I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!

Recap: novembre 2022

Anche novembre è finito. Un mese molto intenso, l’ultimo che conterà ai fini della redazione della classifica dei 50 migliori CD dell’anno di A-Rock, come di consueto. Recensiamo i nuovi album di Drake & 21 Savage, degli Special Interest e dei Phoenix. Inoltre, spazio a King Gizzard & The Lizard Wizard, Weyes Blood e Bruce Springsteen. Infine, lato hip hop, abbiamo avuto i due album di addio dei BROCKHAMPTON e il ritorno di Nas. Buona lettura!

Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

and in the darkness hearts aglow

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, secondo Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

Voto finale: 8,5.

Special Interest, “Endure”

endure

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

Voto finale: 8.

Nas, “King’s Disease III”

King's Disease III

Il terzo album della serie “King’s Disease” del veterano dell’hip hop newyorkese resta sul medesimo, buon livello dei precedenti episodi e di “Magic” (2021). Malgrado una lunghezza a tratti eccessiva, il CD scorre bene e conferma la seconda giovinezza di Nas, assistito dal fedele produttore Hit-Boy in un viaggio magari nostalgico, ma sicuramente mai tirato via.

Non parliamo di un album rivoluzionario come il tuttora clamoroso “Illmatic” (1994), questo è chiaro, però “King’s Disease III” contiene alcune delle canzoni più efficaci del Nas recente: si ascoltino Legit e Michael & Quincy. Non male anche Thun. L’unico problema, come accennato prima, è il numero di canzoni: se “Magic” aveva un punto forte, era l’essere estremamente compatto, lasciando poco o nessuno spazio per il filler tipico di molti CD hip hop recenti. Invece, “King’s Disease III” indugia troppo nel boom bap che ha fatto la fortuna del Nostro, con episodi inevitabilmente più deboli come WTF SMH e 30.

I versi migliori sono contenuti nell’ultima canzone della tracklist, Don’t Shoot: “Don’t shoot, gangsta, don’t shoot… You are him, and he is you”. Altrove abbiamo invece il “solito” Nas, con riferimenti alla vita di strada, alla propria ostentata ricchezza e alle difficoltà dei neri nella società americana contemporanea.

In generale, tuttavia, Nas conferma la propria rinascita dopo anni non facili: da “King’s Disease” (2020) in poi il newyorkese è tornato ai fasti di “Life Is Good” (2012), per non citare i suoi cruciali lavori degli anni ’90. Non male per un rapper quarantanovenne.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” / “Laminated Denim” / “Changes”

A-Rock non ha mai tentato un’impresa simile: recensire tre CD della stessa band, usciti nello stesso mese! Del resto, i King Gizzard & The Lizard Wizard ci hanno abituato fin troppo bene in termini di prolificità, mai però erano arrivati a questi livelli di follia. Ma andiamo con ordine.

Il primo LP (ben 63 minuti), “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava”, è una sorta di lunga jam session: Stu MacKenzie e compagni si abbandonano alla sperimentazione, senza limiti. Ne escono melodie jazzate (Gliese 710), altre puramente psichedeliche (Iron Lung), una addirittura avvicinabile al pop (Mycelium) e una allo space rock (Lava). I risultati non sono sempre riusciti, ma resta da premiare l’intraprendenza e la versatilità dei KG&TLW.

Tra i pezzi davvero da ricordare del CD abbiamo Ice V e Iron Lung, entrambi a ragione tra i migliori mai scritti dal gruppo australiano: lunghe suite sempre imprevedibili, con grande evidenza data alla base ritmica e assoli potenti. Invece inferiori alla media sono Hell’s Itch, un po’ monotona, e la fin troppo leggera Mycelium. Complessivamente, comunque, “Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava” suona coeso e, dopo ripetuti ascolti, davvero ben sequenziato.

Il secondo album del lotto è “Laminated Denim”: composto di due lunghe suite di esattamente 15 minuti ciascuna (un’idea di simmetria già in parte affrontata dai Nostri in “Quarters!” del 2015), rappresenta un’ideale pausa prima dell’ultimo capitolo della trilogia. Sia The Land Before Timeland che Hypertension non rappresentano grosse innovazioni rispetto all’estetica complessiva degli australiani: krautrock e psichedelia la fanno da padrone.

Complessivamente, “Laminated Denim” è la minore delle tre pubblicazioni, sia nelle intenzioni che nella realizzazione, ma non sfigura.

Il terzo ad ultimo LP della mischia è “Changes”: un lavoro prettamente pop, con tracce di psichedelia che mantengono l’estetica degli aussie sui consueti binari. Ad essere precisi, questo è uno dei loro CD più pop, insieme forse a “Paper Mâché Dream Balloon” (2015): ne sono esempi la lunghissima title track e No Body. Ottima la jazzata Astroturf.

In generale, “Changes” chiude molto gradevolmente una trilogia di buona fattura, in cui i King Gizzard & The Lizard Wizard mostrano il loro lato migliore. Avremo sempre il dubbio che, se si concentrassero su un singolo disco, potrebbero davvero sfornare un capolavoro. Resta tuttavia ammirevole la loro dedizione alla musica, con pochi se non nessun pari al mondo.

Voto finale: 7,5.

BROCKHAMPTON, “The Family” / “TM”

I BROCKHAMPTON sono una delle boy band hip hop più celebri al mondo: la notizia del loro scioglimento ha in effetti provocato varie discussioni sui social e nella critica specializzata. I ragazzi hanno fatto le cose in grande: ben due CD per salutare i loro fan. I risultati, comprensibilmente, non sono ovunque impeccabili, ma Kevin Abstract e co. confermano il loro talento.

“The Family” era l’album ufficialmente annunciato come addio al pubblico del progetto BROCKHAMPTON. Molto spesso in effetti troviamo messaggi agrodolci da parte dei membri del gruppo; l’eccessiva varietà di canzoni può risultare difficile ad assimilare ai primi ascolti, ma parlando di un CD che chiude una fase importante della vita dei BROCKHAMPTON era lecito aspettarsi un mix delle influenze che li hanno definiti.

Troviamo infatti brani soul (All That), hip hop (Take It Back, Basement) e molti che flirtano con svariati altri generi (Big Pussy, ad esempio, inizia quasi come un brano dei black midi più jazz, mentre Any Way You Want Me è puro lounge pop).

La cosa curiosa è che “The Family” suona spesso come un progetto solista di Kevin Abstract, da molti riconosciuto come il più talentuoso della compagnia, ma anche come un’influenza controversa sulla band. Prova ne sono alcuni versi, presi dalla title track: “I don’t feel guilty from wakin’ you up when you sleep, I don’t feel guilty from cuttin’ your verse from this beat, I don’t feel guilty for heat you caught from my tweets”. Altrove troviamo anche “Do we see each other? Hardly. Shit we made together? Godly. Did we sign for too many motherfuckin’ albums? Probably” (Gold Teeth) e “I wasn’t really there for my brothers… Barely present, more focused on bad relationships. It was good for my image, I got lost in it. That’s when I first started drinking, lost my hunger, man” (Brockhampton).

In generale, il CD suona frammentario, contando ben 17 brani per poco più di 35 minuti di durata. Questo è sempre stato il bello e il brutto dei BROCKHAMPTON: prolificità e varietà stilistica a discapito della coesione dei progetti.

La seconda gamba dell’addio dei BROCKHAMPTON è “TM”, un CD più collaborativo rispetto a “The Family” e per questo probabilmente da prendersi come il vero commiato della boy band. Abbiamo pezzi trap (FMG, LISTERINE) accanto ad altri pop (ANIMAL, MAN ON THE MOON) oppure R&B (DUCT TAPE): il polimorfismo dei Nostri è quindi sempre presente.

Liricamente, i temi sono molto simili a quelli affrontati da Abstract in “The Family”: la necessità di abbandonare il progetto BROCKHAMPTON unita alla nostalgia per i bei momenti passati insieme, visti però con uno sguardo più collettivo rispetto al CD fratello.

In conclusione, pur essendo di fronte a due lavori imperfetti, per differenti ragioni, i BROCKHAMPTON lasciano i fan con due opere incompiute, ma non disprezzabili. Vedremo in futuro se, da solisti, i membri della band saranno in grado di risolvere questo problema.

Voto finale: 7.

Phoenix, “Alpha Zulu”

alpha zulu

Il settimo album dei veterani dell’indie pop francese segue di ben cinque anni “Ti Amo” (2017), il loro album “italiano”. Thomas Mars e compagni hanno registrato il CD all’interno del Louvre e la copertina così evocativa è un gentile omaggio al museo; musicalmente, “Alpha Zulu” suona bene ed è certamente divertente. Non parliamo di un lavoro rivoluzionario per l’estetica dei francesi, ma nei suoi momenti migliori il CD riporta a “Wolfgang Amadeus Phoenix” (2009), il capolavoro dei Phoenix.

Il pezzo forte della selezione è senza dubbio Tonight, con la gradita collaborazione di Ezra Koenig dei Vampire Weekend: sembra proprio di tornare ai primi anni ’10, quando Phoenix e Vampire Weekend erano tra i principali protagonisti della scena indie rock mondiale. L’effetto nostalgia prosegue con la pregevole Winter Solstice, che sarebbe stata bene nei primi album del gruppo francese. Invece inferiori alla media Season 2 e All Eyes On Me, fin troppo prevedibili anche per una band “tradizionalista” come i Phoenix. Menzione poi per le più ballabili Alpha Zulu e The Only One, che provano a ringiovanire il pop sofisticato dei Phoenix attraverso ritmi quasi EDM.

“Alpha Zulu” riesce quindi a tenere Thomas Mars e co. sulla bocca di pubblico e critica attraverso 35 minuti di buona musica, divertente e ben costruita. Quello che ci vuole in tempi non semplici, certo; i più severi potrebbero però legittimamente pensare che, parlando di una band attiva da più di vent’anni, sarebbe anche benvenuto un cambio di passo. La risposta dei Phoenix sarebbe probabilmente la seguente: perché cambiare una formula che ancora funziona così bene?

Voto finale: 7.

Drake feat. 21 Savage, “Her Loss”

her loss

Il primo album collaborativo tra Drake e 21 Savage rappresenta un sicuro miglioramento rispetto ai recenti CD del primo. Se “Certified Lover Boy” (2021) e “Honestly, Nevermind” (2022) avevano deluso soprattutto la critica (restando invece intatto il successo commerciale), “Her Loss” trova un Aubrey Graham più a suo agio. Aiutato dal giovane collega, la superstar canadese ha infatti pubblicato il suo miglior lavoro da “Dark Lane Demo Tapes” (2020).

La parte iniziale del CD è davvero convincente: Rich Flex cambia beat almeno tre volte e sia 21 Savage che Drake sono pienamente in controllo della situazione. Buone anche le seguenti Major Distribution e On BS. Va detto che, soprattutto nella parte centrale, abbiamo momenti decisamente meno eccitanti: prova ne siano Hours Of Silence e Treacherous Twins. Menzione invece per Pussy & Millions, con la collaborazione di Travis Scott, e Circo Loco, in cui viene campionata One More Time dei Daft Punk. In generale, si fanno preferire le canzoni pienamente collaborative: quelle a sola firma Drake (Jumbotron Shit Poppin, I Guess It’s Fuck Me) e 21 Savage (3 AM On Glenwood), pur non totalmente disprezzabili, sono business as usual.

Liricamente, sia la copertina che il titolo del disco fanno presagire un lavoro amaro, fatto di invettive contro le numerose figure femminili che hanno tradito la fiducia dei due rapper. La conferma arriva puntuale: chi segue Drake con attenzione sa che questo non è un tema per nulla nuovo nella discografia del canadese, laddove 21 Savage è invece usualmente più focalizzato sulla vita di strada, spesso fatta di immagini crude.

In generale, tuttavia, siamo di fronte ad un buon LP. I 60 minuti di durata, pur con i già accennati inciampi, passano gradevolmente. Che sia un punto di ripartenza, almeno dal punto di vista artistico, per Drake? Dal lato suo, 21 Savage si conferma rapper talentuoso e meritevole del suo crescente successo.

