (David Bowie e i Queen, con Under Pressure), in altri hanno prodotto risultati contraddittori (Future e Drake in “What A Time To Be Alive” del 2015) oppure addirittura disastrosi (Lou Reed e i Metallica con “Lulu”, 2011). Beh, Silk Sonic è un caso a sé stante: non per forza Mars e .Paak parevano destinati al successo, ma “An Evening With Silk Sonic” è un piccolo capolavoro, che rende i Silk Sonic maggiori della somma dei singoli interpreti.

Già i singoli di lancio avevano fatto pensare a un lavoro eccellente: Leave The Door Open è un’ottima ballata, Skate è un perfetto brano funk mentre Smoking Out The Window, pur leggermente inferiore agli altri due, è comunque un buonissimo pezzo. Se a questi aggiungiamo After Last Night, con la preziosa collaborazione di Thundercat e del veterano Bootsy Collins, già bassista dei Parliament-Funkadelic, abbiamo metà CD di perle. Il resto del lavoro contiene brani che, seppur discreti, non arrivano a questi livelli, ma il risultato complessivo è in ogni caso ottimo, contando anche la totale mancanza di tracce riempitivo (basti dire che “An Evening With Silk Sonic” dura a malapena 32 minuti), tanto che ci viene da desiderare che ci siano 2-3 canzoni in più per arrivare ai canonici 40 minuti, fatto sempre più raro nel panorama musicale odierno.

In conclusione, il progetto Silk Sonic, pur non brillando a volte di originalità (si senta Put On A Smile), raggiunge risultati davvero squisiti. Anderson .Paak è ormai pronto per il salto definitivo nel mainstream, mentre Bruno Mars, dal canto suo, si conferma infallibile produttore di hit. “An Evening With Silk Sonic”, ad oggi, è il miglior CD soul del decennio oltre che uno dei più belli del 2021.

4) Black Country, New Road, “For The First Time”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il giovane gruppo britannico, composto da ben sette elementi, quattro ragazzi e tre ragazze (tra cui sassofono e violino), ha pubblicato uno degli esordi più sorprendenti degli ultimi anni. Mescolando abilmente post-punk, jazz e post-rock, i Black Country, New Road si inseriscono nel solco dei black midi e di altre giovani band inglesi che stanno rivoluzionando la scena, denunciando allo stesso tempo i mali della società moderna.

“For The First Time” può sembrare un modo umile di introdurre la band al grande pubblico: il CD è infatti composto da sei canzoni, di cui due singoli, quindi gli inediti veri e propri sono solo quattro. Tuttavia, guardando il range coperto nel corso dei 40 minuti dell’album, si capisce che il vocalist Isaac Wood (dotato di un timbro molto simile a King Krule) e soci hanno operato una scelta corretta. I risultati, come già accennato, sono davvero incredibili a tratti.

Sorretti da una base ritmica clamorosa e con testi sempre calati nel presente, spesso amaro, che i membri del gruppo ben conoscono, i Black Country, New Road stupiscono fin da subito con Instrumental, che, come indica la parola, non ha testo ma serve da perfetta introduzione per le seguenti canzoni. Athens, France è uno dei brani più amichevoli del CD, non a caso scelto come singolo, mai prevedibile ma allo stesso tempo accessibile. Invece Science Fair è l’episodio più brutale, che ricorda gli Slint. Sunglasses è una traccia davvero epica, à la Nick Cave con tocchi di Godspeed You! Black Emperor che fa intravedere un possibile futuro per il gruppo. La delicata Track X (unica un po’ fuori contesto) e Opus chiudono un lavoro che richiede molteplici ascolti per esser apprezzato appieno.

In conclusione, “For The First Time” si candida ad esordio dell’anno in campo rock: sperimentale, feroce ma anche in alcuni tratti accessibile, è un disco che farà parlare di sé per lungo tempo. I Black Country, New Road hanno imposto degli standard molto alti per il loro futuro: vedremo se sapranno mantenerli. Inutile dire che, ad A-Rock, non vediamo l’ora di analizzare dove andranno a parare.

3) black midi, “Cavalcade”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il secondo album dei black midi, la giovane band inglese che è entrata nel cuore di molti grazie al fulminante esordio “Schlagenheim” del 2019 (inserito anche da A-Rock nella top 10 dell’anno e in una rubrica Rising), fa centro sotto molti punti di vista. I black midi non si sono ammorbiditi, anzi: le parti di rock duro fanno venire i brividi, come però anche le canzoni più raccolte, quasi pop, che sono davvero una novità nell’estetica solitamente feroce del gruppo britannico.

Avevamo lasciato i Nostri alle prese con un rock alieno, miscuglio di jazz, metal, noise e punk: risentirsi bmbmbm oppure 953. “Cavalcade”, come già il titolo fa intuire, è una cavalcata fra canzoni tanto varie quanto riuscite: si va dall’avant-prog della clamorosa John L alla lenta Marlene Dietrich, dalla pulsante Slow alla magnifica chiusura di Ascending Forth. In mezzo abbiamo anche canzoni sotto la media (Hogwash And Balderdash), ma nel complesso i black midi si confermano voce imprescindibile nel mondo rock alternativo e sperimentale, non facili da assimilare ma irresistibili.

La voce di Geordie Greep pare più sicura e forte rispetto all’esordio, così come quella di Cameron Picton, che fa il frontman in due delle otto canzoni che compongono “Cavalcade”. Abbiamo poi come in “Schlagenheim” il batterista Morgan Simpson davvero sugli scudi, quasi free jazz nel corso di molti punti del CD. A completare il quadro non c’è la chitarra di Matt Kwasniewski-Kelvin, che si è preso del tempo per sé stesso a causa di problemi personali.

Gli otto pezzi presentano dei bozzetti di personaggi realmente esistiti (Marlene Dietrich) o inventati (John L), ma a dominare è il senso di incertezza e quasi di paura che proviene da certi passaggi testuali. John L racconta di un predicatore nazionalista e visionario tradito dai suoi fedeli, Slow nella sua invocazione è totalmente antitetico alla sua base oppressiva… Accanto a tutto questo abbiamo però, come già detto, delle perle acustiche fuori da ogni logica, ma non per questo mal riuscite: sia Marlene Dietrich che Diamond Stuff sono infatti ottime “pause” e faranno la fortuna dei live del gruppo.

In generale, pur non essendo musica popolare, i black midi hanno senza dubbio creato un LP unico nel suo genere, alla pari di “Schlagenheim” per creatività. Se l’effetto sorpresa è svanito, di certo possiamo dire, con meraviglia ma non troppo, che il terreno coperto in termini di sonorità è ancora più variegato che nell’esordio. “Cavalcade” si afferma come il miglior album rock del 2021, capace di ferire e rassicurare, sconcertare e ammaliare.

2) Billie Eilish, “Happier Than Ever”

(POP)

Era il CD più atteso dell’estate e ha pienamente mantenuto le aspettative. “Happier Than Ever”, il secondo album della popstar più brillante del momento, fa di Billie Eilish non solo un nome imprescindibile per capire il pop contemporaneo, ma anche la più seria candidata alla palma di album dell’anno in ottica Grammy, premio che lei ha già conquistato con il fulminante esordio “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” del 2019.

È difficile inquadrare il fenomeno Billie Eilish senza partire dalle sue origini: amante delle canzoni di Justin Bieber e delle altre popstar, la giovanissima Billie (intorno ai 13-14 anni) incomincia a postare le sue canzoni su Youtube e su Spotify. Il successo è immediato e il passaparola la porta a essere considerata una stella ancora prima di incidere un disco vero e proprio. L’EP “dont smile at me” (2017) è solo un antipasto prima dell’abbuffata di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, che la catapulta in una dimensione dove solo poche persone possono stare: adorata dai giovanissimi ma anche dai genitori più “progressisti”, amata dalla critica per le sonorità eterogenee rispetto al pop stereotipato che domina le classifiche, ma anche per i testi candidi sulle sue paure. Billie, infatti, non ha timore di parlare di istinti suicidi, visioni di amici seppelliti e mostri sotto il letto.

Il CD in realtà non è perfetto: ancora si respira una certa ingenuità in Billie e nel fratello Finneas, che produce tutti i suoi brani ed è spesso co-autore. Pezzi come Bad Guy e When The Party’s Over, tuttavia, sono irresistibili: specialmente il primo, ormai, è storia della musica. La ragazza con i capelli verdi, però, ha lasciato il passo ad un’altra incarnazione: capelli biondo platino, corpo non più nascosto sotto pesanti maglioni neri, in volto una malinconia evidente malgrado il titolo del lavoro, evidentemente ironico.

In effetti, c’è poco da stare allegri: il mondo è devastato da due anni da una pandemia terribile, Billie è osservata costantemente da paparazzi in cerca di scoop o stalker che la inseguono ovunque vada, non può avere una relazione amorosa normale a causa della sua fama… Tutto questo affiora, in modo più o meno evidente, in “Happier Than Ever”.

Fin dall’introduttiva Getting Older, infatti, i temi portanti del CD sono messi in evidenza: il titolo annuncia una Billie Eilish più matura, che non rinuncia all’ironia, “Things I once enjoyed just keep me employed now” canta convintamente. In Your Power emergono invece i rapporti di abuso stabiliti da alcuni uomini a danno delle ragazze più giovani e spesso indifese: “She was sleeping in your clothes, but now she’s got to get to class… Does it keep you in control, for you to keep her in a cage?”. Altrove emerge l’ansia per il futuro tipica dei giovani (“Know I’m supposed to be with someone, but aren’t I someone?”, my future) e la paura che le vengano attribuite dicerie non veritiere (“Stop, what the hell are you talking about? Get my pretty name out of your mouth”, Therefore I Am). Il tema che spesso emerge è però quello dell’amore tradito, finito male: nella title track il suo ex la chiama ubriaco da una Mercedes, Male Fantasy vede Billie perplessa mentre guarda un video pornografico.

Musicalmente, il CD è un trionfo: Eilish esplora folk (Your Power, Male Fantasy), pop elettronico à la Grimes (Oxytocin), R&B (OverHeated), trip hop (NDA), ritmi latini (Billie Bossa Nova) e addirittura il rock in stile Mitski nella title track. In mezzo abbiamo altri esperimenti davvero sorprendenti: my future parte come un semplice brano pop ma poi evolve in un brano quasi funk, con retrogusto jazz. Discorso a parte per Oxytocin e I Didn’t Change My Number: sono i due pezzi che più si avvicinano al pop gotico e a tinte horror di “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?”, con il primo destinato a diventare un successo anche live della Nostra. Gli unici brani inferiori alla media stratosferica del CD sono Halley’s Comet, prevedibile, e Not My Responsibility, un brano spoken word dal forte significato ma debole melodicamente.

Chi credesse ancora che Billie Eilish è solamente un fenomeno mediatico, destinato a sgonfiarsi presto, dovrà ricredersi: “Happier Than Ever” è un lavoro completamente diverso dall’esordio, che pure aveva conquistato molti. Non sarebbe stato un peccato mortale tornare a quelle atmosfere; invece la cantautrice americana si è superata, optando per un lavoro composito, dove le 16 canzoni, tuttavia, non appaiono mai in sovrannumero. In poche parole, siamo di fronte ad una ragazza dal talento splendente.

1) Little Simz, “Sometimes I Might Be Introvert”

(HIP HOP)

Avevamo già capito dai singoli di essere di fronte ad un CD speciale. Introvert, Woman e I Love You, I Hate You sono colossali pezzi rap, ma non solo: Little Simz è capace, infatti, di flirtare con funk e soul in ugual maniera, creando un amalgama quasi perfetto. “Sometimes I Might Be Introvert”, in poche parole, è l’album migliore del 2021.

Little Simz, per i fan di lunga data di A-Rock, è un nome noto: inserita in un appuntamento della rubrica Rising e premiata con la palma di terzo miglior album del 2019 per “GREY Area”, il suo profilo era sempre stato sui taccuini anche della critica mainstream, ma non aveva mai sfondato completamente col pubblico, soprattutto quello al di fuori del Regno Unito. Ebbene, con questo CD è probabile che la notorietà della Nostra cresca; ed è un premio davvero meritato. Abbiamo trovato il contraltare a Kendrick Lamar, aspettando ovviamente il nuovo album di K-Dot, dato come ormai imminente.

Notiamo subito una cosa: le iniziali di “Sometimes I Might Be Introvert” danno SIMBI, che è il nomignolo con cui Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo è conosciuta fra gli amici più stretti. Non è un fatto casuale: molte volte nel corso del lavoro emerge questa duplicità, addirittura in Rollin Stone la sentiamo dire: “Can’t believe it’s Simbi here that’s had you listenin’… Well, fuck that bitch for now, you didn’t know she had a twin”, quasi come se stessimo assistendo ad uno sdoppiamento della sua personalità. Tuttavia, il tema del rapporto fra la Simbi privata e la Little Simz pubblica non è l’unico affrontato nel corso del CD.

Altrove abbiamo infatti la voglia di celebrità che colpisce molti di noi, specie in tempi di social network imperanti (“Why the desperate need for an applause?” domanda in Standing Ovation), l’assenza del padre (“Is you a sperm donor or a dad to me?” è forse il verso più bello della stupenda I Love You, I Hate You) così come la morte violenta del cugino, in Little Q Pt. 2. I versi più belli e potenti sono però contenuti in Introvert: “All we see is broken homes here and poverty, corrupt government officials, lies and atrocities. How they talking on what threatening the economy, knocking down communities to re-up on properties. I’m directly affected: it does more than just bother me”.

Non per questo, però, bisogna pensare che il CD sia troppo carico di tematiche e influenze; anzi, “Sometimes I Might Be An Introvert” spicca anche per l’incredibile abilità di Little Simz nel maneggiare generi diversi con uguale maestria. Se proprio vogliamo trovare un difetto nel disco, sono i numerosi intermezzi narrati dalla voce dell’attrice Emma Corrin, interprete di Diana Spencer nella serie tv The Crown e amica di Little Simz. Ma sarebbe un errore concentrarsi su di essi davanti a una tale quantità di canzoni magistrali.

Possiamo rintracciare i maestri di Simbi in Lauryn Hill, D’Angelo e lo stesso Kendrick Lamar, ma lei riesce a suonare puramente Little Simz. Se “GREY Area” era un LP scarno, con beat minimali su cui la Nostra rappava senza sosta, adesso c’è una intera orchestra che la supporta in alcuni brani, tra cui i due più belli del lavoro, Introvert e Woman. Altri pezzi imperdibili sono I Love You, I Hate You e la funkeggiante Protect My Energy.

In conclusione, “Sometimes I Might Be An Introvert” è il primo album rap davvero imperdibile del decennio 2020-2029. Chissà se qualcuno riuscirà in futuro a scrivere pagine altrettanto importanti in questo genere; per il momento godiamoci questo lavoro, il compimento di otto anni di carriera da parte di Little Simz, nuovo volto simbolo della scena hip hop britannica.

Il podio è quindi formato da due ragazze e un giovane gruppo britannico, che rappresentano tre dei generi più importanti al momento: rock, pop e rap. In quanto a diversità e varietà di generi, mai A-Rock aveva avuto un terzetto di così ampie vedute: un altro segno che la buona musica, quando colpisce l’ascoltatore, non conosce confini o pregiudizi di sorta.

Che ve ne pare di questa lista? Vi convince o avreste preferito vedere altri nomi? Non esitate a commentare!

I 20 migliori album del 2011

Ad A-Rock ci teniamo a garantire una copertura quanto più ampia possibile della musica recente così come di quella che comincia ad avere qualche anno. Perché non sfruttare il decennio passato dall’ormai lontano 2011 per fare una valutazione della musica prodotta in quell’anno davvero interessante per la musica?

Il 2011, ad esempio, è stato l’anno in cui artisti del calibro di Bon Iver, Drake, gli M83 e James Blake hanno pubblicato album di rilievo, addirittura i migliori della carriera in certi casi. Recensire i 20 migliori CD pubblicati quell’anno, a dieci anni di distanza, è pertanto una sorta di atto dovuto. Chi avrà vinto il titolo di miglior disco del 2011? Buona lettura!

20) Andy Stott, “Passed Me By” / “We Stay Together” (ELETTRONICA)

19) The Roots, “Undun” (HIP HOP)

18) Death Grips, “Exmilitary” (HIP HOP – SPERIMENTALE)

17) The Black Keys, “El Camino” (ROCK)

16) The Antlers, “Burst Apart” (ROCK)

15) The Weeknd, “Trilogy” (R&B – ELETTRONICA)

14) The War On Drugs, “Slave Ambient” (ROCK)

13) Wilco, “The Whole Love” (ROCK)

12) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (ROCK – FOLK)

11) The Horrors, “Skying” (ROCK)

10) James Blake, “James Blake” (ELETTRONICA)

9) St. Vincent, “Strange Mercy” (ROCK)

8) Nicolas Jaar, “Space Is Only Noise” (ELETTRONICA)

7) The Field, “Looping State Of Mind” (ELETTRONICA)

6) Atlas Sound, “Parallax” (ROCK)

5) M83 “Hurry Up, We’re Dreaming” (ELETTRONICA – ROCK – POP)

4) Real Estate, “Days” (ROCK)

3) Girls, “Father, Son, Holy Ghost” (ROCK)

2) Destroyer, “Kaputt” (ROCK)

1) Bon Iver, “Bon Iver, Bon Iver” (FOLK – ELETTRONICA)

Siete d’accordo con questa lista? Non esitate a farci sapere il vostro punto di vista!

Recap: ottobre 2021

Ottobre si è concluso. Dopo la scorpacciata di album di agosto e settembre, questo mese recensiamo i nuovi lavori di James Blake e del progetto Illuminati Hotties. Abbiamo ovviamente dato spazio al nuovo CD dei Coldplay, al secondo disco dell’anno di Lana Del Rey e al ritorno dei Parquet Courts e dei The War On Drugs. Inoltre, analizzeremo il nuovo LP di JPEGMAFIA e Grouper. Buona lettura!

The War On Drugs, “I Don’t Live Here Anymore”

I don't live here anymore

Il nuovo disco dei The War On Drugs ne conferma lo status di miglior band di heartland rock al mondo. Canzoni raccolte si sposano perfettamente con inni da stadio degni del miglior Bruce Springsteen. “I Don’t Live Here Anymore” è un’altra aggiunta ad un canone ormai imprescindibile per gli amanti del rock vecchio stampo, mai nostalgico però.

I più scettici potranno obiettare che il CD non si differenzia molto dal precedente “A Deeper Understanding” (2017), che aveva permesso al gruppo di aggiudicarsi il Grammy per Miglior Album Rock dell’Anno. Questo è davvero un difetto quando il predecessore era un album pressoché perfetto, premiato da pubblico e critica in maniera cospicua? Ad ognuno la sua opinione, fatto sta però che “I Don’t Live Here Anymore” è simile ma non uguale rispetto a “A Deeper Understanding”: più raccolto, meno trascinante, più denso, meno epico.

Forse non è un caso che, malgrado le differenze, la qualità sia più o meno simile: canzoni come la title track, Harmonia’s Dream e Occasional Rain sono highlights indelebili e anche live faranno la fortuna di Adam Granduciel e compagni. Abbiamo poi invece brani più intimisti, come Living Proof, che arricchiscono ulteriormente il CD. Leggermente sotto la media solo I Don’t Wanna Wait.

Non sarebbe, poi, un album dei The War On Drugs senza testi che inneggiano a temi ampi e generici come l’amore, la memoria di eventi della gioventù e i sogni che tutti abbiamo, destinati spesso a infrangersi. I versi più evocativi sono contenuti in Occasional Rain: “Ain’t the sky just shades of grey until you’ve seen it from the other side? Oh, if loving you’s the same… It’s only some occasional rain”.

In generale, “I Don’t Live Here Anymore” è un ottimo prodotto, curato in ogni dettaglio anche grazie alla produzione di Shawn Everett (Foxygen). Adam Granduciel si conferma cantautore talentuoso e i The War On Drugs band fondamentale della scena rock dell’ultimo decennio.

Voto finale: 8,5.

James Blake, “Friends That Break Your Heart”

friends that break your heart

Il nuovo CD del cantautore britannico approfondisce la svolta verso il pop di “Assume Form” (2019), con maggiore fuoco alla parte propriamente pop-R&B piuttosto che all’hip hop che caratterizzava “Assume Form”. I risultati sono ottimi: James Blake pare aver trovato la sua dimensione, non eccessivamente commerciale ma nemmeno underground.

Il James Blake del 2021 è una persona diversa rispetto a colui che stupì il mondo nell’ormai lontano 2011, con l’eponimo esordio “James Blake”: il future garage delle origini permane solamente in qualche produzione, oppure in EP che fungono da intermezzi fra un LP e l’altro, si senta “Before” (2020). Ciò, però, come già accennato, non va a detrimento della qualità complessiva del lavoro: brani come Life Is Not The Same e Say What You Will sono fra i migliori della produzione recente del Nostro. Non fosse per una parte centrale debole, saremmo di fronte al suo miglior CD.

L’inizio è molto convincente: sia Famous Last Words che Life Is Not The Same, non a caso scelte come canzoni di lancio di “Friends That Break Your Heart”, fanno capire il mood del disco in maniera efficace. Atmosfere soft, testi introspettivi… queste sono le parole chiave. Abbiamo inoltre meno collaborazioni rispetto a quelle di alto profilo di “Assume Form”: da Metro Boomin e Travis Scott passiamo a SZA (nella buona Coming Back) e J.I.D. in Frozen, per citare i più celebri artisti chiamati da James.

Liricamente, il titolo del lavoro è evocativo dei temi affrontati: nella title track Blake canta “As many loves that have crossed my path, it was friends… it was friends who broke my heart”. If I’m Insecure si apre con un dubbio esistenziale: “If this is what we always wanted, how’s the signal so weak?”. Infine, in Say What You Will il testo si fa più evocativo: “I’m OK with the life of a sunflower”.

In conclusione, non fosse per un paio di brani davvero inferiori come I’m So Blessed You’re Mine e Foot Forward, il CD sarebbe davvero imperdibile. Anche con questa tracklist, tuttavia, “Friends That Break Your Heart” è il miglior disco di James Blake dai tempi di “Overgrown” (2013). Non una cosa scontata.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA, “LP!”

jpegmafia

Con il suo quarto album vero e proprio, non contando quindi i numerosi progetti catalogabili come mixtape, JPEGMAFIA ha composto contemporaneamente il suo CD più accogliente e più provocatorio. Se infatti i beat alla base di molte canzoni di “LP!” sono morbidi, addirittura ispirati da Britney Spears in un caso (THOT’S PRAYER!), testualmente il rapper statunitense è una furia, soprattutto contro l’industria discografica.

La versione qui recensita è quella “online”: JPEGMAFIA ha infatti proposto anche una versione “offline”, in realtà presente su Bandcamp, che presenta una sequenza diversa di alcune canzoni e alcune tracce bonus che poco aggiungono al risultato finale.

JPEGMAFIA viene dal buon successo di “All My Heroes Are Cornballs” (2019) e dai due brevi lavori “EP!” (2019) e “EP2!” (2020), questi ultimi da prendersi più come raccolte di singoli pubblicati precedentemente che come veri e propri manifesti artistici. “LP!” è quindi il vero erede di “All My Heroes Are Cornballs”: rispetto al passato, il Nostro sceglie basi meno pesanti sul lato punk e noise e maggiormente accoglienti, quasi commerciali, si senta a tal proposito WHAT KIND OF RAPPIN’ IS THIS?.

I puristi e i fan della prima ora diranno che Peggy si è venduto, ma la realtà è che maturando non per forza ci si rammollisce: semplicemente si cambia. Non per caso “LP!” contiene alcune delle canzoni migliori del repertorio di JPEGMAFIA, tra cui ARE U HAPPY? e REBOUND!. Ad indebolire il risultato finale è solo la tracklist un po’ dispersiva: i 49 minuti a tratti sembrano 60, ma non per questo il CD diventa indigeribile.

Dicevamo che il rapper è molto arrabbiato nei testi che permeano “LP!”. La sua furia è in particolare rivolta all’industria discografica, accusata di sfruttare gli artisti senza alcun rispetto per questi ultimi. In una nota sulla sua pagina Bandcamp JPEGMAFIA scrive: “My time in the music industry is over because I refuse to be disrespected by people who aren’t behaving respectably in the first place”. Non serve traduzione, no? Altre frasi forti sono le seguenti: “Why would I pray for your health? Baby, I pray for myself” (REBOUND!). Infine, il titolo di SICK, NERVOUS & BROKE! dice tutto.

In conclusione, questo “LP!” è ad oggi il più riuscito tra i numerosi progetti a firma JPEGMAFIA. I testi sono taglienti, le basi spesso azzeccate… quando imparerà a mettere da parte alcune tracce inutili, potremo parlare di capolavoro. Ma in questo caso Peggy ci è andato davvero vicino.

Voto finale: 8.

Lana Del Rey, “Blue Banisters”

blue banisters

Il secondo album del 2021 di Lana Del Rey è un ottimo completamento di un’era per lei molto travagliata. Polemiche sui social, da cui poi si è cancellata; discussioni a non finire sul precedente “Chemtrails Over The Country Club”, da alcuni considerato neanche avvicinabile al capolavoro che è “Normal Fucking Rockwell!” (2019)… insomma, poteva andare molto peggio. Invece, questo ottavo CD a firma Lana Del Rey la conferma cantautrice solida, magari non al top della forma ma sempre intrigante.

La campagna pubblicitaria è stata stranamente di basso profilo: tre singoli pubblicati a giugno e uno a settembre, come già ricordato nessuna campagna social… da qui a dire che il disco è passato in sordina ce ne passa, ma non siamo nemmeno vicini al battage mediatico per “Born To Die” (2012). Non per questo le canzoni latitano, anzi: tra un omaggio a Morricone in salsa trap (!) e le classiche ballate strappalacrime, “Blue Banisters” si inserisce perfettamente nel canone di Lana.

L’inizio è la parte migliore del lavoro: i singoli Text Book, Blue Banisters e Arcadia sono fra i brani migliori del lotto. Abbiamo poi lo strambo Interlude – The Trio, omaggio al Maestro Morricone con base trap: può sembrare assurdo, lo è in effetti, ma non è male. Segue poi un altro ottimo brano, Black Bathing Suit, che chiude la prima parte del CD. Successivamente, tra le altre cose, contiamo una collaborazione con Miles Kane (Dealer) e un singolo di due anni fa inserito in tracklist come omaggio ai fan (Cherry Blossom).

Insomma, i 61 minuti di “Blue Banisters” lasciano spazio un po’ a tutte le facce di Lana, anche quelle meno efficaci: le ballate Wildflower Wildfire e Nectar Of The Gods spezzano il ritmo del lavoro e allungano troppo il CD. Peccato, perché in certi tratti siamo di fronte ad un ottimo prodotto.

Anche liricamente, ormai, sono sparite le controversie degli esordi: Lana ha 36 anni, è una donna matura e “Blue Banisters” contiene riferimenti all’attualità (“Grenadine, quarantine, I like you a lot. It’s LA, ‘Hey’ on Zoom” canta in Black Bathing Suit) così come ad un amore ormai finito (“You name your babe Lilac Heaven after your iPhone 11… ‘Crypto forever,’ screams your stupid boyfriend. Fuck you, Kevin”, verso magistrale contenuto in Sweet Carolina). In Text Book, invece, la Nostra riflette su temi di più ampia portata: “There we were, screaming, ‘Black Lives Matter’”.

Infine, notiamo una cosa: Lana Del Rey è nella parte migliore della sua carriera e ha capitalizzato componendo sette album in sette anni, partendo da “Ultraviolence” (2014) per arrivare a questo “Blue Banisters”. Di quanti artisti contemporanei, uomini o donne che siano, possiamo dire che abbiano mantenuto una qualità costantemente così alta, pur variando estetica e collaboratori da un album all’altro, spesso in maniera anche radicale? Probabilmente nessuno, o per lo meno dobbiamo tornare alle leggende del pop-rock come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen. Sì, ormai per Lana Del Rey valgono anche questi paragoni.

Voto finale: 7,5.

Illuminati Hotties, “Let Me Do One More”

let me do one more

Nel secondo disco vero e proprio a firma Illuminati Hotties, Sarah Tudzin mette nero su bianco tutta la vita trascorsa apparentemente invano in questi ultimi anni. Il Covid, un contratto con l’etichetta discografica troppo sbilanciato verso quest’ultima, la morte della madre a causa di un cancro… Sarah ne ha passate davvero tante; e tutte queste esperienze entrano in “Let Me Do One More”.

Il precedente lavoro di Tudzin era il mixtape “FREE I.H.: This Is Not The One You’ve Been Waiting For” del 2020, che seguiva il vero e proprio esordio degli Illuminati Hotties, “Kiss Yr Frenemies” (2018). Era un insieme di brani un po’ accatastati a casaccio, solo per liberarsi del contratto discografico precedente, ma fin dall’ironico titolo denotava uno spirito piuttosto determinato a farsi valere.

Fatto confermato da “Let Me Do One More”: Sarah Tudzin, infatti, canta indistintamente di un Partito Democratico americano corrotto (“The DNC is playing dirty!”) così come di spregiudicate strategie di marketing (“Place that precious pretty product!”), fino a prorompere in un urlo indistinto, che dà il titolo alla canzone in questione: MMMOOOAAAAAYAYA. In un altro pezzo abbiamo poi un riferimento al diventare adulti: “I guess being an adult is just being alone” (Growth).

In generale, musicalmente abbiamo una prima parte ricca di canzoni di indie rock potente, quasi punk, à la PJ Harvey delle origini, come la già citata MMMOOOAAAAAYAYA e Threatening Each Other Re: Capitalism. Invece le ultime canzoni sono più acustiche, ad esempio Protector e Growth ricordano la Soccer Mommy più intima. I migliori elementi della tracklist sono Pool Hopping e MMMOOOAAAAAYAYA, mentre delude la troppo rumorosa Joni: LA’s No. 1 Health Goth.

Illuminati Hotties è un nome attorno a cui giravano commenti per lo più positivi già da qualche tempo. “Let Me Do One More” potrebbe essere il CD che fa raggiungere al progetto un pubblico più ampio. Sarah Tudzin, dal canto suo, si dimostra una cantautrice e produttrice talentuosa, che sa scrivere ottime pagine di musica leggera e ironica. Dopo Indigo De Souza, abbiamo trovato in poche settimane un’altra potenziale eroina dell’indie rock.

Voto finale: 7,5.

Grouper, “Shade”

shade

Il nuovo lavoro di Liz Harris, più nota come Grouper, raccoglie composizioni scritte nell’arco di ben 15 anni. Un intervallo di tempo che le ha permesso di passare da progetto sperimentale a un cantautorato etereo, evanescente, ma con punte di intimità e sensibilità davvero notevoli. Prova ne sia “Ruins” (2014), ad oggi il suo miglior disco.

“Shade”, pertanto, è un lavoro leggermente incoerente, che passa dalle atmosfere ambient ed opprimenti di Followed The Ocean al folk immacolato di Pale Interior, nell’arco di 35 minuti. Può sembrare una durata minimale nell’era dello streaming imperante e dei CD monstre, ma Grouper preferisce da sempre tenere le cose brevi: il precedente “Grid Of Points” (2018) ammontava a soli 22 minuti!

In generale, l’aspetto lirico è forse quello più complesso: è vero, Harris canta in maniera anche sentita e toccante, ma spesso è davvero difficile udire le sue parole dietro al forte riverbero delle canzoni, ad esempio in Followed The Ocean e Disordered Minds. Ciononostante, da un CD prevalentemente ambient possiamo aspettarcelo e non pregiudica la qualità generale del lavoro, che resta più che discreto.

Fra i migliori pezzi abbiamo Kelso (Blue Sky), mentre sotto la media Promise e Followed The Ocean. In generale, Grouper si conferma un’artista per palati fini: il suo mix di folk, cantautorato e musica d’ambiente può non essere per tutti ma, una volta calatosi nella sua atmosfera, l’ascoltatore non può che rimanerne affascinato.

Voto finale: 7.

Parquet Courts, “Sympathy For Life”

sympathy for life

Il nuovo album dei Parquet Courts prosegue il percorso intrapreso nel precedente “Wide Awake!” (2018); ma se quest’ultimo era un lavoro coeso e pieno di canzoni di buon livello, “Sympathy For Life” si regge su una sola grande melodia, Walking At A Downtown Pace, mentre molte delle altre rappresenterebbero delle b-sides per i migliori pezzi del gruppo.

È davvero un peccato: sapere che i Parquet Courts, band nota e apprezzata per il loro indie rock sbarazzino e disimpegnato, avrebbero provato ritmi dance, quasi da Madchester, aveva intrigato molti, A-Rock compreso, tanto più che “Sympathy For Life” arriva dopo il miglior CD del gruppo e dopo quasi due anni di pandemia.

In effetti l’inizio del lavoro è travolgente: la già menzionata Walking At A Downtown Pace, con le sue linee di chitarra prepotenti ma ballabili, è un perfetto singolo di lancio. Peccato che poi il disco contenga brani deboli come Just Shadows e Application/Apparatus, che sono puro riempitivo. Menzioniamo infine i pezzi intitolati Trullo e Pulcinella, che chiudono la tracklist, per puro campanilismo: uno dei due frontman, Andrew Savage, ha passato una vacanza in Puglia e ha omaggiato il nostro paese con questi due titoli.

Liricamente, se da “Light Up Gold” (2012) fino a “Human Performance” (2016) avevamo assistito al passaggio dai Parquet Courts più “disimpegnati” a una raggiunta maturità, sbocciata nell’arrabbiato “Wide Awake!”, quest’ultimo LP mantiene un atteggiamento più sereno, come del resto la svolta stilistica preannuncia: i Parquet Courts vogliono portarci a ballare e per farlo usano ogni mezzo.

In generale, tuttavia, i risultati non sono del tutto soddisfacenti: “Sympathy For Life”, pur avendo nobili intenti, è il secondo CD più debole della produzione dei Parquet Courts, davanti solo all’acerbo esordio “American Specialties” (2011). Vedremo la prossima volta come andrà, ma questo è il primo vero passo falso nella loro produzione da nove anni a questa parte.

Voto finale: 6,5.

Coldplay, “Music Of The Spheres”

music of the spheres

Il nono disco della band capitanata da Chris Martin è uno dei più deboli della loro carriera, diciamolo subito. Ed è un peccato, perché i momenti interessanti non mancano; ma alcune scelte lasciano molti dubbi e fanno sì che “Music Of The Spheres” non raggiunga i buoni risultati del precedente “Everyday Life” (2019).

Già la scelta del tema alla base del lavoro aveva lasciato attoniti: Martin & co. si sono immaginati una sorta di nuovo universo, popolato da strani alieni ma allo stesso tempo capace di promuovere i valori dell’amore universale. Beh, tutto molto zuccheroso: in effetti, anche musicalmente, il synth-pop che permea “Music Of The Spheres” incentiva questo feeling, coadiuvato dalla produzione di Max Martin (in passato collaboratore, tra gli altri, di Britney Spears, Taylor Swift e The Weeknd).

Se analizziamo la tracklist, vediamo ben cinque brani, di cui tre intermezzi, contraddistinti da un “titolo-emoji” e collaborazioni fatte apposta per piacere ai più giovani, su tutti Selena Gomez e i coreani BTS. Nulla di pregiudizialmente contrario al buon gusto, ma le premesse non erano scintillanti, diciamo. Poi, però, sentendo la brillante Coloratura tutto era cambiato: un inizio da tipici Coldplay, per poi sfociare in un brano progressive rock irresistibile.

Il problema, però, è che gran parte del CD non rispetta questi altissimi standard: per una buona Humankind, abbiamo una brutta Let Somebody Go. Per la gradevole My Universe, abbiamo la scadente People Of The Pride… insomma, un mezzo fiasco.

Anche liricamente, il disco è a volte dolce senza strafare (“You are my universe, and I just want to put you first”, My Universe), altre davvero incommentabile (People Of The Pride si lancia contro un dittatore che pare preso da 1984, con versi molto blandi).

In generale, dunque, “Music Of The Spheres” farà sicuramente sfracelli sia sui servizi di streaming che negli stadi: i Coldplay hanno infatti annunciato un tour mondiale, che al momento purtroppo non tocca l’Italia, a supporto del CD. I più giovani cominceranno ad apprezzarne il pop senza compromessi, i testi romantici e la bella voce di Chris Martin… ma allora perché quasi tutto in questo LP suona così fiacco e privo di verve?

Voto finale: 6.

Gli album più attesi del 2021

Archiviato il 2020, A-Rock è già all’opera per il nuovo anno: quali sono gli album più attesi del 2021?

Se l’anno passato avevamo indicato come CD più intriganti quelli di Tame Impala e The 1975 (e a ragione, visto che entrambi sono entrati nella top 10 dei 50 album migliori del 2020), nel 2021 i lavori a cui guardiamo con maggiore interesse sono rispettivamente quelli di Kendrick Lamar e Lana Del Rey. K-Dot è ormai entrato nella storia dell’hip hop con album come “good kid, m.A.A.d city” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), senza scordarsi di “DAMN.” (2017); il suo quinto album vero e proprio di inediti segnerà un altro passaggio cruciale nell’affermazione del rap come genere imperante nelle classifiche e nella società? Un discorso simile vale per Lana: il precedente “Norman Fucking Rockwell!” è stato l’album del 2019 per A-Rock e molte altre pubblicazioni, oltre che un grande successo commerciale; riuscirà il suo erede, dal titolo “Chemtrails Over The Country Club”, a mantenere tutte le attese riposte in lei da parte di pubblico e critica?

Passando al rock, abbiamo anche in questo caso artisti attesi al varco: gli Arcade Fire, ad esempio, vengono dal loro lavoro più debole, “Everything Now” (2017), un riscatto è necessario per una delle migliori band del XXI secolo. Invece i The War On Drugs devono proseguire sul percorso di crescita intrapreso con “Lost In The Dream” (2014) e “A Deeper Understanding” (2017); un discorso simile vale per Iceage e Parquet Courts, che hanno pubblicato con i loro ultimi LP “Beyondless” e “Wide Awake!” (entrambi del 2018) due lavori variegati e che aprivano strade interessanti al loro punk-rock. Due giovani voci che A-Rock ha già analizzato in passato e inserito nelle liste di fine anno sono Julien Baker e shame: se la prima è attesa al varco dopo “Turn Out The Lights” (2017), il gruppo punk inglese dopo il fulminante esordio “Songs Of Praise” (2018) dovrà confermarsi. Un doveroso rimando poi va ai nuovi (o meglio dire “vecchi”) Red Hot Chili Peppers, che hanno riaccolto John Frusciante: vedremo se l’ispirazione è tornata quella dei tempi migliori. Infine menzioniamo Queens Of The Stone Age e Phoenix, che forse hanno dato il meglio, ma sono comunque nomi importanti nello scenario rock.

Il mondo del pop, dal canto suo, pare che vivrà un 2021 tumultuoso: se già abbiamo citato il nuovo disco di Lana Del Rey, come dimenticarsi che sia Lorde che Adele che Billie Eilish, forse anche Rihanna, potrebbero pubblicare i seguiti a CD che spesso avevano segnato la loro definitiva affermazione anche fra i critici di professione (soprattutto Lorde e RiRi)? Billie, dal canto suo, deve dare un seguito al clamoroso “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” (2019); che aveva travolto il mondo della musica due anni fa. Invece il nuovo LP di Adele segue di ormai sei anni “25” (2015): un erede è davvero necessario. Discorso diverso per St. Vincent: Annie Clark è una delle figure più interessanti a cavallo fra pop e rock, specialmente dopo “MASSEDUCTION” (2017), vedremo l’ispirazione dove la porterà.

Il lato hip hop della musica vivrà un 2021 davvero pieno di uscite importanti. Se abbiamo già anticipato che Kendrick Lamar è il più atteso assieme a Lana Del Rey da A-Rock, non dimentichiamoci che il 2021 è l’anno in cui verrà pubblicato, come già anticipato da Drake stesso, “Certified Lover Boy”, il seguito del controverso “Scorpion” (2018): dopo un 2020 che lo ha visto dare alla luce il mixtape “Dark Lane Demo Tapes”, discreto ma nulla più, il canadese deve dimostrare che il successo commerciale può essere accompagnato dal rispetto della critica. Discorso diverso per Danny Brown, che via social ha dichiarato che quest’anno arriverà “XXXX”, seguito del CD che lo ha fatto conoscere al mondo, “XXX” del 2011. Il suo stile, pazzoide ma creativo, sarà un toccasana per la scena hip hop. Il giovane rapper inglese slowthai invece seguirà il grande esordio “Nothing Great About Britain” (2019) con “TYRON”: manterrà le aspettative? Come non menzionare Travis Scott poi, uno dei nomi più trendy degli ultimi anni, atteso con “Utopia”? Chiudiamo la rassegna con il caldissimo Denzel Curry, che nel 2020 ha pubblicato due brevi ma piacevoli lavori e pare pronto a dare alla luce “Melt My Eyez, See Your Future”, e Vince Staples, reduce da un 2020 piuttosto opaco e caratterizzato da singoli molto deboli: speriamo possa recuperare la forma migliore nell’anno nuovo.

Per finire, abbiamo degli album ormai mitici, almeno nell’immaginario collettivo, probabilmente destinati a vedere la luce prima o poi… ma chissà quando! Per esempio, “Masochism” di Sky Ferreira è dibattuto ormai da anni, con la stessa Sky che pareva pronta nel 2019 a pubblicarlo ma poi era stata fermata dalla pandemia e dalla decisione di non farlo fino alla cacciata di Donald Trump dalla Casa Bianca. Chissà quindi che il 2021 non sia l’anno buono. Stendiamo un velo pietoso poi su “Dear Tommy”, il fantomatico seguito di “Kill For Love” dei Chromatics (che nel frattempo hanno pubblicato altri CD peraltro).

Se quindi il 2020 è stato un anno interessante, almeno per il mondo della musica, chissà il 2021 cosa ci riserverà! A-Rock proverà come sempre, al meglio delle sue possibilità, a darvi una copertura ampia e variegata!

Recap: novembre 2020

Novembre è ormai finito. Un mese tranquillo rispetto al gran numero di dischi usciti ad ottobre, in cui A-Rock si è concentrato anche sui dischi dal vivo. Abbiamo infatti i nuovi CD live dei The War On Drugs e di Nick Cave; oltre a questi due album le recensioni riguardano il ritorno dei King Gizzard & The Lizard Wizard, il nuovo LP di Miley Cyrus e il breve EP a firma Phoebe Bridgers.

Nick Cave, “Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandria Palace”

nick cave

L’album del cantautore australiano lo vede cimentarsi in versioni decisamente intime di alcuni dei suoi più grandi successi. Nick Cave e il pianoforte, nessun pubblico e zero pause; gli 84 minuti del CD però scorrono serenamente, con canzoni classiche riviste ma non stravolte e una selezione che spazia dagli esordi al recente “Ghosteen”, toccando anche il progetto Grinderman. Quale regalo migliore per i fans del Re Inchiostro?

Questa volta, quindi, Nick non è accompagnato dai fidi Bad Seeds, ma non per questo il live risulta povero: anzi il carico emozionale di canzoni strazianti come quelle estratte da “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), ovvero dai lavori composti dopo la tragica scomparsa del figlio Arthur, è ancora maggiore in questa versione ridotta all’essenziale. “Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandria Palace” è quindi un LP davvero importante, soprattutto per gli amanti del Nostro, che troveranno una sorta di greatest hits in versione acustica.

Quasi un terzo dei brani riprodotti è stato estrapolato dal capolavoro di Nick Cave & The Bad Seeds, “The Boatman’s Call” (1997), ma abbiamo anche successi più vecchi come The Mercy Seat (da “Tender Prey” del 1988) e The Ship Song, contenuta in “The Good Son” del 1990. Contiamo però anche un inedito, Euthanasia, che ben si sposa col ciclo inaugurato da “Push The Sky Away” (2013). I più riusciti sono Sad Waters e Nobody’s Baby Now, ma nessuno è fuori fuoco o tale da interrompere la magia di godersi la bella voce di Nick Cave accompagnata solo dal pianoforte.

In conclusione, questo CD farà la felicità dei fans recenti e di primo pelo di Nick Cave, mai così profondo e toccante. Certo, la staticità data da suonare solo il pianoforte per quasi un’ora e mezzo può risultare evidente alla lunga, ma l’ascolto rimane consigliato.

Voto finale: 8.

The War On Drugs, “LIVE DRUGS”

live drugs

Il primo disco live del complesso originario di Philadelphia è un gradito regalo per fans e pubblico in generale. I The War On Drugs sono infatti uno dei gruppi rock più rispettati degli ultimi anni, vincitori del Grammy per Miglior Album Rock per “A Deeper Understanding” (2017) e degni eredi di Bruce Springsteen. “LIVE DRUGS” è quindi non per caso uno dei migliori album live del 2020 e un’ulteriore dimostrazione del talento di Adam Granduciel e compagni.

Il flusso dei pezzi è decisamente piacevole e ben orchestrato e le canzoni, pur essendo registrate in momenti diversi dell’ultimo tour, paiono essere state suonate una di seguito all’altra. A farla da padrone sono i singoli di maggior successo della band, tratti prevalentemente da “Lost In The Dream” (2014) e dal già citato “A Deeper Understanding”. A stupire è l’inclusione di Buenos Aires Beach, presa da “Wagonwheel Blues” (2008), oltre che di Accidentally Like A Martir, cover di un brano di Warren Zevon.

Come sempre nei live, a fare la differenza deve essere la capacità dell’artista di suonare in maniera credibile e appassionata le versioni di studio e, magari, di adottare quei due/tre accorgimenti che rendano il pezzo davvero indimenticabile. È il caso di Strangest Thing, quasi piatta fino al devastante assolo che anche nella versione “pulita” fa decollare il pezzo. Da elogiare anche An Ocean Between The Waves, che apre magistralmente “LIVE DRUGS”; invece sotto la media la parte centrale del lavoro.

In generale, la cadenza triennale dei nuovi CD dei The War On Drugs ci aveva fatto sperare che il 2020 avrebbe visto venire alla luce il quinto lavoro del gruppo americano; sfortunatamente per il momento non è questo il caso. Non è male tuttavia avere un LP dal vivo di Adam Granduciel e co., una testimonianza ulteriore che il rock può ancora scrivere pagine di grande musica.

Voto finale: 8.

Miley Cyrus, “Plastic Hearts”

plastic hearts

La popstar americana ha prodotto, con “Plastic Hearts”, il suo CD più rock; questa è un’altra svolta in una carriera che ne ha già avute molte, non tutte contraddistinte da successo di critica e di pubblico. Se la fu Hannah Montana era partita da un pop tanto ovvio quanto amato dalle adolescenti di mezzo mondo, i successivi tentativi avevano spaziato fra hip hop (“Bangerz” del 2013) e country-pop (“Younger Now” del 2017) per poi tornare in territori rap (l’EP “She Is Coming” del 2019). Nessuna di queste direzioni musicali aveva portato alla consacrazione della figlia di Billy Ray Cyrus, tanto che la Nostra aveva addirittura tentato di collaborare con i Flaming Lips nel fiasco “Miley Cyrus & Her Dead Petz” (2015) per trovare pace.

È strano, ma non improbabile, che una carriera di tale successo ma tanto controversa trovi il suo miglior risultato in un 2020 tragico per Cyrus: “She Is Coming” doveva essere il primo EP di una trilogia, ma la pandemia, il divorzio dall’attore Liam Hemsworth e gli incendi che hanno colpito gli Stati Uniti, distruggendo i suoi archivi, hanno convinto Miley a scartare l’idea e a buttarsi a capofitto nel rock anni ’80, condividendo cover dei Blondie e dei The Cranberries e componendo, con “Plastic Hearts”, il primo CD ad oggi della sua epoca rock. Che sia questo il futuro di Miley Cyrus?

Gli episodi degni di nota sono molti: dal pop-rock di WTF Do I Know, che pare una hit di P!nk, al successo meritato dei singoli Midnight Sky e Prisoner (quest’ultimo con la collaborazione di Dua Lipa), passando per la title track, il CD brilla davvero in molte sue parti. È un peccato che vi siano anche episodi più prevedibili come Hate Me e Never Be Me, che intaccano il risultato finale, altrimenti avremmo il capolavoro definitivo a firma Miley Cyrus. Menzioniamo anche gli altri collaboratori di un album davvero ricco anche sotto questo punto di vista: Billy Idol, Stevie Nicks, Mark Ronson e Angel Olsen sono i nomi più prestigiosi.

Liricamente, “Plastic Hearts” faceva presagire testi arrabbiati, anche a causa del divorzio da Hemsworth, invece Miley cerca anche di parlare di altri aspetti della sua vita, dalle dipendenze alla depressione. Nulla di nuovo nel mondo pop; il verso più ovvio, forse, ma anche il più onesto è “I don’t miss you, but I think of you and I don’t know why”, contenuto in High, chiaramente diretto all’ex marito. Altra lirica potente, questa volta contro la stampa, è “I was tryin’ to own my power, still I’m tryin’ to work it out… and at least it gives the paper somethin’ they can write about” (Golden G String).

Mescolando pop, rock e country, una delle popstar più sopravvalutate (secondo molti) dello scenario musicale ha trovato la sua voce, peraltro esplorando territori che non le parevano consoni. Miley Cyrus potrebbe aver composto il CD della svolta, quello che le darà confidenza nei propri mezzi e il rispetto della critica. Vedremo dove la porterà l’ispirazione: finora non ha mai composto un LP sulla stessa linea del precedente…

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “K.G.”

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L’instancabile band australiana ha pubblicato il sedicesimo (!) album di studio di una carriera tanto frenetica quanto avventurosa e, nei suoi tratti migliori, eccitante. Dal garage rock di “12 Bar Bruise” (2012) al metal di “Infest The Rats’ Nest” (2019), passando per il rock psichedelico di quasi tutti i lavori nel mezzo e il jazz-rock di “Sketches Of Brunswick East” (2017), i King Gizzard & The Lizard Wizard si sono affermati come uno dei gruppi fondamentali della scena rock.

“K.G.” prova ad ampliare ulteriormente i confini sonori del gruppo, flirtando con atmosfere mediorientali, basti sentire K.G.L.W. e Straws In The Wind. Nei pezzi che fin da subito fanno presa sul pubblico però la formula vincente resta quella del garage rock, magari più educato rispetto alle origini, mescolato con abbondanti dosi di psichedelia. I migliori esempi sono Automation e la stramba Intrasport, che pare presa da un disco dei Primal Scream; convince meno invece Honey.

Se passati LP come “Flying Microtonal Banana” e “Polygondwanaland”, entrambi facenti parte del folle 2017 dei King Gizzard, che li vide pubblicare cinque (!!) CD, erano fin da subito entrati fra i preferiti dei fans, questo “K.G.” richiede maggiore pazienza. Non è un lavoro disprezzabile, anzi il complesso aussie continua a sperimentare, ma non raggiunge le vette dei dischi più folli e riusciti dei KG&TLW. Averne, però, di artisti così sfrontati e incuranti di mantenere fedele il pubblico più conservatore.

Voto finale: 7.

Phoebe Bridgers, “Copycat Killer”

phoebe

Il 2020 ha portato a Phoebe Bridgers tante soddisfazioni: un album, “Punisher”, da molti considerato uno fra i migliori dell’anno, candidature multiple ai Grammy e un’esposizione al grande pubblico decisamente aumentata rispetto al raccolto esordio “Stranger In The Alps” (2017).

Insomma, immaginarla reinventare alcuni dei migliori brani di “Punisher” in chiave acustica e, verrebbe da dire, lirica, non era prevedibile. “Copycat Killer” ricalca un po’ l’operazione estetica praticata da Angel Olsen con “All Mirrors” (2019) e “Whole New Mess” (2020), ma al contrario. Le quattro tracce che compongono questo breve EP sono quindi molto lontane dall’estetica folk-rock della Nostra, ma non disprezzabili, grazie anche alla collaborazione di Rob Moose, già visto in compagnia di artisti del calibro di Bon Iver, FKA twigs e The Killers.

Kyoto, ad esempio, in “Punisher” era un grande pezzo indie rock; in “Copycat Killer” invece perde qualsiasi ritornello, diventando un pezzo quasi à la Dirty Projectors. Invece Chinese Satellite mantiene sostanzialmente intatta la struttura originale. I restanti due pezzi, Savior Complex e Punisher, chiudono un CD davvero strano, ma che apre scenari inesplorati per Phoebe.

La voce della cantautrice splende più che mai in “Copycat Killer”, specialmente in Punisher, rendendo chiaro (per chi ancora ne dubitasse) che il mondo indie ha trovato un’interprete davvero talentuosa. Se il 2020 di Bridgers già prima era speciale, con questo EP si può considerare coronato in maniera trionfale.

Voto finale: 7.

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (100-1)

Siamo alla seconda e ultima puntata delle 200 migliori canzoni degli anni ’10; quella più calda, dove si decreterà la migliore della decade secondo A-Rock. Frank Ocean, Arctic Monkeys, Bon Iver, Lana Del Rey… i big sono tutti presenti: chi avrà vinto la palma di miglior pezzo degli anni 2010-2019? Buona lettura!

100) The War On Drugs, An Ocean In Between The Waves (2014)

99) Neon Indian, Slumlord (2015)

98) Car Seat Headrest, Nervous Young Inhumans (2018)

97) Darkside, Paper Trails (2013)

96) Mac DeMarco, Ode To Viceroy (2012)

95) Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Round And Round (2010)

94) A.A.L. (Against All Logic), This Old House Is All I Have (2018)

93) Grizzly Bear, Speak In Rounds (2012)

92) Real Estate, All The Same (2011)

91) Neon Indian, Annie (2015)

90) Alt-J, Breezeblocks (2012)

89) Car Seat Headrest, Fill In The Blank (2016)

88) Sia, Chandelier (2014)

87) The National, Graceless (2013)

86) Earl Sweatshirt feat. Vince Staples and Casey Veggies, Hive (2013)

85) Sufjan Stevens, Impossible Soul (2010)

84) Queens Of The Stone Age, My God Is The Sun (2013)

83) Adele, Rolling In The Deep (2011)

82) Icona Pop feat. Charli XCX, I Love It (2012)

81) Coldplay, Orphans (2019)

80) Broken Social Scene, World Sick (2010)

79) Beach House, Norway (2010)

78) Radiohead, Lift (2017)

77) Lorde, Royals (2013)

76) Cloud Nothings, Wasted Days (2012)

75) Justin Timberlake feat. JAY-Z, Suit & Tie (2013)

74) Kendrick Lamar, DNA. (2017)

73) Sufjan Stevens, Should Have Known Better (2015)

72) Nick Cave & The Bad Seeds feat. Else Torp, Distant Sky (2016)

71) Kings Of Leon, Pyro (2010)

70) Mac DeMarco, My Kind Of Woman (2012)

69) The 1975, It’s Not Living (If It’s Not With You) (2018)

68) Deerhunter, Memory Boy (2010)

67) The 1975, Sex (2013)

66) The Weeknd feat. Daft Punk, Starboy (2016)

65) Darkside, Golden Arrow (2013)

64) Coldplay, Paradise (2011)

63) Travis Scott feat. Drake, SICKO MODE (2018)

62) Justin Timberlake, Mirrors (2013)

61) Lorde, Green Light (2017)

60) Drake feat. Majid Jordan, Hold On, We’re Going Home (2015)

59) Earl Sweatshirt, Mantra (2015)

58) Blood Orange feat. A$AP Rocky and Project Pat, Chewing Gum (2018)

57) Gorillaz feat. Little Dragon, Empire Ants (2010)

56) LCD Soundsystem, call the police (2017)

55) King Krule, Czech One (2017)

54) The War On Drugs, Red Eyes (2014)

53) Vampire Weekend, Step (2013)

52) Daft Punk feat. Pharrell Williams, Get Lucky (2013)

51) Lana Del Rey, Mariners Apartment Complex (2019)

50) Kendrick Lamar, Sing To Me, I’m Dying Of Thirst (2012)

49) Sufjan Stevens, Fourth Of July (2015)

48) Gorillaz, On Melancholy Hill (2010)

47) Arctic Monkeys, Arabella (2013)

46) Drake, Over My Dead Body (2011)

45) Girls, Carolina (2010)

44) Fleet Foxes, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar (2017)

43) Arctic Monkeys, R U Mine? (2013)

42) Drake, Nice For What (2018)

41) Flume feat. JPEGMAFIA, How To Build A Relationship (2019)

40) Vince Staples, Lift Me Up (2015)

39) Frank Ocean, Ivy (2016)

38) Billie Eilish, bad guy (2019)

37) Jamie xx feat. Romy, Loud Places (2015)

36) Tame Impala, Elephant (2012)

35) Beach House, Myth (2012)

34) Bon Iver, Sh’Diah (2019)

33) Drake, Hotline Bling (2016)

32) Grimes, Oblivion (2012)

31) The National, Sorrow (2010)

30) St. Vincent, Champagne Year (2011)

29) Drake, Marvin’s Room (2011)

28) Frank Ocean, Nikes (2016)

27) Kanye West, I Am A God (2013)

26) Fleet Foxes, Third Of May / Ōdaigahara (2017)

25) The War On Drugs, Strangest Thing (2017)

24) Florence + The Machine, Shake It Out (2011)

23) King Krule, Dum Surfer (2017)

22) David Bowie, Lazarus (2016)

21) Bon Iver, Perth (2011)

20) Vampire Weekend, Hannah Hunt (2013)

19) The 1975, Love It If We Made It (2018)

18) Grimes, Realiti (2015)

17) Deerhunter, Helicopter (2010)

16) Tame Impala, Eventually (2015)

15) Frank Ocean, Thinkin Bout You (2012)

14) Tame Impala, Feels Like We Only Go Backwards (2012)

13) Arcade Fire, We Exist (2013)

12) Lana Del Rey, Venice Beach (2019)

11) Beach House, Dive (2018)

10) Robyn, Dancing On My Own (2010)

9) Kendrick Lamar, Alright (2015)

8) Bon Iver, Holocene (2011)

7) Kanye West, POWER (2010)

6) M83, Midnight City (2011)

5) Arcade Fire, Reflektor (2013)

4) FKA twigs, cellophane (2019)

3) Frank Ocean, Pyramids (2012)

2) Kanye West feat. Pusha T, Runaway (2010)

1) Tame Impala, Let It Happen (2015)

La nostra lunga cavalcata è finita: Let It Happen dei Tame Impala è meritatamente il più bel pezzo degli anni ’10 secondo A-Rock. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con le nostre scelte? Non esitate a lasciare commenti!

Le migliori canzoni del decennio 2010-2019 (200-101)

Ci siamo: dopo i 200 migliori dischi della decade appena trascorsa, A-Rock si è cimentato nella costruzione della lista delle 200 migliori canzoni degli anni 2010-2019. Anche in questo caso l’impresa non è stata per nulla semplice: dall’elettronica all’hip hop, dal folk al rock, ci sono stati innegabili highlights in ogni genere ma anche molte perle nascoste che meritavano di essere evidenziate. Non temete, le canzoni imprescindibili, da Happy di Pharrell Williams ad Alright di Kendrick Lamar, passando per Runaway di Kanye, ci sono tutte. Ma chi avrà vinto la palma di miglior canzone del decennio?