Voto finale: 7.

Bruce Springsteen, “Only The Strong Survive”

only the strong survive

Il nuovo album del Boss è in realtà una raccolta di cover, in cui sono state riviste canzoni originariamente di stampo soul. Al centro del CD vi è la voce di Springsteen, allo stesso tempo consumata ed espressiva come mai prima; non parliamo di un disco fondamentale in una carriera già leggendaria, ma certamente i fan del rocker americano avranno soddisfazione ascoltando “Only The Strong Survive”.

Questa è la seconda raccolta di cover di Bruce, dopo “We Shall Overcome: The Seeger Sessions” (2006) e segue “Letter To You” (2020): le canzoni sono state arrangiate durante il lockdown pandemico nel suo studio col fidato collaboratore Ron Aniello, ma senza la E-Street Band. Se quindi la base ritmica può risultare più soft del solito, allo stesso tempo si ha una maggiore cura per la composizione complessiva e, come già detto, maggiore spazio per la voce del Nostro.

Alcune canzoni risultano prevedibili (The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, When She Was My Girl), ma nei suoi momenti migliori abbiamo un buon disco di Bruce Springsteen: Nightshift e Do I Love You (Indeed I Do) sono buonissime reinterpretazioni.

In generale, un CD di cover rappresenta solitamente un modo per gli artisti di omaggiare i propri riferimenti e ricaricare le batterie in vista di nuovi album di inediti. Se “Western Stars” (2019) e il già menzionato “Letter To You” erano highlight di fine carriera per Springsteen, speriamo che la trilogia di album del Boss post “High Hopes” (2014) si chiuda in maniera soddisfacente nel prossimo futuro.

Voto finale: 6,5.

I 50 migliori album del 2019 (25-1)

Nella prima parte della lista dei 50 migliori dischi dell’anno di A-Rock abbiamo visto molti artisti di rilievo, da Taylor Swift a Bruce Springsteen passando per Thom Yorke ed Earl Sweatshirt. Chi avrà vinto la palma di album dell’anno? Lo scoprirete alla fine dell’articolo. Buona lettura!

25) Angel Olsen, “All Mirrors”

(POP)

Il nuovo album della cantautrice americana Angel Olsen la trova impegnata in una radicale giravolta artistica, ma questa non è certo una novità per lei: se le origini della sua estetica vanno cercate nel folk rock, già in “Bury Your Fire For No Witness” (2014) la svolta verso l’indie rock era stata netta. Il suo più bel lavoro, “My Woman” (2016), conteneva invece elementi prog e synth pop mai fuori luogo.

“All Mirrors” è un pregevole CD art pop: seguendo il percorso tracciato da Kate Bush e ispirandosi probabilmente anche ad artiste contemporanee come Florence + The Machine e Julia Holter, la Nostra ha portato il suo sperimentalismo verso territori orchestrali, a volte davvero incontenibili, come nella sontuosa Lark. Del resto, anche il singolo All Mirrors aveva anticipato questa svolta, ma essere stata in grado di non cadere nel cliché del pop orchestrale più trito e ritrito, evitando di compiacersi troppo, è un merito non banale.

Il lavoro è ottimo non solo per la continua ricerca da parte di Angel, ma anche per la concisione: “All Mirrors” infatti consta di 11 pezzi per 48 minuti complessivi, creando un insieme coeso e ben strutturato, in cui è un piacere affondare. I pezzi migliori sono l’iniziale Lark e la più semplice Spring, mentre sotto la media (altissima) del CD abbiamo Impasse e la pur intrigante Endgame.

In conclusione, il 2019 resterà significativo per il mondo pop più sofisticato: nello stesso anno sono usciti lavori magnifici da parte di Weyes Blood, Lana Del Rey e Angel Olsen. Tre artiste ambiziose, che sono al culmine delle proprie qualità, in continua tensione verso il perfetto disco pop del XXI secolo. Chissà che una di loro non ci arrivi, prima o poi… Di certo Angel Olsen dimostra una caratura come cantautrice che la eleva al di sopra di quasi tutte le sue coetanee.

24) MIKE, “Tears Of Joy”

(HIP HOP)

Il nuovo lavoro di MIKE era decisamente atteso: dopo lo spazio datogli l’anno scorso dal suo mentore Earl Sweatshirt nel suo magnifico disco “Some Rap Songs”, c’era curiosità e sia critica che pubblico si chiedevano se la direzione di Bonema avrebbe incrociato il rap astratto e sperimentale di Earl.

Ebbene, la risposta è un sonoro sì. “tears of joy” risente decisamente della lezione del maestro, con canzoni brevi, spesso brevissime (molte sotto i 2 minuti) ma messaggi presentati con chiarezza, a volte anche crudezza. La voce molto profonda di MIKE aggiunge ulteriore pepe ad una ricetta non facile da digerire ma non per questo scadente.

Il CD è dedicato alla madre di Michael, morta recentemente; il dolore del giovane rapper è palpabile, soprattutto in versi come “Sittin’ with my head in my hands, hold it in” (nell’iniziale Scarred Lungs, Vol. 1 & 2) e “Shit scary, but I stay spinnin’, lookin’ through obituaries with your name in it” in WholeWide World. Anche il mood generale del lavoro ne viene influenzato: le basi sono spesso oscure e non lasciano molto spazio a ritornelli o momenti mainstream.

Dicevamo che il lavoro è in parte ispirato da Earl Sweatshirt: in effetti “tears of joy” riporta alla memoria le canzoni a metà fra hip hop e jazz tipiche di Earl, ma non bisogna pensare che il CD sia una copia spiccicata di “Some Rap Songs”. Intanto è il doppio sia per numero di canzoni che per durata; inoltre manca forse il focus estremo che ha fatto di Sweatshirt un peso massimo nel panorama odierno, ma MIKE è ancora molto giovane e avrà modo di affinare questi aspetti.

I brani migliori sono la commovente Stargazer Pt. 3 e le brevi ma intense Goin’ Truuu e Planet, mentre convincono meno #Memories e Fool In Me. In generale, la struttura molto frammentaria dell’album può essere per alcuni eccessiva, ma in realtà sembra riflettere il grande dramma che ha colpito l’artista statunitense.

“tears of joy” è quindi un buonissimo lavoro e un ottimo punto di entrata nella discografia di Michael Jordan Bonema, che (va ricordato) registra pezzi dal 2015 e nel 2018 ha prodotto la bellezza di 4 raccolte di inediti fra mixtape ed EP. Insomma, il ragazzo è prolifico ma ha già ben chiara la direzione da intraprendere per raggiungere i grandi maestri del genere.

23) These New Puritans, “Inside The Rose”

(ELETTRONICA – ROCK)

Il nuovo album dei These New Puritans arriva addirittura a sei anni dal delicato “Field Of Reeds”, in cui il complesso inglese aveva aperto decisamente a elementi di musica neo-classica, reinventandosi rispetto all’estetica post-punk con inserti elettronici dei precedenti CD. “Inside The Rose” è un’efficace sintesi di tutto questo e, proprio per questo, la prima volta in cui i TNP sembrano vogliosi di riassumere piuttosto che sperimentare ulteriormente.

Ciò non va però a discapito della qualità delle 9 canzoni che compongono il CD: ognuna ha la sua fisionomia specifica, chi più rock (Anti-Gravity) chi inclassificabile (Infinity Vibraphones e la title track). Altrove riappaiono quelle caratteristiche classicheggianti che avevano reso “Field Of Reeds” così strano, per esempio in Where The Trees Are On Fire.

I testi sono come sempre vaghi, ma stavolta compaiono domande esistenziali del tipo “Isn’t life a funny thing? All these words and they say nothing” (in Beyond Black Suns). Ma del resto non si ascolta un lavoro dei These New Puritans per le liriche: gli inglesi ci hanno abituato a comunicare maggiormente attraverso i paesaggi sonori piuttosto che mediante parole.

I pezzi migliori sono l’apertura sontuosa di Infinity Vibraphones e la marciante Beyond Black Suns, che potrebbe essere benissimo un brano dei Massive Attack. Troppo breve invece Lost Angel per essere apprezzabile. Come sempre con un LP dei TNP, “Inside The Rose” non è un ascolto facile, ma la pazienza verrà premiata grazie a canzoni mai scontate e paesaggi sonori davvero evocativi.

In conclusione, ancora una volta i These New Puritans hanno stupito fans e addetti ai lavori: dopo sei anni di assenza e una formazione ridotta all’osso (i membri ufficiali ora sono solamente i gemelli Barnett), “Inside The Rose” suona come nulla nella passata discografia del complesso britannico. E, malgrado tutto questo, i risultati sono ancora una volta strabilianti.

22) Weyes Blood, “Titanic Rising”

(POP)

Natalie Mering, meglio conosciuta come Weyes Blood, con il suo quarto CD ha raggiunto probabilmente il picco delle proprie capacità. Accanto al folk anni ’60 delle origini, la Mering in “Titanic Rising” ha dato spazio ad arrangiamenti decisamente più barocchi, aiutata anche da un produttore d’eccezione come Jonathan Rado dei Foxygen.

Fin dalla prima canzone capiamo che qualcosa è cambiato nel progetto Weyes Blood: A Lot’s Gonna Change è una canzone molto ricercata, quasi barocca, che si rifà alla grande Joni Mitchell ma anche a Father John Misty. La canzone è anche un ovvio highlight in un disco che per la verità conta molte belle melodie: ottima anche la seguente Andromeda ad esempio, così come Wild Time. Movies inizia come Bliss dei Muse ma poi evolve in un brano pop grandioso per arrangiamenti. I due brevi intermezzi Titanic Rising e Nearer To Thee servono più che altro a rendere coerente il disco e dargli una convincente narrativa interna: Nearer To Thee infatti chiude “Titanic Rising” e riprende le atmosfere di A Lot’s Gonna Change. Il titolo allude alla canzone che l’orchestra del Titanic stava cantando durante il naufragio… tutto ciò a testimoniare la complessità del lavoro della Mering.

Liricamente il CD affronta molti temi tipici del mondo pop-rock, dall’amore (“I need a love every day” canta Natalie in Everyday) al dolore (“No one’s ever gonna give you a trophy for all the pain and things you’ve been through. No one knows but you” si sente in Mirror Forever) ai problemi più interiori dell’animo umano, tanto che in A Lot’s Gonna Change Weyes Blood canta “Everyone’s broken now… and no one knows just how”.

In conclusione, il progetto della cantante statunitense, come già accennato, sembra aver trovato il suo sbocco definitivo; il folk accattivante ma semplice delle origini è stato accantonato, o meglio affiancato da strumentazioni decisamente più elaborate e liriche non banali. Il futuro è tutto da scrivere per Natalie Mering e sembra promettere molto bene. Lei e Julia Holter sono definitivamente le figure più innovative dell’art pop mondiale.

21) Flume, “Hi This Is Flume”

(ELETTRONICA)

Il primo mixtape ad opera del celebre produttore australiano Harley Streten, in arte Flume, segue i due album che lo hanno reso una star dell’EDM, “Flume” del 2012 e “Skin” (2016). Adesso che tutti lo conoscono per il suo lato più commerciale, Flume si è lasciato andare alla sperimentazione e ”Hi This Is Flume”, pur essendo a tratti confuso, è un’aggiunta importante alla sua discografia.

Il mixtape, come sappiamo, è maggiormente utilizzato nel mondo hip hop. Nell’elettronica di solito si privilegiano gli album veri e propri, spesso con un disegno dietro, si vedano i recenti lavori di Jon Hopkins e Daft Punk. Streten con “Hi This Is Flume” invece collabora con artisti emergenti ma già conosciuti del mondo sperimentale e rap, creando canzoni spesso davvero notevoli, anche se come già accennato a volte i risultati possono risultare disorientanti.