Oltre ai già citati Kendrick Lamar, Kanye West e l’onnipresente Pharrell Williams, abbiamo cercato di dare spazio a tutte le sfaccettature della musica più bella degli anni ’10 del XXI secolo: il folk gentile di Sufjan Stevens, il rock epico dei The War On Drugs, i vecchi leoni come Nick Cave & The Bad Seeds… ma anche il pop sofisticato di Lorde e il pop-rock dei Coldplay non potevano mancare!

Anche in questa occasione, per favorire la varietà di artisti proposti, abbiamo adottato alcune regole: non più di cinque canzoni, di cui due appartenenti allo stesso disco, per ciascun cantante.

In questa prima puntata avremo le prime cento melodie, vi diamo appuntamento a domani per il secondo capitolo della lista delle 200 migliori canzoni! Buona lettura!

200) The Field, Is This Power (2011)

199) Franz Ferdinand, Right Thoughts (2013)

198) MGMT, Siberian Breaks (2010)

197) Damon Albarn, Everyday Robots (2014)

196) Azealia Banks, 212 (2014)

195) Robin Thicke feat. T.I. and Pharrell Williams, Blurred Lines (2013)

194) Hamilton Leithauser feat. Rostam, A 1000 Times (2016)

193) Ty Segall, Tall Man Skinny Lady (2014)

192) Kurt Vile, Goldtone (2013)

191) St. Vincent, Prince Johnny (2014)

190) Pusha T, Infrared (2018)

189) Nicolas Jaar, Killing Time (2016)

188) Parquet Courts, Master Of My Craft (2013)

187) DIIV, Out Of Mind (2016)

186) Foals, What Went Down (2015)

185) Alvvays, In Undertow (2017)

184) Cloud Nothings, I’m Not Part Of Me (2014)

183) James Blake, Unluck (2011)

182) Sky Ferreira, Nobody Asked Me (If I Was Okay) (2013)

181) Vince Staples, Crabs In A Bucket (2017)

180) Ty Segall, Every1’s A Winner (2018)

179) Muse, Madness (2012)

178) Spoon, Hot Thoughts (2017)

177) Iceage, Catch It (2018)

176) Girls, Honey Bunny (2011)

175) Hot Chip, Motion Sickness (2012)

174) Earl Sweatshirt, Earl (2010)

173) Parquet Courts, One Man No City (2016)

172) The Horrors, Chasing Shadows (2014)

171) Real Estate, Talking Backwards (2014)

170) The Walkmen, Angela Surf City (2011)

169) Little Simz, Therapy (2019)

168) FKA twigs, Two Weeks (2014)

167) Kendrick Lamar, King Kunta (2015)

166) Chromatics, Back From The Grave (2012)

165) Parquet Courts, Bodies Made Of (2014)

164) Nicolas Jaar, Colomb (2011)

163) Jamie xx feat. Romy, SeeSaw (2015)

162) Radiohead, Lotus Flower (2011)

161) Cloud Nothings, No Future / No Past (2012)

160) Pharrell Williams, Happy (2014)

159) Disclosure, When A Fire Starts To Burn (2013)

158) The Antlers, Drift Dive (2012)

157) Coldplay, Magic (2014)

156) The Black Keys, Lonely Boy (2011)

155) St. Vincent, Birth In Reverse (2014)

154) Nick Cave & The Bad Seeds, We No Who U R (2013)

153) David Bowie, Blackstar (2016)

152) The Voidz, Leave It In My Dreams (2018)

151) Atlas Sound, Te Amo (2011)

150) Destroyer, Chinatown (2011)

149) Adele, Someone Like You (2011)

148) Nicolas Jaar, Space Is Only Noise If You Can See (2011)

147) Caribou, Can’t Do Without You (2014)

146) Liam Gallagher, Wall Of Glass (2017)

145) Arctic Monkeys, Love Is A Laserquest (2011)

144) Big Thief, Not (2019)

143) Foals, Inhaler (2013)

142) The Weeknd, House Of Balloons / Glass Table Girls (2011)

141) Suede, Barriers (2013)

140) Queens Of The Stone Age, If I Had A Tail (2013)

139) The Antlers, I Don’t Want Love (2011)

138) Kanye West, Black Skinhead (2013)

137) Radiohead, Burn The Witch (2016)

136) The Black Keys, Tighten Up (2010)

135) Grimes, Genesis (2012)

134) Car Seat Headrest, Beach Life-In-Death (2018)

133) The Horrors, You Said (2011)

132) The Strokes, Under Cover Of Darkness (2011)

131) Grizzly Bear, Yet Again (2012)

130) Pusha T, Come Back Baby (2018)

129) black midi, bmbmbm (2019)

128) Real Estate, Municipality (2011)

127) Aphex Twin, aisatsana [102] (2014)

126) Foals, Spanish Sahara (2010)

125) Suede, Outsiders (2016)

124) James Blake, The Wilhelm Scream (2011)

123) Vampire Weekend, This Life (2019)

122) The National, Don’t Swallow The Cup (2013)

121) Destroyer, Blue Eyes (2011)

120) Janelle Monáe feat. Solange and Roman GianArthur, Electric Lady (2013)

119) Beach House, Sparks (2015)

118) Kanye West, Real Friends (2016)

117) Arcade Fire, Ready To Start (2010)

116) Kendrick Lamar, The Art Of Peer Pressure (2012)

115) Savages, Shut Up (2013)

114) Mount Eerie, Real Death (2017)

113) Janelle Monáe, Make Me Feel (2018)

112) Caribou, Odessa (2010)

111) Spoon, Inside Out (2014)

110) The War On Drugs, Up All Night (2017)

109) Radiohead, Daydreaming (2016)

108) Vampire Weekend, Harmony Hall (2019)

107) Mark Ronson feat. Bruno Mars, Uptown Funk (2015)

106) Janelle Monáe feat. Big Boi, Tightrope (2010)

105) The Weeknd, Can’t Feel My Face (2015)

104) Daft Punk feat. Giorgio Moroder, Giorgio By Moroder (2013)

103) Ty Segall, Warm Hands (Freedom Returned) (2017)

102) Moses Sumney, Quarrel (2017)

101) LCD Soundsystem, Dance Yrself Clean (2010)

Appuntamento a domani con la seconda puntata: quale sarà il miglior pezzo degli anni ’10? Stay tuned!

I migliori album del decennio 2010-2019 (50-1)

Eccoci giunti alla fine della nostra lunga cavalcata. La lista dei 200 migliori CD del decennio 2010-2019 si conclude qui. Chi avrà trionfato nella lunga lista di A-Rock? Buona lettura!

50) The Field, “Looping State Of Mind” (2011)

(ELETTRONICA)

Il terzo album di Axel Willner è il suo CD più compiuto, in cui fin dal titolo la sua estetica è chiaramente illustrata e messa in risalto.

Le 7 canzoni che formano “Looping State Of Mind” vanno dalla techno dura e pura (It’s Up There) ad atmosfere più ambient (Burned Out), che guadagneranno peso nel corso degli anni nei successivi lavori a firma The Field, si pensi a “Infinite Moment” (2018). Il compositore svedese inoltre crea le sue melodie più accattivanti, da Is This Power a Then It’s White, che aggiungono quel qualcosa in più ad un lavoro già ottimo.

In conclusione, “Looping State Of Mind” non avrà forse l’effetto sorpresa del fulminante esordio di Willner, quel “From Here We Go Sublime” (2007) che aveva fatto gridare al miracolo. Tuttavia, data la grazia e la compattezza messe in mostra nel corso dell’album, probabilmente sarà “Looping State Of Mind” ad entrare maggiormente nel cuore dei fans presenti e futuri.

49) Caribou, “Our Love” (2014)

(ELETTRONICA)

Dan Snaith (aka Manitoba aka Caribou) ci ha abituato nel corso della sua carriera a pause corpose fra un lavoro e l’altro. Tornato dopo quattro anni di assenza con “Our Love”, i risultati furono come sempre ottimi: l’elettronica di Snaith si differenzia nel CD rispetto al solito per una maggiore attenzione alla parte melodica e intimista delle canzoni (non troverete nessuna Odessa, tanto per intenderci).

I temi affrontati del resto non sono banali: l’amore familiare, il senso di abbandono… Le canzoni di “Our Love” sono più o meno tutte dello stesso, ottimo livello: sia le più brevi (da sottolineare Dive e Julia Brightly) che le più lunghe (la decima ed ultima Your Love Will Set You Free è davvero affascinante). Ne viene fuori un CD bellissimo, con picchi come Can’t Do Without You e la title track, che sono senza dubbio fra le migliori canzoni della decade. Altro gradito lavoro, di quelli che dici: “ma perché Caribou non fa più spesso CD?” Poi però pensi: “magari poi vengono male”. E allora ci rifletti un po’ e dici: “meglio pochi ma buoni”. Una lezione perfettamente imparata da Snaith.

48) Bon Iver, “22, A Million” (2016)

(FOLK – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Dopo un capolavoro come “Bon Iver, Bon Iver” del 2011, Justin Vernon (il leader del progetto Bon Iver) si è preso del tempo per sé stesso, organizzando un nuovo festival musicale nella sua città natale, Eaux Claires, e seguendo la sua nuova creatura musicale, i Volcano Choir. Del resto, lui ha sempre detto che le canzoni vanno “sentite” nel cuore e che scrivere solo per accumulare denaro non fa per lui. Promessa mantenuta: il marchio Bon Iver ha prodotto solamente quattro album e un EP in doici anni di vita. Pochi ma buoni, anzi ottimi: ogni passo della carriera di Vernon è sempre stato un viaggio magnifico, sia che fosse concentrato sui sentimenti del protagonista (come l’esordio “For Emma, Forever Ago” del 2007), sia che ci conducesse in località a volte vere, a volte immaginarie (come accade in “Bon Iver, Bon Iver” del 2011).

Sembrava che ormai Bon Iver fosse qualcosa del passato, invece nel 2016 Vernon ha deciso di resuscitare la band; e i risultati sono di nuovo eccellenti. Già l’inizio è promettente: 22 (OVER S∞∞N) ricorda le atmosfere dei suoi precedenti lavori, risultando in un folk gentile e raffinato, mentre la potente 10 d E A T h b R E a s T rimanda addirittura al Kanye West di “Yeezus”. Abbiamo poi l’affascinante intermezzo di 715 – CRΣΣKS, che sembra una riedizione di quella Woods che era stata ripresa anche da Kanye in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”. Sono però presenti influenze anche di James Blake (non a caso i due hanno collaborato in I Need A Forest Fire) e, beh, delle precedenti incarnazioni di Bon Iver. Queste ultime sono particolarmente evidenti in 33 “GOD” (qua sì che la numerologia ha senso) e 29 #Strafford APTS, non a caso fra i brani migliori del disco. Il capolavoro vero è però 666 ʇ, che possiede una sezione ambient da brividi, così come la bella 8 (circle). Il solo brano non completamente a fuoco è _____45_____, mentre la conclusiva 00000 Million ricorda molto la Beth/Rest che chiudeva “Bon Iver, Bon Iver”.

In conclusione, in sole 10 canzoni e 34 minuti di durata, “22, A Million” ci conferma lo sconfinato talento di Justin Vernon e ci fa bramare per avere al più presto nuova musica da parte sua, anche ora che abbiamo avuto “i,i” (2019) in un tempo relativamente vicino a “22, A Million” (3 anni).

47) Janelle Monáe, “The ArchAndroid” (2010)

(POP – R&B – SOUL)

Janelle, già all’esordio, aveva fatto capire a tutti lo sconfinato potenziale in suo possesso, portato al definitivo compimento nel quasi perfetto “Dirty Computer” (2018). Infatti “The ArchAndroid”, attraverso la parabola dell’androide Cindy Mayweather, mira ad affrontare quanti più generi umanamente gestibili (rock, pop, R&B, hip hop, soul ecc) con i migliori risultati possibili, dividendo l’opera in due suites con tanto di overture e ospiti di spessore (il poeta Saul Williams, Big Boi e Of Montreal fra gli altri).

Le ispirazioni per un CD di tale ambizione e faccia tosta sono il miglior Prince, Michael Jackson e James Brown, specialmente nelle parti più funk del disco. L’apparente confusione è attenuata dall’incredibile abilità dell’artista americana di far finire una canzone nell’altra, esemplare la prima parte con Dance Or Die, Faster e Locked Inside. Sottolineiamo poi la voce sopraffina di Janelle, una delle più affascinanti della sua generazione.

Se a tutto ciò aggiungiamo capolavori del calibro di Tightrope e Cold War, veri highlights del lavoro, e i temi affrontati (accettazione di sé, apertura verso chiunque sia percepito come diverso su tutti), “The ArchAndroid” diventa un LP pressoché immancabile per gli amanti della musica pop più ardita e creativa.

46) Blood Orange, “Negro Swan” (2018)

(R&B)

Il quarto CD a firma Dev Hynes è un concentrato delle qualità che lo hanno reso molto apprezzato da critica e pubblico e, contemporaneamente, un lavoro adatto ai nostri tempi duri, in termini di testi e tematiche affrontate. In più, fatto da non trascurare, il disco innova parzialmente l’estetica di Blood Orange, con sonorità che richiamano “Blonde” di Frank Ocean.

Fin dall’inizio, “Negro Swan” appare un LP perfettamente intonato ai tempi in cui viviamo: Dev evoca la figura del cigno nero per esprimere la fragilità della condizione di molte persone che, proprio perché diverse o semplicemente eccentriche, vengono isolate. L’uso della parola più odiata dagli afroamericani, inoltre, richiama i problemi di discriminazione razziale di cui spesso i neri sono vittime. Fin dal primo singolo estratto è chiaro questo messaggio: “No one wants to be the odd one out at times” canta Hynes in Charcoal. In Orlando, la splendida apertura del disco, si dice “First kiss was the floor”, implicitamente condannando il bullismo esercitato da alcuni su Hynes in gioventù.

Musicalmente, l’aspetto più importante, il disco è un trionfo: abbiamo già accennato al bellissimo primo brano in scaletta, Orlando, caratterizzato da ritmiche lente ma tremendamente sexy, che richiamano il miglior Prince. Da ricordare anche Saint, altra ballata adatta a danze lente e sensuali. Sono infine ottime anche Charcoal Baby e Chewing Gum. L’unica pecca sono i brevi intermezzi, spesso inferiori al minuto, che costellano il CD (ad esempio Family).

In conclusione, “Negro Swan” rappresenta un altro gigantesco passo avanti nella carriera di Blood Orange, ormai a pieno titolo nella ristretta lista degli artisti che davvero parlano efficacemente del nostro tempo e, musicalmente, stanno innovando i generi musicali che frequentano.

45) Nicolas Jaar, “Space Is Only Noise” (2011)

(ELETTRONICA)

Gli anni ’10, nell’ambito della musica elettronica, sono stati senza dubbio influenzati dalla figura di Nicolas Jaar. Il produttore cileno, fra l’attività in proprio, i Darkside e il progetto A.A.L. (Against All Logic) ha creato un ecosistema integrato che, fondendo fra loro rock, elettronica e musica ambient, ha fortemente influenzato (e probabilmente continuerà a influenzare) l’intera scena musicale.

L’esordio “Space Is Only Noise” mette in mostra un talento cristallino: passando da atmosfere ambient (Être) a sample di Ray Charles (I Got A Woman) Jaar crea un CD tanto strano e vario quanto affascinante. Pochi nell’elettronica moderna sanno essere così versatili ed efficaci, prova ne sia anche il suo secondo LP “Sirens” del 2016, più politico ma non per questo fine a sé stesso.

“Space Is Only Noise” si staglia pertanto come un nodo fondamentale per la musica elettronica del decennio, che ci ha fatto conoscere un talento unico e destinato a scrivere ancora molte pagine importanti nel futuro. Chissà che il capolavoro a firma Nicolas Jaar non debba ancora arrivare…

44) The Horrors, “Skying” (2011)

(ROCK)

Migliorare i risultati già ottimi di “Primary Colours” (2009), il CD che aveva fatto conoscere gli Horrors al mondo, non era per nulla semplice. Il gruppo britannico, con il terzo lavoro di studio “Skying”, non solo lo fa, ma riesce anche a sperimentare ulteriori ritmi e generi musicali, producendo un concept album sul cielo (come già il titolo indica) con forti influenze elettroniche e psichedeliche.

Abbiamo quindi un lavoro meno immediato del precedente, ma ancora più raffinato e profondo: i migliori pezzi sono le iniziali Changing The Rain e You Said, oltre alla meravigliosa Endless Blue (prima lenta, poi shoegaze scatenato), a Oceans Burning e a Wild Eyed (che ricorda gli Strokes). In poche parole: uno dei migliori album del 2011 e della decade 2010-2019.

43) The National, “High Violet” (2010)

(ROCK)

Il quinto album dei The National è ancora oggi il loro prodotto più ornato e barocco. Ricco di sfumature e caratterizzato da toni più cupi rispetto ai loro precedenti lavori, “High Violet” contiene anche alcuni dei brani più iconici del gruppo statunitense. Da Sorrow a Terrible Love, ancora oggi capisaldi dei loro concerti, passando per Bloodbuzz Ohio ed England, secondo molti fans “High Violet” è il disco più bello dei The National.

Effettivamente, se eccettuiamo la più prevedibile Anyone’s Ghost, “High Violet” è uno dei CD rock più compiuti e organici della decade appena trascorsa. Certo, il quintetto non brilla per originalità, ma di LP così “umani” nei testi e nelle fragilità messe in mostra ce ne vorrebbero di più.

È un fatto che poi i The National abbiano fatto anche di meglio col successivo “Trouble Will Find Me” (2013), ma ciò non va a demerito di questo LP, che anzi occupa con merito la posizione 43 nella lista dei migliori album della decade di A-Rock.

42) Nick Cave & The Bad Seeds, “Skeleton Tree” (2016)

(SPERIMENTALE – ROCK)

Come nel 2015 Sufjan Stevens ci aveva fatto commuovere celebrando la figura della madre morta da poco di cancro, Nick Cave con questo CD ricorda il figlio 15enne morto cadendo da una rupe durante le registrazioni del CD che sarebbe diventato “Skeleton Tree”.

Accompagnato dai fedeli Bad Seeds, il veterano australiano del rock alternativo e sperimentale produce un lavoro denso e complesso, come del resto era facile attendersi. Nick Cave mescola sonorità diverse fra loro, tra sperimentalismo, musica ambient e soft rock. I titoli e i testi delle canzoni sono evocativi: I Need You e la lirica “Nothing really matters”, oppure “I am calling you” in Jesus Alone e infine il verso più straziante, contenuto in Distant Sky: “They told us our dreams would outlive us, but they lied”.

Nel film tratto dalla registrazione di “Skeleton Tree”, la drammaticità del momento vissuto da Cave è ancora più evidente; speriamo che aver condiviso la pena di aver perso un figlio così giovane possa alleviare la pesantezza che certamente lui e la sua famiglia portano nel cuore. Noi, umilmente, non possiamo che ringraziarlo per un altro magnifico tassello di una carriera davvero leggendaria: pezzi come la title track, Rings Of Saturn e la già citata Distant Sky sono bellissimi sia musicalmente che, come già accennato, nei loro testi. In poche parole, uno dei CD più belli e delicati della sua eredità.

41) Beach House, “7” (2018)

(ROCK – POP)

I Beach House, duo originario di Baltimora, ci avevano abituato ad estrarre dal cilindro sempre nuovi modi per non suonare monotoni, malgrado abbiano calcato sostanzialmente le scene di un solo genere durante tutta la loro ormai lunga carriera: un dream pop raffinato quanto si vuole, ma pur sempre una sonorità già inflazionata da molti artisti. “7” è quindi un enorme passo avanti per Victoria Legrand e Alex Scally: per la prima volta è chiara la volontà di andare oltre, aprendosi a nuovi suoni e ritmi, con addirittura dei veri e propri assoli di chitarra e la presenza dei sintetizzatori più forte che mai.

Possiamo dire senza tema di smentita che “7” è il disco più denso del gruppo; ed è tutto dire, visto che nel già 2015 avevamo detto la stessa cosa per la coppia di album pubblicati in quell’anno, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Stars”. In effetti, in quei lavori si era intravista una volontà di cambiamento in Scally e Legrand: ad esempio, Sparks ed Elegy To The Void suonavano quasi rock, mentre le atmosfere erano ancora più malinconiche del solito, quasi opprimenti.

Tuttavia, è con questo disco che la svolta è compiuta. Per i Beach House si apre una nuova pagina di una carriera già piena di grandi successi, sia di critica che di pubblico: basti pensare a “Teen Dream” (2010) e “Bloom” (2012). Partiamo dal primo pezzo della tracklist: Dark Spring ricorda da vicino i My Bloody Valentine di “Loveless”. Non a caso, lo shoegaze è il genere a cui si sono aperti i Beach House in “7”: è evidente questo fatto anche nella magnifica Dive, vero capolavoro del disco e uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band. Altri highlights sono Lemon Glow, con quel synth in sottofondo che sembra provenire da un altro mondo; Last Ride, che chiude magicamente il disco; e Pay No Mind. Buona anche la delicata Woo. Forse inferiori alla media L’Inconnue e Black Car, ma stiamo parlando comunque di brani interessanti, che rievocano i primi dischi del gruppo.

I Beach House sembravano aver imboccato una parabola discendente: il dream pop pareva stargli stretto e c’era grande bisogno di aria fresca per Legrand e Scally. La risposta è arrivata nell’eccellente “7”: chi avrebbe pensato che un LP dei Beach House avrebbe contenuto un assolo potente come quello in Dive?

40) Kendrick Lamar, “DAMN.” (2017)

(HIP HOP)

Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto disco di Kendrick Lamar, in data 14 aprile. Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

Questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni: adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica. Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD merita la top 50 dei più belli del decennio. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è una ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva.

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un altro capolavoro o quasi, magari inferiore a “To Pimp A Butterfly” (2015), ma comunque notevole.

39) Arcade Fire, “The Suburbs” (2010)

(ROCK)

Giunti al fatidico terzo album, gli Arcade Fire virano verso un pop molto più barocco dei precedenti lavori, i classici “Funeral” (2004) e “Neon Bible” (2007), con spruzzate di dance (come nella bella Sprawl II – Mountains Beyond Mountains). Il tema portante adesso è l’infanzia dei componenti della band nei sobborghi di Houston.

Anche in “The Suburbs” pezzi riusciti non mancano: in particolare ricordiamo Ready To Start, We Used To Wait e City With No Children, tutti singoli estratti per promuovere il CD e fra i brani migliori mai composti dalla band. Gli Arcade Fire all’epoca sembravano incapaci di sbagliare un LP: l’epiteto di “rock band migliore del mondo” era più che meritato.

Che poi i canadesi abbiano virato verso l’elettronica (con “Reflektor” del 2013) e il pop anni ’70 con “Everything Now” (2017), con risultati controversi, non diminuisce di un’unghia i meriti artistici di “The Suburbs”, LP tanto ambizioso quanto riuscito (e premiato come album dell’anno ai Grammy).

38) Mount Eerie, “A Crow Looked At Me” (2017)

(FOLK)

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la scomparsa dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando lui e una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a ribadire il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere il tuo tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire da un momento all’altro, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

37) Atlas Sound, “Parallax” (2011)

(ROCK)

Il leader dei Deerhunter Bradford Cox, con il progetto Atlas Sound, ha da sempre inteso dare sfogo alla sua vena sperimentale, specialmente nei primi due CD “Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel” (2008) e “Logos” (2009). Invece “Parallax” sarebbe stato un disco perfetto anche per la sua band principale, reduce peraltro in quegli anni dal meraviglioso “Halcyon Digest”: momenti psichedelici si mescolano perfettamente con momenti dream pop e altri più rock, in un amalgama ingentilito da atmosfere sobrie e dalla bella voce di Cox.

Per certi versi questo è il lavoro più pop per Bradford: canzoni perfette o quasi come Te Amo o Mona Lisa farebbero la fortuna di molti artisti indie. Il CD in generale scorre benissimo, con una durata perfetta in termini di canzoni (12) e minuti (48) che lo rendono un “must listen” per gli amanti dei Deerhunter e, in generale, per i fans dell’indie rock più sobrio e raccolto.

36) Janelle Monáe, “Dirty Computer” (2018)

(POP – R&B)

Il terzo album di Janelle Monáe, popstar ormai di livello internazionale, era attesissimo. Dopo due pregevoli CD, che avevano fatto di lei la più degna erede di Prince, “The ArchAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013), tutti la attendevamo al varco: riuscirà a replicarsi? Oppure arriverà un’inevitabile flessione? Beh, la bella Janelle non solo si è replicata, è riuscita addirittura a migliorare i risultati dei suoi primi due lavori.

Nella breve intro Dirty Computer notiamo il decisivo contributo del grande Brian Wilson, ex Beach Boys; il primo highlight è Crazy, Classic, Life: Prince sarebbe molto fiero che la sua protetta abbia prodotto un pezzo così perfetto. Non mancano, oltre a Wilson, altre collaborazioni eccellenti: da Pharrell Williams a Grimes, passando per Zöe Kravitz (figlia di Lenny) allo stesso Prince, che prima della morte avrebbe contribuito ad ispirare la Monáe. Insomma, alcuni dei maggiori artisti dello scenario contemporaneo e della storia del pop/rock. Altri pezzi notevoli sono Pynk, pezzo funk minimal in cui Janelle invita tutti a ballare sulle basi di Grimes; il singolo Make Me Feel, grande funk che non fa rimpiangere i tempi di James Brown e Michael Jackson; e I Like That. L’unica traccia leggermente sotto la media è I Got The Juice, con Pharrell Williams, ma insomma sarebbe comunque un buon pezzo nelle tracklist del 90% dei CD R&B degli ultimi anni.

In conclusione, la Monáe, con questo disco, ha probabilmente raggiunto il picco delle proprie capacità: nello spazio di 14 canzoni e 49 minuti di durata, ha coperto un tale territorio musicale che molti artisti non riescono a coprire in un’intera carriera. Dal rap di Django Jane al funk di Crazy, Classic, Life, passando per l’R&B di I Like That e Americans e l’elettronica soft di Pynk… Insomma, un capolavoro fatto e finito.

35) black midi, “Schlagenheim” (2019)

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

34) Kendrick Lamar, “Good Kid, m.A.A.d City” (2012)

(HIP HOP)

Il secondo album del rapper originario di Compton è stato un punto di svolta per il panorama musicale nel suo intero, non solo per l’hip hop. Mescolando abilmente basi old style con ritratti vividi, a volte tragici, della vita di periferia a Compton, Kendrick si è ritagliato un posto speciale nel cuore dei fans del rap.

Grazie poi alla presenza di ospiti di spessore ma mai invadenti (Dr. Dre, Drake e Jay Rock fra gli altri) il CD si è fatto strada velocemente, raggiungendo anche risultati commercialmente importanti e pienamente meritati. Non ci scordiamo infatti che il disco non contiene solo le più accessibili Poetic Justice e Bitch, Don’t Kill My Vibe; i pezzi veramente stupefacenti sono l’allucinata Sing About Me, I’m Dying Of Thirst (12 minuti di continui capovolgimenti del beat e del flow) e la durissima Backseat Freestyle, puro strumento di K-Dot per far capire a tutti chi fosse il più dotato rapper della sua generazione. Non tralasciamo poi la magnifica The Art Of Peer Pressure e Swimming Pools (Drank), che sarebbero il gioiello della corona del 90% dei rapper attualmente in attività.

“Good Kid, m.A.A.d City” sarebbe l’opera definitiva di pressoché tutti i rapper esistenti. Invece Lamar ha fatto anche di meglio con il successivo “To Pimp A Butterfly” (prego guardare più avanti nella lista), segno che lui e solo lui ha le stigmate per essere incoronato simbolo di una generazione e, senza discussione, miglior rapper degli anni ‘10.

33) Arctic Monkeys, “AM” (2013)

(ROCK)

Una cosa mancava agli Arctic Monkeys per entrare definitivamente nell’Olimpo del rock: il successo in America. Ebbene, “AM” è quello che “The Joshua Tree” è stato per gli U2: la porta d’ingresso per nuove, sconfinate realtà (e un aumento vertiginoso delle vendite).

Le scimmie artiche cambiano ancora nel 2013: nitidi ora sono i riferimenti all’hard rock di Black Sabbath e Kiss. Da non banalizzare però anche le influenze R&B di Dr. Dre (One For The Road) e del rock gentile di Lou Reed (Mad Sounds). Si nota infine l’influenza di Josh Homme e dei suoi Queens Of The Stone Age (Knee Socks), con “Humbug” che ha funto da semplice prova prima del grande salto con “AM”. Resta qualcosa di “Suck It And See”, soprattutto in No.1 Party Anthem; sono però altri i brani top. Da ricordare la durissima Arabella, la celeberrima Do I Wanna Know? e la trascinante Why D’You Only Call Me When You’re High?, ma è anche riuscita la già citata One For The Road.

Gli esordi indie sono ormai dimenticati: Turner e co. sono diventati qualcosa di infinitamente più grande e interessante. In poche parole: una delle più importanti e famose rock band del mondo.

32) Lorde, “Melodrama” (2017)

(POP)

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima. Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

Se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde.

31) Sun Kil Moon, “Benji” (2014)

(FOLK)

Giunto al sesto lavoro di studio, il progetto Sun Kil Moon (capeggiato da Mark Kozelek) ha raggiunto con “Benji” la definitiva consacrazione. Kozelek in “Benji” ritorna all’indie folk delle origini, ma apre contemporaneamente ad un rock quanto mai delicato e gentile. La sua voce, profonda ed evocativa, aiuta a costruire un album quasi perfetto: pezzi come I Can’t Live Without My Mother’s Love e Ben’s My Friend sono già classici, mentre il più “mosso” I Love My Dad ricorda i Kings Of Leon, ma migliorati.

La malinconia che pervade “Benji” non cancella la gioia di vivere trasmessa dalle 11 tracce: del resto, la famiglia e gli amici sono o non sono le cose più importanti della vita?

30) M83, “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011)

(ELETTRONICA – ROCK – POP)

“Ah, questo è il disco di Midnight City!”: ecco il pensiero dell’ascoltatore medio ai tempi dell’uscita di “Hurry Up, We’re Dreaming”, il monumentale doppio album degli M83, il complesso capitanato da Anthony Gonzalez. Il CD è un mix molto eclettico di elettronica epica al punto giusto, rock massivo pronto per le arene di tutto il mondo e pop da cameretta. La cosa stupefacente è che, malgrado l’inevitabile lunghezza in termini di brani (22) e minutaggio (73 minuti), nulla è superfluo.

“Hurry Up, We’re Dreaming” è ad oggi il più riuscito album del complesso di origine francese ma ormai americanizzato, nessuna discussione al riguardo: il pur eccezionale “Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts” (2003), il disco con cui Gonzalez e compagni si erano fatti conoscere al mondo, resta un passo indietro rispetto alla bellezza di pezzi come la celeberrima Midnight City o la Intro. Da non scordare poi la presenza di altri brani iconici come Wait, la bellissima Reunion e la Outro che chiude magistralmente il lavoro.

Gli M83 non sarebbero più stati in grado di replicare la magniloquente bellezza di “Hurry Up, We’re Dreaming”: sia “Junk” (2016) che il più ambient “DSVII” (2019) hanno deviato dal percorso synth/dream pop del precedente capolavoro, con risultati controversi. Del resto, il peso di un CD così riuscito non è facile da sopportare. Siamo tuttavia sicuri che gli M83 hanno ancora delle frecce al loro arco, magari non capaci di creare altri lavori così definitivi, ma almeno interessanti e degni della fama di “Hurry Up, We’re Dreaming”.

29) Beach House, “Teen Dream” (2010)

(POP)

Il terzo album dei Beach House è stata una ventata di freschezza nell’ormai lontano 2010: il mondo dream pop non aveva un manifesto così definito e impeccabile dai tempi dei Cocteau Twins. Pur avendo definito il loro sound già nei loro due precedenti lavori, il timido “Beach Hoise” del 2006 e “Devotion” del 2008, è con “Teen Dream” che Beach House diventa sinonimo di pop di qualità eccelsa.

Mai prima infatti la vocalist Victoria Legrand e il polistrumentista Alex Scally erano parsi così all’unisono determinati, con una chiara visione in testa e una crescita dal punto di vista personale e artistico così vasta ne è un chiaro segnale. Del resto, pezzi come Norway e la più rock 10 Mile Stereo ancora oggi fanno parte del canone del duo, con pieno merito.

I Beach House nel 2012 produrranno un LP ancora più stupefacente di “Teen Dream” (scorrete più avanti per vedere in che posizione si trova nella classifica di A-Rock); ma “Teen Dream” occupa un posto speciale nel cuore dei fans del duo statunitense. È la piena dimostrazione che, quando si esce dalla propria comfort zone, i risultati possono essere a prima vista strani, ma si può arrivare a creare prodotti eccellenti.

28) King Krule, “The OOZ” (2017)

(ROCK – SPERIMENTALE – JAZZ)

Rock, punk, trip hop, jazz, R&B: ecco alcuni dei generi affrontati con successo da Archy Marshall nel suo nuovo CD a nome King Krule. Le numerose identità artistiche assunte da Archy (Zoo Kid, King Krule, il suo stesso nome) hanno significato spesso alcuni cambi nel sound dei dischi prodotti: più ingenui i brani di Zoo Kid, molto eclettici quelli di King Krule, elettronici quelli a nome Archy Marshall. In “The OOZ”, il giovane cantante inglese propone una ricchissima collezione (19 canzoni per 77 minuti di durata), molto varia, sia come lunghezza dei pezzi che come sonorità. Come già accennato, abbiamo pezzi feroci (come la bellissima Dum Surfer e Half Man Half Shark), brani jazz (le belle ballate Czech One e Logos), altri che ricordano i Blur di “13” (Lonely Blue e Biscuit Town).

In generale, stupisce come finalmente Archy sia riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento pur producendo un disco che molti potrebbero bollare come incoerente o troppo ambizioso: un ventunenne che produce con uguale facilità brani rock, jazz e punk non è comune. Inoltre, malgrado il gran numero di brani nella scaletta, nessuno è puramente usato come riempitivo; belli poi i richiami interni al CD, per esempio le due versioni di Bermondsey Bosom, prima “left” poi “right”.

I testi, come sempre nelle canzoni a nome King Krule, affrontano il lato sporco del mondo, in particolare della vita di un giovane di periferia: solitudine, criminalità, droga. Non è un disco facile, come avrete capito: tuttavia, per gli ascoltatori pazienti e amanti della musica ambiziosa e sperimentale, “The OOZ” è un trionfo. Fra i brani migliori abbiamo le già ricordate Dum Surfer e Czech One; non male anche l’enigmatica A Slide In (New Drugs) e The Cadet Leaps, che sembra presa da un disco di Brian Eno. Ottima la title track. Meno riuscite invece Midnight 01 (Deep Sea Diver) e Emergency Blimp, ma non rovinano un LP davvero fantastico. Le influenze sono numerose, ma proprio per questo il sound creato da King Krule è unico: un po’ Massive Attack, un po’ Joy Division, un po’ Tom Waits ecc.

In conclusione, Archy Marshall ha finalmente prodotto quel capolavoro che critica e pubblico aspettavano, ciò che “6 Feet Beneath The Moon” non era stato, malgrado la hype creata da alcuni media specializzati.

27) Frank Ocean, “Blonde” (2016)

(POP – R&B)

“Blonde”, a tutti gli effetti terzo album di inediti di Frank Ocean, è una continua scoperta. Rispetto a “Channel Orange” manca la vulcanica creatività e l’accavallarsi di generi diversi che caratterizzavano il precedente CD, ma migliora la coesione generale e aumentano gli ospiti e i produttori di spessore, che rendono “Blonde” davvero irrinunciabile per gli amanti della buona musica.

In “Blonde” predomina un pop orecchiabile e affascinante, che in certi tratti si rifà a Prince (come nella bella Ivy); in altri casi invece compaiono lunghe interviste simili al Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly” (come nella conclusiva Futura Free). In generale, un album con collaboratori come Beyoncé, Kendrick stesso, Kanye West, Brian Eno, Jonni Greenwood dei Radiohead, Rostam Batmanglji dei Vampire Weekend e Jamie xx (ma non abbiamo citato il sample di Here, There And Everywhere dei Beatles in White Ferrari, oppure David Bowie e Gang Of Four, presunti “ispiratori” di Ocean nel making of del disco) non può che avere quel qualcosa in più rispetto a lavori più “convenzionali”.

Le liriche dell’album sono anch’esse significative: in Nikes (la bellissima traccia iniziale) si fa riferimento alle uccisioni di uomini di colore che recentemente hanno colpito gli Stati Uniti; in Be Yourself sentiamo, sotto una nenia che ricorda “Hurry Up, We Are Dreaming” degli M83, una telefonata in cui la mamma di Frank dice al figlio di accettarsi per com’è, non cercando di apparire diverso per far felici gli altri, e gli consiglia di non fare mai uso di stupefacenti nella sua vita (un testo che dice molto delle traversie passate da Frank negli scorsi anni); Facebook Story narra la storia assurda di un uomo e della sua ragazza, ossessionata dai social networks; Solo (Reprise) affida ad André 3000 (altro gradito ospite) accuse varie ai rapper che fanno scrivere ad altri i loro versi (vero Drake?). Vi sono poi liriche più intime, come nella bella Solo o in Skyline To, che raccontano le avventure sessuali e non di Frank. Frank Ocean ha dimostrato che, anche se può sembrare “staccato” dalla realtà, in realtà segue attentamente gli sviluppi storici e sociali dei nostri tempi. Insomma, canzoni come Nikes, Ivy, Nights e Futura Free resteranno negli annali.

26) Kendrick Lamar, “To Pimp A Butterfly” (2015)

(HIP HOP)

Kendrick era tornato dopo il pluripremiato “Good Kid, m.A.A.d. City” (2012) e le aspettative erano più alte che mai: tornerà agli stessi, straordinari livelli? La risposta è: decisamente sì. Anzi, per certi versi “To Pimp A Butterfly” riesce in una missione che “Good Kid…” aveva tralasciato: ridare orgoglio alla comunità nera, colpita come abbiamo visto da tragici eventi negli Stati Uniti.

Mentre infatti il secondo album solista narrava l’infanzia dell’autore, “To Pimp A Butterfly” denuncia le discriminazioni subite dagli afroamericani statunitensi (For Free, ma anche For Sale e How Much A Dollar Cost? sono chiari esempi).

Musicalmente parlando, il CD allarga lo spettro musicale di Lamar, passando dal jazz (in For Free) ai ritmi della musica africana (Momma). Notevoli le collaborazioni con due mostri sacri del rap come Snoop Dogg (in Institutionalized) e Dr. Dre (in Wesley’s Theory). La bellissima King Kunta è probabilmente il miglior pezzo hip hop del 2015. Alright è poi diventato l’inno ufficiale del movimento “Black Lives Matter”, che rivendica la parità di tutti davanti alla legge. Infine, la parte finale della conclusiva Mortal Man è davvero fantastica, con l’intervista di K-Dot all’idolo d’infanzia Tupac Shakur, tragicamente deceduto, finalmente completa.

Insomma, un trionfo lungo più di 78 minuti: un classico dell’hip hop moderno, un LP che può anche parlare ai non appassionati del genere e che merita ogni acclamazione ricevuta nel corso degli anni.

25) The War On Drugs, “Lost In The Dream” (2014)

(ROCK)

La crescita e la definitiva consacrazione dei The War On Drugs è una delle storie più belle della decade appena trascorsa. La band americana, capitanata da Adam Granduciel e in origine supportata anche da Kurt Vile, è diventata una delle più belle realtà del rock grazie ad una sconfinata ambizione e alla sapiente abilità di fondere le atmosfere del rock anni ’70 di Bruce Springsteen con atmosfere psichedeliche e quasi oniriche, creando album avvolgenti e di crescente successo, l’ultimo dei quali, il monumentale “A Deeper Understanding” (2017), è stato premiato come “album rock dell’anno” ai successivi Grammy Awards.

“Lost In The Dream” è il CD dove si è compreso pienamente il potenziale della band. Le due tracce iniziali, la lunghissima Under The Pressure e la pressoché perfetta Red Eyes, sono chiari esempi di un gruppo pronto a decollare. Ne sono prova ulteriore l’irresistibile An Ocean In Between The Waves e la conclusiva In Reverse.

Adam Granduciel e soci meritano ogni apprezzamento: riuscire ad attualizzare un genere come il rock più classico senza risultare conservatori o peggio ai limiti del plagio è un’abilità non comune, farlo con questa brillantezza un dono di pochi.

24) David Bowie, “Blackstar” (2016)

(ROCK)

Mancano le parole quando parliamo della scomparsa di uno dei più grandi cantanti della storia: quel David Bowie autore di capolavori indimenticabili come Heroes, Rebel Rebel e Life On Mars?. Lo showman Bowie aveva sicuramente previsto tutto: fare uscire il suo ultimo LP appena due giorni prima della morte è un qualcosa di incredibile, l’ultima magia del Duca Bianco.

Infatti, uno dei primi album ad uscire nel 2016 (8 gennaio) si è rivelato essere un superbo testamento artistico, il testamento artistico di David Bowie. “Blackstar” è un capolavoro di inventiva e sintesi: 7 brani mai banali, tutti indicatori di una creatività che, malgrado un fisico fiaccato dalla malattia, non è venuta mai meno. Spiccano in particolare la lunghissima, epica title track; Lazarus (che richiama i Radiohead di “In Rainbows”) e Girl Loves Me. Da non trascurare anche Sue (Or In A Season Of Crime).

Cosa chiedere di più al Duca Bianco? “Blackstar” non sarà il miglior album della sua produzione, ma senza dubbio resterà negli annali come uno dei più belli del 2016 e dell’intero decennio. Chapeau, Starman.

23) Vince Staples, “Summertime ‘06” (2015)

(HIP HOP)

Abbiamo già avuto modo di vedere che il 2015 è stato un anno incredibile per la musica; tuttavia, non va trascurata la definitiva affermazione di Vince Staples, che grazie al suo album d’esordio “Summertime ‘06” ha scritto una pagina indelebile del rap recente.

Aiutato dalla produzione oscura e penetrante di Clams Casino e Dion “No I.D.” Wilson, uomo di punta dell’etichetta Def Jam, le canzoni del doppio CD sono tra loro connesse da tematiche comuni (la tragica vita nelle periferie californiane, la totale assenza di sentimenti positivi e la perdita della speranza) ma anche da ritmiche simili: i 60 minuti di “Summertime ‘06” passano molto bene, con capolavori fatti e finiti come Norf Norf e Lift Me Up.

Indelebili sono poi alcuni versi. In Summertime Vince canta: “My teachers told us we were slaves, my momma told me we were kings, I don’t know who to listen to. I guess we somewhere in between. My feelings told me love is real, but feelings here can get you killed”. Oppure questa frase, amara quanto a volte condivisibile, contenuta in Jump Off The Roof: “I hate when you lie; I hate the truth, too”.

Insomma, nessuna delle due metà è sovraccarica o noiosa, mantenendo il livello complessivo del CD altissimo e consentendo a Vince Staples di poter osare nei suoi successivi lavori, i brevissimi “Big Fish Theory” (2017) e “FM!” (2018), non sbagliando peraltro mai un colpo.

22) St. Vincent, “St. Vincent” (2014)

(ROCK – POP)

Il quarto album solista di Annie Clark (non contando dunque quello collaborativo con David Byrne), in arte St. Vincent, è il suo CD più compiuto. Traendo spunto da “Strange Mercy” (2011) e sviluppando ulteriormente le proprie sensibilità pop, Annie ha costruito un prodotto praticamente perfetto, con le perle di Birth In Reverse, che difende l’indie rock delle origini, e Prince Johnny, che invece flirta con il pop, un fatto che poi scopriremo essere determinante per “MASSEDUCTION” (2017).

“St. Vincent” è un lavoro che dimostra molta confidenza nei propri mezzi da parte dell’artista, evidente nei pezzi dove le sue notevoli abilità alla chitarra sono in mostra, si pensi a Birth In Reverse e Huey Newton. Tuttavia, non si scade mai nell’arroganza o nella prevedibilità, tanto che il CD è coeso e degno della palma di miglior LP del 2014.

Non abbiamo mai rivisto una St. Vincent così creativa e allo stesso tempo sicura di sé, nondimeno Annie Clark ha già dimostrato in passato di non essere nuova a reinvenzioni. La cantautrice statunitense si è infatti affermata come una delle maggiori artiste della decade appena trascorsa, segno che il rock ha ancora modo di stupire i fans.

21) Tame Impala, “Currents” (2015)

(ROCK – ELETTRONICA)

Coraggio: ecco una delle parole chiave per descrivere la svolta dei Tame Impala. Dopo due album riusciti come “Innerspeaker” (2010) e “Lonerism” (2012), ci saremmo aspettati un inevitabile passo falso del quintetto australiano. Beh, mai impressione fu più sbagliata: la band “aussie” capitanata da Kevin Parker non finisce di stupire, pubblicando un CD davvero gradevole.

“Currents” si distacca dalla psichedelia dei due precedenti lavori, virando decisamente verso una elettronica zuccherosa e tremendamente ammaliante. Eventually e Cause I’m A Man ne sono esempi notevoli (la prima inizia potente, poi diventa quasi Bee Gees; la seconda è una ballata davvero buona), ma il vero capolavoro è Let It Happen: 7 minuti piazzati ad inizio album (il rischio supponenza o arroganza era altissimo) a imitare i Daft Punk, con parte centrale quasi “tamarra” e voce di Parker quanto mai distorta. Clamorosa Past Life, con duetto fra Parker e una misteriosa seconda voce su base R&B: brano da urlo. Da non sottovalutare anche Yes, I’m Changing e Disciples, unico pezzo che ricorda il passato psichedelico del gruppo.

Insomma, “Currents” segna una svolta fondamentale nella carriera dei Tame Impala, a questo punto uno dei maggiori gruppi rock contemporanei. Ma sorge spontanea una domanda: possiamo ridurre Parker & co. al rock? Direi proprio di no. “Currents” ha ampliato notevolmente il loro range sonoro, passando per elettronica e funk. Chapeau ad una delle più significative band contemporanee.

20) Grizzly Bear, “Shields” (2012)

(ROCK)

Il quarto album degli statunitensi Grizzly Bear è il loro album più complesso, privo delle hit che li resero famosi nel precedente “Veckatimest” (2009), soprattutto la famosissima Two Weeks, ma caratterizzato da un’ambizione negli arrangiamenti e nei cambi di ritmo degni dei migliori Radiohead e di Joni Mitchell.

Già i singoli di lancio, Sleeping Ute e Yet Again, fecero gridare al miracolo nell’ormai lontano 2012; ma ancora oggi sono brani modernissimi, che rendono “Shields” un CD dall’altissimo replay value, grazie ad una produzione impeccabile e a una cura del dettaglio incredibile. Oltre alle canzoni citate prima, sono da ricordare i pezzi che chiudono il disco: Half Gate e Sun In Your Eyes sono clamorosi, ancora oggi fra i migliori della carriera già fiorente dei Grizzly Bear.

I due alfieri della band, Ed Droste e Daniel Rossen, non sono più riusciti a tornare ai brillanti risultati di “Shields”, mantenendo un buon livello ma mai la quasi perfezione che caratterizza questo lavoro, uno dei migliori lavori art rock della decade.

19) Real Estate, “Days” (2011)

(ROCK)

Eccolo qua il capolavoro (ad oggi) della discografia dei Real Estate: con “Days” la band statunitense raggiunge probabilmente il risultato massimo ottenibile con la formula che caratterizza il loro genere musicale, fatto di indie rock soft mischiato con il folk gentile tipico dei Fleet Foxes prima maniera.

Dieci brani pressoché perfetti, coesi e senza passi falsi: si va dal soft rock di Out Of Tune alla bellissima cavalcata di All The Same, dal pop elegante di Green Aisles alla notevole It’s Real. Il capolavoro vero è però Municipality, un brano degno dei migliori Beach Boys. In generale, in un 2011 caratterizzato da rivali di assoluto rilievo (Bon Iver e M83, per esempio), “Days” si staglia come uno dei migliori lavori non solo di quell’anno, ma anche del decennio.

18) Girls, “Father, Son, Holy Ghost” (2011)

(ROCK)

Dopo il successo del primo CD “Album” e un EP di pregevole qualità, “Broken Dreams Club” del 2010, con i picchi delle squisite Heartbreaker e Carolina, i Girls erano attesi al varco.

E la giovane band non si fa trascinare e non cerca di strafare; piuttosto, “Father, Son, Holy Ghost” perfeziona la formula vincente di “Album”, migliorando la produzione e la cura dei dettagli delle singole canzoni, oltre alla coesione generale. Perso l’effetto sorpresa, Owens e co. cercano quindi di raggiungere il picco delle loro potenzialità, citando anche i Led Zeppelin (Die).

I risultati sono ancora una volta grandiosi: brani come Honey Bunny, Vomit e Forgiveness sono fantastici. Il capolavoro vero è però Alex: 4 minuti di bellissimo britpop, con forti reminiscenze degli Oasis, con strati di chitarre che si accumulano e la calda voce di Owens a tenere insieme il tutto. In poche parole, uno dei più riusciti LP dell’anno e anche del decennio. Chiusura migliore non si poteva immaginare per la carriera dei Girls.

17) Daft Punk, “Random Access Memories” (2013)

(ELETTRONICA)

Il 2013 è stato decisamente un buon anno per la musica; abbiamo avuto ottimi album indie rock, dai The National ai Vampire Weekend, hip hop avanguardistico ma accessibile (“Yeezus”) e… “Random Access Memories”. Il CD dei Daft Punk fa in effetti storia a sé: nato come un album tributo ai maestri del geniale duo, da Giorgio Moroder a Todd Williams, passando per Nile Rodgers degli Chic, si è evoluto nel maggior successo dei francesi, ancora oggi apprezzatissimo sia dai fans maggiormente mainstream che da quelli più ricercati.

Sì, perché in “Random Access Memories” ognuno può trovare un pezzo di suo gradimento: dal soft rock della sontuosa Give Life Back To Music al prog pop di Giorgio By Moroder, alla ballabilità dell’immortale Get Lucky, a pezzi più ricercati come Touch e Within… Senza trascurare la collaborazione di Panda Bear in Doin’ It Right e quella di Julian Casablancas nella memorabile Instant Crush.

Insomma, un trionfo per gli audiofili così come per l’ascoltatore casuale. Peccato solamente che ancora non sia arrivato l’erede di “Random Access Memories”, ma conoscendo i tempi sempre piuttosto lunghi dei Daft Punk non è certo una sorpresa. Nondimeno, ci resta un altro capolavoro in una delle discografie più influenti di sempre nella musica elettronica; e non solo.

16) Car Seat Headrest, “Twin Fantasy” (2018)

(ROCK)

 “Twin Fantasy” occupa un posto speciale nel cuore di Toledo: questa è infatti la seconda versione dello stesso disco, la prima è stata pubblicata nel 2011 e aveva fatto conoscere a molti il talento di Toledo, allora ancora solista e impossibilitato ad avere una produzione curata a dovere.

Fondamentale è il background di “Twin Fantasy”: Toledo narra nel CD le sue disavventure, specialmente alla luce dei turbamenti adolescenziali e della scoperta della propria omosessualità, tanto che molti testi delle dieci canzoni che compongono il disco contengono riferimenti ad amori, sia passati che vissuti al tempo della composizione. Ne sono esempio “most of the time that I use the word ‘you’, well you know that I’m mostly singing about you”; oppure “we were wrecks before we crashed into each other”. Tuttavia, Toledo ha già dimostrato di essere anche ironico nelle sue liriche: ad esempio, in Bodys canta “Is it the chorus yet? No. It’s just a building of the verse, so when the chorus does come it’ll be more rewarding”, circostanza che poi si rivelerà veritiera peraltro.

La bellezza del CD non risiede tuttavia solamente nel concept alla sua base e nei testi: come già accennato, “Twin Fantasy” è uno dei più riusciti LP della decade. Le canzoni grandiose sono numerose: le lunghissime Beach Life-In-Death e Family Prophets (Stars) sono le ancore del disco, i punti ineludibili per chi ama le composizioni rock più ambiziose. Nervous Young Inhumans ricorda i migliori Killers, Bodys ha una base ritmica pazzesca, così come Cute Thing.

Risulta difficile trovare un pezzo meno efficace, tutti hanno la perfetta posizione nella tracklist e un significato ben preciso nella narrazione del disco. Magnifica, infine, la contrapposizione High To DeathSober To Death, altro passaggio cruciale per comprendere pienamente il CD e i temi da cui scaturisce.

Insomma, un capolavoro fatto e finito. Possiamo dunque concludere che il talento di Will Toledo è definitivamente sbocciato con la riedizione di “Twin Fantasy”: il giovane cantante ci aveva già mostrato parte delle sue potenzialità in “Teens Of Style” (2015) e “Teens Of Denial” (2016); mai, tuttavia, aveva prodotto un CD così bello.

15) Radiohead, “A Moon Shaped Pool” (2016)

(ROCK)

Diventa sempre più difficile parlare in maniera imparziale dei Radiohead, una delle band davvero fondamentali del rock degli ultimi vent’anni, con all’attivo album del calibro di “The Bends” (1995), “OK Computer” (1998) e “Kid A” (2000), senza dimenticarci di “In Rainbows” (2007). Ebbene, si sarebbe portati a pensare che ormai la spinta creativa del complesso inglese possa essersi esaurita, considerando anche il predecessore di “A Moon Shaped Pool”, quel misterioso “The King Of Limbs” (2011) che aveva fatto storcere il naso ad alcuni critici e fans della band.

Invece, “A Moon Shaped Pool” ribalta tutto ciò: 11 canzoni davvero ispirate, che passano dal rock vecchia maniera (la politica Burn The Witch e Identikit), alle ballate strappalacrime (le incantevoli Daydreaming e True Love Waits), passando per accenni di elettronica raffinata (in Ful Stop). Da ricordare anche l’apertura al folk di Desert Island Disk.

In poche parole, un altro capitolo di una carriera che ha del leggendario è stato scritto: la palma di miglior album del 2016 è pienamente meritata. Lunga vita a Thom Yorke e compagni, gli unici a cui l’etichetta di “nuovi Beatles” può adattarsi, data la continua ricerca sonora e la voglia di non darsi mai per vinti di fronte alle tendenze del panorama musicale contemporaneo.

14) Fleet Foxes, “Crack-Up” (2017)

(FOLK)

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, I Should See Memphis ricorda quasi gli Animal Collective nel finale, dopo un inizio dolce.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk.

13) The National, “Trouble Will Find Me” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei The National è quello che dovrebbe convincere anche coloro che avevano storto il naso per le precedenti opere della band indie rock capitanata da Matt Berninger. Tutto, dalla voce di Matt alla base ritmica dei fratelli Dessner e Darendorf, è al suo meglio in “Trouble Will Find Me”. I brani riusciti non si contano, dalla trascinante Graceless alla bellissima Don’t Swallow The Cap, fino alla celebre I Need My Girl, probabilmente la migliore ballata mai scritta dai The National.

Nota da tenere a mente: il CD è anche il loro disco più accessibile fino a quel momento, tanto che ancora oggi molti di questi pezzi sono punti nodali dei loro live. Ed è più che giusto che i loro eredi siano stati baciati dal successo, con “Sleep Well Beast” (2017) vincitore di un Grammy e “I Am Here Now” (2019) addirittura accompagnato da un breve film con protagonista Alicia Vikander.

Insomma, possiamo dirlo chiaro e tondo: i The National sono al momento la band indie rock più affidabile su piazza. E non è un complimento da poco, avendo battuto la concorrenza di Arcade Fire, Strokes e tutte le altre nate nei fiorenti anni ’00.

12) Beach House, “Bloom” (2012)

(POP)

Al quarto LP, gli americani Beach House hanno perfezionato a livelli estremi quella formula fatta di dream pop sopraffino con delicati intarsi indie e shoegaze che li ha resi uno dei gruppi di riferimento del pop-rock alternativo degli anni ’10.

Se il precedente “Teen Dream” (2010) aveva preparato il terreno (e posto le basi per molto dream pop successivo), in “Bloom” Victoria Legrand e Alex Scally sembrano totalmente a loro agio e pronti a raggiungere il picco delle loro capacità: capolavori come Myth, Lazuli e Troublemaker sono highlight di un disco pressoché impeccabile.

I Beach House non si sono fermati con questo album, anzi hanno cercato progressivamente di cambiare pelle, introducendo elementi psichedelici e di rock vero e proprio che hanno fatto di “7” (2019), come già visto in precedenza, un ottimo lavoro. Nessuno però, fino ad ora, ha raggiunto questi eccezionali livelli.

11) Destroyer, “Kaputt” (2011)

(ROCK)

Può un artista produrre il suo lavoro più completo dopo quasi venti anni (20!) di attività e 10 CD alle spalle? In effetti solo Dan Bejar poteva farlo. L’anima dei Destroyer infatti, con “Kaputt”, già nel titolo indica una cesura forte con la sua vita passata. Basta con gli eccessi, le droghe, le ragazze inseguite senza freni: Bejar vuole maturare e “Kaputt”, sia testualmente che musicalmente, è un capolavoro.

Il sound è fortemente anni ’80, richiamando il primo Michael Jackson e i Roxy Music, ma le liriche che accompagnano le 9 tracce del lavoro sono piene di riferimenti al passato turbolento di Dan: la title track parla di giorni sprecati dietro la cocaina e le donne, mentre la magnifica Blue Eyes contiene una delle più belle e toccanti frasi motivazionali: “I sent a message in a bottle to the press. It said: Don’t be ashamed or disgusted with yourselves”.

“Kaputt” è il prodotto di un cantautore al top delle sue potenzialità, con brani di spessore assoluto che vanno dal soft rock (Chinatown) all’indie rock (Savage Night At The Opera), passando per elementi quasi prog (Bay Of Pigs) e super ballate (Suicide Demo For Kara Walker). In poche parole: un LP imperdibile per gli amanti della musica morbida e seducente di Prince, Sade e… dei Destroyer.

10) Tame Impala, “Lonerism” (2012)

(ROCK)

Pubblico e critica erano rimasti ben impressionati da “Innerspeaker” e le attese per il suo successore erano molto alte. I Tame Impala le mantennero, addirittura superando il già brillante esordio. “Lonerism” infatti, oltre a una superiore qualità delle melodie, brilla anche per i bei testi di molti brani del CD.

A questo proposito abbiamo le bellissime Why Won’t They Talk To Me? ed Elephant, ma sono riuscitissime anche Mind Mischief, la lunga ma coinvolgente Apocalypse Dreams e l’introduttiva Be Above It, che sembra anticipare la svolta elettronica di “Currents”. Il miracolo vero è però Feels Like We Only Go Backwards, il primo vero pezzo pop uscito dalla mente pazza ma geniale di Kevin Parker, leader del gruppo australiano.

Insomma, un trionfo di chitarre, batteria e base ritmica: uno dei migliori lavori del 2012 e, senza dubbio, il miglior LP di musica psichedelica degli anni ’10.