Due sono gli immediati highlights, entrambi canzoni con collaboratori: se High Beams beneficia della presenza di HWLS ma soprattutto di Slowthai, il vero capolavoro del CD è How To Build A Relationship, in cui l’elettronica sbilenca di Flume si mischia perfettamente con il rap deciso di JPEGMAFIA. Non male anche Daze, che ricorda Aphex Twin. Al contrario, il remix di Is It Cold In The Water? di (e con) SOPHIE è piuttosto fuori fuoco e ripetitivo, mentre Amber è troppo schizofrenica.

Liricamente, pur essendo un album di musica prevalentemente elettronica, Streten regala alcune perle: la title track è un ironico invito ad ascoltare il CD sui servizi di streaming, con tanto di guida che recita “Tap the artwork to listen and save to your own music collection”. Invece in How To Build A Relationship JPEGMAFIA costruisce una relazione con questa base di partenza: “Fuck are you talkin’ ‘bout?… I caught him at the coffee house and made him walk it out” per poi affermare perentorio: “Don’t call me unless I gave you my number”.

Insomma, una cavalcata non facile, questo “Hi This Is Flume”. Allo stesso tempo, tuttavia, va elogiato lo spirito innovativo di Flume, capace di sovvertire le aspettative su di lui con un mixtape vario ma allo stesso tempo coeso, capace di regalare aria fresca ad un movimento, quello dell’elettronica più glitch e wonky, un po’ in crisi ultimamente.

20) Floating Points, “Crush”

(ELETTRONICA)

Il nuovo lavoro di Sam Shepherd, in arte Floating Points, riparte esattamente dove avevamo lasciato l’artista inglese quattro anni fa con “Elaenia”: elettronica calda, elegante, solo a tratti pronta per la pista da ballo, sulla falsariga di capisaldi come Aphex Twin e Caribou.

In realtà Shepherd non è artista che riposa sugli allori: gli ultimi anni lo hanno visto produrre mix intrisi di jazz e rock (“Late Night Tales” quest’anno), colonne sonore (“Reflections – Mojave Desert” del 2017) ed EP di varia lunghezza (su tutti “Kuiper” del 2016). Insomma, un’iperattività non scontata; i risultati peraltro sono sempre stati molto interessanti, facendo di Floating Points un nome importante nel panorama della musica elettronica, tanto da permettergli di essere scelto come spalla nel tour degli xx del 2017.

“Crush” si apre con l’interlocutoria Falaise: un insieme di sintetizzatori e percussioni à la Skee Mask che non si adatta completamente all’estetica di Floating Points. Molto meglio i due brani seguenti, la danzereccia Last Bloom e la raccolta Anasickmodular. Intrigante la struttura di “Crush”: il CD infatti consta di 12 brani per 44 minuti, con una chiusura divisa in due parti (Apoptose) e due brevi intervalli posti al centro del disco, Requiem For CS70 And Strings e Karakul, che dividono quasi il lavoro in due metà speculari.

I brani migliori sono la già citata Anasickmodular e LesAlpx, che si avventura in territori techno; buonissima anche Bias. Invece, inferiore alla media Falaise. Il CD non crea grandi cambiamenti nello scenario della musica elettronica mondiale, ma conferma Sam Shepherd come un nome da tenere d’occhio, pronto a sbocciare definitivamente.

19) Big Thief, “U.F.O.F.” / “Two Hands”

(FOLK – ROCK)

Il 2019 è stato un anno da incorniciare per i Big Thief. Capitanati dalla talentuosa Adrianne Lenker, gli statunitensi hanno prodotto due pregevoli album: “U.F.O.F.”, in cui troviamo una virata verso il folk, probabilmente aiutata anche dall’album solista pubblicato dalla Lenker lo scorso anno; e “Two Hands”, dalle venature decisamente più rock.

Complimenti vanno poi alla base ritmica della band: le chitarre gentili di Adrianne Lenker e Buck Meek sono ipnotiche, buono poi il contributo di basso (emblematica From) e batteria (efficacissima in Contact). In generale “U.F.O.F.” ritorna, soprattutto liricamente, su quei terreni che hanno reso i Big Thief dei moderni beniamini dei fan dell’indie: riferimenti alla solitudine, alla capacità di relazionarsi solamente con dei corpi estranei (il titolo del CD sta infatti per UFO Friend) ma anche paesaggi naturali e animali, fantastici o meno.

Musicalmente, nei suoi momenti migliori il disco è uno dei migliori album folk degli ultimi anni: specialmente in Contact (con potente coda rock) e Cattails i risultati sono eccellenti. A peccare sono i momenti più lenti, a volte troppo prevedibili: ne sono esempi Betsy e Magic Dealer, non perfetti. Molto interessante l’esperimento di Jenni, una sorta di shoegaze lento, che ricorda i Low.

Il secondo album è un ritorno al rock. Se il precedente “U.F.O.F.” era un CD prettamente folk, “Two Hands”, registrato dal vivo, torna alle sonorità di “Capacity” (2017). L’inizio del lavoro è eccellente: le sognanti Rock And Sing e Forgotten Eyes sono ottimi pezzi indie rock, che riportano alla mente il folk-rock di Neil Young, con la bellissima voce della Lenker a creare un’atmosfera sospesa fra meraviglia e inquietudine, dati i testi mai facili, che parlano di sofferenza e passione senza vergogna.

L’unico pezzo più debole è proprio la title track, mentre la lunga Not è il brano più ambizioso in un lavoro davvero pregevole. Molto interessante la struttura del CD: i primi e gli ultimi pezzi nella scaletta sono i più quieti, mentre l’accoppiata NotShoulders, piazzata a metà, è la sferzata più rockettara.

I Big Thief non stanno reinventando l’immaginario indie rock, come alcuni critici molto entusiasti si sono spinti a proclamare; certamente però l’abilità vocale e alla chitarra di Adrianne Lenker li distinguono chiaramente dai loro contemporanei. Non una cosa da poco, in un panorama musicale sempre più stereotipato: il caso Big Thief è la piena dimostrazione che il duro lavoro paga. Chapeau.

18) Coldplay, “Everyday Life”

(POP – ROCK)

L’ottavo disco dei Coldplay, la celeberrima band inglese capitanata da Chris Martin, è un deciso ritorno alle sonorità del decennio ’00 del XXI secolo, come da molti anticipato? Sì, senza dubbio. Certo, il sound più pop e caleidoscopico degli anni recenti non viene abbandonato, ma per esempio gli eccessi di “A Head Full Of Dreams” (2015) sono accantonati per fare spazio a ritmi più rock e atmosfere più calde, a volte addirittura orchestrali (si senta Sunrise).

Il doppio album si apre con la metà dedicata all’alba, intitolata appunto “Sunrise”. Che “Everyday Life” sia un ritorno ai tempi creativamente gloriosi di “A Rush Of Blood To The Head” (2002), con un po’ di “Viva La Vida Or Death And All His Friends” (2008), è chiarissimo da Church e Trouble In Town: due brani eleganti, semplici ma che crescono ascolto dopo ascolto.

I singoli parevano aver fatto intravedere addirittura il lato sperimentale dei Coldplay: Arabesque ad esempio contiene una parte di sassofono decisamente rilevante, fatto insolito per Martin e soci. Invece Orphans, uno degli highlights immediati del CD, è un pezzo gioioso, che riporta alla memoria Viva La Vida. Il lato più ambizioso del complesso si vede anche in BrokEn, che pare un pezzo di Chance The Rapper col suo incedere gospel e i temi sacri affrontati.

La seconda metà, “Sunset”, potrebbe parere più raccolta come sonorità, data la presenza di pezzi come Cry Cry Cry e Old Friends, ma è anche vero che contiene la hit Orphans e la quasi country Guns, che sembra di ispirazione Johnny Cash e di resa Rolling Stones. Molto interessante poi Champion Of The World, che pare presa da “X & Y” (2005).

Affrontiamo infine l’aspetto lirico: il CD è rilevante anche perché i Coldplay, seppure sempre in maniera discreta, affrontano temi molto importanti, dal controllo delle armi (Guns) ai problemi legati alla brutalità della polizia e al razzismo (Trouble In Town). Insomma, Chris Martin e soci sono ormai persone mature, capaci di affrontare temi non solo legati all’amore, come molte volte sono stati accusati di fare in passato.

In generale, “Everyday Life” è un LP davvero riuscito, con alcuni dei pezzi migliori mai scritti dai Coldplay (ad esempio Orphans) e una voglia di sperimentare, ma con raziocinio, che pareva persa da parte del gruppo britannico, tra sbornie dance (Something Just Like This) e intrallazzi con le stelle dell’R&B (Hymn For The Weekend). È senza dubbio il miglior disco dei Coldplay dal 2008 a questa parte, non una cosa da poco per quattro ragazzi che suonano insieme da 23 anni (!).

17) (Sandy) Alex G, “House Of Sugar”

(ROCK)

L’ultimo album del prolifico cantautore americano, “House Of Sugar”, è il suo CD più completo. Dopo il cambio di nome da Alex G a (Sandy) Alex G, al fine di evitare scambi di persona con uno youtuber suo omonimo, il talentuoso Alex Giannascoli ha ampliato costantemente la propria palette sonora, aggiungendo elementi psichedelici e addirittura country prima ridotti all’osso nei vari dischi lo-fi da lui prodotti in passato.

“House Of Sugar” è un titolo particolare, che richiama le fiabe di Andersen, in particolare “Hansel e Gretel”; non è quindi un caso che una delle migliori canzoni della tracklist si intitoli proprio Gretel. Altrove troviamo invece riferimenti testuali a fatti di vita vera o, almeno, verosimile: in Hope Alex rimpiange un coetaneo morto, “He was a good friend of mine, he died. Why write about it now? Gotta honor him somehow”, si domanda e si risponde. Dopo però la scena diventa improvvisamente piena di vita, “In the house they were calling out his name all night, taking turns on the bed, throwing bottles from the windows of the home on Hope Street”. Non sappiamo se veramente il nome della via fosse Hope Street, ma il riferimento non pare casuale.

Accanto a questi franchi racconti di episodi della propria vita, però, Giannascoli affianca un sound interessante quanto misterioso: all’indie rock si sommano forti influenze degli Animal Collective, specialmente negli inserti più misteriosi, come Taking e Sugar. (Sandy) Alex G finisce quindi per suonare strano ma allo stesso tempo accessibile: brani come Gretel, la tenera Southern Sky e In My Arms non possono lasciare indifferenti. La doppietta CowCrime rimanda ai migliori Real Estate.

In conclusione, “House Of Sugar” è, come da titolo, un lavoro fondamentalmente dolce, ma infarcito degli elementi particolari e stranianti tipici di Alex Giannascoli. Dopo 8 CD fra Bandcamp, autoprodotti e ora la Domino, con in mezzo svariati EP, il giovane cantautore statunitense pare aver trovato la definitiva maturità. “House Of Sugar” è il suo album più completo e affascinante, un “must-listen” per gli amanti dell’indie rock più eccentrico.

16) Slowthai, “Nothing Great About Britain”

(HIP HOP)

Il giovane esponente del grime, la corrente del rap più dura dell’hip hop britannico, con il suo album d’esordio “Nothing Great About Britain” si conferma una voce emergente del panorama musicale e un abile interprete dei drammatici problemi che pervadono la società britannica.

Già il titolo del CD anticipa i temi portanti del lavori: Slowthai denuncia l’uso della Brexit come arma di distrazione di massa, usata dai politici per coprire i problemi inglesi di inuguaglianza e responsabilità nell’incombente cambiamento climatico. In questa verve polemica nessuno viene risparmiato: i politici ovviamente sono i principali protagonisti, ma anche la Regina Elisabetta ci va di mezzo (nella title track Slowthai la chiama “fighetta” e afferma che avrà rispetto di lei solo quando la Regina rispetterà lui e i più poveri).

In altre parti i testi sono invece più rivolti a sé stesso: la personale Northampton’s Child narra le sue disavventure familiari: la morte del fratello per distrofia muscolare, poi il patrigno, prima minacciato (“You’re lucky I’m not as big as you. I would punch you till my hands turn blue”) poi, una volta che Slowthai e la madre vengono cacciati di casa, ignorato per lasciare spazio finalmente a una famiglia povera ma serena (“Now we’re living at Tasha’s. Funny how good vibes turned that room to a palace”).