9) Jamie xx, “In Colour” (2015)

(ELETTRONICA)

Ormai la musica elettronica rischia di diventare un genere troppo inflazionato: questo sembra infatti essere il trend della musica contemporanea. Daft Punk, Burial, Caribou, Aphex Twin: tutti devono per forza suonare come uno di questi capisaldi della EDM (Electronic Dance Music), i più sostengono.

Ebbene, non è così: l’esordio solista di Jamie Smith (in arte Jamie xx), batterista degli osannati xx, colpisce per la freschezza del suono. Si va dal post dubstep di Gosh al pop molto à la xx di Stranger In A Room (cantata non a caso dal collega di gruppo Oliver Sim), ma le perle sono prevalentemente club music: la tesissima Hold Tight e la bella The Rest Is Noise colpiscono l’ascoltatore. Tuttavia, i veri capolavori sono Loud Places e SeeSaw, con Romy Madley-Croft (l’altra componente degli xx) a condurre le danze: due brani pop/elettronici raffinati e affascinanti, tra i più riusciti della decade.

“In Colour” è semplicemente uno dei migliori CD di musica elettronica degli anni ‘10, capace di suonare innovativo pur in un genere molto “frequentato” come la EDM: ecco il grande pregio di Jamie xx.

8) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019)

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi dieci minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

“Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente uno dei migliori LP della decade.

7) Deerhunter, “Halcyon Digest” (2010)

(ROCK)

La carriera dei Deerhunter è una delle più brillanti nel mondo indie rock recente. Per capire come mai “Halcyon Digest” sia probabilmente il loro CD più bello occorre inquadrarlo nella loro discografia. Il 2010 è un anno decisivo per il complesso statunitense: il 2008 li ha visti pubblicare una coppia di ottimi lavori, “Microcastle” e “Weird Era Cont.”, entrambi più accessibili dei precedenti sforzi dei Deerhunter ma non per questo troppo mainstream. Come continuare su questo percorso rischioso ma redditizio sia in termini di esposizione che di qualità musicale?

“Halcyon Digest” è un concentrato della miglior “ricetta” Deerhunter: base ritmica serrata ma non ossessiva, attenzione alla melodia, ritornelli ammalianti, la voce di Bradford Cox a tenere assieme tutto e a cantare di nostalgia (Revival) così come di amici morti (He Would Have Laughed, dedicata a Jay Reatard).

Le canzoni citate sono peraltro fra le migliori del lotto: ma non possiamo dimenticarci della delicata Memory Boy, delle brevi ma trascinanti Coronado e Fountain Stairs così come della lunghissima Desire Lines, dove il chitarrista Lockett Pundt dà il meglio di sé. Ma arrivati in fondo al CD ci potrebbe assalire un dubbio: e se la migliore traccia fosse Helicopter e la sua storia torbida quanto straziante di prostituzione e abusi?

I Deerhunter in seguito hanno prodotto altri buonissimi lavori, ma nessuno ha ritrovato il magico senso di avventura, fragilità e innovazione che percorrono il magnifico “Halcyon Digest”.

6) Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell” (2015)

(FOLK)

Sufjan Stevens non è mai stato un artista facile: fin dagli esordi si era prefisso obiettivi ambiziosi e allo stesso tempo complessi (raccontare gli Stati americani, reinventare le canzoni della tradizione natalizia made in USA…), ma con “Carrie & Lowell” la missione è di quelle apparentemente impossibili: narrare il lutto per la morte della madre senza apparire patetico o, peggio, uno sciacallo pronto a sfruttare un lutto per ragioni puramente economiche. Beh, Sufjan riesce straordinariamente bene a superare anche questa missione.

Canzoni come Should Have Known Better, Death With Dignity e la meravigliosa Fourth Of July sono fra le migliori mai composte in carriera, con liriche davvero commoventi. In generale, quello che musicalmente rimane impresso di “Carrie & Lowell” è la straordinaria coesione e la perfezione stilistica, che lo rendono uno dei migliori album del decennio. Inoltre, finalmente Stevens non si dilunga eccessivamente nella durata e nel numero delle canzoni presenti, riducendo il CD a 12 canzoni invece che le solite 18-19. Una vera perla, insomma, tanto da rendere i 45 minuti scarsi di durata di “Carrie & Lowell” una ammaliante magia.

5) The 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationship” (2018)

(ROCK – POP)

La cosa che più sorprende (e affascina) del talentuoso complesso originario di Manchester è che i risultati di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” sono davvero paurosi, malgrado la grande varietà di generi affrontati (rock, pop, elettronica, ballate strappalacrime, perfino SoundCloud rap!).

I dubbi sulla consistenza e coesione dell’album sono fugati fin dal primo ascolto: i The 1975 hanno generato un CD che resterà nella storia della decade come il disco più millennial mai prodotto. Frammentario ma in qualche modo coeso, vario ma mai fine a sé stesso, profondo e accessibile: “A Brief Inquiry Into Online Relationships” si staglia come un pilastro del rock degli anni ’10, probabilmente l’unico modo per vedere ancora questo genere primeggiare nelle chart.

In tutto questo, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un album davvero generoso di pezzi grandiosi: It’s Not Living (If It’s Not With You) è una delle canzoni migliori dell’anno, I Always Wanna Die (Sometimes) ricorda i Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”, How To Draw / Petrichor parte come Brian Eno e finisce come l’Aphex Twin più scatenato, con risultati clamorosi. Infine, I Couldn’t Be More In Love è pari alle melodie più dolci di George Michael. Il vero highlight è però la trascinante Love It If We Made It, con base molto anni ’80 ma testo riferito strettamente alle vicende politiche odierne e l’ormai iconico verso “thank you Kanye, very cool!”.

In conclusione, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un LP di non facile lettura e in cui ci si può perdere data la grande quantità di generi affrontati e i testi mai banali. Tuttavia, gli amanti della musica non possono non ammirare il coraggio di Healy e compagni di voler riportare il rock (pur contaminato da mille influenze) in cima alle classifiche.

4) Bon Iver, “Bon Iver, Bon Iver” (2011)

(FOLK – ELETTRONICA)

Dopo essersi rinchiuso in un eremo, completamente solo e lontano da tutti, per comporre il precedente lavoro “For Emma, Forever Ago” (2007), Vernon ricorre a un altro stratagemma per rendere ancora più attraente “Bon Iver, Bon Iver”: immaginarsi un viaggio in località a volte reali (Perth, Minnesota), altre volte inventate (Michicant, Hinnom). Da sottolineare la varietà di suoni e strumenti adottata da Bon Iver: tutto sembra essere al posto giusto al momento giusto. Restano impresse la straziante Holocene e la conclusiva Beth/Rest, ideale culmine dell’opera, oltre alla iniziale Perth (una marcetta irresistibile) e le belle Towers e Michicant.

L’indie folk delle origini si è ampliato verso lidi elettronici (come in Towers e Calgary, nonché in Hinnom, TX), che fanno di “Bon Iver, Bon Iver” un CD decisivo nella discografia del gruppo americano capitanato da Justin Vernon, di cui è da ammirare la capacità di sapere quali corde emotive toccare e rendere l’ascolto dei suoi CD una straordinaria esperienza, attraverso anche una parziale apertura all’elettronica e al rock melodico.

3) Vampire Weekend, “Modern Vampires Of The City” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 non c’era band indie rock più attesa al varco da detrattori e fans dei Vampire Weekend. Dopo due CD deliziosi ma un po’ leggerini, se non altro come sonorità, come avrebbero continuato la loro carriera? L’inizio già è abbastanza spiazzante: Obvious Bicycle comincia molto lenta, quasi come un pezzo dei Wilco, ma poi cresce, fino a diventare irresistibile. Stesso effetto con la successiva Unbelievers, ma la perla vera del lavoro è Hannah Hunt, che rievoca le atmosfere di “Contra”, ma con un suono davvero pop, apparentemente discordante con i precedenti CD del gruppo, particolarmente “Vampire Weekend” (2008), l’esordio molto più facile e diretto. Ma i gioielli non finiscono qui: Step rappresenta forse la migliore prova vocale mai registrata da Ezra Koenig, Ya Hey è come un affresco tanto è caratterizzata da liriche astratte e strumentazione ariosa…

Al primo ascolto “Modern Vampires Of The City” può apparire strano e sconclusionato, ma alla lunga si apprezza il festival sonoro messo su dai quattro newyorkesi, capaci di scrivere una pagina decisiva del rock del XXI secolo e particolarmente degli anni ’10, che ha influenzato band del calibro di The 1975 e ha in un certo senso rappresentato uno scoglio difficilmente superabile anche per il gruppo stesso, che gli ha trovato un erede solo sei anni dopo con “Father Of The Bride” (2019).

2) Kanye West, “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010)

(HIP HOP)

Gli anni ’10 del XXI secolo sono stati gli anni dell’esplosione dell’hip hop: questa sarà probabilmente la maggiore eredità musicale della decade. Molto del rap contemporaneo ha una grande ispirazione: Kanye West. L’artista di Chicago, oggi più controverso che mai date le sue recenti esternazioni su Trump (considerato un “dragon spirit” affine a Kanye) e sulla tratta degli schiavi (ritenuta responsabilità almeno in parte degli stessi neri), è prima di tutto un genio musicale. Già nel decennio precedente aveva fatto vedere tutto il suo talento in un capolavoro come “Late Registration” (2005). “808s & Heartbreak” del 2008 aveva aggiunto elettronica e atmosfere decisamente più cupe alla sua palette sonora, ma è “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” il vero compimento della sua carriera.

Da Gorgeous alla potentissima POWER, passando per la monumentale Runaway e l’epica All Of The Lights, tutto gira a meraviglia, tanto che è difficile stabilire quale canzone spicchi sulle altre. Kanye è allo stesso tempo al centro dell’attenzione ma pronto a cedere il palcoscenico a giovani leve come Nicki Minaj (spettacolare il suo verso in Monster) e Kid Cudi, ma anche ad artisti come Pusha-T e Bon Iver aka Justin Vernon, non tralasciando star come Rihanna e Jay-Z.

“My Beautiful Dark Twisted Fantasy” ha ispirato centinaia di altri rapper negli anni seguenti, da Drake a Kendrick Lamar, da Chance The Rapper a Tyler, The Creator. Tutti costoro hanno prodotto lavori più o meno significativi negli anni 2010-2019, ma nessuno è stato tanto massimalista, innovativo e geniale come Kanye.

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (2012)

(R&B)

Arrivati al numero 1 di questa lunga lista, la domanda potrà sorgere spontanea: perché proprio Frank Ocean? In fondo l’R&B ha conosciuto altri momenti memorabili nel corso di questa decade (il primo The Weeknd o Blood Orange, per esempio). “Channel Orange” è il miglior CD della decade per svariati motivi: la produzione immacolata di Frank, che crea gioielli in ogni canzone del disco, dal lento eccellente di Thinkin Bout You a Crack Rock, dall’epica Pyramids al lamento commovente di Bad Religion. Potremmo poi aggiungerci il sequenziamento perfetto, gli ospiti di spessore (da André 3000 a Earl Sweatshirt), la duttilissima voce di Frank Ocean che va dai toni bassi al falsetto più celestiale immaginabile… Aggiungiamo poi una durata ben calibrata, 55 minuti, per la storia narrata (un giorno nella calda estate di Los Angeles) e avremmo il quadro perfetto.

Insomma, “Channel Orange” ha rivitalizzato un genere che pareva moribondo e lo ha reso il più attrattivo per le star pop e rap sia nel 2012 che nel futuro, influenzando tantissimi cantanti nella decade (da Anderson.Paak a Justin Timberlake, da Moses Sumney a Syd) ma allo stesso tempo rimanendo inattaccabile. Aggiungiamo a questa consistente eredità uno dei primi coming out avvenuti nel mondo della black music (in Thinkin Bout You e in una lettera dell’epoca Frank confessa che il suo primo amore è stato per un ragazzo): una mossa che avrà certamente spinto altri artisti, da Tyler, the Creator a Kevin Abstract dei BROCKHAMPTON, a fare altrettanto senza paura di rimanere soli.

“Channel Orange” racchiude dunque tutte le caratteristiche di un classico. E tale è, meritando pienamente il primo posto nella classifica di A-Rock dei migliori 200 album della decade 2010-2019.

Quali sono i vostri pensieri? Siete d’accordo con le scelte di A-Rock oppure avreste optato per altri dischi nella parte alta della classifica? Non esitate a lasciare commenti!

I migliori album del decennio 2010-2019 (100-51)

Nel secondo capitolo della nostra lista dei migliori 200 CD della decade 2010-2019 attraversiamo le posizioni che vanno dalla 100 alla 51. Abbiamo già incontrato artisti rilevanti nella puntata precedente, ma le sorprese non sono finite. Buona lettura!

100) Shame, “Songs Of Praise” (2018)

(PUNK)

Il quintetto inglese potrebbe essere il nuovo volto del punk europeo: era da moltissimo tempo che non si sentiva un esordio così carico e compatto nel mondo punk, specialmente nel Vecchio Continente. In particolare, a colpire è la fiducia che gli Shame hanno nei loro mezzi: non c’è alcuna paura nel cambiare ritmo improvvisamente in una canzone, tantomeno nel corso del CD. Ne sono esempio Dust On Trial e Tasteless.

La voce di Charlie Steen, leader del gruppo, ricorda molto Archy Marshall: è come se King Krule desse libero sfogo alla sua vena rock, cercando contemporaneamente di imitare i Cloud Nothings o i Preoccupations. Da sottolineare poi il lavoro dei due chitarristi degli Shame, Eddie Green e Sean Coyle-Smith, che creano un “muro sonoro” davvero impenetrabile. I brani migliori sono Concrete, la più melodica One Rizla e la conclusiva Angie, che solo nel titolo ricorda il brano dei Rolling Stones. L’insieme è un LP compatto e coerente, con pochissime pause per l’ascoltatore, come i migliori album punk.

Per concludere, un’ultima lode agli Shame: neanche Iceage e White Lung, per citare due band punk molto rinomate di recente, avevano pubblicato esordi devastanti come “Songs Of Praise”. Non resta che seguire l’evoluzione del complesso britannico: le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte.

99) Joanna Newsom, “Have One On Me” (2010)

(FOLK)

Il terzo album della cantautrice americana Joanna Newsom è una goduria per gli amanti della musica folk più pura. Grazie a melodie sempre cangianti, canzoni complesse mai però fini a sé stesse e l’abilità con l’arpa della Nostra, anche un triplo album (!) come “Have One On Me” è perfettamente digeribile.

Questa è infatti la prima caratteristica che colpisce del lavoro: la sua gigantesca ambizione. Pubblicare un album triplo della durata superiore ai 120 minuti, quando invece si sarebbero potuti produrre tre album distinti di ottima qualità nello spazio di 5-10 anni, è una mossa rischiosa ma dal rendimento alto, nel caso di Joanna. Se si aggiunge che lei stessa si rifiuta tutt’oggi di mettere a disposizione la sua discografia sui servizi streaming, capiamo che non è neppure dovuta alla massimizzazione dei ricavi, quanto piuttosto al solo e semplice amore per la musica e i suoi fans.

Chiaramente, in un CD tanto complesso, non tutto può essere perfetto, ma gli alti sono davvero strabilianti: la lunghissima title track, Good Intentions Paving Company e Baby Birch sono highlights assoluti. “Have One On Me” non è mai pesante, tanto da apparire anzi come il lavoro più essenziale a firma Joanna Newsom, addirittura migliore di “Ys” (2006).

98) Queens Of The Stone Age, “…Like Clockwork” (2013)

(ROCK)

Il sesto album dei veterani dell’hard rock li trovava a un bivio fondamentale: a ben sei anni da “Era Vulgaris” (2007), l’album forse più discusso tra fans e critici nella produzione della band, i Queens Of The Stone Age avrebbero ritrovato lo smalto perduto?

La risposta è sicuramente affermativa. “…Like Clockwork” infatti rispecchia fedelmente il titolo, girando per la maggior parte del tempo come un orologio svizzero, grazie a pezzi duri come My God Is The Sun e a brani più melodici come I Appear Missing. Questo è anche il CD più ricco di ospiti del gruppo: Dave Grohl, Elton John, Alex Turner e Mark Lanegan sono fra i più illustri, ma notiamo anche il recupero del precedente bassista Nick Oliveri, che era stato cacciato nell’ormai lontano 2004.

In poche parole, con “…Like Clockwork” i Queens Of The Stone Age ritrovarono un motivo per la propria esistenza, considerando inoltre un panorama musicale che tende a mettere da parte il rock per fare spazio a hip hop e trap. Josh Homme e compagni avrebbero poi proseguito il percorso di questo LP con il successivo “Villains” (2017), meno riuscito di “…Like Clockwork” ma con altrettanto successo di pubblico.

97) Chance The Rapper, “Coloring Book” (2016)

(HIP HOP – GOSPEL)

Il terzo mixtape del talentuoso Chance The Rapper è probabilmente il suo miglior lavoro fino ad ora. Dopo il bel lavoro “Acid Rap” del 2013, Chance era atteso al varco, ma “Coloring Book” non delude le attese di critica e pubblico.

Il forte afflato religioso che pervade tutto l’album, infatti, aggiunge al consueto hip hop dell’artista un tocco gospel che affascina ancora di più l’ascoltatore. I pezzi davvero da ricordare sono No Problem, Summer Friends e Same Drugs (una piccola Pyramids). Nessuno dei 14 brani del resto è davvero fuori posto: i più deboli sono la collaborazione con Future (Smoke Break) e Mixtape, ma per il resto la qualità è davvero altissima.

Possiamo senza dubbio premiare “Coloring Book” col titolo di miglior CD di musica hip hop-gospel del 2016. Forse della decade, considerato la scarsa fortuna incontrata da questo strano ibrido fra generi apparentemente agli antipodi negli anni seguenti.

96) Kanye West, “The Life Of Pablo” (2016)

(HIP HOP)

Si può criticare Kanye West per mille motivi: eccessivo egocentrismo, megalomania, arroganza… Insomma, la più grande superstar dell’hip hop non ha un carattere facile.

Musicalmente, però, niente da dire: senza di lui mancherebbe gran parte della musica rap moderna. “The Life Of Pablo” conferma la classe di Kanye: brani potenti e bellissimi come Famous, Real Friends, la perla gospel Ultralight Beam e Waves sono tra i migliori dell’anno. Da sottolineare poi il parco ospiti sterminato: Chance The Rapper, Frank Ocean, Kendrick Lamar, The Weeknd…

Insomma, un ensemble da sogno. Top 100 pienamente meritata. Soprassediamo sulle ultime vicende che hanno colpito Yeezy: i gossip passano, la musica resta. “The Life Of Pablo” è anche l’ultimo LP davvero all’altezza della fama e del talento di Kanye, che negli anni successivi si è perso fra polemiche politiche quantomeno controverse e scelte artistiche discutibili (si veda la conversione improvvisa e il rintanarsi nella musica gospel).

95) Hot Chip, “One Life Stand” (2010)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il quarto album dei britannici Hot Chip li trova pronti a spiccare il volo. Grazie a singoli di successo come Ready For The Floor e Boy From School, gli Hot Chip si erano ritagliati la reputazione di band di punta della scena electropop d’Oltremanica.

“One Life Stand” è il compimento di anni di studio e riflessione, grazie ai quali il gruppo raggiunge il picco delle proprie capacità. Brani lunghi ma accessibili come Thieves In The Night e la title track ancora oggi, dieci anni dopo la pubblicazione, sono i pezzi pregiati del disco; da non sottovalutare la più raccolta Brothers. Il tutto viene aiutato dalla chimica fra i due cantanti, Alexis Taylor e Joe Goddard. È probabile che atti come i Tame Impala e gli Arcade Fire, alla lontana, siano stati influenzati recentemente dalla band britannica.

In conclusione, gli Hot Chip in “One Life Stand” hanno prodotto il loro LP più compiuto e coeso, segno di una carriera in costante crescita, curata nei minimi dettagli e capace di dare un degno seguito a questo pregevole lavoro con il successivo “In Our Heads” (2012).

94) Sufjan Stevens, “The Age Of Adz” (2010)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il sesto album vero e proprio di Sufjan Stevens trova il grande cantautore americano a un bivio: meglio continuare nella consolidata formula che ne ha decretato la fortuna (ballate folk delicate e creative, con la sua voce angelica a fare da collante) oppure tentare qualcosa di nuovo e rinfrescante?

Non sapendo né leggere né scrivere Sufjan ha optato per una via di mezzo tanto intrigante quanto potenzialmente rischiosa: mescolare bellissimi pezzi folk come Futile Devices a derive elettroniche come la title track e Too Much. I risultati, pur non perfetti come nel successivo “Carrie & Lowell” (2015), hanno consentito a Stevens di ampliare notevolmente la propria palette sonora, aprendo la strada alla successiva sperimentazione di “Aporia” (2020).

Non sarebbe un CD a firma Sufjan Stevens senza qualche stranezza: innanzitutto la durata, che raggiunge i 75 minuti distribuiti su 14 pezzi, di cui uno (la conclusiva Impossible Soul) raggiunge i 25 minuti ed è divisa in cinque suite, mescolando insieme folk, elettronica e musica puramente sperimentale. Tanta creatività insieme spesso non è raggiunta da un artista nel corso di un’intera carriera… ma dato che stiamo parlando di Sufjan Stevens lo stupore è relativo.

“The Age Of Adz” è dunque un LP non facile, ma che premia gli ascoltatori pazienti con brani potenti e mai scontati. Il fatto che sia solo il terzo/quarto CD come qualità complessiva a firma Sufjan Stevens fa capire la grandezza del personaggio.

93) The National, “I Am Easy To Find” (2019)

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

92) Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” (2015)

(ROCK)

Il titolo sembra anticipare un album prolisso e pretenzioso; beh, nessuna impressione può essere più sbagliata. Courtney Barnett è una delle esordienti indie rock più interessanti del decennio: la giovane cantante australiana ritorna a inizio XXI secolo, età dell’oro dell’indie, quando nacquero band come Strokes e Franz Ferdinand.

Le prime due canzoni Elevator Operator e Pedestrian At Best sono manifesti delle intenzioni della Barnett; Small Poppies addirittura ricorda i Led Zeppelin. Il suo suono riesce però a contaminarsi anche con White Stripes e il pop à la Robbie Williams, ottenendo risultati spesso straordinari: la conclusiva Boxing Day Blues ne è un valido esempio.

L’immediatezza di “Sometimes I Sit And Think…” è paragonabile a “Vampire Weekend” e “Teen Dream” (tanto per citare due band come Vampire Weekend e Beach House che di immediatezza se ne intendono). Chiaramente il CD di per sé non sarà un capolavoro di sperimentalismo o arditezza stilistica, ma la musica deve anche essere svago, giusto? Quindi: grazie Courtney per aver riaperto (anche se per poco più di 35 minuti) l’armadio dei nostri ricordi, quando sembrava che l’indie dovesse soppiantare il mainstream.

91) My Bloody Valentine, “m b v” (2013)

(ROCK)

Nel 2013 aspettarsi un nuovo album a firma My Bloody Valentine pareva un sogno destinato a non essere mai realizzato. “Loveless” (1991) era stato il picco dello shoegaze e Kevin Shields e compagni non erano stati in grado di dargli un seguito in 22 anni, fra falsi annunci e tentativi abortiti in studio.

Il fatto che, non solo il CD sia finalmente arrivato ma sia anche bello, anzi bellissimo, è quasi un miracolo. I My Bloody Valentine non si limitano a ricalcare il successo del secolo scorso riprendendo a menadito tutti i particolari che li hanno resi unici: voci androgine e mixate in scarsa evidenza, chitarre piene di riverbero, bassi e batteria inesistenti… No, nel terzo finale del lavoro arrivano anche a cercare nuove soluzioni, vicine alla musica sperimentale (si senta ad esempio Wonder 2).

È vero tuttavia che i pezzi migliori sono comunque più vicini allo shoegaze: da Only Tomorrow a Who Sees You, passando per She Found Now, la band irlandese si conferma maestra del genere. Kevin Shields ha ancora una volta dimostrato tutta la sua abilità, creando un lavoro nostalgico ma mai scontato. Forse non raggiungerà le vette di “Loveless”, ma questo “m b v” è un degno erede. Speriamo solamente che per il quarto LP del gruppo non si debbano attendere altri 22 anni.

90) Disclosure, “Settle” (2013)

(ELETTRONICA)

All’esordio, i fratelli Guy e Howard Lawrence fanno già il pieno, sia di critiche positive che di vendite. “Settle” è infatti uno dei migliori album di musica dance del 2013, abilissimo nel mescolare la house anni ’80 con i ritmi più moderni.

Notevoli anche le collaborazioni: abbiamo infatti tra gli altri Sam Smith, Mary J. Blige, AlunaGeorge… Insomma, pezzi da 90 della musica contemporanea. Tra i migliori brani abbiamo la celeberrima Latch, la trascinante When A Fire Starts To Burn, Voices e la più intima Help Me Lose My Mind.

In poche parole, un ottimo inizio per Guy e Howard Lawrence, solo parzialmente confermato dai seguenti “Caracal” (2015) e il breve EP del 2016 “Moog For Love”.

89) Kurt Vile, “Smoke Ring For My Halo” (2011)

(ROCK – FOLK)

“Smoke Ring For My Halo” è il CD che ha fatto conoscere ad un pubblico più ampio Kurt Vile, ex War On The Drugs ed eroe degli slacker mondiali, ovvero uno di quei personaggi spesso al bordo della strada che paiono osservare disinteressati l’ambiente circostante ma poi, quasi pigramente, fanno osservazioni assolutamente fuori dal comune.

Il CD è una brillante collezione di canzoni folk-rock, nel solco tracciato da Bob Dylan, Neil Young e Tom Petty, tuttavia aggiornato abbastanza da essere attuale ancora oggi. È forse il disco più coeso e meno prolisso di Kurt, anche se non ha la smisurata ambizione del successore “Wakin On A Pretty Daze” (2013).

Tuttavia, canzoni riuscite come Puppet To The Man e Ghost Town, senza scordarci la delicata Baby’s Arms e Jesus Fever, rendono davvero speciale questo disco, uno dei migliori lavori del decennio 2010-2019 proprio per questa sua incredibile qualità: suonare antico e contemporaneo allo stesso tempo.

88) A.A.L. (Against All Logic), “2012-2017” (2018)

(ELETTRONICA)

Tutti gli appassionati di musica elettronica conoscono Nicolas Jaar, geniale compositore di origine cilena ormai trapiantato in America, una delle ritmiche più riconoscibili del panorama musicale. Ritmi sensuali, produzione impeccabile e sample campionati sempre azzeccati: ecco le principali caratteristiche di molte canzoni di Jaar. Stupisce perciò il riutilizzo di un suo alias che pareva ormai abbandonato, questo A.A.L. (Against All Logic), ma non più di tanto il genere affrontato. Jaar infatti percorre gli usuali percorsi a metà fra IDM e funk, ma con ancora maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un gusto per la melodia puramente danzereccia che non conoscevamo.

La partenza è straordinaria: sia This Old House Is All I Have che I Never Dream settano perfettamente il tono del CD, con tastiere sinuose e voci elettrizzanti in sottofondo; Jaar è ormai totalmente padrone di questo genere peculiare ed è un vero piacere ascoltarlo in questa condizione brillante. Il disco contiene altre perle di indubbio valore: Now U Got Me Hooked è un brano dance perfetto, Rave On U chiude magistralmente il disco. Menzione anche per Cityfade e Hopeless, altri pezzi house notevoli. Un po’ sotto la media del disco invece Know You e Such A Bad Way.

A.A.L. (Against All Logic), aka Nicolas Jaar, aveva già fatto intravedere indubbie qualità sia nella sua carriera solista che nei Darkside. Questo album ne è un’ulteriore conferma: la pazienza e ripetuti ascolti verranno ampiamente ripagati.

87) Foals, “Holy Fire” (2013)

(ROCK)

Tutti attendevano al varco i Foals: la tensione rischiava di divorarli. Invece, i cinque ragazzi se ne uscirono nel 2013 con un album ancora più bello di “Total Life Forever” (2010), svoltando verso un rock più carico, quasi hard rock in certi tratti.

Ne sono simboli due delle canzoni migliori del CD: Prelude e Inhaler (quest’ultima trascinante nel ritornello) sono come gemelli siamesi, una senza l’altra non esisterebbe, ma proprio per questo acquistano fascino. Non male il funk à la Hot Chip di My Number, così come il quasi shoegaze della conclusiva Moon.

Insomma, un lavoro vario e ben riuscito, che conferma il talento dei Foals e il loro appeal sul pubblico, fatto ulteriormente validato dal successivo “What Went Down” (2015). Uno dei migliori album rock dell’anno e della decade.

86) Run The Jewels, “Run The Jewels 3” (2017)

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora.

Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima.

Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

85) Waxahatchee, “Out In The Storm” (2017)

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsene una prima idea.

L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile. Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo. Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

84) Wilco, “The Whole Love” (2011)

(ROCK)

I Wilco sono fin dalla nascita uno dei gruppi rock più avvincenti della nostra epoca. Flirtando spesso con country e folk, il complesso americano ci ha regalato nel corso della loro carriera capolavori maestosi come “Summerteeth” (1999) e “Yankee Hotel Foxtrot” (2001).

“The Whole Love” potrebbe parere a primo acchito un tipico album di mezz’età di una band ormai soddisfatta della propria posizione nello scacchiere musicale e non più interessata a prendere rischi. Beh, se pensate questo non conoscete bene i Wilco: la loro qualità migliore è sempre stata infatti quella di brillare nei momenti apparentemente di maggiore sicurezza, che per altre band avrebbero segnato l’inizio della fine.

Jeff Tweedy e compagni con “The Whole Love” hanno infatti probabilmente creato il terzo miglior album di una carriera sempre più stellata. Pezzi ambiziosi come Art Of Almost e la conclusiva One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend) sono clamorosi nella loro difficoltà ma perfettamente compiuti. Lo stesso vale per la più semplice ma deliziosa I Might.