Musicalmente, possiamo dichiarare serenamente che, assieme a Stormzy, Slowthai è la promessa più brillante del grime: come già ribadito, i testi sono duri ma efficaci, ma anche le basi non lasciano mai indifferenti gli ascoltatori. La trascinante Doorman è quasi punk, Gorgeous invece si rifà al soul; altrove troviamo basi che invece guardano con interesse alla trap, come in Grow Up. Insomma, una varietà stilistica notevole, che si abbina perfettamente alla personalità incendiaria di Slowthai, che anche dal vivo è davvero trascinante.

In conclusione, “Nothing Great About Britain” è un affresco tremendo ma veritiero della condizione attuale della società britannica: lotte di classe, crisi politica e guerra tra poveri sono temi a cui ora non pensiamo guardando al Regno Unito, ma Slowthai (e prima di lui atti punk come Shame e IDLES) ci presentano il tutto senza sconti.

15) Bill Callahan, “Shepherd In A Sheepskin Vest”

(ROCK)

Il nuovo CD a firma Bill Callahan, il quinto di una carriera di tutto rispetto (senza contare quelli a firma Smog), è il suo lavoro più aperto come sonorità e quello che, a livello testuale, contiene riferimenti alla vita privata di Bill che erano assenti in passato.

“Shepherd In A Sheepskin Vest” arriva dopo ben sei anni da “Dream River”: un’assenza davvero di lungo termine, dovuta in gran parte ai radicali cambiamenti avvenuti nella vita personale del cantautore americano. Nel 2014 si è sposato con Hanly Banks, mentre nel 2015 ha avuto un bambino da quest’ultima: insomma, un cambio di prospettiva estremo per un uomo abituato a scrutare con acutezza e profondità i tanti perché della vita, facendo la figura dell’eterno insoddisfatto.

Non è un caso che il disco appena pubblicato sia il più luminoso della sua ormai trentennale carriera: Bob Dylan si mescola a Leonard Cohen, potremmo dire, rendendo “Shepherd In A Sheepskin Vest” un CD lungo (20 brani per 63 minuti) ma facilmente digeribile e mai monotono. Ne sono esempi pezzi squisiti come 747 o Black Dog On The Beach. Tuttavia, anche la parte finale del CD, quella più oscura come liriche, contiene canzoni brillanti rispetto al “solito” Bill Callahan, ne sia esempio Call Me Anything.

Come sempre, tuttavia, a risaltare è specialmente la sua voce: un vero e proprio altro strumento, con un tono baritonale à la Leonard Cohen o Johnny Cash che la rende perfetta per questo tipo di narrazioni. Le storie di Callahan erano sempre state pervase, come già accennato, da domande esistenziali sul senso della vita; ora invece, malgrado restino presenti analisi di questo tipo (cosa scontata in un LP così articolato), i testi sono decisamente più leggeri. Ad esempio, in What Comes After Certainty parla dell’amore vero e assoluto verso la moglie, tanto che si chiede: “True love is not magic, it is certainty… And what comes after certainty?” Più avanti i testi sono ancora più esplicitamente sereni: “I never thought I’d make it this far: little old house, recent-model car… And I’ve got the woman of my dreams”. In Young Icarus ritornano le elucubrazioni tipiche di Callahan: “Well, the past has always lied to me, the past has never given me anything but the blues”. C’è anche tempo per un riferimento al sesso durante il “periodo” delle donne, nell’ironica Confederate Jasmine.

In conclusione, “Shepherd In A Sheepskin Vest” è un punto altissimo nella discografia di Bill Callahan: il cantautore americano pare aver trovato la serenità da lui tanto agognata in passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il disco scorre benissimo e nulla è superfluo. Complimenti, Bill, e buona vita.

14) Vampire Weekend, “Father Of The Bride”

(ROCK – POP)

Sei anni e mille disavventure dopo, i Vampire Weekend sono tornati. Il gruppo indie più venerato della decade, con “Father Of The Bride”, si è aperto a numerose influenze che parevano lontane dal loro sound e a numerosi ospiti, così da creare un CD confusionario ma allo stesso tempo vario e poliedrico, che ribadisce una volta in più che il talento di questi ragazzi è davvero esplosivo.

Nel corso degli ultimi sei anni, Ezra Koenig, vocalist e principale scrittore dei testi delle canzoni della band, si è spostato a Los Angeles dalla nativa New York, ha prodotto una serie TV di discreto successo (Neo Yokio), lavorato a degli show radiofonici e avuto un figlio. Il polistrumentista Rostam Batmanglij, che ha lasciato il gruppo nel 2016, ha collaborato nel frattempo con artisti chiave del panorama musicale (Beyoncé, Charli XCX) e ha pubblicato un album solista, “Half Light”, nel 2017. Anche il bassista Chris Baio ha fatto uscire nel 2017 un suo album, “Man Of The World”. Per finire, il batterista Chris Tomson ha generato il primo album dei suoi Dams Of The West, “Youngish American”, nello stesso anno. Tutto congiurava a far sì che i Vampire Weekend si disfacessero, spinti dai desideri di autonomia dei suoi membri. Ciò, per fortuna, non è accaduto, ma molte cose sono mutate.

Già dalla prima canzone, Hold You Now, capiamo che sono lontanissimi i tempi del pop sintetico di “Contra” (2010) ma anche dell’omonimo esordio “Vampire Weekend” (2008): i ritmi sono tinti di country, Danielle Haim delle HAIM duetta abilmente con Ezra Koenig e la canzone si interrompe bruscamente, quasi fosse una demo. Ecco un altro tratto innovativo dell’estetica dei VW: se prima i loro lavori di studio erano davvero perfetti sia come produzione che come durata, mai oltre i 42 minuti e le 12 canzoni, “Father Of The Bride” è lungo ben 18 canzoni per 58 minuti! Inoltre, numerosi sono i brevi intermezzi da un minuto o poco più, da Big Blue a 2021, prima assenti.

Tutti gli amanti dell’indie non possono tuttavia fare a meno di comparare il nuovo lavoro con “Modern Vampires Of The City” (2013), che aveva definitivamente consegnato i Vampire Weekend all’Olimpo del rock del nuovo millennio con canzoni calde, testi complessi e impegnati e un’unione di intenti totale fra i due leader del gruppo, Ezra Koenig e Rostam Batmanglij. Beh, possiamo dire che la dipartita di Rostam, giustificata col suo desiderio di concentrarsi sui suoi progetti solisti, è avvertita ma non traumatica: certo, la chitarra è più presente che in passato, l’elettronica di fondo presente specialmente in “Modern Vampires Of The City” e “Contra” è scomparsa e i VW hanno aperto a influenze country e R&B, ma complessivamente “Father Of The Bride” è un buon LP.

A parte l’evitabile Rich Man, infatti, la lunghezza del CD non è un peso, anzi permette al complesso statunitense di affrontare disparati generi, come già accennato, ma anche di valorizzare i numerosi ospiti; da Danielle Haim a David Longstreth (Dirty Projectors), passando per Steve Lacy (The Internet) e il redivivo Batmanglij, tutti danno una mano ai Vampire Weekend per fare di “Father Of The Bride” un altro intrigante capitolo della loro produzione.

I migliori pezzi sono la trascinante Harmony Hall e la beatlesiana This Life, che fanno pensare quasi che il disco sia un omaggio alla creatività senza freni del “White Album” della band inglese più famosa della storia della musica. Buone anche Unbearably White e la frenetica Sunflower. Come dicevamo, non riuscita invece Rich Man, anche My Mistake non convince appieno. La palma di canzone più eccentrica va a Simpathy, una sorta di flamenco jazzato con batteria di Chris Tomson in fortissima evidenza, che quasi riporta alla memoria i migliori Gipsy King.

Liricamente, il CD si conferma più leggero di alcuni precedenti lavori del gruppo: ad esempio sono assenti i riferimenti all’Olocausto e all’inesorabile passare del tempo che caratterizzavano “Modern Vampires Of The City”, così come i rimandi alla rivoluzione del Nicaragua di “Contra”. Adesso, oltre al ritmo e al tono delle canzoni, Koenig ha rilassato anche i testi: si notano riferimenti all’estate (Sunflower, Married In A Gold Rush), all’origine dei membri della band (Unbearably White), all’amore (We Belong Together). Quest’ultimo tema è probabilmente stato incentivato dalla nascita del primo figlio di Koenig, avvenuta lo scorso anno.

In conclusione, “Father Of The Bride” marca la rinascita dei Vampire Weekend. È bello come “Modern Vampires Of The City”? No. Allo stesso tempo, nondimeno, Ezra Koenig e compagni hanno dimostrato che non sempre i cambiamenti, anche radicali, portano al fallimento. Anzi, è proprio da momenti come questi che a volte si ricavano le energie e la spinta per aprirsi a nuovi mondi e collaborare con gli altri.

13) Aldous Harding, “Designer”

(FOLK)

Il terzo album della talentuosa compositrice neozelandese (sì, il nome trae in inganno) è il suo lavoro più compiuto. Accanto al folk classico delle origini, ora la Harding ha inserito anche sassofoni e alcune tastiere di sottofondo, tanto da creare un CD coeso eppure mai prevedibile o peggio monotono.

Fin dall’apertura, la graziosa Fixture Picture, notiamo sia i tratti ormai caratteristici di Aldous sia le novità: i ritmi, specialmente delle percussioni, sono più sostenuti che in passato, ma allo stesso tempo le liriche continuano ad essere per lo più inintelligibili. Qui ad esempio si dice “In the corner in blue is my name”, quasi parlassimo di un quadro. Altrove, è vero, compaiono temi più compiuti: il più rilevante è la paura di assumersi responsabilità, sia verso un partner che un figlio, un timore che in effetti prende molti giovani. In The Barrel si dice “When you have a child, so begins the braiding and in that braid you stay.” In Damn riappare il tema, quando la Harding si sente delle catene attorno al corpo che le impediscono di spiccare il volo.

Musicalmente, il mondo indie femminile continua a rivoluzionare il rock. Accanto alla già citata Fixture Picture abbiamo altre ottime tracce come The Barrel e Designer; le uniche eccezioni sono Treasure e Damn, ma restano comunque buone e inserite perfettamente nel contesto di “Designer”.

In conclusione, questo terzo LP a firma Aldous Harding ne conferma il talento e la volontà di espandere il proprio sound di riferimento, rifiutando una comfort zone che per altri sarebbe stato un rifugio benvenuto.

12) Nick Cave & The Bad Seeds, “Ghosteen”

(SPERIMENTALE – ROCK)

Il nuovo doppio album di Nick Cave, come sempre assieme ai fidati Bad Seeds, chiude la trilogia idealmente iniziata con “Push The Sky Away” (2013). Gli ultimi anni non sono stati facili per la band australiana: nel 2015 il figlio di Nick, Arthur, è tragicamente morto a causa di una caduta da una scogliera, mentre l’anno scorso il pianista della band Conway Savage è deceduto a causa di un tumore.

Insomma, gli antecedenti di “Ghosteen” facevano pensare ad un lavoro ancora più tragico e disperato del precedente “Skeleton Tree” (2016), che già era carico di significato essendo stato composto appena dopo la morte di Arthur. Nick Cave sceglie di procedere nelle sonorità quasi ambient dei due CD precedenti, convogliando però anche messaggi positivi, di accettazione della morte e di ricerca di una vita dopo la tragedia, quasi un contraltare ideale al pessimismo devastante di “Skeleton Tree”.

Il grande cantautore ha descritto il primo disco come “i figli”, mentre i tre lunghi brani che creano la suite conclusiva (e l’intero secondo capitolo) sono “i padri”. Come non riconoscere un rimando alla tragica situazione di Nick Cave? Del resto, i testi contengono riferimenti numerosi alla vicenda e in generale alla storia recente della band: in Hollywood, che chiude il secondo CD, si narra la fiaba indiana di Kisa, una donna a cui muore il figlio e che cerca in ogni modo di riportarlo in vita, sia affidandosi alla religione buddhista che alle credenze popolari. Alla fine del brano arriva l’ammissione più candida: “It’s a long way to go to find peace of mind”.

Altrove però, dicevamo, Nick e soci trovano conforto nella vicinanza degli altri: in Waiting For You lui e la moglie analizzano le differenti prospettive di far fronte alla morte di una persona cara, con il cantautore che dichiara “I just want to stay in the business of making you happy”. Una dichiarazione d’amore fortissima e delicata. Infine, in altre parti del monumentale doppio album (11 pezzi per 73 minuti), troviamo riflessioni sul potere dell’arte (Spinning Song) e come sognare un mondo diverso da quello che abbiamo ereditato non sia una debolezza (Bright Horses).

In conclusione, non è facile entrare nel discorso di Nick Cave & The Bad Seeds, specialmente se si è neofiti del gruppo, uno dei più importanti degli ultimi decenni in campo rock. Giunto al 40° (!!) anno di una carriera trionfale, Nick Cave è ancora un uomo tormentato, ma per motivi diametralmente diversi rispetto alla gioventù. Il fatto che sappia scrivere testimonianze così personali e toccanti, mantenendo un’integrità artistica totale, è segno che siamo di fronte ad un vero genio della musica. “Ghosteen” non sarà il suo miglior CD, ma si aggiunge ad un’eredità già colossale non peggiorandola. Non un risultato di poco conto.

11) Jamila Woods, “LEGACY! LEGACY!”

(R&B – SOUL)

Il secondo album della talentuosa Jamila Woods è un trionfo per gli amanti di R&B e soul. Facendo riferimento ai maestri del passato e ripercorrendo le vite di grandi artisti di colore de passato e del presente, la Woods ha composto uno dei migliori album di black music dell’anno.

Il disco è perfetto per sequenziamento e lunghezza, contando 13 canzoni per 49 minuti di durata, con nessun brano fuori posto. In questo la giovane americana è migliorata rispetto all’esordio “HEAVN” (2016), mostrando maturità e consapevolezza di sé. Il CD tuttavia non è solamente un ottimo estratto di influenze legate alla musica nera: con titoli di per sé evocativi come MILES e BASQUIAT, l’intento di Jamila è evidente: rievocare le figure storiche del passato che hanno reso i neri degni di attenzione non solo socialmente ma anche artisticamente, gli eroi che hanno aperto la strada agli artisti di colore di oggi.

I risultati, sia liricamente che come composizioni e arrangiamenti, sono sfarzosi ma mai sovraccarichi o fini a sé stessi: pezzi come GIOVANNI e BETTY sono grandiosi, ma nessuno come già accennato è superfluo.

In conclusione, Jamila Woods si conferma un’artista dal potenziale immenso, forse ancora non completamente sfruttato. “LEGACY! LEGACY!” è un trionfo, un LP da assaporare e che rivela sempre nuovi dettagli seducenti. In poche parole, anche questo album farà parte della legacy degli artisti di colore del futuro.

10) Freddie Gibbs & Madlib, “Bandana”

(HIP HOP)

Una delle collaborazioni più anticipate nel mondo rap, “Bandana” trova sia il rapper Freddie Gibbs che il produttore Madlib al meglio. Il CD è un’ottima fusione di hip hop, jazz e inserti di funk, che lo rendono imprescindibile per gli amanti della black music.

“Piñata” (2014), la precedente creazione del duo, era stata una rivelazione: i beat sempre nostalgici e sbilenchi di Madlib si sarebbero adattati al gangsta rap di Gibbs? Beh, la risposta era stata un fortissimo sì. “Bandana” da questo punto di vista non innova particolarmente lo stile dei due, pare piuttosto un miglioramento incrementale della chimica fra i due e nelle scelte di produzione.

Mentre infatti spesso Madlib in passato aveva privilegiato una produzione scarna, a volte addirittura lo-fi, in “Bandana” ogni canzone è immacolata e fluisce spesso nella successiva senza soluzione di continuità. Dal canto suo, Freddie Gibbs si conferma a ottimi livelli, capace di parlare di Allen Iverson, grande cestista del passato (Practice) così come della tratta degli schiavi (Flat Tummy Tea), passando per la morte di Tupac (Massage Seats). Insomma, di tutto un po’.

Il disco può infine contare su alcune collaborazioni di spessore: Pusha-T, Anderson .Paak e Killer Mike (metà dei Run The Jewels) arricchiscono ulteriormente la formula di “Bandana” in Palmolive e Giannis. Insomma, il CD è davvero riuscito sotto tutti i punti di vista. I pezzi migliori sono la scatenata Half Manne Half Cocaine e Crime Pays, mentre leggermente sotto la media sono l’intro iniziale Obrigado e Fake Names.

In conclusione, Freddie Gibbs e Madlib si confermano una volta di più essere fatti l’uno per l’altro, musicalmente parlando; “Bandana” rispetta pienamente l’hype che percorreva Internet ed è uno dei migliori album hip hop dell’anno.

9) Tyler, The Creator, “IGOR”

(HIP HOP)

Il sesto lavoro tra mixtape e CD veri e propri, non contando L’EP natalizio a tema Grinch uscito l’anno scorso, è un trionfo per Tyler, The Creator. Mescolando abilmente soul e hip hop, con strutture delle canzoni sempre innovative, Tyler ha prodotto il suo LP di maggior rilievo, forse anche superiore a quel “Flower Boy” (2017) che gli aveva dato definitivamente la fama.

Tyler, The Creator ne ha fatta di strada rispetto agli esordi, prima con gli Odd Future e poi come solista: se prima i suoi testi erano fortemente violenti, spesso amaramente ironici e omofobi, già in “Flower Boy” avevamo intravisto il suo lato più gentile e aperto, con annessa confessione di essere omosessuale che è stata francamente una rivelazione dato il suo passato.

Questo background è importante per comprendere appieno “IGOR”: l’album si articola in 12 brani per 39 minuti, quindi un lavoro compatto. Tyler narra una storia, in cui il suo alter ego Igor cerca di salvare la propria relazione con un altro uomo, prima suo amante ma poi incerto se tornare dalla sua fidanzata. Tyler canta in molte parti del disco versi commoventi nel loro candore: in EARFQUAKE “Don’t leave, it’s my fault”, mentre in RUNNING OUT OF TIME cerca di convincere il partner: “Stop lyin’ to yourself, I know the real you”. Quando però capisce che la storia è finita, in GONE, GONE / THANK YOU, ammette “Thank you for the love, thank you for the joy”.

Dicevamo della struttura delle canzoni: aiutato da gente del calibro di Kanye West, Pharrell e Cee-Lo Green, fra gli altri, Tyler mantiene la peculiarità di saper mescolare abilmente vari generi musicali: dal rap al funk, passando per soul e R&B, “IGOR” è un trionfo. Certo, la narrativa e la struttura non coincidono, a volte le canzoni finiscono improvvisamente e si intersecano con le successive, ma il CD mantiene un suo fascino innegabile. Inoltre, iniziare il lavoro con una suite strumentale come IGOR’S THEME non è una scelta facile, ma è lodevole e in fondo riuscita.

I pezzi migliori sono EARFQUAKE, la ballabile I THINK e la folle WHAT’S GOOD, in cui risplende tutta l’abilità di Tyler, The Creator nel creare canzoni davvero articolate. Buona anche la potente NEW MAGIC WAND. Se vogliamo trovare un brano inferiore alla media è forse GONE, GONE / THANK YOU, un po’ troppo lungo e pop.

In conclusione, “IGOR” è il lavoro che posiziona Tyler, The Creator nell’Olimpo dell’hip hop contemporaneo. Come molti dei suoi vecchi compagni degli Odd Future, Tyler ha saputo imporsi, malgrado alcuni passaggi a vuoto specialmente ad inizio carriera. Vedremo dove lo porterà il futuro, certo “IGOR” è fino ad ora il suo miglior LP.

8) Fontaines D.C., “Dogrel”

(PUNK – ROCK)

Il punk sembra essere decisamente tornato di moda: negli anni scorsi abbiamo visto nascere numerose band che si rifanno ai grandi maestri degli anni ’80, ad esempio Shame, IDLES, Protomartyr e Parquet Courts. Tutte queste band, con diverse sfumature e tematiche affrontate nel corso della loro carriera, hanno riportato l’attenzione del mondo su un genere che pareva morto e sepolto, preda di istinti pop ben impersonati da Blink-182 e Green Day.

I Fontaines D.C. hanno sfruttato appieno l’onda lunga che le band menzionate sopra hanno provocato e, più in generale, il malessere che pervade il mondo occidentale: disuguaglianze, razzismo, globalizzazione incontrollata e politici senza scrupoli hanno prodotto cambiamenti giganteschi nelle nostre società, impoverendo grandi masse della popolazione e provocando risentimento nelle fasce più deboli.

Il complesso irlandese descrive una Dublino che è voluta diventare grande troppo in fretta, causando la perdita di tutto ciò che rendeva la città caratteristica. Ad esempio, il quintetto non è per niente contento della trasformazione in polo tecnologico della città, resa possibile da una riduzione marcata della pressione fiscale la quale a sua volta ha aggravato i problemi delle fasce più povere, favorendo contemporaneamente i più ricchi. In Hurricane Laughter ad esempio il vocalist Grian Chatten si chiede provocatoriamente “Are there any connections available?”.

Liricamente i Fontaines D.C. in “Dogrel” toccano vari temi, spesso in maniera molto acuta: in Big si affronta il tema già menzionato della trasformazione di Dublino in metropoli all’avanguardia, “My childhood was small, but I’m going to be big!” canta Chatten, una frase che ricorda anche Rock’n’Roll Star degli Oasis. Invece un pessimismo totale permea Sha Sha Sha: “Now here comes the sun. That’s another one done”.

Musicalmente, accanto al post-punk caro a Joy Division e Fall, troviamo anche pezzi più melodici come Roy’s Tune, davvero riuscita, oltre alla conclusiva Dublin City Sky: diciamo che gli Strokes incontrano gli IDLES e i Clash in questi pezzi, portando nuova linfa in un genere ormai alquanto trafficato. Bella anche Boys In The Better Land. Le uniche pecche in un CD altrimenti perfetto sono proprio Dublin City Sky e Hurricane Laughter, ma non intaccano troppo il risultato finale.

In conclusione, “Dogrel” è senza dubbio il disco punk più riuscito dell’anno e uno dei migliori della decade. Malgrado il post-punk sia un genere ormai inflazionato e con maestri forse inarrivabili, i Fontaines D.C. si sono ritagliati abilmente una nicchia tutta per loro, con ritmica tagliente, voce espressiva e testi mai scontati.

7) Dave, “Psychodrama”

(HIP HOP)

Con Dave abbiamo davanti un prodigio vero e proprio: infatti lui è nato nel 1998 ed è anche un ottimo pianista, come dimostra nel corso di “Psychodrama”. Il disco d’esordio del talentuoso rapper britannico è un concentrato di tutte le caratteristiche migliori del rap d’Oltremanica: basi potenti, temi importanti affrontati con onestà e durezza, poca attenzione al lato commerciale (quindi CD concisi e diretti).

Rispetto ai suoi colleghi, David Orobosa Omoregie (questo il vero nome di Dave) come accennavamo introduce il pianoforte all’interno delle sue canzoni: non una caratteristica comune fra i rapper, specialmente quelli inglesi. I temi trattati al contrario sono già stati affrontati, ma mai come se si trattasse di una seduta psichiatrica. Il disco infatti si apre con Psycho e si chiude con Drama, guarda caso le parole che compongono “Psychodrama”; Dave inscena una sorta di seduta in cui lui narra le numerose disavventure vissute (o raccontategli) nel corso della sua breve vita: avere un fratello in carcere per il resto della vita (tema affrontato in Drama), persone abusate dal proprio partner (Lesley), violenza contro le persone di colore (Black). Specialmente toccante e duro il testo di quest’ultima canzone: Dave canta con la sua voce a metà fra Kid Cudi e Tyler, The Creator: “A kid dies, the blacker the killer, the sweeter the news. And if he’s white, you give him a chance, he’s ill and confused; if he’s black he’s probably armed, you see him and shoot”.