In conclusione, i Wilco hanno confermato ancora una volta di possedere un talento sconfinato, fonte primaria di una carriera ormai trentennale e con successi pienamente meritati.

83) Death Grips, “The Money Store” (2012)

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il primo album del duo hip hop noto come Death Grips fa seguito al mixtape “Exmilitary” del 2011 e ne è una logica continuazione. Partiamo da una premessa: come possono però convivere efficacemente rap, punk e noise in un album di 13 brani per 41 minuti? Questo è il mistero più affascinante di “The Money Store”.

MC Ride e Zach Hill, rispettivamente cantante e polistrumentista del gruppo, non hanno mai più raggiunto questo miracoloso equilibrio, ma “The Money Store” resta un reperto unico. Il CD è infatti altamente repellente, pieno di rabbia, rime insensate e suoni che all’orecchio suonano come un martello pneumatico… ma forse proprio oggi, per tutti questi motivi, suona più vitale che mai?

Non è ben chiaro verso chi sia diretta la rabbia dei Death Grips, probabilmente è più un volgersi verso la pura anarchia (il duo intitolerà non a caso un lavoro nel 2015 “The Powers That B”). L’altra cosa davvero incredibile di “The Money Store” è il successo di pubblico che ha riscosso: malgrado la già accennata totale assenza di brani commerciali, pezzi come I’ve Seen Footage e Get Got hanno ottimi numeri nei servizi di streaming. Con merito, viene da dire: entrambi hanno un implicito fascino, fatto di suoni discordanti ma equilibrati, così come The Fever (Aye Aye).

“The Money Store” è uno dei dischi più influenti e allo stesso tempo più irripetibile della moderna storia del rap. Mescolando industrial, rap e musica puramente sperimentale i Death Grips hanno prodotto a loro modo un capolavoro, destinato a far parlare di sé ancora per molti anni.

82) Solange, “A Seat At The Table” (2016)

(R&B – SOUL)

Il 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. Si pensi, oltre a questo “A Seat At The Table”, a “Formation” di Beyoncé e a “Freetwon Sound” di Blood Orange.

La sorella minore di Bey, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul e rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael Jackson e Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait.

La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Queen Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat.

In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

81) Godspeed You! Black Emeperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (2012)

(ROCK – SPERIMENTALE)

I Godspeed You! Black Emperor sono da sempre riconosciuti come gli artisti pionieri del post-rock, quel genere che mescola rock e musica sperimentale, con punte di metal, per creare spesso brani monumentali che, per l’appunto, hanno perso qualsiasi cosa le rendesse rock per diventare qualcosa di diverso, più epico e decisamente meno commerciale.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” segna il ritorno della band ben dieci anni dopo l’ultimo disco, “Yanqui U.X.O.” (2002). Il lavoro è composto da quattro canzoni, con una struttura a specchio. Prima uno decisamente articolato (con durata superiore ai 20 minuti!), poi uno più semplice, che funge da ristoro dopo due corse sfrenate. Se la prima metà è decisamente cupa, nella seconda i Godspeed You! Black Emperor cercano ritmi meno devastanti, prova ne siano i 20 minuti di We Drift Like Worried Fire, opposti alla durezza e drammaticità di Mladic. I due intermezzi Their Helicopters Sing e Strung Like Lights At Thee Printemps Erable accompagnano poi l’ascoltatore in territori più elettronici, quasi sperimentali.

“Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” si caratterizza così per essere il disco più intenso del collettivo canadese, già noto ai fans per CD mai facili al primo ascolto. La carriera della band prosegue tutt’ora, con l’ultimo lavoro Luciferian Towers che risale al 2017, a testimonianza di un complesso più vivo che mai.

80) Earl Sweatshirt, “Some Rap Songs” (2018)

(HIP HOP – JAZZ)

Earl Sweatshirt è da sempre la figura più enigmatica del collettivo Odd Future, un covo di talenti comprendente nomi del calibro di Frank Ocean, Tyler the Creator e Syd (The Internet). Di lui si sente parlare solamente in caso di uscite di nuova musica, segno che tiene molto alla propria privacy.

“Some Rap Songs” è un titolo fuorviante: il breve e frammentario disco (15 canzoni per soli 24 minuti di durata) contiene in realtà tutti i crismi del piccolo capolavoro. Mescolando abilmente jazz e hip hop, con inserti di musica puramente sperimentale, “Some Rap Songs” è il CD più avventuroso di Earl, simbolo di un (possibile) nuovo movimento nel rap contemporaneo, non più prono al pop/R&B come Drake e compagnia, ma visionario e pronto a sperimentare. Se a primo impatto la struttura dell’album può apparire straniante, in realtà non bisogna pensare che sia un lavoro tirato via, soprattutto dato che deriva da tre anni di studio e lutti per Earl, che hanno influenzato profondamente la sua musica più recente. Nel 2018 sono morti il padre e lo zio del Nostro; soprattutto il primo era stato bersaglio in passato di invettive e offese da parte del rapper nato Thebe Neruda Kgositsile, ma in “Some Rap Songs” vi sono segni di riconciliazione.

I pezzi migliori sono Red Water, Ontheway!, The Mint e Veins, ma nessuno può dirsi brutto o semplicemente deludente. Ciò malgrado alcuni arrivino a durare a malapena un minuto; malgrado questa caratteristica, infatti, ognuno è chiaramente parte di un tutto coeso e con un chiaro obiettivo, non risultando quindi mai fuori posto o tirato via.

In conclusione, Earl Sweatshirt ha prodotto un altro LP (non tanto long in realtà) che lo consacra come uno dei rapper più interessanti della sua generazione.

79) LCD Soundsystem, “American Dream” (2017)

(ELETTRONICA – ROCK)

Gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, l’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

“American Dream” è un trionfo. L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco. Il tono del brano è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a David Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

78) Tame Impala, “Innespeaker” (2010)

(ROCK)

L’esordio dei Tame Impala segna quello che sarà il loro percorso successivo: un sound che richiama molto i grandi artisti psichedelici di fine anni ’60-primi anni ’70, oltre a Flaming Lips e Beatles.

Parker condisce il tutto con la sua bella voce, molto simile a John Lennon. Gli highlights sono numerosi: ricordiamo in particolare It Is Not Meant To Be, Solitude Is Bliss (il tema della solitudine ritorna molto spesso nei testi dei Tame Impala) e Alter Ego. Bella anche la strumentale Jeremy’s Storm.

Insomma, un grande album d’esordio per la band australiana; ma ancora il meglio doveva venire, basti pensare a “Lonerism” (2012) o al rivoluzionario “Currents” (2015).

77) Bon Iver, “i,i” (2019)

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa. La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

76) Mac DeMarco, “Salad Days” (2014)

(ROCK)

Il secondo album vero e proprio del cantautore canadese Mac DeMarco è la definitiva affermazione dopo il già interessante “2” del 2012. “Salad Days” mantiene la stessa stranezza di fondo, creata da atmosfere sempre ovattate, titoli e testi spesso nonsense (basti pensare a “Salad Days”) e canzoni tanto semplici quanto irresistibili, su tutte le riuscitissime Blue Boy e Brother.

Tuttavia, non bisogna prendere Mac per un sempliciotto: in sole 11 canzoni e 34 minuti è infatti riuscito a creare il suo miglior CD, pieno anche di riferimenti testuali attuali (si veda Treat Her Better, contro la violenza sulle donne). Si hanno poi anche aperture alla psichedelia, in Chamber Of Reflection specialmente.

Insomma, una miniera d’oro per gli amanti dell’indie rock più scanzonato ma allo stesso tempo attento al mondo che ci circonda. Mac non sarà il miglior cantautore della sua generazione, ma a volte anche del semplice buonumore è il benvenuto, no?

75) Nick Cave & The Bad Seeds, “Push The Sky Away” (2013)

(ROCK)

Il quindicesimo album di Nick Cave, come spesso affiancato dai fidati Bad Seeds, è stato il primo seguito all’avventura dei Grinderman, che l’aveva visto mettere da parte il progetto primario per alcuni anni a inizio decade.

“Push The Sky Away” prosegue idealmente la traiettoria intrapresa nei bellissimi lavori “The Boatman’s Call” (1997) e “No More Shall We part” (2001), vale a dire un Nick Cave decisamente più tranquillo rispetto allo scatenato frontman degli anni ’80. Abbiamo quindi atmosfere decisamente rilassate, quasi ambient, solo a tratti reminiscenti dei Bad Seeds di qualche anno prima (Jubilee Street ad esempio è magnifica in questo senso). Anche liricamente, mentre prima Nick parlava spesso di episodi biblici o assassini spietati (si ricordi la celebre Red Right Hand), adesso fanno capolino argomenti più mondani, dal bosone di Higgs (Higgs Boson Blues) a Hannah Montana (!!), in Mermaids, a Wikipedia.

Nick Cave inaugurò con “Push The Sky Away” la trilogia di CD sperimentali continuata poi con il devastante “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), questi ultimi influenzati anche dalla morte del figlio del Nostro. Insomma, certamente non album leggeri, ma capaci di connettersi come mai prima ai fans del gruppo e giustamente osannati dalla critica di settore.

74) Beyoncé, “Lemonade” (2016)

(POP – R&B)

Il CD della vendetta per la più splendente star femminile della musica nera contemporanea. Grazie anche ad ospiti di assoluto livello (James Blake, Jack White, Kendrick Lamar tra gli altri), Bey convoglia tutta la rabbia contro il marito Jay-Z in “Lemonade”, con brani riusciti come Hold Up, Don’t Hurt Yourself e 6 Inch (con The Weeknd) come highlights.

Beyoncé ha così composto il migliore album di una carriera già brillante: “Lemonade” è un esempio di come la musica possa diventare un’arma potentissima contro la discriminazione femminile e a favore della parità tra i sessi. Menzione particolare poi per lo spettacolare “visual album” che accompagna “Lemonade”: una collezione che raccoglie i video di ogni canzone contenuta nel CD.

In poche parole: una delle opere più ambiziose degli ultimi anni, che senza dubbio risuonerà anche in futuro come un capolavoro pop di altissimo livello, sia musicale che artistico (nel senso più ampio del termine).

73) Mitski, “Be The Cowboy” (2018)

(ROCK – POP)

Il quinto CD della cantante americana di origine giapponese Mitski Miyawaki (che nella sua carriera usa solo il proprio nome) è senza dubbio il suo lavoro più compiuto, un riuscito connubio di indie rock e ritmi più danzerecci, sulla falsariga degli ultimi lavori di St. Vincent, il riferimento senza dubbio di Mitski.

L’inizio è subito convincente: Geyser ha ritmi synthpop degni di Julia Holter e Grimes, mentre Why Didn’t You Stop Me? e A Pearl sono decisamente più somiglianti alle sonorità di “Puberty 2”, il disco che ha fatto conoscere Mitski al grande pubblico nel 2016. “Be The Cowboy” prosegue poi in maniera convincente fino al quattordicesimo e ultimo brano, la dolce Two Slow Dancers, per un totale di soli 32 minuti di durata: un LP compatto ma non tirato via, va detto, dato che ogni brano è perfettamente compiuto e funzionale all’economia del disco. Anche i più brevi, come Lonesome Love e Old Friend, che non raggiungono i due minuti, non mancano di fascino.

In conclusione, l’indie rock ha trovato un’altra convincente voce femminile: come già detto, l’influenza di Annie Clark è presente in molte parti di “Be The Cowboy”, nondimeno Mitski è capace di scrivere canzoni avvolgenti e mai banali, una qualità solo intravista nei suoi precedenti album.

72) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (2012)

(PUNK – ROCK)

Il secondo album degli statunitensi Cloud Nothings, capitanati dall’indomito Dylan Baldi, è arrivato come un fulmine a ciel sereno nella scena indie d’Oltremanica. Prodotto dal leggendario Steve Albini (storico collaboratore dei Nirvana), “Attack On Memory” suona in effetti come un disco grunge: duro, con voce di Baldi in primo piano, liriche disperanti e batteria rutilante.

L’inizio è scioccante: No Future/No Past è tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, con quella cavalcata finale che evoca il titolo dell’album. Ancora più spiazzante Wasted Days: oltre 8 minuti, con ampia sezione strumentale nella parte centrale e il testo forse più drammatico ma in cui è più facile riconoscersi: “I thought! I would! Be more! Than this!”, ripetuto come un mantra dalla voce straziata di Baldi. Il CD prosegue poi con pezzi più vicini al rock, come Stay Useless, che allentano la pressione nella seconda parte del lavoro.

“Attack On Memory” è l’inizio di una bella storia nel mondo punk-rock, proseguita poi con l’altrettanto potente “Here And Nowhere Else” (2014). I Cloud Nothings, però, non sono mai suonati così spontanei nella loro ancora giovane carriera. Ecco perché “Attack On Memory” mantiene un posto di prestigio fra i migliori album punk del decennio.

71) Real Estate, “Atlas” (2014)

(ROCK)

I Real Estate, giunti al terzo lavoro, raggiungono probabilmente il miglior risultato possibile per il loro dream pop, molto simile in “Atlas” agli Arctic Monkeys di “Suck It And See”, ma con quel tocco di Phoenix (sia nella voce di Martin Courtney che nelle melodie) che arricchisce ulteriormente il range di ritmi dell’album.

“Atlas” si contraddistingue per canzoni graziose e ben fatte (su tutte Had To Hear e Talking Backwards, senza dimenticare la strumentale April’s Song), ma nessuna delle tracce di “Atlas” è fuori fuoco. Un LP praticamente impeccabile, “Atlas” resterà sicuramente un caposaldo dell’indie negli anni a venire.

È un peccato che i Real Estate siano poi stati travolti dallo scandalo legato al loro chitarrista principale Matthew Mondanile (accusato di comportamenti inappropriati da varie donne e costretto a lasciare la band), tanto da non riuscire a replicare fino ad ora i brillanti risultati di “Days” (2011) e “Atlas”. Nulla però ci toglierà mai la possibilità di ascoltare un’altra volta un capolavoro come “Atlas”, tanto semplice quanto riuscito.

70) FKA twigs, “MAGDALENE” (2019)

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD è fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, supporto nella produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

69) James Blake, “James Blake” (2011)

(ELETTRONICA)

Dopo una serie di EP cominciata nel 2009 con “Air & Lack Thereof” e proseguita con “The Bells Sketch EP”, “CMYK EP” e “Klavierwerke EP” (tutti del 2010), la pubblicazione dell’album d’esordio del cantautore inglese James Blake era attesissima.

Attesa ben ripagata dall’eponimo “James Blake”, uno degli album di musica elettronica (ma anche pop e R&B) più influenti della scorsa decade. Potremmo anzi dire che, assieme alla “Trilogy” di The Weeknd, questo disco abbia riscritto le regole dell’R&B alternativo e dell’elettronica più raffinata.

Basi derivanti dal garage di Burial sono infatti mescolate al pianoforte e ad una sensibilità pop che, nei suoi momenti migliori, rende le canzoni di “James Blake” sublimi. Basti sentire per la prima volta The Wilhelm Scream o le due Lindisfarne. Non tutto è perfetto, altrimenti il CD sarebbe facilmente entrato nella top 10 della decade, ma i risultati complessivi sono stupefacenti.

68) Aphex Twin, “Syro” (2014)

(ELETTRONICA)

Lo avevamo dato per spacciato: Aphex Twin sembrava oramai pronto per i libri di storia della musica, descritto come una delle voci più importanti del panorama della musica elettronica, fino però ai primi anni 2000. Invece, uno dei ritorni più graditi del 2014 è senza dubbio quello di Richard D. James, aka Aphex Twin, 13 anni dopo l’ultimo lavoro di studio “Drukqs”.

La qualità della produzione di Aphex è come sempre notevole: un’elettronica raffinata, a volte orecchiabile (come nella introduttiva minipops 67 [120.2]), altre volte più aggressiva (come nella lunga suite XMAS_EVET10 [120] o nella più breve 180 db_[130]). Il colpo da maestro arriva però con la conclusiva aisatsana [102], delicatissima e commovente: solo piano di James e uccellini di sottofondo, che creano un’atmosfera davvero affascinante. Una sensibilità così spiccata in RDJ ci era ignota: chapeau.

67) Sleater-Kinney, “No Cities To Love” (2015)

(PUNK – ROCK)

Le Sleater-Kinney sono state negli anni ’90 una delle band simbolo del movimento punk femminile americano (non a caso chiamato “riot grrl”), assieme alle Hole di Courtney Love. Dopo aver sfornato sei ottimi CD, nel 2006 si erano sciolte, dedicandosi a progetti solisti. Nove anni dopo, l’evento: la reunion. E i risultati sono ancora una volta ottimi.

Le tre ex ragazze rivoltose si scoprono più mature, ma i cavalli di battaglia sono sempre i soliti, dalla critica al capitalismo sfrenato, alla discriminazione verso il sesso femminile, alla lotta alla povertà. Il punk delle origini non si è diluito, anzi: in poco più di 30 minuti le Sleater-Kinney sfornano dieci potenziali hit punk-rock, nessuna delle quali sfigura. Spiccano Price Tag, la title-track e A New Wave, una delle tracce dell’anno.

Insomma, un trionfo: come testimoniano Blur e Sleater-Kinney (ma anche i My Bloody Valentine nel 2013), le reunion a volte riescono ad aggiungere capitoli interessanti a carriere già leggendarie.

66) Vampire Weekend, “Contra” (2010)

(ROCK – POP)

Il rischio dei secondi album di band talentuose ma fondamentalmente “conservatrici” è quello di tentare di ripetere il primo, riuscendoci solo a tratti. Questo è il caso di Strokes, Interpol, Bloc Party e Franz Ferdinand, per citarne alcuni celebri. Ma “Contra”, secondo CD dei Vampire Weekend, non compie questo errore: la band riesce ad ampliare notevolmente il proprio range sonoro, aprendo ad atmosfere alla Paul Simon.

Se infatti l’inizio ricalca l’indie scanzonato di “Vampire Weekend”, il bell’esordio del 2008, con brani veloci e ben fatti come Horchata, White Sky e Holiday, la parte centrale (per esempio con Run o Taxi Cub) ma soprattutto l’ultimo tratto dell’album aprono a sonorità nuove e potenzialmente di radicale cambiamento: basti ascoltare Giving Up The Gun o Diplomat’s Son, lunga addirittura 6 minuti.

In conclusione, i Vampire Weekend, anche se non sempre centrano il bersaglio, restavano ancora una band su cui puntare: possiamo dire una start up, ancora in divenire, ma con una prospettiva a 5 stelle, fatto confermato dal magnifico “Modern Vampires Of The City” (2013).

65) SOPHIE, “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” (2018)

(ELETTRONICA)

Il titolo dell’album di Sophie Xeon è, se possibile, ancora più misterioso della sua musica. In effetti, si tratta di una figura retorica chiamata “mondegreen”, che consiste nell’interpretare in maniera errata una frase, sostituendo alle vere parole altre che suonano molto simili. Infatti, il titolo “apparente” del CD non è il messaggio che l’artista vuole passare: “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES” suona infatti come “I love every person’s insides”, che è già una frase più compiuta e, anzi, nasconde un fine profondo. Infatti, SOPHIE sta comunicando che dobbiamo tutti amare una persona per come è dentro, la sua apparenza esteriore (ad esempio, il suo sesso o le sue deformità fisiche) non dovrebbero contare. Basti questo verso, preso da Immaterial, come manifesto dell’intero LP: “I could be anything I want, anyhow, any place, anywhere. Any form, any shape, anyway, anything, anything I want”.

Non banale, come messaggio. SOPHIE del resto ha fatto della sua voce androgina un tratto caratteristico della sua produzione musicale, iniziata nel 2015 con “PRODUCT” e proseguita con questo “OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES”. La sua transessualità certamente gioca un ruolo cruciale: SOPHIE è infatti nata Samuel Long e solo con questo disco ha fatto conoscere al mondo la sua “transizione”. La sua musica è certamente inseribile nel filone dell’elettronica sperimentale, tuttavia le sue canzoni hanno una struttura che ricorda le canzoni pop, almeno nei momenti più accessibili (ad esempio la bella It’s Okay To Cry o Infatuation): non è un caso che sia chiamata “hyperpop”. Tuttavia, il tratto che distingue radicalmente Sophie Xeon dai suoi colleghi DJ è che, accanto a brani appunto pop o ambient, troviamo altre canzoni che ricordano lo Skrillex più sfacciato, per esempio Ponyboy e Faceshopping.

L’album si caratterizza dunque per una varietà stilistica estrema, che lo rende molto difficile, soprattutto ai primi ascolti, ma che nasconde delle perle davvero preziose. Ad esempio, la già menzionata It’s Okay To Cry è una delle migliori canzoni dell’anno, così come la eterea Pretending è un pezzo ambient che ricorda il miglior Brian Eno. Non vi sono pezzi davvero fuori asse, forse l’intermezzo Not Okay è imperfetto ma non intacca un CD davvero ottimo. Menzione finale per Whole New World / Pretend World, che chiude magistralmente il disco. La musica elettronica sembra aver trovato una nuova, grande promessa in SOPHIE.

64) Janelle Monáe, “The Electric Lady” (2013)

(R&B – POP)

Il secondo album della talentuosa Janelle Monáe è un altro trionfo. Dopo la sorpresa di “The ArchAndroid” (2010), Janelle non ha per nulla perso lo smalto in questo “The Electric Lady”, in cui torna la figura di Cindy Mayweather e si compongono la quarta e quinta suite dell’ambiziosa opera su questa androide umanizzata.

I temi portanti sono peraltro i medesimi del precedente lavoro: l’amore libero, la voglia di rimuovere quel malessere interno che tutti prima o poi abbiamo… Anche il concept è lo stesso, come già ricordato, supportato da ospiti magnifici come Prince, Miguel, Solange Knowles ed Erykah Badu.

La novità risiede nel semplice fatto di replicare i risultati strabilianti di “The ArchAndroid”, che per molti sarebbe stato un ostacolo troppo grande e una pressione intollerabile. Del resto, però, talenti cristallini e poliedrici come l’artista americana sono rarissimi, così come brani clamorosi come Q.U.E.E.N. ed Electric Lady.

63) Sky Ferreira, “Night Time, My Time” (2013)

(POP – ROCK)

L’esordio (di cui ancora non abbiamo un seguito) di Sky Ferreira è semplicemente un buon album? Sì e no. Senza dubbio le belle canzoni abbondano, da Boys a Nobody Asked Me (If I Was Okay), passando per Heavy Metal Heart e la conclusiva title track; tuttavia, l’impatto che ancora oggi lei e questo LP hanno sul mondo musicale sono immensi.

Sky era infatti apparentemente destinata a diventare una popstar: con all’attivo il brillante singolo Everything Is Embarrassing e l’EP “Ghost” (2012) che vantava la collaborazione di Cass McCombs e Dev Hynes (Blood Orange), tutto pareva apparecchiato per il grande botto. Invece Sky ha abbandonato la via facile, decidendo di rifugiarsi in un CD che affronta temi come l’odio per sé stessi e i problemi d’amore in maniera inusuale, con uno sguardo femminista che ancora oggi ha peso su figure come Charli XCX e le sorelle Haim, approcciando generi disparati come il synthpop, il grunge e il rock alternativo.

“Night Time, My Time” non ha un erede probabilmente anche per questo motivo: replicare un piccolo gioiello come questo lavoro e rischiare di rovinare un’eredità così pesante ha reso la Nostra più insicura e, dato il suo maniacale perfezionismo, “Masochism” non ha ancora visto la luce, diventando una sorta di Sacro Graal: da tutti ricercato ma da nessuno trovato.

62) The War On Drugs, “A Deeper Understanding” (2017)

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala. Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del decennio, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

61) Grimes, “Art Angels” (2015)

(POP – ELETTRONICA)

Claire Boucher, la cantante canadese meglio conosciuta come Grimes, nel 2012 aveva stupito tutti con “Visions”, suo terzo lavoro di studio ma primo ad avere un certo successo, superbo CD che mescolava elettronica e pop in maniera davvero unica. In “Art Angels” Grimes torna alla stessa formula già sperimentata in “Visions”, con minore inventiva ma superiore confidenza nei propri mezzi.

I risultati sono ancora una volta ottimi: brani come la potente SCREAM, la title track e la ottima Venus Fly (a cui ha collaborato Janelle Monáe) sono concepibili solo da un genio della musica moderna come Grimes, molto maturata anche vocalmente. La perla del CD è però World Princess Part II, uno dei migliori pezzi pop dell’anno.

Album per certi versi folle, “Art Angels”, ma nondimeno accattivante e ben fatto: i pochi passi falsi (come California) sembrano confermare che la perfezione non è di questo mondo. Top 100 pienamente meritata per “Art Angels” e per Claire Boucher, una delle poche artiste per cui si possa dire: nessuno suona come lei.

60) Deerhunter, “Fading Frontier” (2015)

(ROCK)

I Deerhunter non sono mai stati apprezzati per le canzoni allegre o il clima gioioso dei loro album. Anzi, molto spesso valeva il contrario: a partire dal secondo lavoro di studio “Cryptograms”(2007) fino a “Monomania” (2013), la loro cifra stilistica era sempre stato un indie rock venato di ambient music e pop, aggressivo e con testi riguardanti temi scottanti come morte, sessualità, guerra…

“Fading Frontier” è perciò una gradita scoperta: un album che cresce ad ogni ascolto, accessibile e decisamente più commerciale rispetto ai citati lavori precedenti. Si ritorna dunque alle melodie dream pop di “Halcyon Digest” (2010), capolavoro del gruppo. Bradford Cox e Lockett Pundt, frontman e chitarrista dei Deerhunter, oltre che menti creative della band, danno sfogo alla loro vena più intimista e serena.

I testi d’altra parte non sono banali nemmeno in “Fading Frontier”: in Take Care “copiano” un titolo ai Beach House e a Drake, ma trattano di storie d’amore finite male; in All The Same narrano le disavventure di un uomo che perde moglie e figli, ma trasforma le proprie debolezze in forza per riemergere. Il brano migliore è però Breaker, primo pezzo con parte canora condivisa fra Cox e Pundt nella produzione dei Deerhunter, che riecheggia Beach House e Real Estate. Bella anche Living My Life, che sembra quasi ispirarsi a Bon Iver. Nessuno dei 9 piccoli gioielli che compongono questo LP può dirsi fuori posto: un altro tassello alla già ottima carriera dei Deerhunter è stato aggiunto.

59) Alt-J, “An Awesome Wave” (2012)

(ROCK)

Una band che agli esordi vince il Mercury Prize non è frequente, ma gli Alt-J di “An Awesome Wave” lo meritano: era da tempo che non si sentiva un disco così innovativo.

Gli Alt- J creano infatti una miscellanea sonora affascinante ed efficace: esclusi infatti la Intro iniziale e i due Interlude, il CD cattura l’attenzione dello spettatore creando un genere fatto di indie pop, rock leggero e una spruzzata di elettronica tremendamente bello nei suoi picchi creativi (Fitzpleasure, Breezeblocks e Something Good sono davvero magnifiche).

Anche nei momenti più intimisti “An Awesome Wave” non delude: sia Taro che Dissolve Me non sfigurano. In poche parole: uno dei migliori CD del 2012 e del decennio.

58) Wolf Alice, “My Love Is Cool” (2015)

(ROCK)

Al primo album di studio, gli inglesi Wolf Alice tirano fuori un album semplicemente splendido, che riesce a mescolare con grande abilità generi fra loro diversi (grunge, alternative rock e pop), grazie anche alle meravigliose voci di Ellie Rowsell e Joff Oddie, che un po’ giocano a fare gli xx e un po’ i My Bloody Valentine.

Non vi sono brani sbagliati o fuori posto: anzi, il terzetto iniziale (Turn To Dust, Bros e Your Loves Whore) è probabilmente il migliore del 2015. Altri pezzi non trascurabili sono Lisbon e la conclusiva The Wonderwhy, che ricordano gli Interpol di “Turn On The Bright Lights”; invece Giant Peach gioca a fare gli Strokes.

Non sarà il nuovo “Loveless” o “Kid A”, ma certamente “My Love Is Cool” resterà anche in futuro come uno dei migliori esordi degli anni ’10 del XXI secolo. Complimenti ai Wolf Alice.

57) Iceage, “You’re Nothing” (2013)

(PUNK)

Il secondo CD dei danesi Iceage è facilmente uno dei più begli album punk del decennio 2010-2019 e, allo stesso tempo, uno dei più feroci. Prendendo spunto dalle scene hardcore e punk del passato, gli Iceage (guidati dal bravo frontman Elias Bender Rønnenfelt) creano un grido punk lungo 28 minuti, una durata relativamente breve per un disco nella nostra epoca, ma lungo abbastanza da comunicare tutto il disagio giovanile presente nel gruppo.

In realtà già l’esordio “New Brigade” (2011) aveva lasciato intravedere la natura selvaggia degli Iceage, tanto che addirittura il loro “padrino” Iggy Pop aveva detto di esserne spaventato. La paura è in effetti quella che emana da “You’re Nothing”: già dal titolo i temi dominanti sono intuibili.

Attraverso canzoni devastanti come Ecstasy e Burning Hand Rønnenfelt e compagni creano un senso di claustrofobia che non se ne va se non alla fine del CD. “You’re Nothing” è forse troppo duro per molti, ma resta (e resterà probabilmente anche in futuro) uno dei migliori dischi punk della decade appena finita.

56) Angel Olsen, “My Woman” (2016)

(ROCK)

Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop-rock contemporaneo.

Se inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock, con “My Woman” il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Allo stesso tempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire.