I brani migliori sono Psycho, Black e la lunghissima Lesley, vero pilastro che regge l’intero album; forse meno convincente la troppo melodica Voices, ma non intacca l’eccellente risultato complessivo.

In conclusione, Dave è davvero un ragazzo prodigio: dotato di voce imperiosa e grande talento compositivo e lirico, il futuro sembra fatto apposta per lui. “Psychodrama” è già un ottimo lavoro, nulla ci vieta di sperare che in futuro si possa assistere a LP ancora migliori da parte sua.

6) The National, “I Am Easy To Find”

(ROCK)

L’ottavo album dei The National, beniamini dell’indie rock statunitense, è il loro CD con più tracce (16) e dal minutaggio più elevato (64 minuti). Malgrado inevitabilmente alcuni momenti siano ridondanti, il disco è eccellente, grazie anche alla collaborazione di voci femminili di altissimo livello, fatto inedito per la band.

Matt Berninger e i fratelli Dessner e Darendorf, a soli due anni dall’ottimo “Sleep Well Beast”, vincitore del Grammy come miglior album di musica alternativa, sono tornati più in forma che mai. In “I Am Easy To Find” ogni fan del gruppo avrà soddisfazione: dalle ballate ai brani più rock, non manca davvero nulla, tanto che il disco pare una chiusura ideale di un cerchio cominciato nello scorso millennio. Dicevamo inoltre che il CD è popolato da presenze esterne ai The National: in effetti molte vocalist, da Sharon Van Etten a Gail Ann Dorsey, si alternano con Berninger, creando vocalizzi molto belli e innovativi per la band. Infine, ricordiamo che “I Am Easy To Find” fa da colonna sonora a un breve film con protagonista l’attrice premio Oscar Alicia Vikander. Insomma, un’opera davvero totale, sintomo di grande ambizione da parte del gruppo.

Le prime due tracce sono magnetiche: You Had Your Soul With You e Quiet Light rientrano a pieno titolo fra le migliori dei The National, la prima con base ritmica forsennata, la seconda più raccolta. Invece Oblivions è leggermente sotto la media, mentre The Pull Of You ricorda la Guilty Party di “Sleep Well Beast”. Anche la seconda metà del CD è molto intrigante: eccettuate la brevissima Her Father In The Pool e l’eterea Dust Swirls In Strange Light, il resto dei pezzi è sempre all’altezza della fama dei The National, con le perle di Where Is Her Head e la conclusiva Light Years.

Liricamente, Berninger (aiutato anche dalla moglie Carin Besser) non abbandona la sua fama di persona sensibile ma mai passiva di fronte alle disgrazie, soprattutto personali: nella title track canta di una coppia troppo divisa per stare insieme ma anche tanto consuetudinaria da non avere il coraggio di lasciarsi. Invece in Not In Kansas denuncia la deriva politica dell’America, citando il caso dei neonazisti. Allo stesso tempo, però, l’amore è sempre il centro dei suoi pensieri: “There’s never really any safety in it!” afferma perentorio in Hey Rosey, una frase quanto mai veritiera. Tuttavia, forse il verso più significativo dell’intero album è contenuta in Where Is Her Head: “And I will not come back the same” canta Berninger. Una dichiarazione di intenti chiarissima.

In conclusione, “I Am Easy To Find” è un ritorno in grande stile per i nativi di Brooklyn. Il disco è coeso ma allo stesso tempo mai banale o semplicemente noioso. I The National si candidano, chissà, ad un altro Grammy? Possibile, certamente sono fra i gruppi indie rock che sono meglio maturati se paragonati alla nidiata di complessi nati a cavallo fra XX e XXI secolo. Chapeau.

5) Bon Iver, “i,i”

(FOLK – ELETTRONICA)

Il quarto album dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon, arriva a tre anni dallo sperimentale “22, A Million”. Il disco è una pregevole fusione dei precedenti sforzi della band, il già citato “22, A Million” e “Bon Iver, Bon Iver” (2011). Accanto alla vena più elettronica e innovativa di Vernon troviamo infatti un ritorno alle sonorità folk che inizialmente ne decretarono la fortuna, come nella scarna Marion.

L’inizio pare ritornare al precedente LP di Vernon e compagni: sia la breve strumentale Yi che iMi sono di difficile lettura e l’impatto sugli ascoltatori potrebbe risultare a primo impatto deludente. Già con la bellissima Hey, Ma però Bon Iver ritorna ai suoi livelli: la voce di Vernon è in primo piano in tutta la sua bellezza e la strumentazione è innovativa ma mai fine a sé stessa.

La seconda parte del breve ma organico CD (13 brani per 40 minuti) è la più riuscita: abbiamo alcune delle più belle canzoni a firma Bon Iver, da Naeem a Sh’diah passando per l’epica Faith. In generale, aiutato anche da numerosi collaboratori, fra cui annoveriamo i fratelli Dessner dei The National, Moses Sumney e James Blake, Bon Iver come accennato riesce a bilanciare quasi perfettamente i suoi istinti più sperimentali con quelli più accessibili, creando con “i,i” un disco davvero affascinante.

Liricamente, come sempre, la band comunica più tramite immagini che con frasi definite e compiute: affiorano a volte sentimenti di amore (“I like you and that ain’t nothing new” canta Vernon in iMi), mentre in RABi compare in modo insolitamente chiaro il tema della morte: “Well, it’s all just scared of dying”.

Strumentalmente, questo è forse il lavoro meno avanguardistico di Bon Iver: mentre con le sue precedenti opere il gruppo americano aveva sempre anticipato o cavalcato i trend della musica contemporanea, tanto da guadagnarsi collaborazioni di alto profilo con due visionari come Kanye West e James Blake, oggi Vernon si limita a ri-assemblare il suono del progetto Bon Iver. Tuttavia, se i risultati sono così eccezionalmente belli, è probabile che Justin abbia ancora diversi assi nella manica.

4) FKA twigs, “MAGDALENE”

(ELETTRONICA – R&B)

La figura di FKA twigs, nome d’arte della britannica Tahliah Debrett Barnett, è tra le più enigmatiche del panorama mondiale del pop e dell’elettronica più raffinata. Misteriosa sì, ma mainstream: fino a qualche mese fa la Barnett era impegnata in una storia con Robert Pattinson, il famoso attore di Twilight. Una storia che, una volta finita, ha lasciato strascichi nella psiche di Tahliah; a ciò aggiungiamo una delicata operazione effettuata per rimuovere dei fibroidi dal suo utero, superata solo recentemente. Insomma, nei quattro anni passati da “M3LL155X” purtroppo la vita non è stata facile per FKA twigs.

Il CD, molto atteso da critica e pubblico, era stato anticipato da singoli molto diversi fra loro: la meravigliosa cellophane è il più bel brano mai creato da FKA twigs, una delicata ballata solo voce e piano, con synth solo accennati. Invece holy terrain, con Future, era quasi trap; infine sad day e home with you si rifacevano, nello stile e nel ritmo, all’esordio di Tahliah, “LP1” (2014).

Musicalmente “MAGDALENE” è un sunto dell’estetica di FKA twigs, ma anche una crescita decisa verso lidi inesplorati: se prima si parlava di lei come di una meravigliosa vocalist e performer, tanto brava a ballare quanto a cantare, vogliosa di esplorare territori elettronici e R&B, adesso FKA twigs è una carta spendibile anche nell’art pop e nell’hip hop meno volgare e scontato, prova ne siano le collaborazioni recenti con Future e A$AP Rocky. Nessuna delle 9 tracce del CD sono fuori posto, la durata è ragionevole (38 minuti) e FKA twigs è in forma smagliante: tutto è pronto per un trionfo. Fatto vero, testimoniato da un capolavoro come la già citata cellophane e da brani solidi come sad day e thousand eyes. Abbiamo in più, a supporto della Barnett, produzione da parte di giganti come Skrillex e Nicolas Jaar, che aggiungono la loro esperienza in campo elettronico per creare textures imprevedibili.

Menzioniamo infine l’aspetto testuale: in “MAGDALENE” l’artista inglese evoca, già nel titolo, la figura di Maria Maddalena, una delle più dibattute nei Vangeli. In alcuni brani emerge il ricordo della storia appena finita con Pattinson: in thousand eyes si sente “if I walk out the door it starts our last goodbye”, mentre sad day evoca il giorno in cui Tahliah ha capito che era finita. Altrove invece appare lo smarrimento che ha colpito la talentuosa performer nei momenti peggiori della sua vita: “I’m searching for a light to take me home and guide me out”, un verso desolante di fallen alien, ne è un esempio chiaro.

FKA twigs era già un nome chiacchierato nella stampa specializzata, ma “MAGDALENE” alza il livello: Tahliah Debrett Barnett supera a pieni voti l’esame secondo album, creando canzoni sempre intricate ma mai fini a sé stesse, ricche di significato universale.

3) Little Simz, “GREY Area”

(HIP HOP)

Simbiatu “Simbi” Abisola Abiola Ajikawo, in arte Little Simz, ha scritto già canzoni interessanti anche se ai più sconosciute. Lei infatti registra album sin dal 2013, quindi dai suoi 19 anni! Un talento davvero precoce, che è definitivamente sbocciato nell’eccellente “GREY Area”.

Se spesso infatti i suoi passati lavori erano ancora acerbi in termini di composizioni e tematiche trattate (basti pensare a “Stillness In Wonderland”, dove si ispirava ad “Alice nel paese delle meraviglie”), adesso l’artista inglese è decisamente focalizzata sul produrre testi rilevanti per la nostra epoca sopra basi mai banali, che raccolgono elementi hip hop, soul e jazz. Non è un caso che Kendrick Lamar l’abbia elogiata e lei già vanti collaborazioni con Gorillaz e Little Dragon, fra gli altri.

L’iniziale Offence è un chiaro indizio di tutto questo: la base è a metà fra Pusha-T ed Earl Sweatshirt, Little Simz parla di Jay-Z e Shakespeare in maniera naturale e il brano è un immediato highlight. Altrove i beat rallentano: ad esempio Selfish e Wounds mescolano abilmente rap old school e jazz, con risultati che ricordano “To Pimp A Butterfly”. Invece Venom è durissima, anche musicalmente. In Therapy Simbi fa un’osservazione non scontata: “Sometimes we do not see the fuckery until we’re out of it”.

La cosa che stupisce forse di più è che il CD è perfettamente formato in ogni sua parte: non ci sono canzoni deboli, Little Simz è al top della forma ovunque e si evita finalmente di cadere nella tentazione di molti di sovraccaricare il disco solo per avere più streaming: “GREY Area” finisce infatti dopo 36 minuti e 10 canzoni, quasi un album punk!

In conclusione, qualsiasi album con canzoni del calibro di Offence e Venom sarebbe interessante da ascoltare. Little Simz tuttavia riesce a mantenere questa qualità lungo tutto il corso dell’album, creando con “GREY Area” uno dei migliori LP rap dell’anno.

2) black midi, “Schlagenheim”

(ROCK – SPERIMENTALE)

L’esordio del quartetto originario di Londra è davvero bizzarro. I black midi suonano un ibrido strano, fatto di rock, metal e noise, con tocchi jazz e punk. Insomma, ciascuno può trovarci qualcosa: King Krule, Arctic Monkeys, Sonic Youth, Ty Segall… ne abbiamo per ogni gusto. La cosa che tuttavia contraddistingue davvero il gruppo è la straordinaria perizia e abilità dei membri: il batterista Morgan Simpson pare il nuovo Matt Tong, versatile e creativo ai massimi livelli durante l’intero arco di “Schlagenheim”. Poi abbiamo lo scatenato chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, anch’egli fondamentale per la riuscita del CD. Cameron Picton, il bassista, è un ottimo contorno, mentre Geordie Greep è un frontman a tratti timido, a tratti scatenato; insomma, perfettamente allineato con la schizofrenia dell’album.

In definitiva, dunque, come suonano questi black midi? L’apertura 953 farebbe pensare ad un album punk, con probabili influenze di Iceage e Ty Segall; come sempre a distinguersi è la base ritmica, davvero sostenuta e densissima. Invece abbiamo poi canzoni leggere, quasi orecchiabili, come Speedway. In generale, l’andamento di “Schlagenheim” è davvero schizofrenico e l’ascolto non è consigliato agli amanti del pop-rock più prevedibile e mainstream.

Il vero highlight del disco è bmbmbm, dal titolo chiaramente assurdo ma davvero irresistibile: un concentrato del migliore rock duro dell’anno, ancora una volta sostenuto dall’epica batteria di Simpson. Altri bei pezzi sono l’eccentrica apertura di 953 e la più lenta Speedway. Solo la chiusura Ducter pare un po’ irrisolta, ma non intacca eccessivamente il risultato finale.

In conclusione, “Schlagenheim” è un CD che rimarrà nelle playlist degli amanti del rock sperimentale per lungo tempo: i black midi hanno tutto per emergere e crearsi una nicchia di successo. Certo, i quattro londinesi sono lontani dallo spirito del tempo musicalmente parlando, ma hanno un potenziale immenso, già ampiamente messo in mostra in questo LP.

1) Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!”

(POP)

Lana Del Rey ha scritto, con “Norman Fucking Rockwell!”, un grandissimo disco, un lavoro che sarà probabilmente visto tra qualche anno come una macchina del tempo verso il 2019. Il CD è un notevole passo in avanti in termini di scrittura, arrangiamenti e ambizione dimostrata dalla cantautrice americana, che compone canzoni epiche per lunghezza (una è quasi 10 minuti) e liriche. In due parole: un capolavoro.

I singoli che avevano anticipato il lavoro erano già invitanti e allo stesso tempo rischiosi: Venice Bitch è un pezzo a metà fra folk e dream pop lungo quasi 10 minuti, Mariners Apartment Complex una canzone pressoché perfetta che avvicina Lana a Joni Mitchell e Leonard Cohen. The Greatest è invece una canzone ambientalista, che scopre anche un lato impegnato politicamente di Lana che non conoscevamo. Infine contiamo Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It, già nel titolo una dichiarazione d’intenti, e la cover dei Sublime Doin’ Time. Insomma, un insieme eclettico ed estremamente coraggioso.

Il disco si annuncia come molto articolato: 14 canzoni per 67 minuti sono degni di un disco rap degli ultimi tempi (vero Drake?). Tuttavia, l’impressione di un LP acchiappa-streaming sono spazzati via fin dal primo brano: la title track è un pezzo piano-rock davvero ben strutturato e anticipa la svolta stilistica di Lana, che ha abbandonato quasi totalmente le influenze hip hop del precedente “Lust For Life” (2017) in favore di un suono retrò ma aggiornato ai tempi moderni grazie alla produzione di Jack Antonoff e ad alcuni dettagli (una tastiera qui, un ritmo quasi tropicale là) che cambiano le carte in tavola.

È quasi un peccato terminare il CD, ci si rende conto che “Norman Fucking Rockwell!” è un punto nodale non solo per la carriera di Lana Del Rey, ma probabilmente del pop in generale, specialmente quello degli anni che verranno. Canzoni perfette come Venice Bitch, Mariners Apartment Complex e Love Song già renderebbero un qualsiasi disco interessante; affiancate ad altre perle come Cinnamon Girl e California fanno di “Norman Fucking Rockwell!” un capolavoro fatto e finito.

Lana inoltre, lo sappiamo, ha sempre posto attenzione alle liriche. La sua estetica quasi lynchiana, mescolata a testi spesso molto introspettivi e deprimenti, l’avevano resa un’eroina degli adolescenti problematici. Adesso quest’immagine ingenua della cantautrice è destinata ad essere spazzata via: in California arrivano frasi di autoconvincimento, “You don’t ever have to be stronger than you really are… I shouldn’t have done it but I read it in your letter. You said to a friend that you wished you were doing better”, destinate forse più a sé stessa che ad un tu esterno. Altrove i testi sono esplicitamente introspettivi: “You took my sadness out of context” e “They mistook my kindness for weakness”, contenuti in Mariners Apartment Complex, sono versi più che schietti.

Nella conclusiva Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me – But I Have It troviamo tuttavia l’esclamazione più bella: “I have it!”. Lana dà finalmente un messaggio di speranza agli ascoltatori, alla fine di un CD (e al culmine di una carriera) piena di pensieri malinconici e depressi. “Hope is a dangerous thing for a woman with my past” canta Lana, ma se i risultati di questo ritrovato ottimismo sono così straordinari, speriamo che la sua vita continui ad essere serena. “Norman Fucking Rockwell!” avvicina Lana Del Rey ai grandi cantautori della storia della musica, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Joni Mitchell, ed è meritatamente premiato come disco dell’anno.

Ebbene sì, Lana Del Rey si aggiudica il premio di miglior LP del 2019, in un podio peraltro per due terzi femminile: un segnale che, anche nella musica, quello che un tempo veniva chiamato odiosamente “sesso debole” è fonte di creatività senza eguali.

Cosa ci aspetta nel 2020? Beh, di certo la decade che sta per iniziare si preannuncia piena di cambiamenti radicali, sia musicalmente parlando che nelle tecniche di fruizione della musica: avremo con tutta probabilità uno streaming dominante, con artisti fai-da-te capaci di arrivare in pochissimo tempo nel mainstream, si vedano Billie Eilish e il social del momento, Tik Tok, da cui vedremo nascere sicuramente prima o poi qualche “stellina”.

State collegati, ad ogni modo: A-Rock sta già preparando un articolo sui CD più attesi dell’anno che sta per cominciare. Si parlerà, fra gli altri, di Tame Impala e The 1975: servono altri motivi per correre a leggerlo?

Recap: aprile 2019

Aprile è stato un mese intenso musicalmente parlando. A-Rock dedica il suo recap ai nuovi lavori di Weyes Blood, Anderson .Paak, Aldous Harding, dei Broken Social Scene e dei Priests. Inoltre, abbiamo analizzato il ritorno dei Chemical Brothers, dei King Gizzard & The Lizard Wizard e l’album live pubblicato da Beyoncé.

Beyoncé, “HOMECOMING: THE LIVE ALBUM”

homecoming

Pura goduria per i fans della famosissima popstar, questo album riprende la spettacolare esibizione tenuta da Beyoncé al festival di Coachella dello scorso anno. Musicalmente e scenograficamente, si tratta di uno dei più begli album dal vivo mai registrati, oltre che di un compendio straordinario della carriera della signora JAY-Z.

Il catalogo di Beyoncé sarebbe già enormemente dotato di grandi singoli, a partire dal suo inizio di carriera con le Destiny’s Child per poi proseguire nella sua carriera solista. Successi come Crazy In Love, Single Ladies (Put A Ring On It) o la più recente Don’t Hurt Yourself farebbero la fortuna anche presi singolarmente di moltissimi cantanti; insieme, rendono una carriera magnifica. Beyoncé ha inoltre dimostrato di sapersi destreggiare benissimo in molti generi: pop, R&B, dance, rap e soul. Insomma, un’artista a tutto tondo, oltre che un’eccellente ballerina.

Le sue doti di performer sono evidenti nel video che accompagna l’esibizione: sul palco del Coachella si destreggiano più di 200 ballerini e un’intera orchestra oltre a Beyoncé e ai suoi ospiti (il marito JAY-Z, l’ex collega nelle Destiny’s Child Kelly Rowland, la sorella Solange e J. Balvin). Insomma, un trionfo in grande stile. Aggiungiamo a tutto ciò che anche vocalmente la Knowles è al top della forma, sapendo alternare con abilità il suo registro basso e gli acuti che ne hanno fatto la fortuna.

In conclusione, questo “HOMECOMING: THE LIVE ALBUM” è un bellissimo CD, da assaporare più volte per cogliere in ogni minimo dettaglio la straordinarietà della performance di Beyoncé, sempre più a pieno titolo regina del pop. I 40 brani e intermezzi passano senza intoppi e questa sorta di greatest hits della cantante americana è imperdibile per gli amanti della black music in ogni sua sfumatura.

Voto finale: 9.

Weyes Blood, “Titanic Rising”

weyes blood

Natalie Mering, meglio conosciuta come Weyes Blood, con il suo quarto CD ha raggiunto probabilmente il picco delle proprie capacità. Accanto al folk anni ’60 delle origini, la Mering in “Titanic Rising” ha dato spazio ad arrangiamenti decisamente più barocchi, aiutata anche da un produttore d’eccezione come Jonathan Rado dei Foxygen.

Fin dalla prima canzone capiamo che qualcosa è cambiato nel progetto Weyes Blood: A Lot’s Gonna Change è una canzone molto ricercata, quasi barocca, che si rifà alla grande Joni Mitchell ma anche a Father John Misty. La canzone è anche un ovvio highlight in un disco che per la verità conta molte belle melodie: ottima anche la seguente Andromeda ad esempio, così come Wild Time. Movies inizia come Bliss dei Muse ma poi evolve in un brano pop grandioso per arrangiamenti. I due brevi intermezzi Titanic Rising e Nearer To Thee servono più che altro a rendere coerente il disco e dargli una convincente narrativa interna: Nearer To Thee infatti chiude “Titanic Rising” e riprende le atmosfere di A Lot’s Gonna Change. Il titolo allude alla canzone che l’orchestra del Titanic stava cantando durante il naufragio… tutto ciò a testimoniare la complessità del lavoro della Mering, sia strumentale che concettuale.

Liricamente il CD affronta molti temi tipici del mondo pop-rock, dall’amore (“I need a love every day” canta Natalie in Everyday) al dolore (“No one’s ever gonna give you a trophy for all the pain and things you’ve been through. No one knows but you” si sente in Mirror Forever) ai problemi più interiori dell’animo umano, tanto che in A Lot’s Gonna Change Weyes Blood canta “Everyone’s broken now… and no one knows just how”.

In conclusione, il progetto della cantante statunitense, come già accennato, sembra aver trovato il suo sbocco definitivo; il folk accattivante ma semplice delle origini è stato accantonato, o meglio affiancato da strumentazioni decisamente più elaborate e liriche non banali. Il futuro è tutto da scrivere per Natalie Mering e sembra promettere molto bene. Lei e Julia Holter sono definitivamente le figure più innovative dell’art pop mondiale.

Voto finale: 8.

Aldous Harding, “Designer”

designer

Il terzo album della talentuosa compositrice neozelandese (sì, il nome trae in inganno) è il suo lavoro più compiuto. Accanto al folk classico delle origini, ora la Harding ha inserito anche sassofoni e alcune tastiere di sottofondo, tanto da creare un CD coeso eppure mai prevedibile o peggio monotono.

Fin dall’apertura, la graziosa Fixture Picture, notiamo sia i tratti ormai caratteristici di Aldous sia le novità: i ritmi, specialmente delle percussioni, sono più sostenuti che in passato, ma allo stesso tempo le liriche continuano ad essere per lo più inintelligibili. Qui ad esempio si dice “In the corner in blue is my name”, quasi parlassimo di un quadro. Altrove, è vero, compaiono temi più compiuti: il più rilevante è la paura di assumersi responsabilità, sia verso un partner che un figlio, un timore che in effetti prende molti giovani. In The Barrel si dice “When you have a child, so begins the braiding and in that braid you stay.” In Damn riappare il tema, quando la Harding si sente delle catene attorno al corpo che le impediscono di spiccare il volo.