Il 2016 è stato l’anno in cui, con lei e Courtney Barnett, il rock femminile ha trovato due grandi interpreti. Fatto confermato, per quanto riguarda Olsen, dallo splendido “All Mirrors” del 2019, che ce ne ha fatto scoprire il lato più art pop.

55) Kurt Vile, “Wakin On A Pretty Daze” (2013)

(ROCK)

Il quinto album solista di Kurt Vile trova il Nostro al picco delle proprie capacità. “Wakin On A Pretty Daze” è il CD più accessibile della sua discografia, pieno di momenti davvero paradisiaci per gli amanti del rock vecchio stampo: i 9 minuti di Wakin On A Pretty Day sono clamorosi, così come l’epica chiusura di Goldtone. Nel mezzo abbiamo altre perle, da KV Crimes a Too Hard, che rendono il lavoro davvero imperdibile.

I semi di questo squisito LP erano già stati pianati nel precedente “Smoke Ring For My Halo” (2011), dove Kurt aveva abbandonato il lo-fi dei primi dischi da frontman dopo l’apprendistato nei The War On Drugs per far spazio a un rock infarcito di folk e psichedelia. È però in “Wakin On A Pretty Daze” che il suo stile rilassato ma mai prevedibile sboccia completamente.

Il CD è davvero un piacere, intaccato solamente dall’eccessiva lunghezza (oltre 69 minuti) che però non danneggia i momenti davvero memorabili di un lavoro caposaldo del rock classico ma anche psichedelico del decennio.

54) St. Vincent, “Strange Mercy” (2011)

(ROCK)

Annie Clark, in arte St. Vincent, è una delle artiste davvero fondamentali nel panorama pop-rock degli anni ’10. Il suo stile a metà fra ricercato e scanzonato, con un’estetica a tratti à la David Bowie, la rendono un personaggio che non passa mai inosservato; a ciò aggiungiamo canzoni spesso riuscite e il cocktail diventa esplosivo.

“Strange Mercy”, il terzo album a firma St. Vincent, è il lavoro per molti definitivo della cantante statunitense. Mescolando abilmente la sua voce ammaliante a schitarrate a tratti selvagge e testi mai scontati, la Clark condensa in poco più di 40 minuti molta della storia dell’indie rock.

Da Chloe In The Afternoon a Cruel, passando per Champagne Year e Surgeon, il CD è un trionfo, che denota finalmente tutto il talento del progetto St. Vincent, ulteriormente rifinito nel 2014 nell’eponimo “St. Vincent”.

53) Little Simz, “GREY Area” (2019)

(HIP HOP)

Se spesso i passati lavori di Little Simz erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), in “GREY Area” l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque ed evita di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap della decade.

52) Run The Jewels, “Run The Jewels 2” (2014)

(HIP HOP)

La seconda collaborazione fra i due rapper americani Killer Mike ed El-P è un trionfo per gli amanti del rap più duro. In un compatto formato da 11 brani e 39 minuti, i Run The Jewels confermano un’intesa incredibile e un’abilità vocale e di produttori notevoli, che rendono “Run The Jewels 2” il miglior CD ad oggi del duo.

Il lavoro è quasi nostalgico in certi tratti: la collaborazione con Zach De La Rocha (Rage Against The Machine) e i rimandi a Public Enemy e N.W.A. sono chiari e allo stesso tempo graditi, nondimeno i Run The Jewels non sono semplicemente dei tradizionalisti. Anzi, nel 2014 questo disco era davvero all’avanguardia: le sue denunce della violenza a sfondo razziale della polizia americana e la sfida lanciata agli haters sono temi tuttora attuali.

Soprattutto, a risaltare ancora oggi sono le canzoni: fin dall’apertura feroce di Jeopardy, passando per la durissima Close Your Eyes (And Count To Fuck) e Crown, “Run The Jewels 2” è un LP che non lascia spazio al filler e, a tratti, è quasi troppo da prendere tutto in una volta. Ciò non toglie valore ad un lavoro tanto duro quanto sincero: valori non scontati nel panorama musicale moderno, per certi versi troppo “smielato” specie nel mondo pop.

51) Darkside, “Psychic” (2013)

(ELETTRONICA – ROCK)

Il progetto Darkside, ossia il nickname della collaborazione fra Nicolas Jaar e il chitarrista/bassista Dave Harrington, ha scritto pagine molto importanti della musica degli anni ’10. Nel breve spazio di tre anni infatti il duo ha pubblicato l’EP di esordio “Darkside” (2010), remixato “Random Access Memories” dei Daft Punk (2013) e dato alla luce il loro per ora unico CD vero e proprio, il brillante “Psychic”.

Jaar è molto conosciuto e stimato per essere uno dei più innovativi artisti di musica elettronica, capace di spiccare sia come produttore, sia come compositore, che si parli di musica ambient, dance oppure sperimentale. Darkside è il lato più rock di Nicolas: i riferimenti a prog rock, funk e space rock (quindi agli anni ’70 e ’80 del XX secolo) sono numerosi, basti sentirsi l’epica Golden Arrow e The Only Shrine I’ve Seen. I pezzi riusciti però non terminano qui: le 8 perle di “Psychic” creano infatti un insieme coeso ma mai ripetitivo, anzi a volte quasi elitario nei riferimenti e nella complessità delle canzoni.

Melodie come la già citata Golden Arrow e Paper Trails rientrano di diritto fra le canzoni più belle della decade e rendono questo “Psychic” imprescindibile per gli amanti della musica ai confini fra rock ed elettronica. Dal canto suo Nicolas Jaar si conferma artista versatile e ormai pronto a spiccare il volo fra i maestri dell’elettronica.

Manca poco ormai per sapere chi è il CD più bello della decade 2010-2019 secondo A-Rock! State sintonizzati, domani il verdetto sarà espresso!

I 50 migliori album del 2017 (25-1)

Già nella prima metà della lista dei 50 migliori CD del 2017 di A-Rock avevamo nomi altisonanti: Liam Gallagher, Vince Staples e Queens Of The Stone Age, per esempio. Chi conterrà questa seconda metà? E soprattutto: a chi andrà la palma di migliori album dell’anno? Buona lettura!

25) Laurel Halo, “Dust”

(ELETTRONICA)

Al terzo CD, possiamo dire che Laurel Halo ha mantenuto quello che le sue prime uscite promettevano. “Dust” è un grande album di musica elettronica, che mescola ambient e melodie più sperimentali, à la Aphex Twin. Insomma, in un anno non facile per questo genere (lontani i tempi di Jamie xx), la Halo si conferma grande interprete, malgrado la giovane età.

La prima traccia, la funkeggiante Sun To Solar, inizia un percorso molto affascinante attraverso musica ambient, sperimentalismo e ritmi più danzerecci, un intreccio che fa di “Dust” un disco imperdibile per gli amanti dell’elettronica. Jelly introduce ritmi quasi tribali, mentre Moontalk sembra quasi Prince. Convincono meno Koinos e le troppo brevi Arschkrieker e Nicht Ohne Risiko, mentre i veri highlights dell’album sono la già citata Moontalk e la intricata Syzygy. Non male anche la più raccolta Do U Ever Happen.

I testi sono, come spesso accade nel mondo della musica elettronica, molto criptici, spesso incomprensibili data la maniera in cui la voce viene trattata e manipolata. Va detto, a onor del vero, che anche nelle precedenti uscite la Halo aveva fatto intravedere questa tendenza, dando più importanza alle atmosfere create dalla musica; e i risultati le danno ragione.

In generale, dunque, non stiamo parlando di un capolavoro o di un LP capace di rivoluzionare la musica elettronica, nondimeno Laurel Halo conferma tutto il suo talento e ci fa sperare che l’elettronica abbia trovato una nuova, grande interprete.

24) Noel Gallagher’s High Flying Birds, “Who Built The Moon?”

(ROCK)

Noel è giunto ormai al terzo album con la sua nuova band, gli High Flying Birds. La sua è stata una graduale evoluzione: partito nel primo CD della sua nuova avventura con canzoni molto simili agli Oasis, già in “Chasing Yesterday” (2015) si erano intraviste aperture verso rock à la Strokes e psichedelia del tutto inedite per lui. Questo “Who Built The Moon?” è il miglior disco a firma Noel Gallagher da molti anni: oltre a proporre nuovi generi musicali ad un pubblico che era abituato al britpop vecchia maniera, Noel produce tre-quattro canzoni davvero notevoli, che entrano di diritto fra le sue migliori.

L’inizio è sorprendente: Fort Knox è un pezzo molto duro, quasi progressive, per un ex Oasis come lui. Ma le sorprese non sono finite: il più anziano dei due fratelli coltelli degli Oasis infatti si avventura nel glam rock (Keep On Reaching), utilizzando poi in altri pezzi addirittura il vocoder e mescolando influenze jazz (Holy Mountain). Le tastiere, poi, hanno un discreto peso. Insomma, un LP così ambizioso e innovativo da un cinquantenne non ce lo aspettavamo proprio. Merito anche del produttore, David Holmes, noto anche come musicista ardito e innovatore nel campo dell’elettronica.

Menzione finale per Dead In The Water, pezzo non incluso nella tracklist ufficiale ma acquistabile come traccia bonus: ricorda molto le b-sides migliori degli Oasis, in particolare Talk Tonight e Half The World Away. Ottime anche It’s A Beautiful World e She Taught Me How To Fly. Da non trascurare anche Black & White Sunshine. Meno riuscite Be Careful What You Wish For e If Love Is The Law, ma non intaccano eccessivamente il risultato complessivo.

In conclusione, il 2017 ha visto sfidarsi i fratelli Gallagher, oltre che con i soliti insulti via social o via intervista, anche musicalmente: mentre Liam, con “As You Were”, ha pubblicato un CD “conservatore”, chiaramente destinato ai fan prima maniera degli Oasis, Noel sembra aver trovato una sua nicchia più interessante, ma forse più rischiosa a fini puramente economici. Tuttavia, non si può non elogiare la voglia di sperimentare di uno degli artisti inglesi apparentemente più rigidi nelle loro posizioni degli ultimi venticinque anni. Aspettiamo con grande interesse la sua prossima prova.

23) Algiers, “The Underside Of Power”

(PUNK)

Raramente si sentono album che sanno mescolare così abilmente post-punk e musica nera come questo “The Underside Of Power”: gli Algiers, accanto al punk che aveva caratterizzato il loro esordio “Algiers” del 2015, riescono a inserire influenze soul che rendono il risultato ancora più intrigante. Non che queste ultime mancassero precedentemente, sia chiaro; tuttavia, sembravano messe lì puramente come ornamento, mentre in “The Underside Of Power” assumono una funzione più chiara e significativa. Il CD può quindi essere visto come un raffinamento del precedente: non si tratta di un album facile, tuttavia resta molto significativo, anche per i temi affrontati, come per esempio la lotta razziale dei neri per la parità con i bianchi e le storture che il capitalismo porta nella società.

L’intento è già chiaro a partire dalla prima canzone in scaletta, Walk Like A Panther: un inno duro e senza compromessi, supportato dall’ottima base ritmica fornita da Matt Tong (batterista ex Bloc Party) e la voce di Franklin James Fisher a urlare contro tutto ciò che di sbagliato c’è nel mondo, in particolare razzismo e diseguaglianze. Anche il titolo del secondo brano, Cry Of The Martyrs, è indicativo dei temi trattati. Non solo punk, però: come già accennato, gli Algiers, specialmente nella seconda parte, danno più spazio alla loro parte romantica, con accenni di soul e ritmiche meno aggressive. Ne sono esempi Mme Rieux e Hymn For An Average Man. Da non trascurare anche le due suite strumentali, Plague Years e Bury Me Standing.

I brani migliori, però, rimangono quelli più punk, come Walk Like A Panther e la title track; leggermente inferiori sono A Murmur. A Sign. e Cleveland, ma nessuno dei 12 brani delude. Il CD conferma quindi gli Algiers come una voce rilevante del panorama musicale inglese: vedremo dove li porterà il prossimo disco. Considerato che in soli due lavori hanno già esplorato rock, punk e soul, siamo davvero curiosi.

22) Four Tet, “New Energy”

(ELETTRONICA)

Annoverato in ogni classifica che si rispetti fra i migliori DJ del XXI secolo,  l’inglese Kieran Hebden, meglio conosciuto col nome d’arte Four Tet, ritorna sulle scene con il nono album di inediti. Il titolo è evocativo dello scopo di Hebden: cercare sempre di rinnovare il proprio sound e, contemporaneamente, mantenere le caratteristiche che lo hanno reso tanto amato. Negli ultimi anni, lo abbiamo visto collaborare con svariati artisti, fra cui Rihanna, Thom Yorke e Burial. Sono lontani i tempi dove la sua riservatezza era maniacale e la presenza sui social inesistente: adesso Four Tet ci tiene a far sapere tutto sui nuovi progetti intrapresi e sulle collaborazioni effettuate.

Il CD recupera alcune sonorità già sentite nella lunga carriera di Hebden, in particolare dal bellissimo “Rounds” (2003) che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Sono poi presenti influenze di The Field e Caribou, che rendono la tavolozza sonora di Four Tet colorata come non mai. Abbiamo infatti un gradevole intreccio di ambient, dance e IDM, che rendono “New Energy” un’altra ottima aggiunta ad una discografia già ingombrante.

Fra i brani migliori, abbiamo la ipnotica Lush; l’affascinante Two Thousand And Seventeen, che può essere messa fra i migliori brani elettronici dell’anno; la dolce You Are Loved; e SW9 9SL, che ricorda il Caribou più danzereccio. Meno belle Alap e Tremper, ma ciò è dovuto sia all’eccessiva brevità (per esempio le due tracce citate durano meno di due minuti) e, forse, alla volontà di Hebden di rendere il disco uniforme e coerente come sonorità, a discapito della varietà (Memories).

In conclusione, se non si tratta del suo miglior LP, poco ci manca: Four Tet conferma ancora una volta il suo grande talento e ci dona uno dei più riusciti dischi di musica elettronica dell’anno. Il piano soffuso di Daughter e la conclusiva Planet valgono da soli un ascolto.

21) Perfume Genius, “No Shape”

(POP – ELETTRONICA)

Il quarto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un sontuoso lavoro pop. Se i precedenti suoi CD si contraddistinguevano per un pop più ermetico e minimal di quello mainstream, in “No Shape” Hadreas è più aperto, sia come tematiche trattate che come sonorità.

Le 13 canzoni che compongono l’album, per un totale di 43 minuti di durata, formano un lavoro conciso e affascinante, con due chiare metà: se la prima è caratterizzata da ritmi gioiosi, la seconda è molto più drammatica e misteriosa, richiamando le sonorità di Brian Eno e del David Bowie più ambient. Insomma, Perfume Genius ha orchestrato un LP molto ambizioso e mai fuori fase: al netto di momenti che possono piacere meno di altri, il livello complessivo di “No Shape” è altissimo e avvicina Hadreas ai grandi autori pop contemporanei, su tutti Anohni (il fu Antony Hegarty).

Nella prima parte colpiscono particolarmente Otherside e Slip Away, mentre nella seconda ricordiamo soprattutto Run Me Through e la maestosa Alan, che chiudono l’album. La migliore è però Every Night: poco meno di 3 minuti di pop da camera fragile e ipnotico, con la bella voce di Perfume Genius a dominare. Dicevamo prima che vi sono pezzi leggermente più deboli, che abbassano il livello medio del CD: abbiamo ad esempio Just Like Love e Go Ahead, ma sono peccati veniali in un lavoro davvero notevole.

Dal punto di vista dei testi, l’omosessualità del cantante viene nuovamente fuori in molte delle canzoni, ma non con la negatività dei precedenti lavori: se nei primi suoi CD si parlava di abusi fisici e di sostanze stupefacenti, già in “Too Bright” (2014) cominciava a vedersi la luce in fondo al tunnel. In questo “No Shape” possiamo addirittura leggere dei riferimenti all’attualità politica, in particolare alla polemica sui diritti per le coppie gay: “How long must we live right before we don’t even have to try?” canta Hadreas in Valley General.

“No Shape” è dunque l’album più completo e riuscito di Perfume Genius: merita senza dubbio un posto d’onore tra gli album pop-elettronici più belli degli ultimi anni.

20) Broken Social Scene, “Hug Of Thunder”

(ROCK)

Dopo 7 anni, il ritorno dei canadesi Broken Social Scene rappresenta un ottimo momento per tornare ad ascoltare musica inedita da parte di uno dei gruppi indie rock più amati degli ultimi 15 anni. Il quinto album del collettivo canadese è un distillato di tutte le loro migliori qualità: forte base ritmica, voci soffuse, atmosfere quasi shoegaze.

Il ritorno di Leslie Feist segna il ritorno di uno dei membri di maggior successo al di fuori del gruppo e, contemporaneamente, un’iniezione di adrenalina pura nel sound della band: prova ne sia Halfway Home, il primo singolo utilizzato per promuovere il CD. Tutto gira bene, specialmente nella prima parte dell’album, con brani potenti e riusciti come la già citata Halfway Home, la vibrante Protest Song e la magnifica Vanity Pail Kids.

La seconda parte del disco è più raccolta ed intimista, facendoci scoprire il lato più pop dei Broken Social Scene: i migliori pezzi sono Towers And Masons e Please Take Me With You. Un po’ monotona invece Gonna Get Better. Questo passo falso viene però subito compensato dall’epica canzone finale, Mouth Guards Of The Apocalypse, che chiude degnamente un ottimo CD.

In conclusione, la band canadese non introduce radicali cambiamenti nel sound che ne ha fatto la fortuna in passato, come era facile aspettarsi. Tuttavia, “Hug Of Thunder” segna il ritorno di un altro amatissimo gruppo della scena indie rock, in un anno trionfale per gli amanti del genere: Spoon, Phoenix, Arcade Fire e Broken Social Scene sono tornati con lavori molto interessanti, anche se non sempre degni delle pesanti eredità che i rispettivi gruppi possiedono. Ciò aggiunge ancora più valore a questo “Hug Of Thunder”. Bentornati, Broken Social Scene.

19) Moses Sumney, “Aromanticism”

(R&B – SOUL)

L’esordio del giovane cantante afroamericano Moses Sumney, “Aromanticism”, esprime già nel titolo molti dei temi trattati. Lui dichiara di essere una persona a-romantica, cioè incapace di provare sentimenti per le altre persone, uomini o donne che siano. I testi sono infatti venati di malinconia e tristezza a causa di questa sua caratteristica, che gli impedisce di legarsi agli altri esseri umani. Tuttavia, ciò gli consente di avere uno sguardo distaccato sulla realtà ed estrapolarne così alcuni dettagli sempre interessanti. Oltre a questo, le canzoni in questo suo esordio sono in genere riuscite e la sua voce, un mix tra Prince e Thom Yorke, è sublime.

L’inizio è molto soft: sembra di tornare a “Blonde” di Frank Ocean, con atmosfere ancora più rarefatte e voce ancora più eterea. Già alla quarta canzone, però, l’atmosfera dei primi brani scompare: Quarrel è un capolavoro fatto e finito, con coda strumentale da brividi. Allo stesso modo, Lonely World ricorda il Prince anni ’80 con la sua vocina acuta e la chitarra in primo piano, poi sboccia in un pezzo rock clamoroso. Anche la seconda parte ha gemme notevoli, per esempio la romantica Doomed, che ricorda molto Frank Ocean. Deludono leggermente Stoicism e Don’t Bother Calling, ma il voto al CD resta positivo.

In generale, il soul/R&B sembra aver trovato un’altra, grandissima voce: per certi versi, questo disco ricorda “Malibu” di Anderson .Paak del 2016, solo più raffinato e meno movimentato. “Aromanticism” è, pertanto, certamente da annoverare fra i migliori esordi musicali di musica nera degli ultimi anni.

18) The Horrors, “V”

(ELETTRONICA – ROCK)

Dopo quattro album sempre più arditi, gli Horrors sono tornati: con “V” il gruppo inglese stupisce ancora una volta il proprio pubblico, cimentandosi con l’acid rock e il synth rock tipici rispettivamente degli U2 in “Achtung Baby” e dei Depeche Mode. Ma possiamo citare anche le influenze di Primal Scream e Cure come fondamentali. Insomma, Badwan e compagni non tradiscono le aspettative, ancora una volta: possiamo dire senza tema di smentita che gli Horrors sono fra le cinque-sei band rock più significative al momento, la loro capacità di reinventarsi ad ogni CD ne è la dimostrazione.

Tre anni dopo il pregevole “Luminous”, gli Horrors piazzano come sempre i migliori brani nella prima parte del disco, per poi virare verso lidi più sperimentali nella seconda. La prima canzone della tracklist, Hologram, presenta sintetizzatori e basso in prima linea, con la bella voce di Faris Badwan ad amalgamare il tutto: già un primo assaggio della svolta presente in “V” è proposta qua. La successiva Press Enter To Exit, accanto ad una critica della moderna società digitale, ricorda molto il rock acido dei Primal Scream e degli U2 dei primi anni ’90 del secolo scorso. La fantastica triade iniziale è completata dal primo singolo estratto dal disco, quella Machine quasi industrial che ricorda molto i Nine Inch Nails.

Insomma, gli ingredienti del CD sono già presenti nei primi tre brani della scaletta. A completare la tavolozza sonora sono alcune ballate, sulla falsariga di quella Change Your Mind che, in “Luminous”, aveva fatto storcere il naso ai fans duri e puri del gruppo, ma che tuttavia era ben riuscita e aggiungeva un tocco romantico prima sconosciuto agli Horrors. Tra le migliori in “V” abbiamo Ghost e Gathering. Belle anche World Below e la sperimentale Weighed Down. Meno riuscita It’s A Good Life, ma è un peccato veniale in un LP ottimo.

In generale, quindi, “V” non raggiunge le vette compositive di “Primary Colours” (2009) e “Skying” (2011), nondimeno aggiunge un altro capitolo molto interessante alla discografia degli Horrors, sempre più a buon diritto inseribili fra i gruppi di musica alternativa più significativi del nuovo millennio.

17) Julien Baker, “Turn Out The Lights”

(ROCK – POP)

Il secondo album della giovane cantante americana Julien Baker è un ottimo esempio della nouvelle vague del mondo indie, caratterizzata da una più massiccia presenza di donne rispetto al passato. Ricordiamo ad esempio Courtney Barnett e Angel Olsen; adesso anche la Baker fa parte del gruppo.

“Turn Out The Lights” combina piacevolmente pianoforte e chitarre, con la bella voce di Julien a fare da collante alle canzoni. La prima vera traccia del disco, dopo la breve intro Over, è già espressiva del tono del disco: Appointments ha un mood fortemente malinconico, batterie e basso sono completamente assenti e il testo parla di appuntamenti falliti e relazioni finite. Su questa falsariga si sviluppa poi tutto il disco.

I testi, dunque, sono molto pessimisti: già nell’esordio “Sprained Ankle” avevamo notato questo male di vivere nella Baker, sentimento che sembra essersi acuito in “Turn Out The Lights”. Le liriche, infatti, contengono versi come “Do I deserve to be here? Will I ever be ok?” oppure “There’s more whiskey than blood in my veins”. Insomma, si accenna a tendenze suicide ed alcolismo senza mezzi termini. La disperazione tuttavia non angustia le melodie, che restano potenti e toccanti allo stesso tempo.

La Baker si inserisce, musicalmente parlando, a cavallo fra dream pop e indie rock: un po’ Beach House e un po’ Wolf Alice, diciamo. Niente di radicale, quindi, ma il CD resta davvero bellissimo e degno di più di un ascolto. Fra le tracce migliori abbiamo la già citata Appointments e la title track; buona anche la conclusiva Claws In Your Back. Meno riuscite Shadowboxing e Sour Breath (da segnalare comunque per le tristissime liriche “The harder I swim, the faster I sink”), ma il risultato complessivo resta ottimo.

In conclusione, il talento di Julien Baker sembra essere definitivamente sbocciato: con una voce così, poi, tutto diventa più facile. Speriamo che la disperazione che sembra pervadere la giovane cantante non si riveli troppo pesante per la sua apparentemente fragile anima.

16) Fever Ray, “Plunge”

(ELETTRONICA)

Erano otto anni che Karin Dreijer non produceva un album solista; la metà femminile dei Knife (l’altra era il fratello Olof), con l’esordio solista “Fever Ray” (2009), aveva fatto capire che, anche senza i Knife, per lei un radioso futuro nel mondo della musica era possibile. “Plunge” conferma ulteriormente questo fatto: attraverso canzoni a volte complesse, altre quasi pop, Karin appare in splendida forma, tanto da produrre uno dei migliori album di musica elettronica dell’anno.

I temi trattati dalla cantante svedese riguardano soprattutto l’amore e il sesso; accanto ad essi, però, un messaggio politico non può mancare. Spesso infatti anche i Knife avevano affrontato temi legati alla sfera pubblica, per esempio i diritti degli omosessuali o le storture del capitalismo. Fever Ray, parlando dell’amore carnale, denuncia la non parità dei diritti fra maschi e femmine e le violenze a cui le donne sono sottoposte da parte di uomini prepotenti, questione quanto mai attuale in queste settimane.

I pezzi migliori sono Must’t Hurry, This Country e Red Trails. Convincono meno Falling, IDK About You e la parte centrale del disco, tuttavia i risultati complessivi sono apprezzabili. Restano superiori i due LP più maturi dei Knife, “Silent Shout” (2006) e “Shaking The Habitual” (2013). Tuttavia, l’eclettismo e la cura maniacale di “Plunge” lo rendono imprescindibile per gli amanti dell’elettronica e dei Knife.

15) The National, “Sleep Well Beast”

(ROCK)

Il settimo album dei The National, uno dei gruppi indie rock più famosi e apprezzati della scena americana, è anche il loro lavoro più intimo e cupo: le sonorità del CD sono molto raccolte, con il piano che ha un’importanza maggiore rispetto ai precedenti lavori del gruppo, anche di LP più maturi come gli eccellenti “High Violet” (2010) e “Trouble Will Find Me” (2013).

Il tutto è già evidente dalla prima traccia: Nobody Else Will Be There ricorda i Radiohead per la tristezza che emana, con un Matt Berninger protagonista con la sua voce bella e profonda. La seconda canzone, Day I Die, è forse la migliore del disco e mette invece ancora una volta in evidenza la base ritmica dei The National, con i fratelli Dessner al top della condizione: la chitarra di Bryce regala rasoiate bellissime, ma anche il basso si fa sentire. Stiamo parlando di uno fra i migliori pezzi indie rock dell’anno: pensare che sia stato scritto da una band con quasi venti anni di carriera alle spalle è impressionante.

I pezzi più rock si confermano i migliori del lotto: sono ottime anche The System Only Dreams In Total Darkness e Turtleneck, a buon diritto fra tra gli highlights del disco. Del resto, però, i The National sono famosi per aver imparato a fondere, nel corso della loro splendida carriera, rock e melodia: così anche pezzi con pianoforte preponderante come la già citata Nobody Else Will Be There o la title track conquistano man mano che se ne scoprono i dettagli.

Peccato per pezzi meno belli, che sembrano compiuti solo a metà: forse i numerosi progetti solisti intrapresi dai membri del gruppo negli ultimi anni hanno influito. Ne sono esempi Born To Beg e I Still Destroy You, strano esperimento elettronico che poi evolve in una canzone rock un po’ frenetica. Migliore invece la ipnotica Guilty Party. In generale, però, sebbene non siamo dalle parti dei capolavori (sì, al plurale) della band, come “Alligator” o “High Violet”, questo “Sleep Well Beast” non sfigura nella discografia dei The National, che anzi si confermano band imprescindibile per gli amanti del rock, dall’indie a quello più raffinato.

14) Slowdive, “Slowdive”

(ROCK)

È ufficiale: lo shoegaze è ancora vivo e lotta insieme a noi. Dopo il clamoroso ritorno nel 2013 degli alfieri di questo genere, i My Bloody Valentine, con il magnifico “m b v”, adesso anche gli Slowdive sono tornati a produrre nuova musica. E pensare che questo è solo il quarto album della band britannica, il primo dopo “Pygmalion” del 1995. Un’attesa di ben 22 anni, ma ripagata: i risultati di “Slowdive” raggiungono le vette artistiche dei precedenti lavori del gruppo, non rovinando un’eredità che inizia ad essere davvero ingombrante.

Gli Slowdive, infatti, riprendono da dove avevano finito: un genere a metà fra shoegaze e dream pop. Con parametri odierni, possiamo dire che in loro troviamo Beach House, M83 e My Bloody Valentine in egual misura. Nei suoi momenti migliori, “Slowdive” è davvero eccellente: l’iniziale Slomo è sognante e affascinante, anche grazie alla perfetta voce di Rachel Goswell; Don’t Know Why è davvero ipnotica, per merito soprattutto alle voci eteree della Goswell e di Neil Halstead; infine, Sugar For The Pill flirta col pop e contiene una magnifica linea di basso, inusuale per una band shoegaze. Ma è proprio per questi dettagli che amiamo gli Slowdive, no?

I difetti principali del lavoro sono due, il ristretto numero di canzoni (appena 8) e la monotona conclusione: Falling Ashes infatti, nei suoi 8 minuti di durata, rende fin troppo pessimista e malinconica l’ultima parte del CD. In generale, però, la qualità è molto alta, come già ribadito: l’ascolto di questo LP è consigliato a tutti coloro che vogliono sperimentare nuove forme di rock, entrando nel mondo dello shoegaze e immergendosi pienamente in un insieme di chitarre distorte, voci che si rincorrono e atmosfere ambient. Insomma, un estratto di puro shoegaze.

13) Thundercat, “Drunk”

(ROCK – JAZZ – SOUL)

La parabola di Stephen Bruner (meglio conosciuto come Thundercat) è davvero curiosa. Venuto alla ribalta come bassista di grande talento, con collaborazioni del calibro di Kanye West e Flying Lotus, da qualche anno a questa parte ha iniziato a scrivere musica di persona, producendo CD molto interessanti, un mix di funk, jazz e rock. La sua vita ha subito una virata decisiva con la morte dell’amico e collaboratore Austin Peralta nel 2012: da quel momento, il tema della morte e una malinconia a volte opprimente permeano i suoi lavori.

Ne è emblema anche questo “Drunk”, quarto album a nome Thundercat di Bruner. La partenza è quasi serena: un insieme di pezzi velocissimi e nervosi, infusi di funk (Captain Stupido), jazz (Uh Uh) e momenti à la Prince, come in A Fan’s Mail (Tron Suite II). Il mood dell’album si fa però progressivamente più triste, fino a diventare disperato nella parte conclusiva (emblematica DUI).

Menzione finale per le collaborazioni: se Thundercat ha convinto artisti del calibro di Pharrell Williams, Kendrick Lamar e Wiz Khalifa a far parte di “Drunk” un motivo ci sarà. In particolare, la traccia con K-Dot, Walk On By, è molto riuscita; bella anche Show You The Way.

In conclusione, un LP con 23 canzoni, per una durata totale di oltre un’ora, non può essere perfetto; “Drunk”, però, in certi tratti ci va davvero vicino. Tra i migliori CD di musica nera degli ultimi anni.

12) Arca, “Arca”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il terzo album del musicista venezuelano Alejandro Ghersi, meglio noto come Arca, è il suo CD più intimo e personale. Innanzitutto, in “Arca” Ghersi per la prima volta canta nella sua lingua d’origine, lo spagnolo: ciò, apparentemente, al fine di svelarci di più sulla sua idea di amore e di sessualità. Entrambi questi temi sono sempre stati al centro della sua produzione e l’ambiguità mantenuta al riguardo era uno degli enigmi maggiori riguardo ad Arca, come uomo e come musicista.

Musicalmente parlando, “Arca” mantiene l’intelaiatura dei suoi precedenti lavori, rispettivamente “Xen” (2014) e “Mutant” (2015): vale a dire una musica ambient molto ricercata, a tratti criptica e in altri più sinuosa e accattivante. Rispetto ai due predecessori, tuttavia, questo album dà più attenzione alla parte melodica, quasi pop, dell’estetica di Arca: ne sono esempi i due magnifici brani iniziali, Piel e Anoche. La parte centrale contiene le tracce più sperimentali, come Reverie e Castration. Altro pezzo da ricordare è Coraje, dalla melodia davvero delicata; meno riuscita è Whip, troppo chiassosa. La costruzione del CD si rivela comunque straordinaria: la parte conclusiva ritorna alle sonorità minimali e commoventi dell’inizio, sottolineate dal canto fragile di Ghersi. Ne sono esempi perfetti Miel e Fugaces.

In generale, colpisce la continua evoluzione di questo talentuoso artista, capace di produrre canzoni per pezzi da 90 come Kanye West, FKA Twigs e Bjork, e contemporaneamente mantenere una feconda attività di cantante solista, peraltro di buonissima qualità. Questo “Arca” è il culmine di tutto ciò, un lavoro contemporaneamente misterioso e pop, difficile e fragile: insomma, uno dei migliori CD di musica elettronica degli ultimi anni, non molto lontano da “In Colour” di Jamie xx e “Hopelessness” di Anohni.

11) St. Vincent, “MASSEDUCTION”

(POP)

Annie Clark, meglio conosciuta col nome d’arte St. Vincent, sembra incapace di sbagliare un LP. Il suo nuovo lavoro, “MASSEDUCTION”, è un trionfo per gli amanti del pop. Annie ci aveva già fatto intravedere il suo lato più pop, specialmente nel riuscitissimo omonimo album del 2014. Tuttavia, la sua straordinaria abilità di mescolare pop ed indie rock l’aveva sempre distinta dal mainstream. Le sue schitarrate selvagge, poi, a metà fra Plant e Fripp, rendevano le sue canzoni imprevedibili.

Per questo stupisce per certi versi la svolta verso il pop più zuccheroso: questa mossa rischia di alienare molti fan della prima ora, ma è stata fatta con la speranza di ampliare contemporaneamente la platea di ascoltatori. “MASSEDUCTION” ricorda “Melodrama” di Lorde per alcuni tratti comuni delle due cantanti: fascino particolare, nessun timore a parlare dei propri sentimenti, talento fuori dal comune. Anche le due voci sono assimilabili. Tuttavia, mentre Lorde è solo al secondo CD, Annie Clark è già al sesto (comprendendo anche il disco collaborativo con David Byrne). La creatività non è decisamente venuta meno, comunque: contiamo difatti tracce molto interessanti come Los Ageless e Pills, che parlano delle persone che cercano di non invecchiare mai attraverso ritocchi o farmaci in maniera molto ironica. Belle anche le romantiche ballate New York ed Happy Birthday, Johnny. Convincono meno le canzoni troppo anni ’80, che ricordano molto (fin troppo) Police e Depeche Mode: ne sono esempi Sugarboy e la title track.

I testi, come già accennato, prendono di mira prevalentemente la cultura dell’eterna bellezza e dell’apparenza come unico valore, in un mondo dominato dai social e dai selfie. Ecco, diciamo che se gli Arcade Fire fossero stati ispirati avrebbero partorito un CD complessivamente buono come “MASSEDUCTION” e non il poco riuscito “Everything Now”.

In conclusione, questo non è certamente il disco più riuscito di St. Vincent: “Strange Mercy” (2011) e “St. Vincent” (2014) sono irraggiungibili, tuttavia Annie Clark ci ha fatto vedere di essere una artista a tutto tondo, capace anche di esplorare generi nuovi senza perdere la propria identità. Per quanti cantanti di oggi possiamo dire lo stesso?

10) Father John Misty, “Pure Comedy”

(ROCK)

Il terzo LP solista di Joshua Tillman, in arte Father John Misty, era molto atteso: dopo un eccellente secondo lavoro come “I Love You, Honeybear” (2015) e l’abilità mostrata, sia nelle interviste rilasciate che sui social, di cogliere come pochi lo spirito dei tempi, eravamo tutti curiosi di vedere cosa mai avrebbe dissacrato in questo “Pure Comedy”. Ebbene, i risultati sono clamorosi, per molti versi nel bene ed altri nel male: quasi 75 minuti di durata, 13 canzoni di cui una di 13 minuti (!) e una ironia molto amara riguardo ai tempi, politici e non, dove siamo immersi.

Musicalmente parlando, “Pure Comedy” amplia i generi affrontati da Tillman: accanto al folk delle origini (è stato batterista dei Fleet Foxes fino al 2012), adesso abbiamo un rock molto denso e raffinato, a tratti orchestrale nella sua magniloquenza. I risultati, quando tutto gira per il meglio, sono ottimi: ne sono prova Pure Comedy e Total Entertainment Forever, le due tracce iniziali del disco. Altrove, nondimeno, la combinazione risulta eccessivamente monotona: in particolare ciò accade nella parte centrale del lavoro, fin troppo adagiata in un plateau sonoro fatto di rock acustico e molto simile fra un brano e l’altro. Emblema di tutto ciò è l’interminabile Leaving LA, 13 minuti davvero lunghi e difficili da apprezzare.

La situazione si risolleva nella brillante parte finale, dove Tillman torna a fare quello che lo ha reso così amato dal pubblico: non concentrarsi su sé stesso, quanto dare uno sguardo disincantato sul mondo, aiutato da un folk-rock con intarsi elettronici davvero ammaliante. I migliori brani sono proprio le ultime due canzoni della tracklist, So I’m Growing Old On Magic Mountain e In Twenty Years Or So.

Liricamente, come sempre in un album di Father John Misty, gli spunti di riflessione non mancano: da un riferimento agli Oculus Rift in rima con Taylor Swift (potete immaginare in che contesto) alla religione (“They get terribly upset when you question their sacred texts, written by woman-hating epilectics”), da una critica alla tecnologia (“There are some visionaries among us developing some products to aid us in our struggle to survive, on this godless rock that refuses to die”) a della sana e onesta autoironia (“So I never learned to play the lead guitar. I always more preferred the speaking parts”).

Insomma, un lavoro non semplice, sia musicalmente che per i contenuti affrontati. Tuttavia, se affrontato nella giusta prospettiva e colto appieno, “Pure Comedy” si staglia come un ottimo CD di musica rock impegnata; e dimostra un coraggio non comune da parte di Joshua Tillman, che affronta temi delicati in maniera sempre pungente e intelligente. Non un capolavoro, ma qualcosa di molto simile sì.

9) Run The Jewels, “Run The Jewels 3”

(HIP HOP)

Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è il loro migliore, quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora. Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella riuscita Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima. Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

8) Waxahatchee, “Out In The Storm”

(ROCK)

Il quarto CD del progetto Waxahatchee, guidato dalla talentuosa Katie Crutchfield e dalla sorella gemella Allison, è il suo lavoro più riuscito: 10 tracce e 32 minuti di puro indie rock, indirizzato a tutti gli amanti del genere e a coloro che volessero farsi una prima idea di questo genere. L’indie viene spesso evocato a sproposito per artisti che tutto sono meno che indie e la cui qualità artistica è discutibile.

Tutto ciò non vale per Waxahatchee: “Out In The Storm” è un LP bellissimo, con brani riuscitissimi come l’iniziale Never Been Wrong e Silver, che ricordano gli Strokes e gli Arcade Fire di “The Suburbs”; da non sottovalutare anche i pezzi più raccolti del CD, come Recite Remorse e A Little More. Ottime, infine, Brass Beam e No Question, che sarebbero highlights in molti album rock di artisti teoricamente più quotati. In generale, dunque, Crutchfield e compagni arrivano a comporre il coronamento di una carriera in costante crescita: partiti come artisti lo-fi, la produzione e la cura dei dettagli si sono via via affinate, fino ad arrivare a risultati quasi perfetti in questo disco.

Liricamente, il CD è un tipico breakup album, di quelli che gli artisti compongono sempre più di recente: basti pensare a Ryan Adams e Dirty Projectors, solo per restare nel 2017. Karen Crutchfield canta difatti “everyone will hear me complain… everyone will pity my pain”; il verso forse più drammatico è però “I will unravel when no one sees what I see”. Insomma, sorprende l’abilità della Crutchfield di fondere inni spesso trascinanti con tematiche così delicate e tristi per lei.

L’indie, territorio considerato prevalentemente (se non solamente) maschile fino a pochi anni fa, con interpreti come Strokes, Franz Ferdinand e Bloc Party (tutti i componenti di questi gruppi sono uomini, solo recentemente i BP hanno ingaggiato una batterista donna), ha riscoperto ultimamente l’altro sesso, con interpreti giovani e ispirate come Vagabond, Jay Som e Waxahatchee, senza scordarsi Courtney Barnett e Angel Olsen. Una necessaria rinfrescata ad un genere che pareva moribondo, ma che negli ultimi due-tre anni sembra essersi rivitalizzato. E Waxahatchee è un progetto fondamentale per la rinascita dell’indie rock, come testimoniato una volta di più con questo splendido “Out In The Storm”.

7) LCD Soundsystem, “American Dream”

(ELETTRONICA – ROCK)

Ma siamo nel 2017? La domanda sembra mal posta, tuttavia, ha un senso: gli LCD Soundsystem si erano sciolti nell’ormai lontano 2011, con un concerto finale avvenuto al Madison Square Garden, riempito fino all’ultimo posto, con più di tre ore di musica e ospiti di spessore (come gli amici Arcade Fire). L’ultimo LP di inediti è del 2010, quel “This Is Happening” che li aveva tanto fatti amare anche da un pubblico più ampio: la hit I Can Change era addirittura finita sul videogioco FIFA11. Insomma, sembrava scritto che la band acquistasse sempre più visibilità, invece James Murphy e compagni avevano deciso di chiudere baracca e burattini. Una mossa apparentemente folle, in realtà coraggiosa e coerente con il loro percorso artistico: in You Wanted A Hit, non a caso, se la prendevano con la loro casa discografica che aveva quasi imposto loro di scrivere una hit radiofonica, altrimenti il contratto sarebbe terminato.

Ciò non significa che i membri del gruppo siano rimasti inattivi negli scorsi anni: Murphy si è dato alla produzione e a collaborazioni eccellenti (Arcade Fire, David Bowie), gli altri membri hanno suonato con band affini (come Al Doyle, che ha collaborato con gli Hot Chip) oppure si sono dati a DJ sessions. Poi, nel 2016, l’annuncio shock, tanto atteso dai fans del gruppo: gli LCD tornavano insieme. Da qui in poi è storia: i loro concerti erano sempre attesissimi e i membri cercavano di ritrovare l’antica chimica, fra hit intramontabili come All My Friends e Losing My Edge e nuovi brani.

Ancora più significativa fu la notizia che la band stava registrando un nuovo disco: “American Dream”, questo il titolo, sarebbe uscito il 1° settembre. L’attesa era altissima: si sarebbero ripetuti su eccellenti livelli oppure il tutto era solo un’operazione per fare soldi? Conoscendo Murphy, la seconda alternativa sembrava improbabile; fatto confermato dal CD, che entra a pieno diritto fra i migliori del 2017 e merita un posto di rilievo nella discografia degli LCD Soundsystem.

L’inizio di Oh Baby è lentissimo, ma poi la canzone sboccia e diventa irresistibile: sì, gli LCD sono tornati al top della condizione. Poi abbiamo due canzoni destinati ai fan duri e puri del gruppo, che ricordano le atmosfere di “Sound Of Silver” (2007), ma convincono meno: sono rispettivamente Other Voices e I Used To. La carichissima Change Yr Mind sarà ottima live, ma su disco è solo passabile; la meraviglia arriva con la lunga How Do You Sleep?, highlight del disco e molto polemica: Murphy canta contro un suo ex partner di lavoro, Tim Goldsworthy, che lo ha insultato ultimamente e ha intentato causa contro Murphy per una presunta truffa da lui subita. Il tono del brano, non a caso, è molto cupo; la canzone è però ottima e trascinante.

La seconda parte del disco è più rock della prima, probabilmente anche più oscura e disincantata: è qui che liricamente gli LCD danno il meglio. La title track si prende gioco del cosiddetto “sogno americano” e ne proclama la fine; Black Screen, la lunghissima suite finale, è dedicata a Bowie, artista di cui Murphy era fan sin da bambino. Sono tre le tracce da evidenziare, non a caso lanciate come singoli per promuovere il CD: Tonite ricorda molto One Touch ed è la traccia più dance del disco; Call The Police è una cavalcata punk davvero epica, mentre la già citata American Dream è una ballata indimenticabile.

In poche parole, non è l’album migliore della produzione degli LCD Soundsystem (“Sound Of Silver” è inarrivabile), nondimeno questo “American Dream” era un CD davvero necessario per completare l’eredità artistica del gruppo: se stavolta gli LCD decideranno davvero di chiuderla qui, non era pronosticabile un disco di addio così potente e riuscito, sia liricamente che musicalmente.

6) The War On Drugs, “A Deeper Understanding”

(ROCK)

I The War On Drugs sono un orologio svizzero: sfornano un album ogni tre anni, evolvendo sempre il loro suono in maniera da non suonare mai troppo lontani dal passato, ma contemporaneamente freschi e intriganti. La musica del sestetto originario di Philadelphia è passata, infatti, dal rock classico à la Bruce Springsteen, ad accenni di Neil Young e Bob Dylan, arrivando in “A Deeper Understanding” alla psichedelia dei Tame Impala.

Infatti, questo quarto CD della loro produzione ricorda da vicino “Lonerism”, capolavoro dei Tame Impala: le sonorità sono più elettroniche che in passato e i sintetizzatori si fanno sentire come non mai, prova ne siano Holding On e In Chains. Sono le due tracce iniziali, però, che conquistano: il rock epico di Up All Night e Pain è superbo e le due tracce sono senza dubbio tra le migliori dell’album. A colpire è poi l’ambizione mostrata da Adam Granduciel e soci: dopo aver conquistato il successo anche di pubblico con il precedente “Lost In The Dream” (2014), avremmo potuto aspettarci un CD di transizione o, peggio, una brutta copia del precedente. Invece, la band continua ad essere creativa e a mostrarsi incessantemente pronta ad esplorare nuovi sentieri musicali.

Le tematiche trattate in “A Deeper Understanding” rispecchiano il titolo del lavoro: Granduciel conduce un’analisi approfondita del suo Io più intimo, spesso evocando solamente i temi a lui più cari (la solitudine, l’ossessione per il minimo dettaglio, l’alienazione su tutti). In generale, possiamo ribadire che non ascoltiamo i The War On Drugs per accedere a nuove verità sul mondo o sulla società, quanto piuttosto per immergerci in paesaggi musicali affascinanti e senza tempo. Missione compiuta, ed egregiamente, in “A Deeper Understanding”.

I pezzi migliori dei 10 che compongono questo meraviglioso LP sono le due tracce iniziali, già citate in precedenza, vale a dire Up All Night e Pain; l’epica Strangest Thing; e Nothing To Find. L’unica lieve pecca è che il CD avrebbe reso al massimo con una canzone in meno: 66 minuti possono essere pesanti per alcuni. Ad esempio, la conclusiva You Don’t Have To Go (bel titolo, visto che parliamo dell’ultima canzone della tracklist), sarebbe potuta star fuori, ma pazienza: i risultati sono comunque ottimi.

Ricordiamo poi che non si tratta di un disco accessibile: le canzoni sono molto lunghe, spesso con durata superiore ai 6 minuti; il primo, monumentale, singolo, Thinking Of A Place, addirittura arriva agli 11 minuti! Insomma, ciò che poteva sembrare presunzione diventa carattere e fiducia assoluta nelle proprie capacità. Possiamo annoverare di diritto i The War On Drugs fra le migliori band rock del momento, tanto che viene da chiedersi: avranno raggiunto il picco delle loro capacità oppure no? La fiducia nella vena creativa di Granduciel è grande, siamo sicuri che non la tradirà.

5) Kendrick Lamar, “DAMN.”

(HIP HOP)

Il nuovo CD del miglior rapper in circolazione? Non poteva che essere un evento. Tuttavia, Kendrick ha mantenuto a lungo la più assoluta segretezza riguardo a “DAMN.”, almeno fino all’uscita della canzone The Heart Part.4: K-Dot infatti invitava i suoi fan ad aspettare il 7 aprile per avere novità su nuova musica in uscita a suo nome. Detto, fatto: il 7 aprile usciva HUMBLE. e veniva annunciata l’uscita di “DAMN.”, quinto disco di Kendrick Lamar, in data 14 aprile.

Non solo: venivano anche resi noti gli ospiti presenti nel CD. Accanto a nomi meno noti come Zacari, abbiamo due pezzi da 90 della musica come Rihanna e U2. Come si sarebbero integrati il pop da classifica e il rock da stadio nel flusso ininterrotto che è il rap di Kendrick? Ebbene, i risultati sono stupefacenti: ancora una volta, Lamar conferma lo status di rapper più importante della sua generazione e portavoce di un’intera popolazione di giovani neri americani.

I risultati forse non raggiungono i risultati eccellenti di “Good Kid, M.A.A.D. City” (2012) e “To Pimp A Butterfly” (2015), considerati giustamente tra gli album hip hop più importanti del nuovo millennio. Non a caso, questo “DAMN.” non ha un unico tema che lega fra loro le canzoni, come invece accadeva nei due LP citati prima, dove Kendrick parlava della vita per un giovane di colore nella sua città natale (Compton) e del razzismo strisciante negli Stati Uniti. Adesso K-Dot si concentra solamente sulle basi e sull’ulteriore esplorazione di nuovi territori musicali, dal soul all’elettronica.

Musicalmente parlando, la prima parte di “DAMN.” è pressoché perfetta: sia BLOOD. che DNA. sottolineano ulteriormente che questo CD merita la top 5 dei più belli del 2017. Anche le collaborazioni con Rihanna e U2, rispettivamente LOYALTY. e XXX., sono riuscite; in particolare, quest’ultima colpisce positivamente. L’ultima canzone della tracklist, DUCKWORTH., è una ideale chiusura del cerchio: Kendrick ritorna alla figura della vecchia cieca che, in BLOOD., lo uccideva. Poco prima dello sparo che chiudeva la prima canzone, però, si sentono dei suoni: essi rappresentano probabilmente la vita del personaggio della canzone, tanto che poi DUCKWORTH. si chiude con la ripresa proprio di BLOOD..

K-Dot vorrà dire che la vita è ciclica e che quindi ciò che muore è destinato a rinascere? Questo è senza dubbio un tema dominante: accanto ad esso, “DAMN.” tratta anche la critica dei media (in DNA. viene inserito un estratto di una trasmissione della Fox News americana, dove il presentatore Geraldo Rivela afferma che il rap ha fatto più danni agli afroamericani del razzismo), fede, paura, amore e orgoglio (molti sono anche titoli di canzoni del disco, non per caso).

I versi migliori del disco? Sono contenuti in LOYALTY. (“Tell me who you are loyal to. Is it money? Is it fame? Is it weed? Is it drink?”), PRIDE. (“Love’s gonna get you killed, but pride’s gonna be the death of you and you and me”, forse riferito agli episodi di razzismo e uccisioni di giovani neri ad opera delle forze dell’ordine) e LOVE. (“If I minimize my net worth, would you still love me?”).

In conclusione, “DAMN.” si aggiunge alla già eccezionale produzione di Kendrick come il lavoro più coeso e meno caotico: pur mancando un tema dominante, la qualità delle basi e degli ospiti contribuisce a fare del CD un serissimo candidato alla palma di miglior album hip hop dell’anno.

4) Lorde, “Melodrama”

(POP)

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

Già dalla copertina vediamo che qualcosa è cambiato: se in “Pure Heroine” avevamo semplicemente il titolo e l’artista, senza alcuna immagine, in “Melodrama” campeggia un ritratto molto affascinante della giovane Ella, quasi un quadro impressionista. Ma i cambiamenti di maggiore portata sono artistici.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Anche tematicamente, del resto, c’è un tema che lega fra loro le 11 canzoni del disco: Lorde immagina di trovarsi ad un party e di viverlo pensando anche ai problemi che non solo la riguardano personalmente, ma che sono riferibili a più o meno tutti i giovani millennials, per esempio la rottura di un fidanzamento e le sue conseguenze, la voglia di vivere il momento senza freni, gli effetti dell’improvvisa fama…

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio, al pari di “Lemonade” di Beyoncé e “Art Angels” di Grimes. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima.

Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

In conclusione, stiamo parlando di un’artista nel pieno delle sue potenzialità: se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde. Meno Katy Perry e Miley Cyrus, più Lorde: ecco un auspicio che ho per il futuro della musica pop.

3) Mount Eerie, “A Crow Looked At Me”

(FOLK)

“Death is real”. Con queste tragiche parole si apre il nuovo CD del musicista Phil Elverum, l’ottavo con il nome d’arte di Mount Eerie. Il tema portante del lavoro è, come intuibile, la morte; in particolare, Elverum affronta la disperazione dopo la morte dell’adorata moglie Geneviève Castrée, morta di cancro al pancreas a soli 35 anni, lasciando lui e una bambina di un anno e mezzo.

Phil Elverum affronta questo lutto con un LP di musica folk, semplice e con strumentazione ridotta all’osso (spesso solo voce e chitarra). Cosa inusuale per lui, che nelle sue incarnazioni artistiche precedenti (i Microphones, ma anche i precedenti CD sotto il nome Mount Eerie) aveva creato un genere a cavallo fra rock e sperimentalismo. Tuttavia, questo difficile momento della sua vita richiedeva qualcosa di più diretto e immediato. In effetti, le similitudini con il bellissimo “Carrie & Lowell” (2015) di Sufjan Stevens sono molte, a partire dal tema principale e passando per le sonorità. Qualcosa di simile a questo “A Crow Looked At Me” lo avevano anche prodotto Nick Cave e i suoi fidati Bad Seeds l’anno passato, anche in quella circostanza influenzati da un tremendo lutto (la morte del figlioletto di Cave), nell’eccellente “Skeleton Tree”.

La domanda sorgerà spontanea: un CD tanto intriso di tragedia e dramma come giustifica un titolo così apparentemente bizzarro? Le 11 canzoni che compongono il disco hanno proprio lo scopo di spiegare questa immagine; anzi, possiamo dire che il compimento del lavoro, Crow, è il fine ultimo dell’intero LP.

Musicalmente parlando, vi sono almeno cinque canzoni davvero notevoli: la iniziale Real Death; Ravens (dove Elverum ribadisce che “death is real”, quasi a ribadire il processo di accettazione che caratterizza l’album); Swims, davvero toccante; la delicata Emptiness Pt.2 (che segue presumibilmente una Pt.1 non presente nel disco); e la già citata Crow. In Forest Fire, Mount Eerie arriva ad accusare la natura stessa della morte della moglie, affermando: “I reject nature, I disagree.”

In conclusione, però, cosa ha quindi di particolare l’immagine del corvo che fissa il cantante? Mount Eerie si candida a miglior liricista del 2017: una mattina, ci dice, sua figlia mormora qualcosa nel sonno dopo che i due erano andati in gita insieme nella foresta che hanno vicino casa. Sua figlia dice distintamente la parola “crow”, evocando la figura di un corvo; Elverum, proprio in quel momento, immagina che proprio nel corvo chiamato dalla figlia possa celarsi l’anima di sua moglie Geneviève. Improvvisamente, egli per un secondo vede proprio la sua figura, che però scompare subito dopo, lasciando il posto a un corvo che, questa volta nella vita vera, fissa il cantante e la figlioletta.

Un qualcosa di così delicato e straziante erano anni che non lo ascoltavamo. Qualcuno potrà obiettare che il tono generale del CD è troppo pessimista e monotono nelle sonorità (ad esempio, My Chasm e When I Take Out The Garbage sono leggermente inferiori alla media, altissima, degli altri pezzi), ma secondo noi di A-Rock questo album merita il podio tra i migliori dischi dell’anno. Anzi, il messaggio di “A Crow Looked At Me” è senza dubbio opposto a quello pessimista che alcuni intravedono: quando si ha la fortuna di avere una famiglia felice e una splendida moglie, che ti ama e ti aiuta ad accudire tua figlia, non spendere il tuo tempo a lamentarti delle cose futili. Tutto, infatti, potrebbe scomparire da un momento all’altro, proprio come la moglie di Phil Elverum che, in pochi mesi, è stata stroncata, ancora nel fiore degli anni, dal cancro. Un messaggio di vita e ottimista, pienamente condivisibile.

2) King Krule, “The OOZ”

(ROCK – SPERIMENTALE – JAZZ)

Rock, punk, trip hop, jazz, R&B: ecco alcuni dei generi affrontati con successo da Archy Marshall nel suo nuovo CD a nome King Krule. Le numerose identità artistiche assunte da Archy (Zoo Kid, King Krule, il suo nome) hanno significato spesso alcuni cambi nel sound dei dischi prodotti: più ingenui i brani di Zoo Kid, molto eclettici quelli di King Krule, elettronici quelli a nome Archy Marshall. In “The OOZ”, il giovane cantante inglese propone una ricchissima collezione (19 canzoni per 77 minuti di durata), molto varia, sia come lunghezza dei pezzi che come sonorità. Come già accennato, abbiamo pezzi feroci (come la bellissima Dum Surfer e Half Man Half Shark), brani jazz (le belle ballate Czech One e Logos), altri che ricordano i Blur di “13” (Lonely Blue e Biscuit Town).

In generale, stupisce come finalmente Archy sia riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento pur producendo un disco che molti potrebbero bollare come incoerente o troppo ambizioso: un ventunenne che produce con uguale facilità brani rock, jazz e punk non è comune. Inoltre, malgrado il gran numero di brani nella scaletta, nessuno è puramente usato come riempitivo; belli poi i richiami interni al CD, per esempio le due versioni di Bermondsey Bosom, prima “left” poi “right”.

I testi, come sempre nelle canzoni a nome King Krule, affrontano il lato sporco del mondo, in particolare della vita di un giovane di periferia: solitudine, criminalità, droga. Non è un disco facile, come avrete capito: tuttavia, per gli ascoltatori pazienti e amanti della musica ambiziosa e sperimentale, “The OOZ” è un trionfo. Fra i brani migliori abbiamo le già ricordate Dum Surfer e Czech One; non male anche l’enigmatica A Slide In (New Drugs) e The Cadet Leaps, che sembra presa da un disco di Brian Eno. Ottima la title track. Meno riuscite invece Midnight 01 (Deep Sea Diver) e Emergency Blimp, ma non rovinano un LP davvero fantastico. Le influenze sono numerose, ma proprio per questo il sound creato da King Krule è unico: un po’ Massive Attack, un po’ Joy Division, un po’ Tom Waits ecc.

In conclusione, Archy Marshall ha finalmente prodotto quel capolavoro che critica e pubblico aspettavano, ciò che “6 Feet Beneath The Moon” non era stato, malgrado la hype creata da alcuni media specializzati.

1) Fleet Foxes, “Crack-Up”

(FOLK)

Il complesso di Seattle, sei anni dopo “Helplessness Blues” e dopo una pausa durata tre anni, a causa del ritorno all’università del leader Robin Pecknold, è tornata sulla scena musicale con l’attesissimo “Crack-Up”. Beh, i risultati sono semplicemente eccezionali.

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, I Should See Memphis ricorda quasi gli Animal Collective nel finale, dopo un inizio dolce.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk. “Crack-Up” resterà senza dubbio come uno dei migliori album dell’intero decennio. Ecco perché lo premiamo come album dell’anno.

Ebbene sì: il ritorno dei Fleet Foxes concentra tutte le loro migliori qualità, non potevamo non premiarlo come CD più riuscito del 2017. Voi cosa ne pensate? Non esitate a commentare! Ci vediamo a gennaio. Buone feste da A-Rock!