Musicalmente, il 2019 si conferma molto positivo per le giovani autrici: da Jessica Pratt a Julia Jacklin, passando per Weyes Blood e Julia Harding, il mondo indie femminile continua a rivoluzionare il rock. Accanto alla già citata Fixture Picture abbiamo altre ottime tracce come The Barrel e Designer; le uniche eccezioni sono Treasure e Damn, ma restano comunque buone e inserite perfettamente nel contesto di “Designer”.

In conclusione, questo terzo LP a firma Aldous Harding ne conferma il talento e la volontà di espandere il proprio sound di riferimento, rifiutando una comfort zone che per altri sarebbe stato un rifugio benvenuto. “Designer” è ad ora il miglior album folk dell’anno e uno dei migliori della decade.

Voto finale 8.

Anderson .Paak, “Ventura”

ventura

Il cantante americano Anderson .Paak, giunto al quarto album, è tornato alle sonorità che lo avevano reso famoso con “Malibu” (2016): un funk colorato e sempre ballabile, inframmezzato da parti più rappate. Mentre in “Oxnard” dello scorso anno la parte hip hop aveva la meglio, con risultati controversi, “Ventura” privilegia le sonorità calde e morbide che meglio riescono ad Anderson, con ottimi risultati.

In effetti, se si eccettua la canzone di apertura Come Home con André 3000, il resto del breve ma incisivo CD (11 brani per 40 minuti) è caratterizzato da chiari rimandi ai maestri della black music del passato: da Stevie Wonder a Prince, passando per i più recenti Frank Ocean e D’Angelo. Questo è forse il limite maggiore del disco: parere a volte più una somma di cover di pezzi del passato piuttosto che un insieme di inediti.

L’abilità di .Paak di trasportare questi suoni nel XXI secolo consente però di mettere da parte almeno parzialmente questa critica e concentrarsi sull’eleganza di “Ventura”: i suoni più spigolosi di “Oxnard” sono scomparsi, lasciando spazio a chitarre eleganti e batterie fragranti, capaci di accompagnare l’artista nel corso del CD sempre efficacemente.

Anche liricamente si notano decisi progressi: mentre i precedenti lavori di Anderson .Paak erano caratterizzati da chiari riferimenti, a volte molto espliciti, alla vita sessuale dell’artista, “Ventura” contiene anche rimandi alle lotte fra bianchi e neri in America. King James, dedicata al cestista LeBron James, contiene le seguenti liriche: “We couldn’t stand to see our children shot dead in the streets… we salute King James for using his change to create some equal opportunities”. Altrove invece appaiono proclami più spavaldi: in Chosen One ad esempio si dice “To label me as The One, debatable; but second to none, that suit me like a tailored suit”, mentre in Yada Yada abbiamo “Our days are numbered, I’d rather count what I earn”.

I brani migliori sono What Can We Do?, che chiude magistralmente il disco, e la deliziosa Make It Better; convincono meno Chosen One, troppo lunga, e Winners Circle. In conclusione, le canzoni interessanti non mancano e il disco è caratterizzato da grande coerenza e nessun pezzo fuori posto. Allo stesso tempo la domanda sorge spontanea, un po’ come accaduto per i The Internet nel 2018: un LP dai suoni così retrò può davvero aggiungere qualcosa ad un panorama musicale così sovraccarico, specialmente negli ultimi tempi, di CD R&B/soul/rap?

Voto finale: 7,5.

Priests, “The Seduction Of Kansas”

priests

Il secondo album della band punk serve ai Priests per ricalibrare parzialmente il loro sound. Il post-punk sanguigno delle origini viene affiancato da sonorità più accessibili, che ricordano i Foals, introducendo dunque sonorità quasi danzerecce nella loro estetica.

Se l’estetica dei Priests è cambiata lo dobbiamo anche alla dipartita del fondatore Taylor Mulitz, bassista fino all’anno scorso del gruppo, ora rimpiazzato da Janel Leppin. Non sono stati quindi anni facili per loro, dapprima esposti alla fama come mai in precedenza e poi preda di tensioni interne. Tuttavia, il risultato non deluderà i fan del complesso statunitense: fin dalla partenza di Jesus’ Son, passando per Youtube Sartre e Control Freak, la densità ritmica che aveva fatto la fortuna dei Priests resta.

A colpire maggiormente sono i brani più melodici, ad esempio 68 Screen e The Seduction Of Kansas, che tuttavia si integrano bene col resto delle tracce presenti nel CD per creare in conclusione un lavoro coeso e interessante. Nulla di rivoluzionario, ma certamente gradevole. I migliori pezzi sono Carol e Texas Instruments, mentre sono un po’ sotto la media l’eccessivamente lunga Not Perceived e 68 Screen.

Testualmente, la frontwoman e principale ispiratrice delle liriche Katie Alice Greer descrive soprattutto soggetti individuali, non uniti pertanto da un background comune, denunciando molti dei problemi presenti nelle società moderne. Passiamo dalla potente invettiva femminista in 68 Screen (“It’s your movie, you wrote starred and directed it. I may only be your muse, but I’m necessary”) alla denuncia dell’atteggiamento ossessivo verso le donne di alcuni maschi, sia in Jesus’ Son (I am Jesus’ son, I’m young and dumb and full of cum”) che in Control Freak (“You’re out of the woods, Dorothy. I’m your control freak, I’m your ‘no place like home’”). Anche qui, niente di innovativo, almeno rispetto al panorama rock degli anni ’10 del XXI secolo.

“The Seduction Of Kansas” è perciò un buon album, con bei riff e alcune liriche molto azzeccate, ma allo stesso tempo manca ai Priests quel quid necessario al definitivo salto di qualità.

Voto finale: 7,5.

The Chemical Brothers, “No Geography”

no geography

Il duo di musica elettronica formato da Tom Rowlands e Ed Simons continua a mantenersi su buoni livelli nonostante l’età non più verde e, giunti al nono album di inediti, i Chemical Brothers ci ricordano come non sempre la maturità significhi produrre CD prevedibili e scadenti.

Anzi, il contrario vale per “No Geography”: in un anno finora non facile per l’elettronica, privo dei grandi nomi che avevano caratterizzato il 2018, il disco dei Chemical Brothers è un piacevole ritorno alle sonorità della musica elettronica anni ’90: big beat, forti influenze psichedeliche e brani pronti per essere suonati nelle discoteche di tutto il mondo. Notevoli sono i rimandi a Primal Scream e Daft Punk, ad esempio, oltre che alla discografia iniziale dei Chemical Brothers.

La particolarità che colpisce fin da subito dell’album è la sua estrema compattezza: 10 brani per 46 minuti di durata, spesso con le canzoni che si intrecciano fra loro per creare dunque un mondo sonoro davvero affascinante e coeso. Tutto ciò però non significa che “No Geography” suoni eccessivamente uniforme: la differenza fra veri e propri brani trascinanti come l’iniziale Eve Of Destruction e melodie più complesse e aderenti alla techno come Got To Keep On è evidente. Vi sono poi anche pezzi meno commerciali come Gravity Drops e The Universe Sent Me; insomma, i CB ne hanno per tutti i gusti. Malgrado la presenza di singoli destinati ad avere successo duraturo, pertanto, questo LP può essere gustato anche dall’inizio alla fine senza mai risultare fuori luogo.

In generale inoltre il CD, pur risultando in un certo senso legato all’elettronica anni ’90 e specificamente al glorioso passato dei Chemical Brothers, non perde di fascino anche dopo ripetuti ascolti. Non parliamo dunque di un capolavoro, ma di un altro passo avanti nella produzione di Rowlands e Simons che testimonia una volta di più il talento dei due britannici.

Voto finale: 7,5.

King Gizzard & The Lizard Wizard, “Fishing For Fishies”

fishing for fishies

Allora, ricapitoliamo: i King Gizzard & The Lizard Wizard sono un complesso australiano capace di far uscire 14 CD in 7 anni di attività, di cui cinque in un anno solo, un 2017 contraddistinto da salti nel metal (“Murder Of The Universe”) e nel jazz (“Sketches Of Brunswick East”). Essenzialmente, tuttavia, il gruppo può essere catalogato come psichedelico/garage rock: gli esordi dei King Gizzard, fino a “I’m In Your Mind Fuzz” (2014), avevano riportato alla mente i White Stripes o Jay Reatard, mentre la carriera poi li ha portati su binari più consoni ai primi Tame Impala, ne sono ottimi esempi “Polygondwanaland” e “Flying Microtonal Banana”.

Il nuovo album della prolifica band australiana prende le mosse dai loro precedenti momenti più lenti, quasi old style, pensiamo a “Paper Mâché Dream Balloon” (2015): molti pezzi di “Fishing For Fishies” richiamano il rock anni ’70 dei Beatles o dei Led Zeppelin, fatto piuttosto inusuale per i King Gizzard & The Lizard Wizard, che in passato avevano evocato Flaming Lips e Ty Segall e non gruppi così mainstream.

Il richiamo al genietto del garage rock Ty Segall non è casuale: anche gli australiani, in una produzione così frammentaria, hanno probabilmente perso il treno per produrre un album psichedelico davvero rimarchevole. Certo, “Polygondwanaland” è un buon lavoro, ma per esempio niente a che vedere con “Lonerism” dei conterranei Tame Impala. Il passaggio a sonorità meno distorte e meno sperimentali si deve forse anche al desiderio di ricaricare le pile dopo un periodo davvero infuocato, fra CD e tour infiniti.

I pezzi migliori sono Plastic Boogie e Real’s Not Real, che non a caso sono i più allineati alla precedente versione dei King Gizzard; buona anche Boogieman Sam. Monotona invece la title track, tra l’altro piazzata in apertura, e stucchevole Acarine. Testualmente, Stu Mackenzie e compagni si confermano stranianti: a volte vi sono riferimenti ambientalisti, altre Mackenzie si lamenta del tempo che passa e rimpiange la gioventù (ad esempio in Cruel Millennial si sente “I was only born in ’92… Can’t relate face to face with the modern day youth”).

In conclusione, “Fishing For Fishies” è il più coerente e meglio prodotto LP nella sterminata discografia dei King Gizzard & The Lizard Wizard: a 42 minuti e 9 canzoni siamo di fronte ad un attestato di maturità. Allo stesso tempo, il complesso australiano ha perso quella capacità di sperimentare ritmi molto diversi in suite a volte lunghissime e bislacche ma sempre ambiziose e intriganti per passare al rock classico del secolo scorso. A suo modo è anche questa una rivoluzione nel sound del gruppo, ma i risultati fanno pensare che Mackenzie & co. non siano molto portati per tutto ciò.

Voto finale: 7.

Broken Social Scene, “Let’s Try The After Vol. 2”

bss

I veterani dell’indie rock sono tornati con un altro breve EP a due mesi dal precedente “Let’s Try The After Vol. 1”. La struttura dei due piccoli lavori è similare, così come la qualità: se il primo riprendeva il filone più dream pop dell’estetica dei Broken Social Scene, questo secondo volume torna alle sonorità rock dei primi dischi del gruppo, in particolare quel “You Forgot It To People” (2002) che li rese famosi.

Il primo dei 5 brani in scaletta, Memory Lover, è una breve intro strumentale, mentre i fuochi d’artificio veri e propri iniziano con Can’t Find My Heart: un potente pezzo rock, con la voce del leader Kevin Drew che ricorda da vicino quella del connazionale Win Butler, leader degli Arcade Fire. Big Couches è forse il pezzo più deludente, prevedibile e con un finale che arriva troppo in fretta. La title track, collocata al quarto posto della tracklist, è quasi folk, data la sua lentezza; invece la conclusiva Wrong Line è un pezzo rock interessante, che sarebbe potuto stare benissimo nei più recenti CD veri e propri del complesso canadese. A mancare di più è Ariel Engle, l’altra figura carismatica dei BSS, che invece aveva sorretto il primo capitolo.

In conclusione, “Let’s Try The After Vol. 2” non è come prevedibile un capolavoro, anzi è inferiore al primo EP della serie; tuttavia i Broken Social Scene dimostrano che hanno ancora qualcosa da dare alla musica, un segnale che aspettavamo e non tradisce le nostre aspettative.

Voto finale: 6,5.